Il volo, la tragedia, l’oblio: un figlio lotta per la verità

La tragedia dell’aereo “Santa Susanna”, che sarebbe stato poi ribattezzato dai giornali il “Lindbergh della Democrazia Cristiana”, si consumò alla fine del settembre 1949. Succedeva qualche mese dopo un altro disastro dei cieli: quello di Superga, in cui era morta l’intera squadra del Grande Torino. I quotidiani del giorno 29 settembre, da La Stampa a Gazzetta Sera, scrissero che secondo uno scienziato, il professore portoghese Varela Cid, i piloti piemontesi del “Santa Susannna”, Giovanni “John” Brondello e Camillo Barioglio, “sarebbero vivi”. Si erano perse le loro tracce oltre una settimana prima. Dopo avere radiografato il messaggio “hello America”, raccolto da un guardacoste federale degli Stati Uniti, i due aviatori e il loro monoplano Beechcraft 35 Bonanza, chiamato “Santa Susanna” dal nome della figlia di Brondello, scomparvero. Di loro non si seppe più niente.

La trasvolata atlantica senza scalo, da Lisbona a New York, era stata intrapresa a scopo benefico per finanziare l’istituzione torinese della “Città dei Ragazzi”, fondata dal sacerdote don Giovanni Battista Arbinolo, destinata a ospitare bambini, orfani di guerra e mutilati. Alla guida del comitato d’onore che presiedeva alla raccolta dei fondi, a Torino, si era insediato un gruppo tutto democristiano. Pezzi grossi, pezzi da novanta dello Scudo Crociato: da Giuseppe Pella al giovane Giulio Andreotti; da Guido Gonella ad Attilio Piccioni e a Mario Scelba, il ministro che non esitava a fare sparare dalla polizia sui cortei operai. Non mancavano cognomi importanti degli ambienti italiani di New York, come quello di Generoso Pope, discusso direttore del giornale Il Progresso Italo–Americano. In veste di madrina era stata scelta l’attrice Mirna Loy, che, su invito a quanto sembra di Andreotti, incise persino un disco a sostegno della missione. Sono trascorsi oltre settant’anni dalla scomparsa, a circa 230 miglia da New York, del velivolo pilotato da Brondello e Barioglio, eppure i misteri connessi a quel dramma sono rimasti irrisolti.

Dario Brondello, uno dei due figli di “John”, che all’epoca era un bimbo, ha cercato e cerca ancora un frammento di quella verità lacerata, intanto, tra le nuvole plumbee che incombevano sull’Atlantico, tra le Azzorre e gli Stati Uniti, nel settembre del 1949. “La raccolta di fondi a scopo di beneficenza ebbe un grande successo”, dice Dario, “e credo che superò di molto i 2–3 milioni di dollari previsti. Penso che la tragedia abbia contribuito a farla lievitare. I piloti avrebbero dovuto avere il 15 per cento del ricavato; c’era un contratto, che però non è mai saltato fuori, e la mia famiglia non ha mai visto un dollaro. Ritengo invece che una parte di quel denaro sia finita ad alimentare le campagne elettorali della Democrazia Cristiana, tanto che qualche giornale scrisse che il Santa Susanna era il ‘Lindbergh della Dc’”.

Il raid, racconta Dario Brondello, era nato a Biella, la città in cui alcuni imprenditori avevano promosso il volo. “John” Brondello e il suo secondo partirono dallo scalo di Torino Aeritalia, proseguendo per Lisbona e per le Azzorre. Dopo avere superato l’arcipelago dei vecchi balenieri nel cuore dell’Atlantico, un guasto a un serbatoio costrinse alla retromarcia Barioglio e Brondello, nato nel 1913, saluzzese, ingegnere civile, un vero “fegataccio”, già combattente nelle squadriglie della Cina contro i giapponesi e della Finlandia contro i russi, e controfigura di divi dell’epoca come Amedeo Nazzari e Massimo Girotti.

I due piloti ritornarono pertanto indietro, facendo rotta su Terceira, la maggiore delle isole Azzorre, dove atterrarono. A causa delle forti pressioni esercitate dal comitato di Torino, comunque, Barioglio e Brondello vennero indotti a ripartire subito dalle Azzorre per New York, sebbene avessero cercato di rimandare l’impresa alla primavera. Si approssimava la brutta stagione, oltretutto, che avrebbe reso il tragitto assai pericoloso. La traversata, tuttavia, si doveva fare a ogni costo. E si fece.

Sul tramontare di quel settembre del 1949, interrotte ormai le ricerche dei dispersi del “Santa Susanna”, La Stampa riaccese di colpo le illusioni dei familiari, degli amici, dei bambini della Città dei Ragazzi e degli esponenti politici interessati alla beneficenza e forse all’uso di una parte del denaro per fini di partito o di Stato. I giornali riportarono le dichiarazioni di Varela Cid, direttore del centro studi aeronautici dell’Istituto Tecnico Superiore di Lisbona. Aveva affermato che, “spariti il 17 tra le Azzorre e la costa degli Stati Uniti, Brondello e Barioglio in data 27 settembre dovrebbero trovarsi alla deriva, sul loro canotto pneumatico, nella posizione di 40 gradi e 15 primi di latitudine nord e di 58 gradi e 20 primi di longitudine ovest del meridiano di Greenwich”. È possibile che Varela Cid avesse ragione, ma le sue parole non ebbero seguito. Sui giornali le polemiche si esaurirono presto, nonostante le accuse lanciate alla Dc dai fogli della sinistra, da L’Unità a L’Avanti!. La verità sul volo del “Santa Susanna” non è venuta a galla, così come non sono state spiegate le cause tecniche della sciagura. In realtà, nessuno ha davvero mai voluto risolvere i tanti enigmi della storia della trasvolata del Beechcraft Bonanza. Con un’unica eccezione: quella rappresentata da Dario Brondello, il figlio di “John”. Lui e la sorella Susanna, adesso, chiedono davvero molto poco: “Vorremmo potere creare una fondazione dedicata alla memoria di nostro padre e, magari, ricostruire l’aereo: il Gruppo Amici dei Velivoli Antichi assicura che si può fare”.

“L’Emilia è bianca dentro. Sardine saranno decisive”

“Dalla frenesia al nulla. Quando la vita si svuota d’un colpo, non sai più dove tenere i piedi e soprattutto cosa chiedere alla tua testa, che ancora funziona”.

Sergio Cofferati oggi è pensionato e vive a Genova. Ha chiuso con la politica poco dopo aver concluso il mandato a Strasburgo, da europarlamentare.

Quel che non capisco è perché a Strasburgo l’Italia si sia fatta rappresentare, specialmente nel passato, dagli over, rispettabili signori della terza età insieme a una flottiglia di attori e cantanti. Certo, so che il sistema elettorale premia i nomi conosciuti, e quelli più popolari hanno sempre l’anagrafe contro. Però il Parlamento europeo dovrebbe essere frequentato da giovanotti e giovanotte. Gente che ha il fisico e la testa e so di aver sbagliato a non accettare la candidatura che mi offrì Piero Fassino appena terminai l’avventura in Cgil. Dovevo dire sì allora e non far passare altro tempo.

Lei è stato tra i più potenti leader sindacali italiani. Ha trascinato il Paese in piazza, e ha contato dieci volte più dei colleghi di oggi.

Cinquant’anni di lavoro, la pensione me la sono meritata.

Non si è fatto mancare niente.

Vero, neanche qualche guaio fisico. Ma ora il cuore ha ripreso a funzionare.

