Richiedi l’Isee? Il Fisco ora ti controlla i conti correnti

Da inizio anno sono scattati i controlli dell’Inps sui conti correnti bancari, che includono anche la verifica del valore dei saldi e delle giacenze, di chi chiede la certificazione Isee, vale a dire l’indicatore della situazione economica che serve per calcolare quanto pagare la mensa scolastica, le tasse universitarie, gli asili nidi o per accedere al reddito di cittadinanza. In altre parole, dal primo gennaio sia che si presenti una nuova Dsu (la dichiarazione sostitutiva per ottenere l’Isee) o che si modifichi la dichiarazione Isee precompilata – accessibile per la prima volta da quest’anno – subirà “un controllo automatico volto a riscontrare se vi sia corrispondenza tra quanto indicato nella Dsu e quanto risulta nell’archivio stesso”. Il confronto è, quindi, con i dati contenuti nell’Anagrafe dei rapporti finanziari gestita dall’Agenzia delle Entrate. E risulta, ovviamente, ben più ampio di quello eseguito al 31 dicembre 2019, fino a quando l’incrocio si è limitato a evidenziare se i conti correnti dichiarati corrispondevano a quelli presenti nell’archivio. Dal primo gennaio, invece, vengono verificate anche le cifre. Una novità partita un po’ in sordina, dal momento che solo il 13 gennaio l’Inps ha pubblicato sulla propria home page il messaggio n. 96 in cui dà conto dei cambiamenti. Facciamo chiarezza.

L’evoluzione dell’Isee era prevista da una legge del 2017, che rimandava però l’attuazione a un decreto del ministro del Lavoro, da mettere a punto dopo aver sentito Inps, Agenzia delle Entrate e Garante per la privacy. E che fa seguito all’altra più grande rivoluzione del 2015, quando per stanare i furbetti abituati a dichiarare senza scrupoli di non avere conti correnti e depositi bancari pur di ottenere sconti, sono state introdotte regole più stringenti che prevedono che solo una parte delle informazioni sia inserita dal soggetto richiedente. Le altre, cioè i dati anagrafici, reddituali e patrimoniali del nucleo familiare, devono essere riportate nella Dsu. Inoltre – introdotta pochi mesi fa dal decreto Crescita – c’è anche un’altra novità che riguarda l’Isee corrente, alternativo all’ordinario, che serve ad aggiornare redditi e trattamenti degli ultimi 12 mesi a fronte di un peggioramento o miglioramento delle condizioni economiche del nucleo familiare, come la perdita del posto di lavoro con il reddito complessivo che non deve diminuire di oltre un quarto del totale. Per beneficiare dell’Isee corrente si deve verificare uno solo di questi requisiti: la variazione della situazione reddituale superiore al 25%; la fine o la riduzione del lavoro; l’interruzione di un lavoro nella Pa. Una decisione presa per evitare un’inutile moltiplicazione dei rinnovi dell’Isee in assenza di variazioni. Tanto che secondo l’ultimo rapporto di monitoraggio Isee 2017, pubblicato lo scorso luglio dal ministero del Lavoro, emerge che a fine 2017 su 6,2 milioni di Dsu presentate nel corso dell’anno – 550 mila in più rispetto al 2016 (+9,6%) e in crescita di 1,5 milioni rispetto al 2015 –, i moduli replicati rappresentavano il 20% del totale, lo stesso dato del 2016. In altre parole, le famiglie sono state costrette a richiedere più volte il modello per ottenere diversi benefici.

E ora, da gennaio, un altro deciso passo in avanti per evitare che lo Stato elargisca servizi sociali a chi non ne ha diritto: l’introduzione della versione precompilata dell’Isee (proprio come la dichiarazione dei redditi), disponibile però solo se si fa richiesta tramite il sito dell’Inps, mentre i dati vengono recuperati in automatico dal sistema accedendo alle banche dati dello stesso istituto di previdenza, dell’Anagrafe tributaria e del Catasto. Il modello precompilato non ha, però, soppiantato la possibilità di richiederlo ancora inserendo di persona tutte le informazioni richieste o, comunque, avvalendosi dei Caf. Anche perché la procedura per compilare l’Isee non è tra le più semplici: vanno sempre autodichiarati i patrimoni immobiliare e mobiliare posseduti all’estero e alcune attività domestiche quali le partecipazioni in società per azioni non quotate o società non azionarie, nonché i terreni e l’eventuale debito residuo per mutui. Ricordando che, sempre a partire da gennaio, è stato modificato l’anno di riferimento del patrimonio mobiliare e immobiliare: non è più l’anno precedente a quello di presentazione della Dsu, ma il secondo anno precedente alla presentazione della stessa. Quindi, ad esempio, nel 2020 l’anno di riferimento è il 2018.

Ma se dalla verifica su saldi e giacenze emerge un valore del patrimonio complessivo del nucleo familiare non coerente con quello dichiarato, il richiedente ha sostanzialmente tre possibilità: inoltrare lo stesso l’Isee fornendo però la documentazione che dimostra la propria correttezza; presentare una nuova Dsu rettificata; chiedere al Caf la rettifica, nel caso quest’ultimo abbia commesso un errore materiale.

Così zar Putin cambia la Russia per mantenere il suo potere

È al potere da 25 anni: come primo ministro nel 1999, poi come presidente dal 2000 al 2008, poi di nuovo come primo ministro (dal 2008 al 2012), e infine di nuovo come presidente dal 2012 e lo resterà fino al 2024 (due mandati consecutivi di sei anni). Ma 25 anni, un quarto di secolo, trascorsi come capo, “padrino” e vojd – “guida” – della Russia non bastano a Vladimir Putin. Il mondo politico tentava, invano, da alcuni mesi di fare previsioni sul futuro della presidenza. Ma, mercoledì scorso, 15 gennaio, è stato lo stesso presidente Putin, ben determinato a restare il solo e unico padrone del gioco, a rimescolare e redistribuire le carte in tavola. In un discorso rivolto a tutte le forze politiche, e ampiamente diffuso in tutto il paese dai media di Stato, Putin ha annunciato di voler avviare un’ampia riforma costituzionale da sottoporre a breve scadenza a referendum. Riforma che dovrebbe modificare in profondità il principio della “verticale del potere”, teorizzato e messo in pratica al momento della sua elezione, nel 2000, e che si è tradotto in un ultra presidenzialismo senza contropoteri.

Il presidente russo si è ben guardato dal fare ogni riferimento al suo caso personale e ha evitato di precisare quali sono le sue intenzioni per il dopo 2024. L’attuale Costituzione, che vieta di effettuare più di due mandati consecutivi, gli impedisce di ripresentarsi al Cremlino: ma Putin, mercoledì, non ha rimesso in discussione questa norma. Tuttavia, di fronte all’annuncio di una profonda riorganizzazione delle istituzioni, tutti, sia responsabili politici che osservatori, hanno capito che Vladimir Putin, 67 anni, non si ritirerà a coltivare patate nella sua datcha, la casa in campagna, come era stato costretto a fare Nikita Krusciov nell’ottobre 1964. Tramite questa riforma è evidente che il presidente si sta creando le condizioni per continuare a svolgere un ruolo di primo piano nel governo del paese.

