Le teorie di Allegri Il mister nell’oblio

Dopo Che fine ha fatto Baby Jane? (Robert Aldrich, 1962), c’è grande attesa ai botteghini per il thriller di cui tutti parlano. Se ne conosce il titolo, “Che fine ha fatto Massimiliano Allegri?”, l’attore protagonista, per l’appunto l’ex allenatore della Juventus, ma non i tempi d’uscita: che parevano strettissimi già l’estate scorsa, quando Andrea Agnelli lo mise alla porta alla Real Casa, e che invece mese dopo mese si sono dilatati. Siamo ormai a fine gennaio, metà stagione se n’è andata ma di Max Allegri, detto Acciughina, che non più tardi di due anni or sono il Corriere dello Sport elesse miglior allenatore del mondo davanti a Conte, Ancelotti, Simeone e Mourinho (staccatissimi Guardiola e Klopp), non si hanno notizie.

Cosa strana considerando che almeno una decina di grandi club europei hanno già avuto bisogno di cambiare la guida tecnica (il Tottenham da Pochettino a Mourinho, l’Arsenal da Emery a Ljungberg ad Arteta, l’Everton da M. Silva a Ferguson ad Ancelotti, il West Ham da Pellegrini a Moyes, il Barcellona da Valverde a Setién, il Valencia da Marcelino a Celades, il Bayern da Kovac a Flick, il Lione da Silvinho a Garcia, il Milan da Giampaolo a Pioli, il Napoli da Ancelotti a Gattuso); ebbene, non ce n’è stato uno che abbia pensato a lui, 5 scudetti e 4 Coppe Italia vinte con la Juventus nelle ultime 5 stagioni più due finali di Champions (con Barcellona e Real Madrid) perse.

La domanda che sorge spontanea è: come mai a nessuno interessa Acciughina, che fino al 30 giugno pare destinato a restare a libro–paga della Juventus per 15,67 milioni, cioè il suo ingaggio lordo annuo? Il dubbio è che la narrazione che è stata fatta delle sue magnifiche sorti e progressive abbia avuto poca presa nell’uditorio: europeo ma anche italiano. E come se non bastasse il ricordo dell’umiliante eliminazione dalla Champions 2018–19 per mano dei ragazzini dell’Ajax, a complicare le cose è arrivato lo sconcerto per le sue ultime esternazioni: come l’intervista concessa a dicembre al Corriere della Sera in cui Allegri ha affermato che la stagione da poco conclusa aveva evidenziato due grandi novità: quella del “ritorno al contropiede”, che solo Allegri deve aver notato in una Champions che aveva regalato sfide memorabili giocate a viso aperto come Real–Ajax 1–4, Bayern–Liverpool 1–3, PSG–M. United 1–3, Juventus–Atletico 3–0, M. City–Tottenham 4–3, Juventus–Ajax 1–2, Liverpool–Barcellona 4–0, Ajax–Tottenham 2–3 in un susseguirsi di emozioni uniche; e quella dei giocatori africani che “stanno spostando il calcio sul lato fisico”, e non si capisce bene a quali africani Acciughina alluda, se a Salah (Egitto) e a Mané (Senegal) del Liverpool, piccoli, tecnici e veloci nè più nè meno di Son (Corea del Sud) o di Moura (Brasile), oppure a colossi tipo Koulibaly (Napoli) o Mendy (City), africani dotati di grande forza fisica né più né meno degli europei Van Dijk e De Ligt (Olanda), ad esempio.

Allegri sostiene che il Milan di Sacchi che sbriciolò il Real Madrid 5–0 “era un Milan verticale, esattamente di contropiede”; e che il gioco del Liverpool di Klopp è roba già vista, “non capisco perché ci si debba vergognare – dice – di avere inventato noi questo modo di giocare”. La conclusione di Max: “Non esistono gli schemi”. E ci si meraviglia se tutti lo vogliono ma nessuno se lo piglia.