Ha fatto due figli, e li ha procreati in modo che l’uno assomigliasse al papà più dell’altro.

Ho vissuto 4 vite, in 4 città. Ho svolto 4 lavori e da giovane ho avuto Simone, oggi 47 anni, e da anziano Edoardo, che fa la seconda media. Io sono del 1948.

Simone, un cervello in fuga.

Bocconiano, sei lingue, vive a Monaco di Baviera e lavora alla consociata tedesca dell’Unicredit. Aveva voglia di fare l’archeologo, e si è fatto passare lo sfizio con una seconda laurea in archeologia.

Lei si fece passare lo sfizio facendo il sindaco di Bologna.

Ci riprendemmo il comune dopo il colpo di Guazzaloca.

Ecco, la chiamarono per rispondere all’affronto dell’Emilia rossa per la prima volta espugnata.

Eppure non posso dire che Guazzaloca avesse governato male. Certo, non rimettemmo in pista alcune sue idee, come la metropolitana che per una città così piccina perdeva di senso. Ma, in sincerità, non posso dire che avesse fatto guai.

E se l’Emilia fosse rossa solo fuori, ma bianca dentro?

È votata a coniugare gli interessi contrapposti, a negoziarli sempre. È una regione riformista ante litteram.

Altro che comunismo!

Non ricordo nella segreteria nazionale del Pci la presenza di emiliani o romagnoli, tranne in un caso. Erano visti troppo a destra.

E perchè non dovrebbe essere legittimo che dopo 50 anni il partito egemone passi la mano?

Perchè Salvini non è Guazzaloca, perchè non c’è visione alternativa della società ma solo voglia di rendere la pariglia. Un assetto muscolare e nient’altro.

E se fosse la Lega il nuovo Pci? Quello che raccoglie il popolo, lo inquadra, lo infila nelle piazze?

Non c’è dubbio che Salvini abbia un popolo. Dubito che quel popolo sia connesso in una rete, stia insieme condividendo i valori. Sono tanti singoli che fanno gruppo. Ma ciascuno con una individualità, una speranza, un’idea di società distante dall’altro. Li accomuna l’avversione, la contrarietà, a volte l’odio. Ma di positivo, di strategico, cosa c’è. Dov’è il loro orizzonte?

Chi vince?

Se gli emiliani vanno a votare, vince Stefano Bonaccini. Ricordiamoci che la volta scorsa arrivò ai seggi il 37% degli aventi diritto. Quello fu l’annuncio che si stava preparando qualcosa di grosso.

Teme di perdere?

È possibile, la partita è aperta anche se sono entrati nuovi giocatori in campo.

Le sardine.

Le sardine sono figlie di quelli che l’altra volta disertarono le urne. Certo che è un bel ristoro per il centrosinistra. Sono tante sardine, tante e tante. E anche se nuotano con il mare grosso, beh la sensazione che qualcosa di nuovo si stia realizzando non è una suggestione.

Ma la destra è egemone culturalmente. La Lega domina il dibattito pubblico.

Non posso contestare questa realtà. Noi facciamo fatica a far emergere i nostri valori, anche a sentirci uniti.

Berlusconi è durato vent’anni. Salvini farà il bis?

La Lega ha una struttura e un radicamento che inducono a fare immaginare questo esito.

Ricorda quando Berlusconi era la stella? Ovunque andasse, chiunque candidasse, vinceva.

Esattamente così anche adesso. Non conta il nome ma il leader, non è un voto di testa ma di pancia.

Gli italiani sono reduci da una abbuffata di M5S.

Quel movimento è declinato perché il successo è stato così travolgente da togliere il tempo per dare forma e sostanza alle loro idee. Tutto un fuoco che arde, arde così tanto da bruciare tutta la legna.

Ma questo elettorato ballerino non è figlio di una società fragile, esposta a ogni vento?

C’è una debolezza visibile, plateale.

Società debole e anche arretrata. Forse abbiamo di noi stessi una considerazione troppo elevata. Le ricordo che l’Italia è il Paese dove è obbligatorio per un’azienda che voglia concorrere a un appalto pubblico presentare il certificato antimafia.

Dice bene e la ramificazione al Nord della criminalità organizzata ormai è così consolidata da essere essa stessa parte del tessuto sociale.

Trovare governanti illuminati in una società così opaca sembra un controsenso.

Se c’è il vento giusto quella che a lei pare la quota minoritaria della società trova la forza per raggiungere il potere e il cervello per amministrarlo con coscienza. Nella regressione dei diritti, quelli sociali per via della crisi economica e anche quelli civili (legga la ferocia con cui si è affrontato il dramma degli immigrati in mare) la forza motrice è conquistata dalla quota della società meno impegnata, meno pronta, più egoista.

Le viene voglia di tornare in campo?

Assolutamente no. Mi godo il figlio e ora ho il tempo per raccontare quel che ho fatto e visto. Cinquant’anni di corse, di impegni, di lotte. Ne ho viste tante, sa?

Sardine, buona l’ultima: 40mila in piazza per avere un futuro

“Sardine di tutto il mondo, unitevi!”. Una a una ieri hanno riempito il mare. A Bologna il moto ondoso aumenta in vista della sfida finale. Il voto dirà se questo sarà l’ultimo appuntamento di un movimento nato per caso o il primo di un partito partorito dalla disperazione. “In ogni caso è straordinario e meraviglioso ciò che è successo. Già questo basta e mi ha fatto pensare che il mio posto oggi doveva essere qui”, dice Pif, il regista.

Le sardine sono figlie di quelli che non hanno votato la volta scorsa, della maggioranza degli emiliani che cinque anni fa stette a casa, abulica, sfiduciata, indifferente al corso naturale delle cose: chi mai, se non il Pd, avrebbe potuto vincere?

Ecco, oggi non è più così. “C’è una fifa blu in giro, la Lega monta senza un’idea, è una valanga che gode di una forza inerziale: l’emulazione, la voglia cieca e ignorante di un cambiamento”, dice Giuseppe, tecnico comunale.

La piazza VIII agosto è colma di ragazzini e di vecchietti, riempita di sardine di ogni risma: di carta, di plastica, di ceramica. È festosa, giovanile, paziente. “È una forza solare, direi”, spiega Fabrizio Barca, l’unica personalità politica invitata al palco.

La prova di forza riesce in questo 1 maggio bolognese, nel tono della sfida però svela la grande preoccupazione: è in atto una guerra di resistenza. “Resistere, resistere, resistere”, c’è scritto su un lenzuolo bianco. Ed è la prova che i rapporti sembrano già ribaltati, l’egemonia prima culturale e ora anche politica alternativa, il richiamo vincente al sovranismo, al cambio totale purchessia della dimensione dello Stato, che deve vigilare, nel caso bastonare soprattutto.

Barca utilmente spiega che l’Emilia Romagna è la regione che nel quinquennio ha ottenuto la migliore performance nel processo di riduzione delle diseguaglianze. Applausi, ma basteranno?

Qui, questi figli di chi ha perso la fiducia, basteranno a resistere? Ce la faranno a confermare Bonaccini che chiede nei suoi manifesti un’Emilia coraggiosa?

“Quel che è certo è che senza le sardine eravamo già morti, piegati, consunti”, dice Giovanni da Casteldebole. Quaranta anni, carpentiere, una tessera della Cgil: “C’era disaffezione e abulia. Loro ci hanno messo il pepe, e ci hanno detto che possiamo farcela. A me è piaciuta questa cosa”.