In primo luogo, Putin ha proposto di ampliare i poteri del Parlamento. Sulla base della riforma, spetterà alla maggioranza dei deputati della Duma, e non più al presidente, nominare il primo ministro e i membri del governo. “Sono cambiamenti importanti. Ne risulterà rafforzato il ruolo del Parlamento, dei partiti, nonché l’indipendenza e la responsabilità del primo ministro”, ha osservato il presidente russo. Russia Unita, il partito di Putin, controlla a grande maggioranza le due camere del Parlamento. La società “è matura” per tali cambiamenti, ha osservato ancora il presidente. In secondo luogo, Putin intende potenziare il ruolo dei governatori (che invece aveva notevolmente ridotto negli anni 2000) e aumentare i poteri del Consiglio di sicurezza, un organismo oggi solo consultivo, diretto dal presidente. Non c’è da aspettarsi che la Russia si converta al parlamentarismo sfrenato e si trasformi in una democrazia all’occidentale, un sistema rifiutato da quasi tutta la classe politica russa. “Il nostro paese non può esistere in modo stabile sotto forma di Repubblica parlamentare. La Russia – ha insistito Putin – deve restare una Repubblica presidenziale forte, motivo per cui il presidente manterrà, ovviamente, il diritto di fissare le missioni e le priorità del governo”, e il potere di licenziare il primo ministro e i ministri.

A questo stadio, non è possibile prevedere quale sarà la portata della riforma. Ma si può immaginare che essa permetterà a Putin di essere nominato primo ministro dalla Duma dopo il 2024, al fianco o di fronte a un presidente i cui poteri nel frattempo saranno stati limitati. Gli analisti russi evocano già da mercoledì anche un altro scenario, quello dell’“esempio kazako”. Putin potrebbe cioè prendere la presidenza del Consiglio di sicurezza dai poteri rafforzati come ha fatto in Kazakistan Nursultan Nazarbaev, che nel marzo 2019 ha lasciato la presidenza per prendere appunto la testa del Consiglio di sicurezza e del partito dominante, conservando in questo modo le redini del potere. Riproporre a Mosca l’”operazione arrocco” del 2008-2012 sarebbe parso fin troppo grossolano per un’opinione pubblica russa sempre meno favorevole al regime. Nel 2008, come in una partita a scacchi, il primo ministro Medvedev e Putin si erano scambiati di posto: il primo aveva preso la presidenza, il secondo era diventato primo ministro. In quell’operazione Putin aveva portato con sé importanti poteri che fino a quel momento erano stati appannaggio del presidente.

Nel 2012 è stata fatta la mossa inversa: Medvedev ha ripreso il suo posto di primo ministro e Putin è tornato al Cremlino. Nel frattempo le relazioni tra i due uomini sono cambiate. Soprattutto Medvedev è diventato il bersaglio dell’attivista Alexei Navalny, leader dell’opposizione, il quale, con la sua organizzazione, ha portato avanti una lunga inchiesta accusando di corruzione il primo ministro, la cui ricchezza è pari a 2 miliardi di dollari. Il video diffuso su You Tube dalla Fondazione anti-corruzione di Navalny è stato visionato 33 milioni di volte. C’è un altro segnale a indicare che è Putin a distribuire da solo le carte e che vuole giocare in fretta: poche ore dopo il discorso presidenziale di mercoledì, Dmitrij Medvedev e il suo governo hanno rassegnato le dimissioni. “Come governo, dobbiamo garantire al presidente del nostro paese la possibilità di prendere le misure necessarie. È per questo motivo che il governo si dimette”, ha dichiarato Medvedev. Subito dopo gli è stato offerto il posto di vicepresidente del Consiglio di sicurezza (che è presieduto da Putin). Come nuovo primo ministro invece è stato nominato un tecnocrate sconosciuto, Mikhail Mishustin, 54 anni, capo del Servizio fiscale federale russo dal 2010. L’alto funzionario non si era mai occupato prima di politica. Al massimo il suo ufficio si è distinto negli ultimi anni in qualche operazione anticorruzione.

A un anno dalle elezioni legislative del 2021, Putin sta quindi ricomponendo a grandi passi il suo dispositivo di potere. Il nuovo primo ministro Mishustin può difficilmente essere considerato il delfino del presidente e il futuro inquilino del Cremlino. Per questo ruolo, circolano diversi nomi da mesi, ma è a uno in particolare che occorre prestare attenzione: si tratta di Sergej Sojgu, 64 anni, ministro della Difesa dal 2012. Un uomo inaffondabile, uno dei rari sopravvissuti della squadra di Boris Eltsin e che è stato senza interruzione ministro delle Situazioni di emergenza, un potente ministero in Russia, dal 1994 al 2012. Sojgu, che ha goduto di una certa popolarità, è in eccellenti rapporti con Putin. Su questa “amicizia” hanno ricamato molto i media statali russi negli ultimi mesi: Putin e Sojgu che vanno a pesca e a caccia insieme, che fanno lunghe escursioni, prendono il sole, fanno spuntini, cavalcano e indossano lo stesso abito mimetico color kaki nelle foreste siberiane o sulle montagne dell’Altai. Per gli “esperti” del Cremlino questa amicizia messa in scena in modo così spettacolare è un segnale che non inganna. Putin non era forse un completo sconosciuto – anche se direttore dell’Fsb, i servizi segreti russi – quando Boris Eltsin l’ha fatto schizzare al posto di primo ministro nell’estate del 1999? “Il messaggio del presidente ci dice soprattutto una cosa: quanto sono stati idioti quelli che pensavano che Putin sarebbe andato via nel 2024. Restare a vita l’unico leader, conservare il controllo di tutto il paese, appropriandosi delle sue ricchezze, per se stesso e per i suoi amici, sono l’unico obiettivo di Putin e del suo regime”, ha reagito su Twitter l’oppositore, e vera spina nel fianco, del Cremlino Alexei Navalny.

Il problema di Putin e dei suoi fedeli è essenzialmente uno: come lasciare il potere senza rischiare di cadere in disgrazia, di subire azioni penali o l’esilio? Nelle complesse e oscure battaglie tra reti e clan che strutturano il potere russo, ogni minimo segno di cedimento o di debolezza può essere interpretato come un hallalì, un segnale di resa. La posta in gioco è enorme: il controllo di gran parte dell’economia, dei grandi gruppi statali di petrolio e di gas e delle ricchezze che ne derivano. Nel 2000, Boris Eltsin aveva trasferito il potere a Vladimir Putin, avendo cura di negoziare l’immunità totale per se stesso, per sua figlia, la sua famiglia e i suoi cari. Putin firmò il decreto e il patto fu effettivamente rispettato. Le molteplici inchieste giudiziarie e altri scandali finanziari (tra cui quello del gruppo Mabetex per presunte tangenti versate per accaparrarsi appalti, tra cui la ristrutturazione del Cremlino) furono soffocati. Putin ha sicuramente in mente un altro caso, quello dell’ex sindaco di Mosca Yuri Luzhkov, morto il 10 dicembre 2019 a Monaco di Baviera. Luzhkov, che tentò di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2000, che ebbe un vero potere politico e finanziario (sua moglie si arricchì con i bandi pubblici di Mosca), pagò più tardi a caro prezzo il fatto di non essersi alleato a Putin. Nel settembre 2010, fu sospeso dalle sue funzioni di sindaco per aver criticato Medvedev. Perse tutto, le sue reti furono smantellate, fu costretto all’esilio, prima in Austria, dove aveva investito gran parte del suo denaro, poi a Londra.

