Harry & Meghan non sono più “altezze reali” e ripagano la casa

Ora Harry e Meghan sono liberi davvero. Il prezzo? La rinuncia a titoli reali e finanziamento pubblico, a partire dalla prossima primavera. Ecco il succo dell’accordo con la Regina preannunciato lo scorso 13 gennaio, dopo l’atteso summit di Sandrigham, quando Elisabetta aveva accettato, pur con rammarico, la loro decisione di “dimettersi” da reali.

La svolta ieri sera, con due comunicati. Il primo di Buckingham Palace: “Come concordato, al Duca e alla Duchessa del Sussex è richiesto di rinunciare ai doveri reali, agli incarichi militari ufficiali e ai fondi pubblici connessi. I Sussex non useranno il titolo di Sua Altezza Reale, visto che non saranno più membri attivi della famiglia reale”. Restano i patronati di associazioni e charities, ma solo in veste privata e non più in rappresentanza della Corona. E l’offerta di ripagare i 2 milioni e mezzo di sterline di denaro pubblico speso per la ristrutturazione del Frogmore Cottage, dove la coppia si era trasferita di recente: segno che non intendono passare troppo tempo nel Regno.

Poi c’è il comunicato della Regina. Un vero congedo, per quanto affettuoso: “Harry, Meghan e Archie resteranno sempre amati componenti della mia famiglia. Riconosco le difficoltà che hanno vissuto negli ultimi due anni e li sostengo nel loro desiderio di una vita più indipendente”. E ancora, per placare ogni polemica: “Voglio ringraziarli per il loro lavoro… e sono particolarmente orgogliosa di quanto rapidamente Meghan sia diventata una di famiglia… Tutta la mia famiglia si augura che l’accordo raggiunto consenta loro di iniziare a costruire una vita felice e serena”.

Due le incognite: si pagheranno da soli anche la protezione? E soprattutto: si trasformeranno in celebrities a contratto o sceglieranno un profilo da filantropi che non metta in imbarazzo la Corona?

Angola: la figlia sulle orme del padre padrone

L’Angola intensifica la sua battaglia contro Isabel Dos Santos, la figlia di José Edoardo Dos Santos, il presidente che ha guidato il Paese per 38 anni, arricchendosi, lui e la sua famiglia, a dismisura. Una Corte di Luanda, ha ordinato il congelamento dei beni dell’ex first daughter. Isabel Dos Santos è considerate una delle donne più ricche del mondo (oltre 2 miliardi di dollari, ndr).

Da quando nel 2017 il padre ha lasciato lo scranno più alto del Paese al successore, Joao Lourenço, per lei, considerata intoccabile e superiore a ogni legge, è cominciata una irrefrenabile discesa. Il nuovo corso ha voluto allontanare dai posti di potere tutti i membri della famiglia, accusata d’aver sottratto allo Stato denaro e beni per miliardi di dollari. Dapprima è stata allontanata dalla presidenza della Sonangol, compagnia petrolifera di Stato che lei gestiva – secondo le accuse – con una certa allegria, poi pian piano da ogni posizione rilevante. Lourenço è stato abile a farle terra bruciata attorno; e così è stata abbandonata da quelli che l’ossequiavano e l’adulavano giusto per raccogliere le briciole del suo potere.

All’ordine della Corte di congelare i suoi beni, Isabel ha reagito negando le accuse di irregolarità finanziarie e definito la decisione dei giudici “strumentale e politicamente motivata”.

“È una caccia alle streghe – ha continuato in un’intervista – architettata per indebolire l’influenza di mio padre e distrarre dai fallimenti economici. Io dovrei partecipare a questa buffonata come capro espiatorio”. Le accuse contro sono assai circostanziate: partecipazioni in società a maggioranza statali, come il 25% nella compagnia telefonica Unitel, nel Banco de Fomento Angola, poi la catena di supermercati Cantado, un cinema e un centro commerciale. Ma ha affari anche in Portogalllo, a Capo Verde in Sudafrica.

La parlamentare europea Ana Gomes – che ha svolto complesse indagini sul crimine organizzato – l’accusa pubblicamente di riciclaggio di denaro attraverso le sue banche: Isabel ha reagito querelandola, ma proprio ieri una corte di Lisbona ha dato ragione alla Gomes: “La libertà di espressione e di informazione – c’è scritto nella sentenza – ha la precedenza sui diritti della persona di salvaguardare la propria reputazione e il proprio buon nome”.

Lei ha sempre attribuito la sua ricchezza a duro lavoro, investimenti intelligenti e saggezza negli affari, ma i critici sostengono che la sua famiglia s’è spudoratamente avvantaggiata della corruzione favorita dal potere del padre.