Non c’è una bandiera di partito, non una bandiera rossa, nulla a parte i corpi, i tanti pesciolini che hanno deciso di nuotare in mare aperto: “Abbiamo fatto tutto questo senza spendere un euro, con la forza della parola, con l’idea che si possa stare insieme e fare di più, impegnarsi perchè almeno le basi del confronto civile siano svuotate dall’odio che abbiamo ascoltato”.

Mattia Santori è il capo delegazione, i suoi riccioli sono assai televisivi e come ogni cosa che capiti di nuova e di inaspettata, per lui già sono aperte le porte del Paradiso: Zingaretti lo vuole incontrare, le poltrone di Montecitorio sono lì che aspettano.

Domenica prossima le sardine capiranno se avranno fatto ingozzare qualche squalo oppure saranno sfuggite all’orco dei mari.

È un movimento questo, oppure uno stato di ansia collettiva, un fremito che scuote ma poi passa, una voglia di starci ma anche no, di tornare a casa quando la festa sarà finita?

Qui sei ore di musica, mentre Salvini galoppa tra paesi e periferie a portare in dono il suo nuovo proclama: “Processatemi, il popolo italiano sarà con me”.

Non c’è Emilia nelle sue parole e non c’è ragione pratica, evidenza pubblica che possa rendere giustificato l’attacco e possibile la vittoria. “In Umbria il Pd aveva fatto schifo, qui no”, dice Silvia che viene da Narni ma vive a Bologna.

Bella ciao, la canzone della resistenza, che i Modena City cantano, chiude a cerchio la piazza quadrata, la grande spianata dove in quarantamila sono accorsi, un fiume che entra ed esce, e si affida a questi ragazzi, i nuovi arrivati.

La sinistra emiliana cos’è infatti? Dov’è un volto che la faccia rintracciare? Ecco, se proprio dovessimo cercarlo dovremmo andare a Pavana, in casa di Francesco Guccini. È lui, il grande cantautore, il pensatore, il narratore di una società solidale e aperta. Da Guccini si sono fatti ritrarre Mattia e i suoi compagni. Nonno e nipoti.

Non esiste il mondo di mezzo, l’elite progressista, il ceto imprenditoriale, quello universitario. Scomparso dal radar dell’influenza, del dibattito pubblico, annientato dal sommovimento che il leghismo, nuovo partito del popolo, porta nelle coscienze. Cambiare il vecchio abito con uno nuovo., Chiudere a chiave i pensieri, sorvegliare le periferie, cancellare gli immigrati e tutti coloro che danno fastidio, e qui la diversità si fa problema.

Perciò le sardine sono un miracolo, perché nascono dal nulla e in due mesi portano Bologna a sperare. La fanno cantare (anchje i Marlene Kuntz e tanti altri gruppi), la fanno ridere (Il terzo segreto di satira) e dibattere: la mafia che c’è anche qui.

La fifa resta, ma si canta e si balla, per adesso.

Salvini, ennesima capriola a uso urne: “Processatemi”

Il suo giocattolo prediletto rischia di rompersi. E così, a poche ora dalla riunione della Giunta per le autorizzazioni a procedere, convocata per decidere se mandarlo a processo per la gestione dei migranti trattenuti a luglio a bordo della Nave Gregoretti, Matteo Salvini tenta di aggiustarlo come può. “Dirò ai miei parlamentari di dire sì al processo e la chiariamo una volta per tutte. Portatemi in Tribunale e sarà un processo contro il popolo italiano: ci portino tutti in Tribunale”.

L’ex ministro insomma cambia di nuovo idea, ma non strategia comunicativa: massimizzare il risultato in vista delle regionali del 26 gennaio a cui vuole arrivare con le stigmate del martire. E dopo aver presentato una memoria in cui ha giurato di aver agito nell’interesse pubblico e dunque aver difeso il proprio operato, ora lascia intendere di sperare che venga dato semaforo verde ai giudici di Catania. E che venga bocciata la relazione di Maurizio Gasparri di Forza Italia che invece vorrebbe concedergli l’impunità come, fino a poche ore fa, ha chiesto per Salvini l’intero centrodestra, come un sol uomo, prima della battaglia all’ultimo sangue combattuta contro la maggioranza che chiedeva di calendarizzare il voto su Salvini dopo le amministrative. E vinta solo grazie al voto decisivo della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, accusata di parzialità da Pd M5S, LeU e Italia Viva che per protesta pensano di disertare la Giunta convocata oggi. Dove ora i 5 senatori della Lega, obbedendo al diktat di Salvini, dovranno agevolare l’ok al processo che il Capo dice di volere. Questo sempre che si presentino alla seduta di questo pomeriggio che la maggioranza pensa di disertare e dove saranno allora determinanti i voti di Fratelli d’Italia e Forza Italia (in tutto altri 5 senatori) intenzionati a confermare lo scudo a Salvini. Il quale, in caso venisse salvato, potrà sempre dire di essersi opposto all’impunità: comunque vada, sarà un successo. Anche se lo spettacolo è quello che è.

“È veramente un pagliaccio. L’idea di lasciare soltanto il centrodestra a votare in giunta e rinviando all’aula il nostro voto, ha smontato i suoi piani. Dunque chiede ai suoi di votare per mandarlo a processo. Un vero giullare” sbotta il capo dei senatori di Italia Viva Davide Faraone. “Salvini è in evidente difficoltà. Il suo atteggiamento a dir poco contraddittorio svela l’unica volontà del leader leghista: quella di rimanere al centro dell’attenzione mediatica” dice il capogruppo dei 5 Stelle, sempre al Senato, Gianluca Perilli.

Salvini non è nuovo alle giravolte: anche sulla richiesta di autorizzazione a procedere per i migranti della Nave Diciotti, giusto un anno fa, aveva giurato di non temere il processo che diceva di voler affrontare senza paura. Salvo poi, nel timore che i suoi alleati 5 Stelle di allora lo accontentassero, scrivere al Corriere della Sera per far sapere che il processo non andava fatto: dal “processatemi subito” al “guai se mi processano”.

Insomma, per lui l’autorizzazione a procedere al Senato è come la Nutella su Facebook. In nome della difesa della Patria può chiedere di boicottare la famosa crema spalmabile per via delle nocciole turche, salvo poi, alle brutte, ingranare la retromarcia: “La mangio ancora per addolcirmi la giornata”.

Ma al Senato le gioravolte possono costare caro: evocando la sfiducia al governo, ad agosto, Salvini aveva innescato lo showdown del Conte I. Aveva provato a ricucire ma ormai la frittata era fatta. E il gioco (per la Lega) è finito malissimo.

Il verdetto dei pellegrini craxiani cancella Tangentopoli e la Storia

Vent’anni dopo la morte di Craxi nessuno vuole tardare all’incontro con se stesso. Per darsi ragione, soprattutto chi fu codardo. Bettino Craxi è un alibi di gruppo che la polvere di Hammamet inghiotte fra stravaganze, retorica e crassa ipocrisia. Più che deporre il righello della cronaca per adoperare il metro della storia, come dice un socialista di superba intelligenza, qui in Tunisia le celebrazioni per Craxi hanno sequestrato la cronaca per ricattare la storia. Improbabili eredi di Craxi in Forza Italia o Italia Viva, che neppure sanno che posto occupare in aula se più al centro o più a destra, strattonano Bettino non affascinati dal riformismo di sinistra, che all’epoca dei “blocchi egemoni” si ritagliò uno spazio vincente, ma perché convinti che la perdita di memoria collettiva abbia cancellato la latitanza tunisina e le condanne giudiziarie, rivisitato le sentenze. La famiglia ha tentato di non reiterare il solito duello su Tangentopoli, per esempio con le fotografie appese alle pareti di calce alla Medina per riaffermare il profilo internazionale di Craxi. Ma poi ci si è accorti che il tema più forte è Tangentopoli e lì si è rimasti incagliati.