Restare in prima linea, conservare un ruolo di primo piano pare dunque, oggi, nell’attuale sistema russo, la sola assicurazione sulla vita. Il 15 gennaio, Vladimir Putin ha iniziato a scrivere il copione che gli permetterà di restare l’attore protagonista del film, anche dopo il 2024.

(traduzione Luana De Micco)

Europa: le 10 sfide del 2020 che cambieranno il futuro

Quali sfide riserva il 2020 all’Europa? Se l’è domandato Étienne Bassot, capo del Servizio di ricerca del Parlamento europeo, che ha chiesto agli analisti di indicare “Le 10 questioni da tenere d’occhio nel 2020”. Temi che s’intrecciano con gli appuntamenti decisivi della politica internazionale e con l’aumento del degrado ambientale. A dicembre 2019 il sondaggio dell’Eurobarometro per il Parlamento Ue ha confermato che, più di tutto, i cittadini europei chiedono un Continente più verde e più giusto per contrastare i cambiamenti climatici, la povertà e l’esclusione sociale (specie dei più giovani).

Al primo punto c’è il prossimo programma finanziario quadro (Pfq) dell’Unione europea, da varare entro l’anno per definire le linee guida del budget 2021-2027. Difficile conciliare esigenze urgenti (ma in competizione) con risorse limitate, ancor più compresse dalla Brexit. La proposta della Commissione Ue, presentata a maggio 2018, tenta di quadrare il cerchio ma la nuova presidente, Ursula von der Leyen, ha delineato le priorità per il prossimo mandato. Si prevede un aumento della spesa dell’Unione su iniziative come il Green Deal e l’Europa sostenibile (con investimenti da mille miliardi in 10 anni), il Meccanismo equo di transizione energetica e la garanzia europea per l’infanzia, le azioni volte a rafforzare le tutele per i giovani e la triplicazione di Erasmus+. Il nuovo Parlamento europeo il 10 ottobre 2019 ha chiesto un bilancio pari all’1,3% del reddito nazionale lordo europeo, un’azione comune contro i cambiamenti climatici e nuovi stanziamenti. A un anno e mezzo dalla proposta della Commissione, gli Stati membri però non sono d’accordo sulle future finanze europee.

Nei piani di von der Leyen, il 2020 sarà l’anno fondamentale per la lotta al cambiamento climatico del prossimo decennio. Su questo fronte la vecchia Commissione Juncker aveva confermato l’integrazione del tema climatico nel budget cui destinare il 25% delle risorse totali, che nel settennato 2021-2027 ammonterebbero a 320 miliardi di euro rispetto agli attuali 210; il Parlamento chiede però oltre 370 miliardi. Secondo le priorità della von der Leyen, il pacchetto Green Deal includerà il Meccanismo equo di transizione (che dovrebbe destinare 100 miliardi per le regioni più colpite dalla “rivoluzione” verde) e un piano per stimolare mille miliardi di euro d’investimenti pubblici e privati ​​in tutta la Ue (in 10 anni).

Tra le principali misure, quelle a sostegno del passaggio dalle fonti fossili (carbone in primis) alle rinnovabili. Si tratta del terzo punto fondamentale del 2020, destinato a creare un Meccanismo di Transizione Equo nell’ambito del Green Deal europeo, per sostenere le regioni più colpite dall’uscita dal carbone, anche a livello occupazionale, con nuovi fondi. Il quarto punto chiave del 2020 è la tutela della biodiversità, che a livello globale “vale” dai 125mila ai 140mila miliardi di dollari l’anno (una volta e mezza il prodotto interno lordo del mondo). Gli ecosistemi marini e terrestri assorbono circa 5,6 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno, il 60% delle emissioni globali di gas serra dovuti all’uomo. Lo scopriranno tutti i “nativi digitali”. I giovani sotto i 22 anni che, secondo il rapporto del Parlamento Europeo, chiedono interventi per uno sviluppo armonico e la riduzione della povertà: una politica del 21° secolo per i figli del 21° secolo è la quinta questione fondamentale.

La riforma delle politiche dell’immigrazione, causata in parte dai cambiamenti climatici, per risolvere l’emergenza nel Mediterraneo e lungo la rotta balcanica, è il sesto e più difficile passaggio dell’anno. Per questo la Ue intende ascoltare la voce dei cittadini (il settimo punto trattato nel box in pagina).

Entro il 2040 si scioglierà del tutto la calotta polare artica, facendo emergere l’importanza geopolitica e militare della regione, per via delle enormi risorse che nasconde. È l’ottavo passaggio: l’impatto riguarda l’ecosistema e le relazioni internazionali, non solo quelle tra gli 8 Stati sopra il circolo polare artico – Canada, Groenlandia (Danimarca), Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia e Stati Uniti – ma anche con la Cina.

Sempre dalla Cina arrivano le principali sfide tecnologiche: il 5G quest’anno muoverà i primi passi commerciali anche in Europa. Questa tecnologia, nono punto decisivo, ridisegnerà il modo di comunicare, lavorare e interconnettersi delle persone, con riflessi sulla sicurezza dei dati e sulla pervasività del controllo dei Governi. Sul fronte politico, martedì 3 novembre le 59esime elezioni presidenziali Usa saranno l’ultimo passaggio chiave del 2020. Trump ha create tensioni con la Cina, l’Europa e all’interno della Nato. La scelta tra altri quattro anni della sua presidenza o un nuovo indirizzo peserà su tutto il mondo.

Tra Russia e Turchia Conte si aggrappa agli Usa

Il caffè e i pasticcini sono sul tavolo, i cronisti e le telecamere tutti attorno. Così, nel bar di un albergo nel cuore di Berlino, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio non possono che sorridere, e il presidente del Consiglio prova la battuta: “Vedete? Stiamo litigando”. Ma non litigano il premier e il suo ministro degli Esteri, perlomeno non nella domenica della conferenza di pace, perché sanno che per restare in piedi tra tanti vasi di ferro devono sostenersi e chiedere assieme un aiuto esterno. Cioè rivolgersi, quasi aggrapparsi a quegli Stati Uniti che nella partita della Libia non sono mai voluti entrare.