Gli Addams della porta accanto

Credo che nel condominio di Manolita abiti la famiglia Addams. Sul campanello c’è scritto Bertolini, un nome comune da famiglia medio borghese, ma la realtà è ben diversa. “Credimi Manolita è gente strana! È un po’ che li osservo, sono gli Addams, i nuovi Addams. Sono anni che vedo il telefilm” – “Figurati, il ragionier Bertolini lavora in banca, è uno perbene e la moglie è così garbata” – “Sì, ma hai visto la faccia della moglie? È Morticia. E lui Gomez, tutto vestito di nero, salta, fa capriole e duella con il proprio contabile parlando di affari!” – “È solo un po’ eccentrico” – “Ah sì, e i figli? Il più grande si chiama Mercoledì, come si fa a chiamare un figlio Mercoledì? È un giorno della settimana. La portiera lo ha visto legare il fratello a una specie di sedia elettrica. Manolita devi cambiare casa!” – “Sì, e dove vado? Tu devi trovare qualcuno che ti dia una mano!” – “Ce l’hai! In quella casa l’ho vista io la mano. Funge da domestico, esce da una scatola, si aggira per la casa, risponde al telefono, cammina sulle dita” – “Tu hai le visioni, uno di questi giorni ti faccio invitare a pranzo. La nonna cucina benissimo, chiunque bussi alla sua porta lo invita a cena e gli prepara dei cibi succulenti” – “Noo, la nonna no! Nella loro pattumiera ho visto gli avanzi di una loro cena. C’era un maiale con due teste. Sono dei mostri, i nuovi Addams, e anche peggio!” – “Ma tu passi la vita a spiare i Bertolini?” – “Noto certe cose, il figlio piccolo ha l’abitudine di togliere il cartello di stop davanti casa. L’ho sgridato e lui mi ha detto che mi fa sbranare dai pesci piranhas, ne ha 4 nella vasca da bagno, ti sembra normale?” – “Io sono preoccupata per te!”. Booom! “Cos’era quel botto?” – “Lo zio che gioca con gli esplosivi. È il suo hobby” – “Come lo zio Fester? Tu fai quello che vuoi Manolita, io chiamo i carabinieri!”.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Demofollia, il male italiano: la cattiva politica è un virus

Michele Ainis è un costituzionalista capace di usare con bravura altri strumenti, oltre al saggio e alla nota scientifica, per esempio il romanzo, quando vuole condividere storie che sa e che racconta trattenendo sempre l’attenzione del lettore. Il suo nuovo libro, Demofollia, la Repubblica dei paradossi (La Nave di Teseo Editore) è un ben organizzato e rigoroso trattato su un male che tormenta la vita pubblica italiana da decenni.

Ainis la chiama “demofollia”, per descrivere un impulso distruttivo che altri hanno deprecato ma non così rigorosamente identificato e descritto, sintomi, effetti e quasi nessuna speranza di guarigione. Si tratta di un contagio, trasmesso tra eventi e decisioni di cattiva politica, di scelta sbagliata, di decisione imbrogliona, che in realtà colpisce e danneggia l’istituzione a cui viene affidata la cattiva decisione. Poiché la Repubblica ha dimostrato di tenere a lungo (o dà l’impressione di tenere per sempre) le cattive decisioni volute da questo o quello dei suoi partiti (di solito come ricatto al governo a cui al momento partecipano) lo stato di prostrazione e di screditamento delle istituzioni rischia di divenire un male cronico e una disfunzione permanente. C’è una parola-codice, che i leader politici pronunciano spesso per rassicurare gli elettori sul fatto che la ritrattazione della decisione distruttiva avverrà subito, appena al potere. Si chiama “discontinuità” e non avviene mai, segno evidente che la cattiva politica ha radici profonde.

Prendete il caso della legge detta Bossi–Fini dal nome dei 2 giuristi che l’hanno pensata, scritta e attuata, in modo da usare nello stesso tempo azioni ostili o sgradevoli e far circolare un odore di disprezzo sul grande fenomeno umano, ricorrente nei secoli, detto “emigrazione”. Governi di almeno 4 apparenti ispirazioni diverse hanno lasciato intatta una legge offensiva (che naturalmente snatura e scredita le istituzioni chiamate ad attuarla) e che è in grado di generare leggi peggiori.