Il vento di Hammamet è un imprevisto che agita la serata di sabato, la comitiva si raduna in un salone stracolmo per la proiezione di un documentario di Soul Movie che va in onda su Sky. La più alta espressione della trasgressione socialista consiste nel fumare dov’è vietato, l’ex viceministro Riccardo Nencini fa un tiro di sigaretta e ascolta il compagno che gli mostra l’arte della pipa. I cacicchi socialisti di un tempo, che la fondazione di Stefania Craxi ha trasportato in Tunisia con l’ausilio di una solerte agenzia di viaggi (e un po’ si sentono in gita), incorporano il misticismo craxiano con i garofani che restano assai rossi e le ciabattine assai bianche per un turno di bagni negli albergoni di riviera con i datteri in omaggio. Dove i più disinibiti camminano in accappatoio e pattine.

Claudio Martelli si colloca in prima fila, ovunque, per raschiare le esitazioni durante l’epilogo di Bettino; un segaligno Ugo Intini, di poco più anziano e con la chioma più scura, ha spesso le mani giunte in una sorta di preghiera rievocativa che affronta con gli occhi socchiusi; il leghista Armando Siri teorizza il sovranismo craxiano nel partito che agitò il cappio e più che il cileno Allende abbraccia la francese Le Pen; il sindaco dem di Bergamo, Giorgio Gori cerca ispirazione per il manifesto della scalata al Nazareno di Nicola Zingaretti, contestato da Stefania perché assente insieme col governo.

I giornalisti quasi si scusano per i giudici di Tangentopoli. I più eccentrici vanno in chiesa con la felpa, il cappuccio e la scritta “craxiano”, che presto Matteo Salvini dovrà indossare. Un collaboratore di Stefania fa un resoconto al pubblico dei messaggi pervenuti in Fondazione e fa sorridere, con il dovuto rispetto, l’entusiasmo per la nota firmata dall’ambasciatore romeno in Italia. Alla parola Arcore, residenza di Silvio, l’autore degli auguri a Stefania, la platea si scalda. Un attimo dopo si parla di Craxi che andò a contendere elettori ai comunisti a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia. Sigonella viene raccontata come un annuncio di guerra agli Stati Uniti. Augusto Minzolini assiste compiaciuto vicino all’impianto dei fonici. Osservatori eruditi si cimentano in trattati di umana pietà – che deprimono l’arguzia e la ferocia politica che furono la cifra di Craxi – con menzioni casuali, come quelli che per compiacersi in un rigo citano l’americano Carver e l’altro il russo Dostoevskij.

Amici socialisti propongono di sballarsi con il narghilé dopo il documentario che s’intitola, non si è precisato, Il caso Craxi. Non serve, la confusione già è troppa e la situazione precipita. Nel documentario il sindaco-cognato Paolo Pillitteri ha il compito di dipingere il Bettino bambino. Al fu comunista Massimo D’Alema tocca l’impresa di persuadere i socialisti che da presidente del Consiglio non ebbe responsabilità nel mancato rientro in Italia di Craxi per l’operazione a Milano. Viene ricoperto di insulti. E neanche gli concedono un surrogato di simpatia quando propone un impasto tra le campagne mediatiche contro Craxi e la forza anti-sistema dei socialisti che fu respinta dal sistema.

Vent’anni dopo nessuno vuole tardare all’incontro con se stesso, ma nessuno ha capito perché venire quaggiù e, se l’ha capito, se n’è dimenticato. Luigi Bisignani ha preso un aereo di pomeriggio per sbarcare puntuale per la messa: “Io sono andreottiano, democristiano”. Fu piduista e coimputato di Craxi nel processo Enimont, ha memoria di Tangentopoli e conosce chi frequenta Hammamet: “Questo è un esame di coscienza, per tanti posticipato di molto. Qualcuno deve farsi perdonare”. “Io c’ero con Craxi vivo, ci sono con Craxi morto”, scolpisce Umberto Del Basso De Caro, ex avvocato di Bettino ora sistemato nel Pd, che invece è salito sul volo del mattino.

D’un tratto Craxi fa tendenza perché Tangentopoli non fa vergogna e chi l’ha scampata può ritenersi fortunato e ormai intangibile. Allora il sentimento comune, che non va scambiato con l’inviolabile sofferenza della famiglia, è una rincorsa immotivata a Craxi di gente che non c’entra niente con Craxi e non ricava niente, proprio niente, dal suo bagaglio politico.

Un Craxi che viene adottato dai renziani in marcia verso le posizioni di Forza Italia. Chi ha creduto in Bettino fino all’ultimo, e forse oltre la logica, non c’era in Tunisia e se c’era ha preferito tacere. Venti o trent’anni anni non bastano per la storia, ma per la cronaca sono tanti. Lasciatela in pace.

Ma mi faccia il piacere

Via Craxi. “(Il sindaco di Hammamet, ndr) ha onorato il ricordo di Bettino a cui… la città ha intitolato una brutta strada, una bretella di scorrimento” (Francesco Merlo, Repubblica, 19.1). L’ideale era una tangenziale.

Valori bollati. “Craxi fa parte del nostro patrimonio di valori” (Andre Marcucci, capogruppo Pd al Senato, 20.1). Più che altro, aveva un notevole patrimonio e sarebbe ora che qualcuno lo restituisse.

Il gesto. “Credo che Mattarella farà un gesto” (Stefania Craxi, 19.1). Quello dell’ombrello, si spera.

Percentuali. “Craxi supera Di Maio perfino in popolarità. Su internet è positivo il 42% dei commenti su Bettino contro il 37% di quelli su Gigino” (Renato Farina, Libero, 18.1). Pretende il 5% pure da morto.

Disinteresse. “Posso testimoniare che poche altre volte nella vita ho avuto la fortuna di un’amicizia sincera e disinteressata come quella con Craxi” (Silvio Berlusconi, presidente FI, Tg2 Dossier, 12.1). E stavolta non deve neppure comprarsi il testimone.

Il dilettante. “Io ad Hammamet ci sarei pure andato: serve serenità di giudizio, lui interpretava la modernità. Come partito noi non ci siamo, storicamente all’epoca delle inchieste noi stavamo dall’altra parte, ma dopo vent’anni possiamo dire cosa ci fosse di buono, abbiamo il dovere morale e storico di farlo. Non c’è stato arricchimento personale” (Giancarlo Giorgetti, Lega, In mezz’ora, Rai3, 19.1). Il bottino sui conti in Svizzera nel 1993 era di appena 40 miliardi di lire. Mica 49 milioni di euro.

L’altruista. “Soldi ad antifascisti e anticomunisti. La sua internazionale. Il libro di Martini sulle missioni estere di Craxi” (Mattia Feltri, La Stampa, 16.1). Dunque, vediamo. I soldi agli antifascisti devono essere i 15 miliardi al partigiano Maurizio Raggio, inclusa la Porsche e l’“amica messicana” da 235mila dollari, per combattere in Centromerica, e gli 80 milioni di lire al comandante Bobo per lottare in una villa a Saint Tropez. Invece quelli agli anticomunisti sono senz’altro i 100 milioni al mese alla nota dissidente Anja Pieroni, più casa, albergo, servitù, autista e segretaria.