Ma con Russia e Turchia che giocano da padroni l’Italia ha disperatamente bisogno di un sostegno da Washington, ossia che gli americani riconoscano davvero il ruolo di Roma e la sua idea di una forza di interposizione in Libia sotto la bandiera e il controllo dell’Onu. Quindi, che lavorino perché nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite una futura missione dell’Onu non sbatta contro il veto di Mosca. E allora in tarda mattinata Conte e Di Maio fanno un punto di mezz’ora nella stanza del premier, poi è lo stesso premier a dirlo alla stampa: “Vedrò il segretario di Stato americano Mike Pompeo, gli ribadirò che gli Stati Uniti devono essere protagonisti”. Cosi il premier e Di Maio vanno a incontrare l’uomo di Trump. In sostanza una chiacchierata di 20-25 minuti, in piedi, a margine dei lavori.

Ma sono questi pull aside, come li chiamano in gergo tecnico, il perno della giornata dei due, fatta anche di incontri riservati (in mattinata il ministro aveva visto il suo omologo turco e quello egiziano, mentre Conte aveva incontrato il segretario generale dell’Onu Guterres). Dentro la Cancelleria, il teatro della conferenza, salutano e parlottano con i vari big, dal primo ministro britannico Boris Johnson al presidente egiziano Al Sisi, fino a Putin ed Erdogan, i due leader ingombranti come montagne. Ma ovviamente c’è anche la parte ufficiale, ossia l’intervento di Conte durante i lavori. Dieci minuti in cui il premier definisce la conferenza “il punto di avvio di un percorso difficile e articolato”, ricordando subito che “l’Italia è il paese più direttamente esposto dai rischi di un conflitto di grandi dimensioni”.

Un altro pro-memoria innanzitutto per gli americani. Poi rispiega la sua linea: “Abbiamo sempre sostenuto il governo di Accordo nazione quale istituzione legittima delle Libia (cioè quello di Al Sarraj, ndr) ma abbiamo anche sempre mantenuto aperti i canali di dialogo con Haftar”. Soprattutto, ripete che “la soluzione militare è impraticabile, una falsa scorciatoia” e quindi censura le mosse muscolari di Turchia e Russia: “L’ingresso di soldati stranieri e mercenari ha creato un’escalation nel conflitto, tutte le interferenze devono cessare e va garantito il pieno rispetto dell’embargo Onu sulle armi”. E alla fine rilancia, proponendo che l’Italia ospiti la prima riunione del comitato libico di monitoraggio sul cessate il fuoco, idea già lanciata da Di Maio in mattinata. Così Conte, che in serata può respirare per l’esito della conferenza, con un impegno sul cessate il fuoco.

È il primo passo invocato dall’Italia. “Ci riteniamo soddisfatti, e siamo pronti a essere in prima fila sul monitoraggio della pace” commenta Conte , con Di Maio sempre accanto. “Bisogna comunque essere cauti” ammette il ministro. Il baratro della Libia fuori controllo è sempre vicinissimo. E infatti la Farnesina lavora a tavoli tecnici con Stati Uniti, Russia e Turchia. I vasi di ferro che possono decidere.

Berlino, intesa Sarraj-Haftar. In Libia un tregua “vigilata”

Era iniziata sotto i peggiori auspici la Conferenza di Berlino. Alla vigilia dei lavori, la chiusura dei maggiori terminal petroliferi libici nell’Est della Libia e le notizie sul bombardamento aereo di Abugrein, non lontano da Misurata, da parte del sedicente Esercito nazionale libico sotto il comando del generale Khalifa Haftar avevano lasciato tutti con il fiato sospeso. Invece la pistola fumante messa sul tavolo dall’uomo forte della Cirenaica non ha impressionato i partecipanti alla Conferenza, che a fine giornata hanno ottenuto un risultato in linea con il principale obiettivo della conferenza: il cessate il fuoco.

Fayez al Sarraj e Khalifa Haftar hanno sottoscritto l’istituzione di una Commissione militare congiunta per il monitoraggio del cessate il fuoco composta da 5 ufficiali di una parte e 5 dall’altra. Il primo passo per rendere operativo e verificabile il cessate il fuoco. Non irrilevante, dal momento che fino a ieri il generale della Cirenaica, sponsorizzato in primis da Emirati Arabi ed Egitto, ma anche da Russia e Francia, rifiutava di nominare i suoi rappresentanti. La giornata è cominciata con una singolare entrata in scena. Mentre Angela Merkel accoglieva sotto i riflettori in cancelleria il parterre des rois convenuto a Berlino, dal presidente francese Emmanuel Macron al presidente russo Vladimir Putin, dal ministro degli Esteri cinesi Yang Jiechi al segretario di Stato Usa Mike Pompeo, passando per il presidente turco presidente Recep Tayyp Erdogan, il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, Boris Johnson, lo sceicco emiratino Abdullah bin Zayed Al Nahyan, e ancora Ue, Onu, Unione Africana, Repubblica del Congo e Algeria, i due protagonisti del conflitto libico, Serraj e Haftar, erano già nell’edificio, entrati senza che nessuno li vedesse, ore prima per colloqui separati con Merkel e il ministro degli Esteri Maas. I due contendenti pare non si siano mai incontrati. Sono rimasti per tutto il tempo in stanze separate, come confermato anche dalla Cancelliera. La conferenza si è giocata su tre tavoli: quello degli attori internazionali coinvolti a vario titolo nella guerra in Libia, il tavolo del generale Haftar e quello di Serraj. Per tutto il pomeriggio i funzionari hanno fatto la spola tra una stanza e l’altra. Ma la cosa sembra avere funzionato: “Abbiamo un piano molto ampio, tutti hanno collaborato in modo molto costruttivo e sono d’accordo sul fatto che vogliamo rispettare l’embargo delle armi con maggiori controlli rispetto al passato”, ha dichiarato Merkel.

Il documento in 55 punti con le conclusioni della conferenza, un risultato cesellato in mesi di lavoro diplomatico nel corso di 5 incontri ai più alti livelli tra i Paesi coinvolti nel processo, punta a tenere basse le aspettative e chiarire un punto fondamentale: “Ce n’est q’un début”. È stato l’alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri e di sicurezza Josep Borrell a sintetizzare il senso della conferenza: “Gli accordi precedenti in Italia a Palermo, in Francia a Versailles e a Abu Dhabi erano degli eventi one-shot mentre qui iniziamo un processo e l’importante sarà l’implementazione di questo procedere”.

Tradotto: meglio puntare a mettere in pratica le decisioni adottate, piuttosto che esporsi con dichiarazioni ambiziose e roboanti che poi restano lettera morta. Il documento finale, sottoscritto da tutti senza la formale opposizione di Haftar e Serraj, punta sul cessate il fuoco, sull’embargo delle armi con il monitoraggio della commissione militare congiunta interlibica, e a una ripresa del processo politico già a partire dalle prossime settimane. Niente truppe straniere in Libia per il momento né dichiarazioni di nuove elezioni per la costituzione di un governo libico. Insomma niente da festeggiare. Ma aver evitato il fallimento è già un successo e per alcuni una sorpresa.