Infatti è avvenuto quando, dopo un disegno accurato di deliberata natura persecutoria, un intero parlamento democratico ha approvato, senza obiezioni che si ricordino, i cosiddetti “decreti Sicurezza”. Uno e Due, che hanno indotto persino il presidente della Repubblica, che purtroppo non ha rilevato incostituzionalità, ad aggiungere alla sua firma una lettera che praticamente diceva: “Non esageriamo”. Infatti, proprio in questi giorni, al comandante di una nave che aveva salvato dalla morte in mare 104 naufraghi, è stata comunicata la pena che gli spetta: 300 mila euro.

La sentenza farà storia nella vita marinara, fondata sul dovere del salvataggio. Ma farà storia soprattutto nella sindrome, così rigorosamente argomentata da Michele Ainis, della “demofollia”.

Non tutti gli esempi che io ho riportato in questa nota sono analizzati nel “trattato” di Ainis, perché in Italia ormai sono infiniti. Ma credo di averne esposto il metodo, la parola–codice (“discontinuità”, intesa come menzogna permanente) e la gravità del danno, che è la perdita di autorità per le istituzioni, fino a renderle delle gomme bucate. È un delitto grave. Niente è più triste dell’immagine di un carabiniere o poliziotto italiano che viene mandato ad espellere dalla casa legittimamente abitata un bambino “straniero” che se ne va nella notte (senza nessun luogo di accoglienza alternativa) portando via i suoi libri.

Dio è un algoritmo: ecco a voi la prima macchina vivente, con cellule di rana

Èla prima macchina vivente, quella fotografata dai ricercatori della Tufts University. L’essere che galleggia, colpito da una luce quasi ultraterrena, non è infatti creatura, anche se fatta di carne. È ciò che accade quando, a un algoritmo, viene affidato il compito di assemblare cellule viventi. Ogni cellula dell’esserino è fatta di rana; è infatti estratta – i ricercatori dicono harvested, raccolta, conferendo sapore agricolo al processo – da un embrione di Xenopus laevis. L’aggregato risultante, però, non assomiglia a un anfibio. È una cosa minuscola, più piccola della punta di uno spillo, grande 700 micron. Non è neppure semplicemente una scultura fatta di materiali biologici, come ad esempio fece il collettivo SymbioticA già nel 2006 quando, dai laboratori dell’Università della Western Australia, creò delle installazioni ricavate da tessuti – sempre di rana – cresciuti fino a ricreare la forma di un orecchio umano.

La macchina vivente, invece, si può muovere in maniera autonoma, guarisce le proprie ferite e può sopravvivere per settimane. I creatori si trovano qualcosa tra le mani di nuovo, e si trovano nello sforzo di descriverlo. “Non sono né un robot tradizionale, né una specie nota di animale – chiarisce uno dei ricercatori, Joshua Bongard – è una nuova classe di artefatto: un organismo vivente e programmabile”. La descrizione è chiara, ma non è ancora nome. Ancora nel 2007, però, vi era stato dibattito sull’Open Organism, cioè sull’idea di poter liberamente modificare il genoma degli organismi, come viene fatto in informatica per i codici dei computer open source.

Ricercatori entusiasti dell’idea avevano perfino creato un concorso, l’International Genetically Engineered Machine competition, nel quale ragazzini modificavano il genoma dell’Escherichia coli come se fosse il codice di un videogioco. L’idea che muove l’Open Organism è che i processi biologici siano complessi, ma non ci voglia una conoscenza esatta del loro funzionamento per modificarli ad un fine diverso.

I circoli di inventori della Silicon Valley ne hanno fatto un verbo: black boxing. Relegare a una scatola nera ciò che non si riesce a comprendere, e cercare comunque di fabbricarne qualcosa. E così, senza eccessiva cognizione di causa, per non ostacolare il progresso, diventano realtà sempre nuove meraviglie geneticamente modificate: semi resistenti alla siccità, frutti ricchi di vitamine, piante che si difendono dai parassiti. E però la prima macchina vivente non è nulla di tutto questo. Si muove non grazie all’inventiva umana o a un modello ingegneristico, ma per l’opera di un algoritmo che, su un supercomputer, ha scimmiottato il processo evolutivo. Qualcosa di simile a quel che fece una scimmia cui venne data una macchina per scrivere e fogli da riempire in quantità…