L’autogolpe. “Il libro dell’ex ministro Martelli. La grande coalizione degli affari che eliminò Craxi” (Corriere della sera, 15.1). Quindi si eliminò da solo.

Lo storico. “La massiccia presenza in Europa di immigrati provenienti da paesi musulmani, tra i quali ci sono molti fanatici che ricevono il pieno sostegno di alcuni intellettuali, sta diffondendo l’antisemitismo, anche in Italia” (Matteo Salvini, segretario Lega, 19.1). Infatti le leggi razziali le fece Mohammed Benith Al Mussolinh.

Riformismo renziano. “Io lavoro, non come voi che non fate un cazzo dalla mattina alla sera, pago le tasse e quindi anche il vostro stipendio… Leghisti di merda… Io sono intoccabile… Voi diete morti” (Gianfranco Librandi, deputato Italia Viva, alla Guardia di finanza entrata il 24 luglio scorso nella sua azienda per una verifica fiscale, l’Espresso, 19.1). Italia Viva, Finanza Morta.

Quello serio. “Non mi aspettavo che, mandando la lettera di dimissioni a Conte, le dimissioni venissero accettate… Una lettera di un ministro non vuol dire che le dimissioni debbano essere accettate. Per me era un modo per dire faccio sul serio, sono serio su questa cosa” (Lorenzo Fioramonti, ex ministro dell’Istruzione, ex M5S, In mezz’ora, Rai3, 12.9). Resta invece da capire qual è il suo modo di dire: sono un pagliaccio.

Senti chi parla/1. “Matteo Orfini bolla come drammatico errore un’alleanza con una forza che non è di sinistra come i 5Stelle. ‘Stiamo incubando i virus della subalternità’” (La Stampa, 15.1). Ha parlato quello che governava con Monti, con Berlusconi, con Alfano, con Verdini e soprattutto con Renzi.

Senti chi parla/2. “Possiamo dire che sulla sicurezza non c’è discontinuità o sono un idiota a dirlo?” (Orfini, ibidem). Ma allora vuoi proprio invitarci a nozze.

Lieti eventi. “Rinasce lo scudocrociato con Rotondi e Cesa a 26 anni dalla fine della Dc: ‘Chi chiameremo Partito del Popolo italiano’” (il Giornale, 19.1). che, si spera, li querelerà.

Il titolo della settimana/1. “La Rai dell’odio. ‘Donna di destra’. La Gregoraci fuori da Sanremo. La soubrette: ‘Io fatta fuori dal Dopofestival per motivi politici’” (il Giornale, apertura di prima pagina, 17.1). Uahahahahahah.

Il titolo della settimana/2. “Sono le sardine che ricordano le dittature” (Francesco Agnoli, La Verità, 16.1). Uahahahahahah.

“Troppi aiuti fiscali: Amazon non è nostro concorrente”

Giovedì sul “Fatto”, dopo l’ennesima chiusura di una libreria – Paravia, la seconda più antica d’Italia –, abbiamo ospitato le riflessioni di Romano Montroni e Giuseppe Laterza, seguite ieri da un commento di Giovanni Valentini: il dibattito prosegue con l’intervento di Stefano Sancio delle Librerie Cento Fiori e Del Conte.

Nel commentare i numerosi casi di chiusura di librerie, più o meno illustri, che in questi giorni vengono documentati dai giornali con una meritoria attenzione verso il destino della nostra attività, spesso si fa riferimento, come spiegazione di questa morìa, a una necessaria e inevitabile “selezione naturale” per la quale potranno sopravvivere solo quelle librerie capaci di reinventarsi come “centri di promozione culturale” e di offrire un servizio ulteriore alla semplice vendita dei libri. La scelta di chiudere sarebbe, appunto, una scelta di chi non sa, non vuole o non può affrontare le sfide poste dal nostro tempo. È possibile. E, almeno in parte, è vero; quanto legittimo che, come è sempre avvenuto, si possa decidere di terminare un’attività per stanchezza, difficoltà soggettive o incapacità di affrontare i cambiamenti.

La chiusura di oltre 2.300 punti vendita in pochi anni non può, tuttavia, non essere il segno di qualcosa che va oltre la contingenza e la fisiologia di un settore. Non può certo imputarsi alle sole libere scelte e a vicende personali. Credo, invece, che costituisca una vera “crisi industriale” e un disastro culturale, se con cultura intendiamo anche uno stile di vita, un tipo di socialità – possiamo dirlo? – più alta o, comunque, meno basica, la stessa socialità che si vive nei teatri, al cinema, in un museo, a scuola. Certo potrebbe sfiorarci e sedurci l’idea che si tratti di un processo che lascerà sul campo quanti sapranno fare meglio il proprio lavoro.

Io e i miei soci e collaboratori cerchiamo, ad esempio, di tenere vive tre librerie nel ponente ligure. Organizziamo ogni anno decine di incontri con gli autori, presentiamo libri, organizziamo conferenze e reading, ospitiamo piccoli spettacoli teatrali e anche mostre di fotografi e pittori. Qualche concerto di musica da camera. Dibattiti. Direi che è abbastanza. Lo facciamo per amore del nostro lavoro, perché una libreria non è esclusivamente vendita di un genere merceologico. E, certamente, ci aspettiamo un ritorno anche economico dal nostro darci da fare. Tutto ciò, però, certamente non si può fare a costo zero, mentre il ritorno economico dell’“investimento” è dubbio e incerto. Le spese vive di un qualsiasi evento gravano sulla libreria e si aggiungono ai normali costi: affitti, bollette, stipendi, tasse, imposte… Normali? Quanto “normali” in realtà? Il mercato digitale è un fatto, un fatto sempre più rilevante e con aspetti positivi difficilmente contestabili come la capillarità della distribuzione, la varietà dell’assortimento, la rapidità delle consegne. Ma, intanto, bisognerebbe approfondire le ragioni anche fiscali di questo travolgente successo. È cosa nota il regime “favorevole” riservato a questi grandi attori del mercato internazionale. E le società di noi, nani economici, non hanno sede in paradisi fiscali né godiamo degli stratosferici utili finanziari delle società dell’e-commerce. Senza provvedimenti di legge coraggiosi a favore di un equo confronto commerciale e fiscale, Amazon non si può considerare un nostro legittimo concorrente, uno che faccia il nostro mestiere meglio di noi. Così come senza una ristrutturazione della filiera del libro – che possa ovviare a certe storture nazionali, che vedono un’unica proprietà dei diversi gangli della produzione e distribuzione libraria – competere con Amazon resterà velleitario.

Mi permetto anche di dire: passeggiare per i centri storici come per le vie di un qualsiasi quartiere è bello e gratificante e, non siamo timidi e pudichi a dirlo, “formativo”, anche perché possiamo imbatterci in una libreria, indugiarvi quanto vogliamo, sfogliare un libro preso dagli scaffali aperti e scoprire un romanzo, un saggio o un autore che magari non sapevamo esistesse… Tutto questo diverrà l’innesco di un circolo virtuoso di letture e conoscenze. Ma innanzitutto le librerie devono poter vivere, devono poter vendere più libri, tanti libri. Se non si acquista in libreria, il pianto sulla morte della prossima libreria sarà inutile e ipocrita.