La Lega e la resa di Venezia al business dei privati

“E in narrando il nocchier la mia sciagura / al peregrin, che stupefatto ascolta / Ode vagar per le sommerse mura / Con gemito d’orror l’eco sepolta, / Ed ammirando i mal distinti sassi / urti col remo i voti alberghi, e passi”. È impressionante la forza profetica di questi terribili versi di Carlo de’ Dottori (1618-1686). A parlare è Venezia (“si dolea la città ch’ha il mar per mura”), una Venezia del futuro ormai coperta dalle acque, e che diviene mèta di un turismo dell’orrore: mentre la barca conduce il visitatore sul mare che sovrasta e inghiotte la città, si sente un sinistro boato, che sale dagli edifici e dalle piazze. Il marinaio urta col remo i tetti delle case, ormai vuote: e si affretta ad allontanarsi da quella nuova, lugubre Atlantide, dove echeggia il brivido di un’”eco sepolta”.

Sono settimane che la visione di de’ Dottori prende forma, sotto i nostri occhi: Venezia è sommersa dal suo mare, che si innalza e la ferisce in gran parte per responsabilità del malgoverno degli uomini. Ma è da decenni che diviene sempre più vera anche l’altra metà della profezia: quella sui “v(u)oti alberghi”. E cioè sulle case deserte, sullo spopolamento, sulla città fantasma, in un precipizio che l’euforia artificiale del carnevale commerciale non riesce a nascondere: “Ci sarà allegria / anche in agonia / col vino forte”, cantava Fabrizio De Andrè.

Ma a Venezia c’è chi lotta, nonostante tutto. Da settimane un commando anonimo di giovani cittadini colti e determinati segna di rosso le case svendute al rapace commercio di Airbnb: come durante la Grande Peste del Seicento si indicavano con croci rosse le case visitate e vinte dalla malattia. Bollini rossi con un cappio (Venezia impiccata alla corda dell’overtourism) e un codice Qr che rinvia a un sito con i numeri del disastro: i posti letto ufficiali sono ormai pari al numero dei residenti (meno di 50.000), ma in realtà tutti sanno che sono molti di più.

Sarebbe dunque vitale ridare le case agli abitanti: trovare nuovi residenti, ripopolare Venezia, inventare nuovi veneziani (non per sangue, ma per scelta del luogo: per un elettivo ius soli). Al bando per 300 case popolari che il Comune di Venezia aveva pubblicato sei mesi fa, hanno risposto in 2500: il che vuol dire che se si creano le condizioni, Venezia può trovare un nuovo popolo. Si può: bisogna volerlo, e costruire politiche per farlo.

Ma quei numeri vogliono dire anche un’altra cosa: che a Venezia c’è un’enorme fame di alloggi popolari. Per questo è davvero incomprensibile la scelta della giunta regionale di Luca Zaia di continuare a svendere immobili pubblici (che invariabilmente finiscono in mano alla speculazione che espelle i cittadini), invece di destinarli alla residenza. Ha un alto valore simbolico il fatto che sia stato messo in vendita perfino Palazzo Balbi: la dimora sul Canal Grande che ospita la sede della Regione e la dimora ufficiale del presidente. Un palazzo diventato pubblico nel 1971: e la cui dismissione segna davvero la fine di un’idea di città pubblica, celebrando la resa di Venezia alla rendita privata. Ma ci sono soprattutto 32 proprietà della Ulss3 Serenissima (l’azienda sanitaria locale), per un valore di 13,4 milioni di euro. Si inzierà a battere all’asta 22 appartamenti nel centro storico, per un valore di 8,7 milioni di euro. Zaia esulta, notando che le alienazioni di patrimonio regionale del 2019 “ci hanno fatto superare la somma di 38 milioni dal 2010. Stiamo parlando di beni di cui è venuta meno la destinazione a pubblico servizio e l’interesse all’utilizzo istituzionale, ma dalla cui vendita si aprono nuovi investimenti in settori come la salute, il sociale, la scuola, l’ambiente e la protezione civile”. Una bassa retorica: che dimentica come l’investimento prioritario per Venezia è quello che la fa rimanere una città. Ha dunque tutte le ragioni la senatrice 5 Stelle Orietta Vanin a dire che “la Regione Veneto afferma che non esiste nessun accordo di prelazione da parte del Comune e che non lo si può favorire perché si creerebbe un danno erariale. La vendita all’asta degli immobili, che ha l’obiettivo di massimizzare le entrate, rischia di rinforzare ulteriormente l’offerta turistica a scapito dei suoi residenti che ogni anno, abbandonano affranti una città che non li sostiene con adeguate politiche residenziali! L’identità della città è data dai suoi abitanti, senza di essi si riduce ad un contenitore, vuoto”.

Come sempre, Venezia è una cartina di tornasole. E come sull’ambientalismo sbugiarda chi si tira addosso la coperta di Greta ma lascia le Grandi Navi in Laguna (leggi il Pd, che ha i ministeri chiave di Infrastrutture e Beni Culturali), così sulla giustizia sociale strappa la maschera alla Lega, perché anche Zaia sa dire solo ciò che dice il mainstream liberista: alienazioni, privatizzazioni, massacro della città pubblica. D’altra parte, proprio oggi in parlamento si decide l’ammissibilità di un emendamento al Milleproroghe che intende allungare di un mandato la presidenza della Biennale, per permettere l’ennesima proroga, in deroga alla legge, di Paolo Baratta (che va per gli 81 anni, e in tutto ha guidato la Biennale per 15 anni…). Chi ha presentato quell’emendamento? Ma la Lega, naturalmente: che ha tutto l’interesse perché a Venezia non cambi nulla. Finché non se ne senta solo, “con gemito d’orror, l’eco sepolta”.

Il vescovo lo aveva bandito. Riecco il “frate” della rissa

“Sono come don Giovanni Bosco, vittima di ingiurie infami per via del mio carisma, ma la vocazione al sacerdozio è troppo forte”. Se ti accusano di molestie, partecipi ad una rissa in chiesa e vieni bandito dal vescovo, la strada per il collarino è in salita ma la meta, tutto sommato, abbordabile. Lo sa bene Fra’ Volantino da Modica, all’anagrafe Corrado Giunta, classe 1970, fondatore della comunità religiosa dei “Piccoli frati e suore povere di Gesù e Maria”. Chiariamo: Volantino non è frate ma solo diacono. Abbracciò la fede tirando giù la saracinesca del suo pub, nel 1995: “Mi chiesero una mazzetta per tenere aperto il locale, ho persino pensato di uccidere quei delinquenti”, ha raccontato Giunta all’Avvenire. Poi la conversione. Nel 2002 fonda l’associazione religiosa, privata, dal notaio. Sei anni dopo il vescovo di Caltanissetta accoglie i “Piccoli frati” nella sua diocesi, ma finisce a pugni in cattedrale. “Una sorella non era tornata a casa di notte – ricorda Volantino – con la scusa che avesse pernottato nella nostra comunità ma non era vero. I genitori si sono lamentati col vescovo, uno dei nostri è stato spintonato in Cattedrale ed è esplosa la zuffa, ma abbiamo avuto la peggio”. Per via della scazzottata, nel 2010, monsignor Russotto caccia il “frate” dalla diocesi nissena, accusandolo di “condotta riprovevole”. Il decreto del porporato è durissimo: “Plagio, minacce, annunzio di castighi, uso distorto della Parola di Dio, (…) violentando le coscienze, legandole in maniera ferrea al giudizio dell’iniziatore Volantino, che si presenta come nuovo San Francesco, profeta del nuovo millennio”. Il vescovo sospetta una patologia: “Ne derivano disturbi a livello di psichiche, tra le malattie più gravi a giudizio di diversi medici e psichiatri della città”.