L’algoritmo ha, infatti, proceduto per prove ed errori, così come nel paradigma riduzionista ha fatto la vita stessa. Il risultato non è quindi un progetto, è soltanto uno degli infiniti modi possibili di tenere assieme la vita, almeno per qualche settimana. Nessuno sa che cos’è, però, e tra gli stessi ricercatori si cerca di fugare l’inquietudine appellandolo con nomi buffi, ed è quindi uno dei suoi creatori, Sam Kriegman, a dire che si tratta di un “caviale che cammina”. L’incapacità di dare un nome è però chiaro segno che questo esserino non è certo una delle creature delle quali Allah insegnò i nomi ad Adamo. E nomina – si sa – sunt…

Investimenti, anche il vecchio mattone non garantisce più rendimenti sicuri

Il denaro che non rende nulla spinge i risparmiatori a cercare alternative. Una di queste è un alloggetto da mettere a rendita. Non è certo una trovata recente: lo si faceva già cent’anni fa. Attualmente è di moda in particolare in città universitarie per darlo in affitto a studenti. Nulla di assurdo, ma qualche precisazione può essere opportuna.

Il reddito annuo che si ottiene, ovviamente alquanto diverso da caso a caso, è stimabile nell’ordine del 2% netto annuo rispetto alla somma immobilizzata – lo si può ben dire! – per l’acquisto. Il carico fiscale è sceso rispetto al passato grazie ai discutibili favori dell’Erario a favore dei proprietari d’immobili con alto reddito, cioè grazie alla cedolare secca. Il welfare al contrario: favorire i ricchi.

Con gli attuali chiari di luna il reddito atteso può apparire allettante. Ma c’è altro da dire. Sorvoliamo pure sui rischi di grane condominiali, affitti non pagati, alloggi semidistrutti ecc. Resta comunque la rinuncia alla disponibilità immediata del capitale. Riscattando buoni postali i soldi si hanno subito; coi Btp, obbligazioni e azioni dopo due giorni; coi fondi comuni dopo una o due settimane. Per vendere e non svendere una casa, possono passare mesi. Quindi è logico, anche se non sempre è così, che un investimento illiquido renda più di uno liquido.

Torniamo però al nostro 2% o qualcosa di simile, netto annuo. È vero che un risparmiatore dell’eurozona non dispone di soluzioni, in ambito finanziario o reale, dove poter mettere soldi e ottenere così tanto. Ma in effetti anche per gli immobili la percentuale su cui abbiamo ragionato non è mica un rendimento sicuro. Si tratta del flusso di denaro che il proprietario prevede di incassare ogni anno, in percentuale di quanto ha investito. Ma un investimento immobiliare si chiude solo con la vendita dell’immobile, prima non si può dire quale sia stato il suo rendimento. Per cui quel 2% corrisponderà al rendimento a consuntivo dell’operazione, solo se il valore di mercato dell’alloggio resta invariato. Se invece verrà venduto in guadagno, il rendimento a conti fatti sarà superiore; e in caso contrario inferiore, magari anche nettamente negativo.

Però qui gioca un fattore psicologico. Alcuni si affannano per i saliscendi dei loro titoli o fondi. Così liquidano gli investimenti finanziari, per comprare una casa e non pensarci più. Magari essa scende di prezzo, ma possono ignorarlo. Gli sembra che continui a rendere sempre uguale, il 2% l’anno o altra percentuale, e vivono tranquilli. Occhio non vede (le perdite), cuore non duole.

 

I gemelli dell’antimafia a Berlino per la legalità: “Cosche sono ovunque”

Una coppia più frizzante e affiatata è difficile trovarla. Sono decisamente i gemelli dell’antimafia. Dusan e Simone lavorano insieme a Berlino dalla scorsa primavera. Sono arrivati con una borsa del servizio di volontariato europeo. Pieni di speranza, di voglia di far bene. L’orgoglio che da qualche anno molti giovani italiani si portano in giro per il mondo, specie in quello delle università e delle associazioni o degli organismi non governativi. Una specie di “te la do io l’antimafia”, il desiderio di predicare in partibus infidelium, là dove ancora ci si illude che la mafia sia un affare esclusivo dell’Italia. Di predicare quel che in Italia hanno imparato grazie ai nuovi filoni di studio: la mafia c’è in tutta Europa, bisogna conoscerla e saperla combattere. Un know–how, come si dice, assai raro fuori dai nostri confini. Per questo Dusan Desnica e Simone La Viola hanno partecipato insieme al bando, con la voglia di dedicare un anno alla buona causa della Germania arrivando da Milano.