Amori, sbronze, risse e fughe: Ciampi, il Céline della canzone

Chissà che pensava, affacciato alla sua finestra di via Roma 1, di fronte a quella di Modigliani. Due fantasmi inquieti che un destino grullo aveva piazzato, in tempi diversi, nella stessa strada. Piero e Amedeo: le donne, Parigi, le beffe, il sogno di una fuga. Ma da Livorno è impossibile scappare, nonostante il porto che allude a chissà quale avventura.

Ciampi ci lavorava da ragazzo, tra i moli, pensando alla città martoriata dai seimila poveri cristi morti sotto le bombe della guerra. Nascondeva in qualche ripostiglio dell’anima la vergogna per una madre, Mira, malinconica ebrea del Montenegro, che lui raccontava fosse morta giovanissima e invece avrebbe poi consumato l’esistenza nel manicomio di Volterra. Mira: l’archetipo di tutte le sofferenze, la maledizione di un esilio che per Piero divenne volontario quando andò a cercarla in ogni seduzione, ragazze coi colli lunghi come quelle, irresistibili, dipinte da Amedeo. Si prese il cuore della figlia del comandante della caserma di Pesaro, dove sopportava la naja con Gian Piero Reverberi, che aveva introdotto il livornese squattrinato e pazzo alla corte dei menestrelli genovesi: De André, Paoli, Lauzi.

Cantò per incatenare a sé l’irlandese Moira (così l’aveva ribattezzata, come una musa greca fatale), che non potendone più della sua violenza si rifugiò in Inghilterra con il piccolo Stefano, negandogli per sempre la stabilità di una famiglia; ci provò ancora con Gabriella, che gli diede una bambina. Ma niente. Piero Ciampi era il rissoso, incontrollabile cantastorie che si ritrovava sempre solo con una bottiglia, stordito dal vino e da mille fallimenti. Il più grande di tutti: sperperava i soldi che gli anticipavano le case discografiche e spariva.

A metà dei 60 Paoli lo portò alla Rca, convincendo il gran capo Ennio Melis a dare fiducia a Piero con un assegno di due milioni e mezzo di lire. Appena usciti dall’ufficio Ciampi ghignò: “Gliel’abbiamo messa nel culo”, e si diede alla macchia, senza incidere nulla, all’inseguimento di Mira, Stefano e qualche sorso di troppo.

A Parigi si ritrovava a brindare nei bistrot con Céline, due maledetti viaggiatori al termine della notte, che per qualche motivo obliquo si scoprivano complici, lo scrittore che esortava lo chansonnier a provarci: in Francia lo chiamavano “Piero Litalianò”, senza apostrofo e con l’accento finale. Il “comunista anarchico livornese” garantiva talento ma nessuna applicazione: il suo alter-ego musicale, il maestro Gianni Marchetti, aveva il suo daffare a mettere armonie in quel caos dello spirito che Ciampi traduceva con inarrivabile lirismo e asciuttezza in testi disperati, manifestamente confessori, imploranti, strafottenti, dove chiedeva alla bella di turno di non lasciarlo mentre lui mandava a fare in culo il mondo intero, ben conscio di comportarsi male, come quando mollava il palco dopo cinque minuti insolentendo il pubblico. Lo faceva pure con gli amici: si azzuffava con Califano nei night per un giro non pagato; bisticciava con Carmelo Bene per gli scacchi, esortava Tenco a non partecipare a quel Sanremo ’67 che si sarebbe rivelato mortale. “Ha tutte le carte in regola per essere un artista”, cantava di sé bestemmiando sulla propria dignità, ritrovandosi dentro un fosso all’alba a celebrare il vino. Chiuse gli occhi a Roma quarant’anni fa, il 19 gennaio 1980. Cancro all’esofago. Lo assisteva il medico Mimmo Locasciulli, che incise una versione rispettosa di Tu no, uno dei capolavori ciampiani: “Tu no, tu no, tu no/ I milioni di rinunce/ che ti ho fatto sopportare/ le ho pagate care”.

La mamma ha preso l’aereo e Anastasi è diventato grande

“La signora, lei sì che mi ha cambiato la vita”. La signora, scritta in minuscolo, non la Signora, la Juventus. Per farlo arrivare in Serie A, Pietro Anastasi, detto “Petru lu turcu” o “Pietruzzu”, dall’aspetto non proprio ariano, il destino utilizzò un sentiero curioso. E una signora, appunto.

Aprile 1966, al Cibali si gioca Catania-Varese, gara inutile essendo entrambe già quasi retrocesse in Serie B (ci finiranno), 3-0 per i siciliani (doppietta di Facchin e Magi). Alle 21 c’è il volo di ritorno, Catania-Milano, stracolmo. All’imbarco, un’emergenza: una donna incinta deve salire su quell’aereo, l’aspetta a Milano una visita urgente. Il direttore sportivo del Varese, Alfredo Casati, le cede il posto e prenota il volo del giorno successivo, stesso orario. Tornato in albergo, il barista lo accoglie sorpreso, spiegazioni, poi gli dice: “Già che è qui, perché non va a vedere domani una partita di Serie D, Massiminiana-Paternò?”. Ora: non esiste un paese che si chiami Massiminiana, né di sotto né di sopra. Il nome della squadra deriva da quello del suo patron Giuseppe Massimino, fratello di Angelo, presidentissimo del Catania, che darà a sua volta il nome allo stadio. Perché l’ego, insomma, non manca. Casati va. La partita finisce 0-0 (e come sennò?) ma il migliore in campo è un ragazzino quasi nero, 18 anni, mille fratelli, famiglia poverissima. Fatta la doccia, Pietruzzu scopre di essere diventato un calciatore del Varese. Casati, in tribuna, si era accordato con Massimino. Raccontava Anastasi: “Non sapevo nemmeno dell’esistenza di un posto chiamato così”. Lì visse per il resto della sua vita, si sposò, diventò padre e, due giorni fa, vi morì.

Il mitico ’68 fu un “anno formidabile” soprattutto per lui, iniziato a febbraio, in una domenica fredda e nevosa, quando il Varese (il Varese) asfaltò la Juventus, in quello che diventò “il miracolo di Masnago”. Pietruzzu: “Quel pomeriggio, col pullman fermo a un semaforo, un signore a spasso con il cane ci riconobbe e ci chiese: come è andata? 5-0. Ehhhh, ne avete presi un po’ troppi, disse lui. No, glieli abbiamo fatti, dissi io. Fece il gesto come a dire, ma va là pirla…”.

In quel Varese giocava gente come Picchi, Sogliano, Della Giovanna, il patron era Giovanni Borghi, proprietario dell’Ignis, leader negli elettrodomestici anni 60. Per Anastasi, ventenne, autore di una tripletta, fu gioia doppia, visto che è un tifoso juventino. La prima foto che ti mostrava, a casa, era il selfie – termine ancora inesistente – con il suo idolo John Charles, scattata prima di un Catania-Juventus, Pietruzzu è raccattapalle. Cinque anni dopo, sarà titolare con quella maglia bianconera. Un emigrante – sia pure di lusso – ma pur sempre un emigrante: “Le distanze erano amplificate rispetto a oggi. Per telefonare a casa dovevi andare alle poste, prenotare la chiamata, poi aspettare in cabina. Oggi, con mio figlio che abita a Los Angeles, ci vediamo e parliamo via Skype”.

A Varese vince la B e fa quel po’ po’ di campionato in A. “Finii il campionato e mi dissero che la società aveva chiuso l’affare con l’Inter. Poi, nell’intervallo di un’amichevole a San Siro, il trofeo Emilio Violanti, un fotografo mi disse: ‘Ehi Anastasi, complimenti, sei diventato bianconero’. Rimasi di sasso”.