Come non bastasse, l’anno dopo, nel 2011, ecco la mazzata in tv: Mi manda Raitre di Edoardo Camurri raccoglie testimonianze di minacce e molestie sessuali da parte del religioso siculo. Nessuna denuncia, però, e lui nega ogni accusa. Inizia così la via crucis di Fra’ Volantino: “La mia reputazione è sfregiata per sempre, eppure lavoro per Gesù e contro di me non c’è niente di concreto”. Al suo fianco, sulla via delle redenzione, c’è il vescovo di Noto, monsignor Staglianò. Il porporato lo ospita dall’esilio di Caltanissetta per affidargli le chiavi della mensa dei poveri: ogni sera, dal lunedì alla domenica, Volantino apparecchia la tavola per i diseredati nel paesino siculo, 24 mila anime in provincia di Siracusa. Staglianò apprezza il religioso e i suoi seguaci: “Giovani che dedicano la vita al Signore e ai poveri della zona”. È il monsignore di Noto ad ordinarlo diacono nel 2015. Poi, a giugno dell’anno scorso (dopo quattro anni in prova) sigilla con il timbro dell’episcopato la comunità religiosa di Volantino. Ora i “Piccoli frati e suore povere” sono un’Associazione pubblica di fedeli. Ma il diacono ti corregge subito, se citi lo status giuridico del suo gruppo: “La dicitura esatta è Associazione pubblica in vista di istituto”, dice Volantino.

Per diventare “istituto” occorre il timbro vaticano. Ma Fra’ Volantino nel 2013 si è laureato in Teologia all’Università Pontificia Gregoriana di Roma, ha fatto i compiti ed è ottimista. “Servono 40 membri e ad oggi siamo una trentina”, dice il diacono: “Ho chiesto a Padre Ghirlanda, ex rettore della Gregoriana, le istruzioni giuste e lui ci ha dato consigli preziosi. Come altri due professori dell’Università, interpellati dal vescovo Staglianò”. Volantino capisce bene le remore ecclesiastiche, ma morde il freno: “La Chiesa è prudente ad approvare le nuove comunità perché teme di perdere la faccia, ma intanto noi restiamo nel guado”. Il passato di Volantino è un’ombra difficile da dissipare. “La curia romana sta valutando la sua storia”, dice il Vescovo di Noto. È compito della Congregazione della vita consacrata e religiosa, promuovere o bocciare la comunità di Fra’ Volantino. In molti storcono il naso, anche perché il diacono non teme di parlar franco: “Sesso e droga li ha fatti il Signore e bisogna vedere l’uso che se ne fa”, diceva su youtube qualche anno fa. Sul social dei video cura la sezione “Barzellette con insegnamento Cristiano”. In un’altra clip spiega la Resurrezione a tinte forti, ecco un’estratto: “Gesù era morto, ammazzato di legnate, scassato di botte, gonfiato di mala maniera, rovinato totalmente, chiuso in una tomba e a un certo punto misteriosamente esce”. Ora però è cambiato, dice lui: “Ai tempi ero rozzo, mica diplomatico come oggi”.

Padre Salvatore dice messa a Noto da più di un decennio. Conosce bene Volantino e la sua avventura: “Il vescovo voleva ordinarlo sacerdote nel 2017, per affidargli la parrocchia del Santuario di San Francesco dell’Immacolata”. Ma è scattata la protesta dei preti, racconta il don: “Molti parroci della zona si sono lamentati e, una settimana prima, non se n’è fatto nulla”. Così Corrado Giunta è rimasto diacono. Uno dei 20, nella diocesi di Noto; e come gli altri partecipa al ritiro spirituale al Santuario Madonna della Scala, una volta al mese. Fa la catechesi biblica nella Cattedrale di Noto, regolarmente, ogni 30 giorni circa. La sua unica missione è diffondere la parola del Signore insieme agli adepti. Perciò sono arrivati fino a Scicli, l’estate scorsa: “Lì hanno predicato per le strade, porta a porta, senza dare problemi. Hanno pure rifiutato offerte in denaro”, dice Padre Salvatore. Nel paese di Montalbano, 40 chilometri da Noto, Volantino e i suoi seguaci sono arrivato a piedi o in autostop, per via della “regola” della comunità: “Mai toccare soldi – annuncia fiero il diacono –, ecco perché ispiriamo fiducia e riportiamo la gente in Chiesa. Noi non possediamo nulla, eccetto i sandali, il mantello e due tonache. Siamo come San Francesco”.

I novelli “francescani”, durante le feste natalizie, hanno raccolto 7 mila euro da donare alla diocesi congolese di Butembo, in Africa. È bastata una cena di beneficenza alla Caritas di Noto. Il convivio è stato organizzata dai missionari: un’associazione di laici (senza fini di lucro) chiamata “Alleati dei piccoli Volantini Verdi”. “Sono gruppi di preghiera sparsi nel mondo – spiega il diacono – con centinaia di aderenti in Italia, Portogallo, Messico e ora anche in Cina e in Usa”.

La casa base però è a Noto. Volantino vive a Contrada San Giovanni, nell’ex monastero delle Suore benedettine, insieme ad una decina di fedeli. Sui suoi metodi autoritari, nel paesino si rincorrono le voci: “Alcune seguaci hanno abbandonato la comunità di Volantino con accuse gravi: parlavano di obbedienza cieca e non verso il Signore, bensì a Fra’ Volantino”, racconta Padre Salvatore. Ad oggi, accuse senza prove: “Nessuno mi ha denunciato – rintuzza l’aspirante parroco – anzi ho ricevuto lettere di scuse da una mia accusatrice”. Nel 2011, quando il diacono si trasferì, ad Olbia, giunsero lettere minatorie al vescovo per via dell’ospitalità: “Ma in paese nessuno si è lamentato”, disse Don Andrea Raffatellu a La Nuova Sardegna. Nell’Isola c’è una casa di formazione per i seguaci di Volantino, a Cremona una sede filiale solo per “sorelle”: i vescovi delle due diocesi hanno accolto i “Piccoli Frati”. “Con noi, oltre a Staglianò, ci sono i monsignori Corrado Melis e Antonio Napolioni”, dice Volantino. In attesa della redenzione.