Il primo milanese nato a Belgrado, un nonno partigiano nella Resistenza di Tito, giramondo per studio e lavoro a Budapest e in Canada. Il secondo, più giovane, milanese di nascita. Uno nero, l’altro biondo di capelli. Uno con la barba e l’aria da furbo orsacchiotto, l’altro senza peli e l’aria malandrina. Lavorano a Mafia?Nein Danke!, l’associazione nata in Germania nel 2007 subito dopo la strage di Duisburg e di cui questa rubrica si è occupata più volte per i lettori del “Fatto”.

“E ci siamo trovati addosso il mondo”, spiegano i due, perché l’associazione macina relazioni, costruisce eventi, fa rete da Monaco a Dusseldorf, da Lipsia ad Amburgo, ma non ha una sola risorsa fissa. Del tipo “poveri ma belli”. Perfino “troppo poveri”, fanno capire Dusan e Simone. Bisogna tenere in ordine un poderoso indirizzario, pazientemente alimentato a ogni pubblico incontro. Produrre ogni mese una (ottima) newsletter, in tedesco e in italiano. Viaggiare per la Germania. Organizzare convegni, come quello di due giorni su corruzione e riciclaggio allestito a Berlino in novembre con personalità internazionali e che ha generato un vero picco di attenzione. “Noi pensavamo di venire in un ambiente dotato di strutture e di persone. La fama dell’associazione è alta, la Germania è sinonimo di capacità organizzativa… e invece abbiamo scoperto che tutto viene fatto da un pugno di volontari con tanti simpatizzanti intorno. Poi non avevamo calcolato il fattore Berlino”. Perché questa è una città unica, stupenda, dicono i due quasi rubandosi le parole alla Qui–Quo–Qua, ma dall’estero ci vengono tutti per andarsene via. Chi è qui cerca emozioni e libertà, ma non ha la più pallida idea di che cosa farà in futuro. Morale, non si può fare affidamento di lungo periodo su quasi nessuno.

Ridono, perché sanno che in fondo sarà così, o potrebbe essere così, anche per loro. Scade in primavera il loro anno di servizio. Stanno studiando sodo il tedesco, anche se Simone l’aveva già un po’ imparato a Dusseldorf grazie a un progetto Erasmus. Stanno prendendo le misure a questa società solida ma esposta ai venti di crisi e d’instabilità. Raccontano le difficoltà di fare amicizia. In casa con i coinquilini non si mangia mai insieme, ognuno si porta il cibo in camera sua; scene da allibire, giurano. “Qui non ci sono amici, o meglio non lo si diventa quasi mai. Tutti conoscenti, anche al corso di tedesco nessuno si ferma cinque minuti in più. Recuperano punti perché se hai bisogno ti aiutano e in metro sono molti i giovani che leggono”.

Si informano bene sulle vicende italiane, coltivano la loro già notevole cultura, cercano di far uscire il verbo dell’antimafia dal perimetro della nostra lingua, “finché non ci sono dentro i tedeschi il gol non lo si fa”. Se potessero bissare la borsa del volontariato resterebbero, perché sono combattenti con spirito d’avventura. Insieme, si intende. Perché sul lavoro, loro che si conoscono dai tempi dell’università, hanno trovato un’intesa perfetta, che si vede anche a tavola, nell’appetito e nel versarsi il vino. Ma le borse, come le anime sognanti di Berlino, vanno e vengono. La mafia invece no, quella resta. E poterla combattere, sensibilizzare l’opinione pubblica, e dunque perfino le forze di polizia, dipende anche da questo. A volte le cose sono complicate. Altre volte sono terribilmente semplici. Tra il permanente e l’effimero non c’è storia. Da qui, a Berlino, bisognerebbe ri–iniziare.