Il sorpasso sull’Inter avvenne in extremis e con un trucco: “L’affare con l’Inter era già fatto, grazie al rapporto tra Casati e Allodi, ds nerazzurro. Poi Agnelli fece un’offerta irrinunciabile al dottor Borghi. L’Ignis aveva bisogno di motorini per un nuovo modello di frigorifero, la Fiat si impegnò a farglieli avere”. Una sorta di Kulusewski ante litteram, insomma. Sempre quell’estate debutta in nazionale a 20 anni, l’8 giugno 1968, ancora tesserato del Varese, nella finale dell’Europeo contro la Jugoslavia, allo stadio olimpico di Roma: “Era una cosa quasi impensabile, ero minorenne (all’epoca l’età limite erano i 21 anni, ndr) e senza esperienza, di una squadra di provincia, buttato dentro nella partita più importante”. Prima finale dominata dalla Jugoslavia, ma il bunker di Valcareggi resiste. Nella ripetizione due giorni dopo Valcareggi ne cambia sei, ma non il giovane Anastasi, che lo ripaga con un gol: “De Sisti mise la palla in mezzo, ebbi l’istinto di tirare al volo, senza mirare a niente”.

Come dà, il destino toglie. “Un unico rimpianto. Aver perso il Mondiale del 1970 per una manata di un massaggiatore, uno scherzo finito malissimo, con un’operazione ai testicoli”.

Anastasi ha vinto scudetti, coppe, ha segnato più di 400 gol nella carriera tra Massiminiana, Varese, Juventus, Ascoli e Lugano. Ma più dei gol segnati, diceva, gli capitava di ripensare a quelli sbagliati, vai a capire perché. E la mente, soprattutto, tornava spesso a quella signora, “chissà se aveva portato a termine la sua gravidanza, chissà cosa saranno ora quel bambino o quella bambina, forse juventini o forse no, che non sapranno mai questa storia” e a quel viaggio che ha cambiato – inconsapevolmente – più vite. A cominciare dalla sua.

“Dalla convinse mamma: ‘Deve cantare, non battere’ Ma oggi ho le mie cicatrici”

È metà gennaio, “ma subisco ancora i postumi del Natale”. Dolore. “Sono come un pullman: quando mi fermo è complicato ripartire”. Mannaggia. “Comunque di uomini non capisco nulla: o diventano sudditi o io ancella, e se mi tramuto in ancella poi si rompono loro”. Bel guaio. “Di recente, per un gol, sono cascata dalla tribuna dell’Hellas Verona; alla fine della partita sono arrivati i dirigenti della squadra e mi hanno detto: ‘Non ci venire più, sei pericolosa’. A me il pallone piace”. E di pallone sa effettivamente molto, Donatella Rettore.

Punk, situazionista, pensatrice imprevedibile, come l’ape del Belli si posa – di argomento in argomento – con una padronanza non comune, con un misto di ironia, provocazione intrinseca e consapevolezza, solo da vivere, da percepire nella sua matrice, senza cercare di capire dov’è la prima mollica di Pollicino.

Lei è la cantautrice più conosciuta all’estero.

In pochi ne sono coscienti, e in gran parte è colpa delle varie case discografiche: mi hanno voluto inquadrare più nel ruolo di creatrice di singoli che in quello di autrice di pezzi. Eppure scrivo bene. È la mia forza.

E quindi?

Ho deciso di cantare brani meno conosciuti, come Delirio, Curiosa o Brivido. Ho preparato una scaletta bellissima per l’estate. E mi piacerebbe ricoprire il Duomo di Milano con le mie canzoni.

A un certo punto ha smesso di scrivere per altri.

Perché ero diventata troppo famosa per loro, e questa è solo una reticenza italiana, una reticenza un po’ bigotta; una volta Umberto Eco mi scrisse: “Lei è una ragazza forte, sarebbe andata meglio se fosse nata anglosassone, figlia di una cultura calvinista o luterana”.

E invece…

Sono veneta, tutti bigotti, polentoni e baciasantini: lì la religione è ovunque, e il parroco era la persona più importante della città.

Però lei ha iniziato a cantare all’oratorio.

Grazie a Dio! In Italia non esistevano scuole laiche di vera qualità con spazi aperti nei quali socializzare, gli unici erano gli oratori, e io ci sono cresciuta, tra una canzone e una partita a pallone.

Il calcio le piace proprio.

Tanto, quando posso vado allo stadio, e da sempre sono amica dei calciatori.

Di chi?

Uno dei primi è stato Picchio De Sisti: mi invitò all’Olimpico per la sua ultima partita, credo Roma-Atalanta (1979), io seduta in tribuna; a un certo punto sbaglia un passaggio e gli urlano “Mejo se te ritiri”. Io zitta. Poco dopo si inventa un assist, e cambiano il tono: “Nun ce lascià!”…

A quel punto…

Mi sono girata: “Ve dovete decide”; (cambia all’improvviso) anche Walter Zenga, grande amico.

Innamorato di lei.

No, lui solo le giornaliste; però ci scambiavamo confidenze, e quando giocava all’Inter lo chiamavo in ogni albergo dove alloggiava la squadra; il calcio è veramente lo spettacolo più bello del mondo.

È da stadio.

Nel 1981 ho cantato a Marassi prima di Sampdoria-Genoa, e grazie al presidente Mantovani, gran persona, solo che alla fine dello spettacolo stavo per sentirmi male: ero vestita di plastica, una sudata pazzesca.

È stata tra le prime a esibirsi negli stadi.

In quegli anni non era scontato, i parametri odierni, tipo Vasco, non erano stabiliti.

Le piace Vasco?

È un ammaliatore, è uno di casa, non mette soggezione, ha trovato la sua formula e la ripropone in ogni pezzo. Così il pubblico non si sforza.

È un punto di riferimento.

Come capita, chi più e chi meno, a chiunque diventa conosciuto.

Come a lei…

L’altro giorno ho partecipato a una fiera dedicata al mondo delle quattro zampe, ero lì per esibirmi con il mio cane e la mia squadra; alla fine si avvicina una signora: “Potevate organizzare meglio questa manifestazione”.

A lei?

Quando ci sono è tutto merito o tutta colpa della sottoscritta; prima o poi divento un cantante mascherato.

Per questo è rimasta a vivere in provincia?

Ma qui arrivano dei pullman per cercarmi, qui sono nate personalità come Guidolin, Giorgione, Giorgio Lago (ex direttore del Gazzettino), ma vengono per me.

E la trovano.

A volte mi beccano.

Le dispiace?

Dipende, è che hanno degli smartphone che sono simili a delle colt, ti tolgono brandelli di vita; ha ragione la Pravo: lei si rifiuta di partecipare al rito del selfie.

Tempo fa ha definito la Pravo “una fine dicitrice”.

Premesso: sono una sua fan, il suo fascino è inarrivabile, è totalizzante, e con i suoi atteggiamenti per anni ha superato tutte, compresa Mina.

C’è un sottofondo di però.

Oggi spesso non canta, non trova proprio le note, mentre quando è uscita con Se perdo te, non resistevo, e in casa la intonavo tutto il giorno, mamma disperata.

Mamma attrice goldoniana.

Sono arrivata dopo tre gravidanze andate male, mi ha partorita quando aveva 39 anni, per quel tempo una rarità, mentre oggi non c’è limite.

Sbagliato?

Sì, perché sei costretto a delegare: io sono cresciuta con la tetta di mamma, con i suoi anticorpi, e come lei, come spesso i veneti, soffro di microcitemia.