Meglio in quattro: il boom degli scambi di coppia

Club privè o case private, siti di incontri o app, passando per il car sex, ossia gli scambi di coppia in auto: sono tante e sempre di più le occasioni che le coppie hanno per incontrarne altre. Secondo Federsex (Federazione Internazionale per la Tutela dei Diritti e delle Libertà) ben il 5% degli italiani pratica abitualmente scambismo tanto da non potere essere più considerata una novità, ma un’abitudine acquisita. Anche perché c’è un’escalation: il sito coppiescambisteclub.com, uno dei principali in questo settore, dichiara di avere avuto un aumento degli iscritti del 19% dal 2017 al 2018; nell’ultimo anno, il 2019, l’aumento è stato addirittura del 30%. È un fenomeno talmente diffuso da mettere in difficoltà i single che cercano altri non accoppiati in cerca di avventure: “Ormai, annunci69 (uno dei maggiori portali per incontri sessuali, ndr) è diventato un sito solo per scambisti, chi non è in coppia non ha occasioni”, si lamenta un ragazzo su un forum in rete. Ed è un fenomeno completamente trasversale che coinvolge persone di ogni cultura e livello sociale, dai top manager agli operai. Nel mondo della perversione non c’è distinzione di classe, al contrario, si cerca di uscire il più possibile fuori dal proprio status. Gli imprenditori, per intenderci, disdegnano i loro colleghi preferendo altre categorie sociali e così via. Ad essere cambiata, negli ultimi anni, è la tipologia delle persone che si avvicinano a questo mondo: in particolare, si è notevolmente abbassata l’età anagrafica. “Oggi vengono giovani di 20, 25 anni, a volte anche di 19”, dice Genni Scolastico, presidente del Flirt Club Privè, uno dei club per scambisti più famoso d’Europa. E, insieme all’età, è cambiata anche la modalità di approccio: i giovani hanno un orientamento più ludico.

Mentre per gli adulti è una scelta ponderata e se ne parla lungamente all’interno della coppia, per i ragazzi il gioco è finalizzato a quel momento e basta, del tipo: “C’è questa cosa, perché non proviamo?”. È la domanda che si è sentita fare Elena, 24 anni, dal suo ragazzo che aveva trovato l’annuncio sul web. “Io ho detto di sì, un po’ per curiosità, un po’ perché lo conosco bene e so che lo avrebbe fatto con qualcun’altra, quindi meglio con me”, dice. Quando le chiediamo conto della sua esperienza, risponde: “Non mi sono sentita molto a mio agio, ero un po’ imbarazzata ma non avrei problemi a rifarlo: credo che nella coppia ci si debba venire incontro”.

Ma se il web è la porta principale per avvicinarsi a questo mondo sotterraneo perché è più immediato e garantisce l’anonimato, i privè restano un porto sicuro per chi cerca questo tipo di esperienza. “Negli ultimi tre anni le coppie che vengono a fare scambio sono aumentate almeno del 20%”, dice Scolastico.

Tra i suoi soci, parliamo con Alessio (nome di fantasia) e la sua compagna: “Lo facciamo da oltre cinque anni. È nata come una fantasia a letto e poi è diventata una cosa abituale – racconta – All’inizio c’era molta gelosia ma poi l’abbiamo trasformata in eccitazione. La gelosia è alla base di questo gioco. Ci piace conoscere coppie come noi che abbiano fantasie e complicità, cerchiamo sempre di instaurare un’amicizia. Certo, va un po’ oltre la classica amicizia – ammette – ma c’è sempre molto rispetto. Noi due abbiamo una vita molto intensa, lei ha due lavori e io un bambino, giocare è l’unico divertimento che ci concediamo”.

Giocare è la parola chiave: guai a nominare il termine scambismo, peggio del fumo negli occhi, per chi lo pratica si tratta di un gioco. Al massimo è concessa la parola swinging (oscillante). E lo swinging sta diventando sempre più fluido, un po’ come la sessualità delle coppie. È vero: lo scambismo piace soprattutto alle donne (il lesbo è sempre stato più comunemente accettato a differenza del mondo gay) ma sempre più uomini, oggi, decidono di sperimentarlo. Che siano etero o no. Su Grindr, l’app di social networking usata da gay, bisex, trans e queer, ad esempio, non mancano annunci di coppie omosessuali che cercano altre coppie. “A partire dagli ultimi due o tre anni c’è una maggiore accettazione della trasgressione sessuale”, conferma il sessuologo Fabrizio Quattrini e aggiunge: “Anche perché stiamo andando verso l’affermazione di quelle che vengono definite ‘coppie non monogamiche etiche’ che comprendono ogni tipo di coppie non monogame, dal poliamore fino alla trasgressione estrema”.

Coppie aperte, insomma, all’interno delle quali lo scambio acquista un ruolo importante nella sessualità per dare pepe al rapporto e non solo: “La trasgressione è diventata una modalità non solo inerente alla sfera erotica ma proprio nelle dinamiche di coppia. Lo scambio piace più alle donne perché è in parte legato al processo di emancipazione femminile – dice Quattrini – Solo un decennio fa nelle ‘coppie vecchio stampo’ la donna non poteva dare sfogo alle proprie fantasie sessuali; oggi, invece, fa proposte diverse, ha un ruolo autonomo, si sente più libera di gestire la propria sessualità e vede (anche) nello scambio la propria libertà di espressione sessuale”. Il sesso, oggi, non è più qualcosa di intimo, relegato all’ambito della coppia ma è uscito al di fuori dei rapporti a due; ne parliamo tanto e siamo sottoposti continuamente a messaggi sessuali più o meno espliciti. “È un grande marketing al quale siamo tutti sottoposti: questo ci ha portato ad alzare la soglia dell’eccitazione, gli stimoli di una volta non fanno più effetto – spiega la psicologa Maria Beatrice Toro – C’è un bisogno di provare continuamente il nuovo che viene ricercato al di fuori della coppia”.

Insomma, se un tempo, una persona avesse proposto al partner uno scambio di coppia, probabilmente si sarebbe sentito un pervertito, oggi, invece rientra, o quasi, nella normalità.

“Grosso dello share nei paesi: il piccolo schermo è vivo”

“I dati sulla fuga dalla prima serata e dalla tv generalista non mi spaventano. Un calo è normale: c’è internet, ci sono i canali tematici. Ma la tv non è morta. Anzi!”. Irene Ghergo è una delle autrici televisive più importanti. Il lungo sodalizio professionale con Gianni Boncompagni, da Pronto Raffaella a Domenica in a Non è la Rai, ha fatto la storia della tv italiana. E adesso è impegnata in due programmi: il Grande Fratello Vip e La Repubblica delle donne.

Gli italiani amano ancora la tv?

Assolutamente sì. Noi ci rapportiamo sempre alle grandi città, ma pensiamo all’Italia di provincia, ai piccoli paesi, dove c’è poco o nulla da fare. La gente la tv la guarda eccome! È lì che si fanno i grandi numeri. E poi io ho una regola: diffido sempre di chi dice “io non guardo la tv”.

Ascolti a parte, come giudica lo stato di salute della tv per la qualità?

Programmi belli e brutti ci sono sempre stati. Non è che prima era meglio e adesso peggio. Io da sempre sostengo che la tv deve far ridere o far piangere, tutto quello che sta in mezzo annoia. La tv che funziona è quella piena di vita, emozioni, calore umano. Poca scrittura e molti sentimenti. Del resto basta vedere gli ascolti di Maria De Filippi: una vera eroina.

Lei cosa guarda in televisione?