Casa e chiesa, faida infinita “Malati e poveri, ma il prete ci sfratta e in paese ci odiano”

Gentile Selvaggia, io e la mia famiglia abitiamo in una casa sulle colline pistoiesi. “Casa”… muffa ovunque, impianti non a norma, pavimenti che crollano e senza riscaldamento. È un paesino bigotto, con molta gente falsa, a cui piace essere elogiata e avere “potere”, in particolare un piccolo gruppetto di persone che ci ha odiato sin dal nostro trasferimento lì solo perchè abitiamo (in affitto) nella casa canonica e secondo il loro criterio a “comandare” sulla chiesa deve essere la gente nativa del paese, o meglio, loro due o tre.

Ci hanno fatto di tutto, in questi 20 anni, hanno fatto perfino “petizioni” (con tanto di firme false e minacce a chi non voleva firmare). C’è stato un parroco che invece aveva imparato a conoscerci: noi eravamo stati messi lì, nella canonica sfitta, perché i miei genitori, profondamente credenti, sono ministri straordinari, catechisti, mio padre suona il piano (la chiesa quando siamo arrivati lì non aveva neanche il classico organo), mia madre dirige il coro. Abbiamo svolto lavori di pulizia e mantenimento della casa e della chiesa gratuitamente, sempre con le calunnie della solita gente ed i meriti che andavano alla “maestra d’asilo” del paese anche se di fatto non ha mai alzato un dito (se non per nuocerci). Il vecchio parroco ci stimava e ci difendeva, ha resistito finché ha potuto nel celebrare le funzioni, ma l’età è diventata troppo avanzata ed ha dovuto mollare. La canonica dove siamo noi non gli è mai servita. Qualche anno fa mio padre ha perso il lavoro, io e mio fratello lavoravamo al call center ed il prete aveva accordato di sospendere il pagamento dell’affitto con l’ok della Curia, in attesa che qualcuno trovasse un’occupazione decente. Poi anche io e mio fratello abbiamo perso il lavoro. Mio padre ha 62 anni, troppo vecchio per i datori di lavoro, troppo giovane per la pensione. Mia madre ha malanni che non le permettono di lavorare. Io, già con diverse patologie, ho quasi rischiato di morire quest’estate per un’embolia. Anche respirare muffe (presenti nella casa) e il freddo pungente (senza riscaldamento), hanno aggravato la salute di tutti. Perché il vecchio sacerdote non voleva mollare? Sapeva a cosa saremmo andati incontro.

Infatti oggi il nuovo sacerdote, danaroso e amico dei “ricchi” del paese (tipo la signora che ci odia da sempre), dopo mesi di minacce, dispetti, calunnie ed offese, ci ha richiesto più di 5.000 euro di affitto arretrati. Così abbiamo contattato la Curia, che ha promesso un incontro che non c’è mai stato. Adesso ci ha mandato l’Ufficiale Giudiziario con lo sfratto. Lo sfratto. La Chiesa, i ministri di Dio! Predicano pace, amore e accoglienza ma buttano in strada una famiglia indigente! Il vescovo latita, il vicario “non vuole saperne niente”, al vecchio sacerdote è proibito di parlare di noi. Con lui siamo stati anche alla Caritas, abbiamo mostrato il nostro Isee (non credono che siamo poveri): anche lì, nessuna risposta dai “piani alti”.

Il nuovo prete va a braccetto con la signora (che ha case, lavoro, marito con sclerosi multipla che lei ha mandato a vivere da solo nell’abitazione accanto, figli sani, nipoti sani, soldi, ammirazione, conoscenze al comune, banche) che ci odia e ha detto chiaramente che il suo scopo è sbatterci per strada e vederci finiti… Noi non capiamo nemmeno il motivo di tanto odio. Sicuramente in questi anni ci sono stati fraintendimenti, gente che riportava pettegolezzi e racconti infondati; ci hanno graffiato e spaccato la macchina, picchiato ed avvelenato gli animali. Mia madre sta provando a fissare un appuntamento col vescovo: ma lui latita da mesi e nell’unico incontro avuto tempo fa ha detto ridendo ed in poche parole che non gliene importa niente. Il monsignore non è mai reperibile. Ormai sentono il cognome e non si fanno passare neanche una telefonata. Io vorrei iniziare a far casino, portare la storia a conoscenza di più persone possibili. Vorrei che si sollevasse un polverone, ma non mi interessa svilire le persone parlando dei loro scandaletti. Qui ho scritto alcuni dettagli solo per farti rendere conto dell’assurdità della situazione, sembra un filmetto di serie B.