E…

Nel ’92 mi ero decisa ad avere un figlio: ho rinunciato quando ho capito che non sarebbe stato sano. Ho sofferto.

Da lì la passione per i cani?

No! Già da ragazzina raccattavo tutti i cani randagi e li portavo a casa, alla fine mi hanno sbattuta in collegio: non ne potevano più.

Dicevamo: mamma goldoniana.

Era la pupilla di Cesco Baseggio, e d’estate raggiungeva apposta Chianciano Terme per beccare Armando Curcio e cercare uno scambio culturale; (cambia tono) mamma aveva finito solo il ginnasio, era quindi autodidatta, e ha ripreso a studiare quando sono andata via di casa.

È stata dura lasciare la sua quotidianità?

Sono una donna pigra, pragmatica e abitudinaria; poi però mi rompo le palle di essere abitudinaria, mi sparo sei mesi di follie, e dopo mi riconnetto con me stessa.

Un percorso.

È difficile vivermi dentro.

E starle accanto?

Tutti dobbiamo abbozzare, poi ogni tanto scoppia la bomba, e con mio marito siamo sposati dal 2005, ma ci conosciamo dal 1977 (sorride). Però dai primi anni Novanta non ci siamo più concessi le nostre innocenti evasioni.

Come mai?

Colpa dell’Aids.

Ve le confessavate?

In assoluto è sempre meglio tacere, ma un tempo c’erano i paparazzi, quelli veri e bravi, e dovevi alzare le mani davanti alla verità.

Si innervosiva per gli scatti?

Li adoro, hanno un senso di affetto per i personaggi, e poi svolgono il loro lavoro.

Reciproco amore?

Qualche volta finivo dentro a delle catastrofi, allora li fermavo e pregavo: “Quelle foto no, magari organizziamo altre situazioni”. Accettavano.

Reciproco rispetto.

Il lavoro va trattato come merita: me lo ha insegnato mio padre, socialista nenniano, orgoglioso di un numero storico de l’Avanti!; peccato, non ci sono più personalità come Pertini e Nenni.

Cantava alle Feste de l’Unità?

Certo, e pure a quelle socialiste e democristiane e i miei primi pezzi erano molto impegnati, tanto che una volta Andrea Mingardi mi disse: “Sei una bella figa, cosa te ne frega di cantare sulla rivoluzione spagnola o sulle femministe. E poi le femministe sono tutte brutte”.

Il suo rapporto con le femministe?

Un pomeriggio ho partecipato a una manifestazione in piazza Farnese, a Roma: salgo sul palco, canto e capisco di non rientrare nei loro parametri.

Come mai?

Ero bionda, curata e con i jeans.

Un suo pezzo del tempo è dedicato alle molestie.

È la storia di un preside, un democristiano di merda; (due secondi di silenzio) già mi interessavo di politica, a casa veniva Tina Anselmi, convocata da mia madre per ragguagliarla dei pettegolezzi della cittadina, ma allora il livello culturale era veramente più alto, poi sono arrivati questi barbari leghisti e la liturgia del piccolo imprenditore.

Che si fa?

Ma lo mandiamo via il pomata?

Chi?

Zaia! Lo voteranno ancora? Io pago le tasse in Italia, non a Montecarlo o a Lugano.

Le hanno mai proposto un paradiso fiscale?

In passato mi hanno prospettato ben altro, ma ogni volta ho risposto: “Voi siete pazzi, non posso diventare massona, ho già i miei problemi”. E poi ti chiedono i piaceri. Per carità.

Torniamo al preside.

Si divertiva con le proposte sconce alle professoresse, che non si sottraevano, anzi le vedevo civettare, così non erano più supplenti. Altri non capivano certe dinamiche, io sì: già allora ero sveglia.

Scuola pubblica.

Fino alla seconda media sono andata dalle suore, poi in terza ho chiesto a mamma di affrontare la realtà e ho visto il disastro.

È cattolica?

Sono cristiana non praticante, sposata in chiesa. Per me l’ultimo vero papa è stato Albino Luciani, quando c’era lui sono tornata a confessarmi.

Papa Francesco?

No, è argentino, e lì ci sono le corride: non mi fido di un paese dove esiste il piacere di uccidere.

Vegetariana?

Sì, però mangio il formaggio. Sul risotto è fondamentale.

È sempre claustrofobica?

Certo. Ultimamente mi è presa pure la sudarella dentro al traffico di Roma. Tutti che suonano. Tutti che rompono. Uno mi ha pure urlato: “Se non te levi te passo sopra”.

Ha abbozzato.

Sono scesa dalla macchina. “Ma sei la Rettore? Allora nun te preoccupà, va bene così”.

Aereo?

Mi piace, eppure a 18 anni sono finita dentro a un Fokker che è atterrato con i motori in fiamme e la schiuma per tamponare la situazione; ogni tanto vado vicino casa a vedere i caccia dell’esercito, il mio sogno è salirci sopra.

Subito un appello.

Negli anni Ottanta ho scritto a Craxi, e lui: “Sei matta?”.

Lo conosceva?

Eravamo molto amici, ma ci siamo allontanati quando non ha capito dove andava la questione del finanziamento pubblico ai partiti.

A chi dice grazie?

Uno dei primi? A Lucio Dalla, uomo ironico, spiritoso e di grandissimo talento; sono stata l’unica donna che ha amato, ma solo perché mi considerava un maschiaccio.

Il grazie…

Non avevo una lira e lui mi coinvolse nei concerti in Veneto e riuscì a togliere i dubbi a mia madre con una frase lapidaria: “Signora deve solo cantare, non fare la troia”.

Risposta di mamma?

“È già piena di grilli per la testa”. E Dalla: “Risolviamo così: sua figlia canta e lei va a dire un paio di preghiere”.

Quando è salita sul palco?

Tremavo, avevo una paresi alle labbra e salivazione azzerata; ah, pure un altro Lucio mi ha colpita.

Battisti.

Incontrato per la prima volta ad Amburgo: lì avevo un gran bel successo, la numero uno, mentre in Italia no. E stupito mi domanda: “Ma tu chi sei?”. Gli spiego la situazione…

E…

Sconsolato mi coinvolge in una riflessione: “Da noi guardano più alla forma, al foulard, a quanto pesi, se hai le gambe a x. Mi sono rotto le palle di stare a dieta, e poi la mia donna l’ho trovata”. Da quel giorno ha acquistato tutti i miei dischi.

È una sopravvissuta?

Sono piena di cicatrici.

Con la fama a cosa ha rinunciato?

Alla libertà, per questo ogni tanto mi difendo con il ruolo della stronza, e non rinuncio a una passeggiata in città con il mio cane e a una bella tazza di cioccolata. Adoro impiastricciarmi di panna.

Guai a chi la scoccia.

Un pomeriggio ci ha provato Sgarbi: “Come ti sei messa? Sembri un travestito”. Tranquilla ho replicato: “Non mi rompere. Sto mangiando”. (Ride) A me piace Grillo.

Che c’entra?

Nulla, volevo dirlo. È il mio preferito, voglio andare con lui a scavare la sabbia a Marina di Bibbona, e un tempo mi faceva il filo: è un seduttore.

Con lei non solo Grillo.

Bionda, bella, con due chilometri di gambe, solo i gay non ci provavano. Ma adesso ho la pace dei sensi. Forse.

(Perché il cobra non è un serpente, ma un pensiero frequente. Che diventa indecente…).

Twitter: @A_Ferrucci