Sono una telespettatrice scostante, disordinata, notturna. Mi cattura tutto ciò che trasmette emozioni. Maria, naturalmente, ma anche Alberto Angela: ogni volta che incappo in un suo programma, ci resto. E poi la grande fiction italiana di qualità, come L’amica geniale di Saverio Costanzo.

I canali e le piattaforme tematiche, come Netflix, segneranno la fine della tv generalista?

Non credo proprio. Io capisco la rivoluzione di questi canali, lo sport in diretta, l’importanza artistica delle serie tv. Ma dentro Netflix non sono ancora cascata. Se ho del tempo libero, preferisco sfogliare un libro o un giornale. So che, se mi mettessi a guardare una serie tv, mi catturerebbe, ma ancora non voglio farmi catturare.

Torniamo a parlare di qualità.

A me piace l’alto e il basso. Rispetto al passato, però, c’è poca voglia di sperimentare. Prima, per giudicare un programma ci volevano 9 mesi, come fare un figlio. Oggi, se dopo 3 puntate vai male, già ti spostano o ti chiudono. L’auditel è terribile. Per questo capisco la scelta di Fiorello di andare su RaiPlay: fai quello che ti pare senza l’incubo degli ascolti. Ricordo che Boncompagni ideò un programma dal titolo Basso ascolto: voleva liberarsi da quella gabbia, ma poi non si fece mai.

Viene in mente Martin Scorsese che, dopo aver finito la sua ultima pellicola visibile solo su Netflix, The Irishman, ha dichiarato di non essere mai stato così libero nel girare un film…

E ti credo! Tutti noi vorremmo lavorare senza l’incubo dello share, ma non è possibile. Per chi fa tv, aspettare i dati il mattino dopo è crudele. Però io spero che le persone non smettano mai di andare al cinema, che non si chiudano dentro casa a vedere i film. Così come spero che Amazon non faccia sparire i negozi. Altrimenti che vita sarebbe…?

I giovanissimi, però, la tv la guardano sempre meno.

Ma quando un programma fa il 25 o il 30%, lì dentro ci sono anche i ragazzi. Magari quel tal programma lo guardano sul telefono o sul tablet, ma lo guardano.

L’informazione tira ancora?

Le persone vogliono sempre essere informate e la tv è il primo strumento per farlo. Rete 4, per esempio, è riuscita a fare un miracolo passando da canale delle telenovelas a rete d’informazione. Le pare poco?

Che ne pensa del fatto che le case di produzione, in Rai, Mediaset ecc, la facciano da padrone? Ormai si appalta tutto all’esterno…

Per certi versi è meglio, perché rende tutto più facile. Le case di produzione non hanno le lungaggini burocratiche o politiche della Rai, si va subito al sodo, al prodotto. La produzione è importante, più degli autori, perché ti permette di realizzare le idee. Una buona idea senza un produttore non vale nulla. Se io fossi una giovane aspirante autrice tv, è alla porta delle case di produzione che busserei.

La fuga dei giovani. Così cambia la tv

Autori e dirigenti televisivi da tempo si interrogano con aria cogitabonda su cosa offrire ai giovani e pure ai giovani fuori corso dalla gioventù, su cosa inserire nei palinsesti, scusate il termine arcaico, su cosa testare di notte come ordigni nucleari e poi lentamente portare alla dignità sacrale della sera. Un sacco di fatica sprecata. I giovani appena iscritti alla gioventù o di vecchia iscrizione non guardano la televisione per come la televisione italiana la intende, prevedibile, strutturata, arrogante perché illusa di poter imporre orari, gusti e modi di fruizione.

La mappa della slavina: addio canali in chiaro

Le statistiche Auditel per il periodo con più alta utenza (autunno–inverno), rielaborate dallo Studio Frasi, certificano una diaspora dai canali classici – quelli che sul telecomando vanno da Rai1 alle emittenti locali regionali o a pagamento di Sky – verso un altrove inafferrabile di piattaforme straniere, video di pochi minuti o addirittura di pochi secondi: oltre 2,8 milioni di italiani, dai 15 ai 44 anni, hanno smesso di accendere il televisore in prima serata e chi lo accende, badate, lo fa per 29 minuti sui 120 totali e non s’assopisce davanti ai talk show che spiegano il mondo ai giovani, ma preferisce le partite di calcio in diretta e, se adolescente o ventenne, il reality Il Collegio, un prodotto di Maria De Filippi o l’eterna Striscia la notizia. Per anticipare l’obiezione: sì, l’Italia è invecchiata, gli anziani adorano la televisione e i giovani che restano sono condannati a diventare anziani. I giovani di oggi, però, sono disabituati a un rapporto superficiale, di semplice intrattenimento, con le trasmissioni e, per non scadere nella sociologia che tracima dallo schermo, non hanno motivo di cambiare approccio. Per una semplice ragione: in passato lo spettatore subiva l’imposizione autoritaria della televisione, capace di ordinare il varietà il sabato e l’informazione il martedì, adesso è lo spettatore che comanda e, di conseguenza, sceglie.

Libertà di fruizione: il potere del telecomando

Il palinsesto non ha senso con i programmi impilati dall’alba a Gigi Marzullo con intermezzi di telegiornali, se non per il pubblico – l’Auditel ha introdotto una categoria per loro – di chi ha più di 80 anni e trascorre in media 440 minuti al giorno con la campagnia di un televisore contro i 100 minuti di un adolescente. Il 65 per cento degli italiani con più di 80 anni è sintonizzato in prima serata, ma soltanto il 18 per cento degli adolescenti (-10 punti percentuali sul 2010/11), il 20 per cento dei ventenni (-4), il 26 per cento di chi ha un’età compresa fra i 25 e i 34 anni (-7) e il 32 per cento degli adulti fra 34 e 44 anni (-10).

E dai pensionati in poi le oscillazioni sono minime. Allora si può desumere che la televisione generalista e a pagamento, ben piegata nei palinsesti, sia in salute con la ricarica ricostituente degli anziani: no, sbagliato, perché la popolazione televisiva – rispetto ai residenti che sono aumentati anche se da un po’ sono in fase di contrazione – è diminuita abbastanza nella media di giornata (-426.000) e molto in prima serata (-3,1 milioni).

La diaspora catodica: via dalle reti generaliste

In questa stagione 19/20, al momento, in media 6 italiani su 10 non hanno toccato il telecomando durante la prima serata, o almeno non l’hanno toccato per rimbalzare tra i canali tradizionali, preferiscono serie tv a basso costo e di ottima qualità che non prevedono abbonamenti oppure piluccano frammenti di informazioni dai filmati che scorrono dai social network o, per carità, s’affacciano sul terreno presidiato dai nonni se Rai1 ha la nazionale di calcio, Canale5 dà in chiaro una gara di Champions League o Sky ha l’esclusiva di Formula1 e Motogp.

Ciascuna azienda televisiva ha punti di forza che interessano milioni di spettatori, ma tutte hanno un problema: sono costrette a diluire i punti di forza in palinsesti imbottiti a volte con sciatteria per la paura di lasciare vuoti in onda e così si disperdono risorse, non soltanto economiche. È inutile parlare di giovani. I giovani non possono ascoltare. Non ci sono.