A noi basta restare dove siamo! Sembrano piccolezze, ma abbiamo 25 anni di vita lì, le nostre cose, i nostri animali seppelliti, anche se fa freddo e ci odiano. Noi non possiamo pagare l’affitto e i bandi per la casa popolare sono chiusi, al momento; ci hanno già detto che ci sono file infinite e magari ci danno una casa con cucina, bagno e una sola camera da letto per 4 persone. La casa dove siamo invece non serve a nessuno ed è pure fuori dalle regole: il pavimento di camera mia sta per crollare (è retto da una trave che mio padre ha messo momentaneamente a sostegno) e gli impianti non sono a norma. Il paesino è abitato da poche persone, forse 300, tutte benestanti con una o più case di proprietà. Perché non ci lasciano qui, in pace?

Alessandra

Cara Alessandra, in pace? Questa storia sembra la trama di Guerre stellari, la minaccia fantasma. Perdona la franchezza Alessandra, ma a me in questa vicenda il primo irresponsabile sembra il vecchio parroco da te santificato. Non si lascia vivere una famiglia in una casa a rischio crolli e incendi. Mi pare evidente poi che al netto delle faide di paese, voi non possiate rimanere lì. Diciamo che tra preti incoscienti, inquilini ostinati e concittadini livorosi, la chiesa non ha fatto un gran lavoro, da quelle parti. E forse sarebbe il caso di convertire la curia a consultorio psicologico, perché questo paesino pare una polveriera pronta a innescare la terza guerra mondiale. Altro che Iran.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com 

Idea femminista contro i cliché: il sesso femminile mica maleodora

La contraddizione è stata fatta notare subito: ma come, una paladina del #metoo lancia una candela aromatizzata al profumo della propria vagina? Facendola pagare, pure, 75 dollari, con un simbolismo che evoca il sesso a pagamento, tanto che in confronto l’acqua della Ferragni a 8 euro sembra un peccato veniale? In effetti, di Gwyneth Paltrow si possono dire molte cose non benigne, tra cui quella di aver creato una formidabile macchina di marketing, tramite la newsletter Goop, capace di vendere consigli e prodotti di benessere e salute non solo strampalati, come le uova vaginali in quarzo, ma talvolta anche scientificamente discutibili. Ma la candela che profuma della sua vagina porta con sé un’ironia, voluta, unica perché, al di al di là della battuta sul vizio femminile di far sentire il profumo senza la sostanza, ha un che di surreale, vagamente artistico (vista l’arte dei nostri tempi). Al tempo stesso, però, è un modo per lanciare un messaggio nient’altro che scontato. L’odore della vagina, come ha scritto l’attrice è “divertente, stupendo, sexy e meravigliosamente inaspettato”. E questo sì, è un messaggio femminista, visto che lo stereotipo della vagina maleodorante, che risale al medioevo, è duro a morire tra maschi di ogni provenienza, persino emancipati. È probabile che la candela sia stata acquistata, infatti, non tanto da uomini incuriositi, quanto da donne. Magari per sdrammatizzare quel senso d’insicurezza, paura di essere sporche e inadeguate, così come quell’imperativo a lavarsi sempre senza chiedere lo stesso agli uomini. E allora viva la candela sessualmente profumata, anche se sarebbe stata meglio e più democratico darla gratis, o a un prezzo simbolico. Così l’avrebbero comprata donne anche meno abbienti. Per sentirsi, giocando un po’, un po’ più sicure di se stesse. D’altronde c’è scritto “profuma come la mia vagina”, non come quella di Gwyneth.

La fragranza della vagina non è come un parquet lucidato d’ambra

Il dilemma è: il gioco (erotico) vale la candela? Parrebbe di sì, almeno per Gwyneth Paltrow, inventrice della candela “This smells like my vagina”, 75 dollari al pezzo. L’oggettino ha fatto istantaneamente sold out, dimostrando, se ce n’era bisogno, che tira più uno stoppino di Gwyneth che un carro di buoi. Sul tema è stato scritto e twittato di tutto, e se i doppi sensi non si fossero già sprecati sarebbe il caso di dire che il mio commento arriva dopo la puzza. Che poi è proprio questo il nodo del problema: l’odore. Perché se “This smells like ecc.” emana davvero l’afrore delle pudende dell’ex di Chris Martin, si capisce anche perché fra loro sia finita. I genitali di una donna sana non sanno di “rosa damascena, bergamotto, geranio e ambra”. Quello è il profumo di un parquet appena lucidato con il lavaincera. Di un deodorante per ambienti con i midollini di bambù. Di un Arbre Magique per carri funebri d’alta classe. Ora, senza arrivare agli eccessi di Napoleone, che prima di un rendez–vous con Giuseppina le chiedeva due settimane di astinenza da acqua e sapone, una persona normale ama trovare nelle parti intime della sua compagna il profumo della vita, pur senza escludere l’igiene. Già la moda vuole gli inguini femminili glabri e uniformi come quelli della Barbie, almeno lasciamogli qualcosa di naturale dal punto di vista olfattivo. E poi scusa, Gwyneth, a parte i dubbi femministi sulla mercificazione del corpo della donna (la donna sei tu e del tuo corpo fai quel che vuoi), ma vendere l’odore di un essere vivente, ancorché posticcio, non contravviene al tuo credo vegano, per non parlare della cera, prodotta sfruttando le api? E non è un peccato che della diva di Sliding Doors oggi si parli più per i suoi odori corporali che per le sue performances artistiche? Forse la rappresentazione più esatta del suo talento è proprio una candela: cera, una volta.

Scisma, antipapa, prossimo Conclave: l’Apocalisse ai tempi di Francesco

Sostengono i vaticanisti della destra clericale che il caso non è chiuso, come invece avrebbe detto lo stesso papa Francesco al Fondatore di Repubblica nei giorni dello scandalo dei due papi. Ovviamente il caso è quello del libro del cardinale Robert Sarah “cofirmato” dal papa emerito Benedetto XVI per difendere il celibato sacerdotale dalle perigliose aperture amazzoniche di Bergoglio, che potrebbero contagiare il resto della Chiesa.

Il libro s’intitola Dal profondo dei nostri cuori e com’è ormai noto l’Emerito avrebbe ritirato la sua firma dalla copertina dopo le pressioni del cerchio magico francescano. Il testo però rimane ed è destinato una volta per sempre a sancire “la fine della concordia” tra i due papi, per citare Sandro Magister intervistato dalla Verità, oppure una “divaricazione insanabile”, stavolta Aldo Maria Valli in una conversazione con Libero.

Attorno quindi all’ultimo atto delle tensioni tra il papa regnante e quello emerito è fiorita una vasta pubblicistica ricca di suggestioni apocalittiche. Come l’evocazione del vecchio complotto contro Ratzinger, ai tempi di Vatileaks I, denunciato dal cardinale Romeo: secondo Stilum Curiae di Marco Tosatti, altro vaticanista del network antibergogliano, Benedetto XVI sarebbe stato al centro di un piano cinese per eliminarlo ché contrario a firmare l’accordo con la Chiesa nazionale di Pechino controllata dai comunisti.

Ma il dettaglio più interessante è la riflessione del professore Roberto de Mattei, altro pilastro della Tradizione italiana, che da ratzingeriano ammette: Benedetto XVI si comporta come un antipapa che genera confusione e il suo stato giuridico di papa non era per sempre. Nel senso che non dovrebbe indossare più l’abito bianco e comportarsi quindi come un vescovo qualunque.

In ogni caso la guerra sul libro di Sarah ha riportato in auge anche la suggestione delle dimissioni di Francesco, qualora la Chiesa tedesca dovesse arrivare allo scisma da una prospettiva ultra-progressista. E senza dimenticare che l’operazione Dal profondo dei nostri cuori indica il cardinale Sarah, prefetto della Congregazione per la liturgia divina, come il papapabile più autorevole dei clericali al prossimo Conclave. Sarebbe il primo papa nero, ma di destra.