Il governo attribuisce le decisioni dei giudici di congelare i suoi beni proprio alla campagna contro la corruzione, ma qualcuno sostiene che l’onda moralizzatrice sia diretta in particolare contro la famiglia del vecchio capo per bloccare la sua influenza. Anche il fratellastro José Filomeno Dos Santos, ex presidente del Fundo Soberano de Angola, sorta di Inps locale, è sotto processo con l’accusa di riciclaggio di denaro, e corruzione, per aver trasferito 500 milioni di dollari dalle casse dell’istituto al suo conto personale. La sorellastra Welwitschia Dos Santos è stata sospesa dal Parlamento per arricchimento illecito.

Ma la “Principessa”, come veniva chiamata, è di gran lunga la più ricca della famiglia. Ha comunque un background di tutto rispetto: nata a Baku (ex Urss, dove il padre guerrigliero comunista era finito in esilio) da madre azera, ha studiato alla prestigiosa All-Girls Boarding School di Londra e poi ingegneria elettronica al King’s College, dove ha incontrato il futuro marito, Sindika Dokolo, madre danese e padre ricco uomo d’affari della Repubblica Democratica del Congo, divenuto businessman e collezionista d’arte.

La “Principessa”, come scritto nell’intervista a un giornale ugandese qualche tempo fa, avrebbe intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2022: gli attacchi del governo erano già cominciati, ma non in maniera così intensa. Per ora lei ha smentito alla Bbc, confessando: “Ora non posso neppure tornare in Angola. Ho paura per la mia incolumità”.

La vendetta di Ségolène: dopo i Poli sogna l’Eliseo

Emmanuel Macron l’ha licenziata da ambasciatrice per Artico e Antartico e la Procura ha aperto un’inchiesta per verificare se ha usato a scopi privati i fondi pubblici destinati alla missione per i Poli: una bufera si scatena su Ségolène Royal, ma lei ha in testa l’Eliseo. Allontanandola dal governo il presidente le ha fatto un favore: l’ex ministra socialista, che aveva corso per l’Eliseo nel 2007 ed era stata battuta da Sarkozy, ha annunciato la creazione d’una nuova associazione politica a sfondo ecologista, Désirs de France-Avenir de la planète, che potrebbe trasformarsi in partito in vista delle Presidenziali 2022.

Libera dai vincoli con il governo, la Royal, che non ha più neanche la tessera del Ps, vuole rappresentare la “terzo via” mancata nel 2017, quando la corsa per l’Eliseo, da un lato per il tracollo dei socialisti, dall’altro per lo scandalo che aveva sommerso la destra moderata, si era ridotta a una sfida a due, tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Le elezioni sono ancora lontane, ma la leader dell’ultradestra, che punta a rigiocare la sfida, si è già candidata. “Bisogna allentare la morsa del faccia a faccia imposto tra Macron e le Pen. Si percepisce un’angoscia tra i francesi, e l’aspirazione di vedere se un’alternativa è possibile”, ha detto alla stampa Ségolène, che giovedì sarà a Marsiglia per lanciare il suo movimento. Prendere le distanze da Macron per proporsi come l’alternativa a gauche era indispensabile. Era stato il presidente ad assegnarle, nel luglio 2017, la missione ai Poli. Un posto per il quale la Royal non riceveva alcuna remunerazione, ma per cui disponeva di un budget di 100 mila euro all’anno (finanziati dal ministero degli Esteri) e tre collaboratori. Il 15 novembre un’inchiesta giornalistica di Radio France ha sollevato il sospetto che l’ex ministra utilizzasse quei fondi per promuovere i suoi libri e le iniziative della sua fondazione. In due anni l’ambasciatrice non avrebbe partecipato a nessuna riunione del Consiglio dell’Artico. Il 15 gennaio, la Royal ha pubblicato su Facebook la lettera del ministero che metteva fine al suo incarico. Il motivo: “Le recenti prese di posizione pubbliche che contestano la politica del governo”. In effetti, la Royal non s’è fatta problemi a criticare le scelte del governo.

Ha definito la riforma delle pensioni “mal preparata e ingiusta”. Ha anche attaccato Macron e i suoi presunti legami con il “mondo del business mondializzato”. Così facendo ha infranto il “dovere di riservatezza” che le era imposto dal ruolo. Quello stesso giorno s’è anche saputo che, già da novembre, era finita nel mirino dell’ufficio finanziario della procura. Una coincidenza “sorprendente” ha commentato, denunciando: “C’è una chiara volontà di screditare la mia parola politica”. L’aspirante candidata per il 2022 ha difeso la sua “libertà di parola” che le ridà un posto nell’opposizione. Non sembra temere la giustizia: “L’inchiesta è legittima”. Sostiene d’aver fatto un uso “rigoroso” dei fondi pubblici, che non ha problemi a provarlo, e smentisce d’aver disertato il Consiglio dell’Artico: in due anni, assicura, ha partecipato a 12 riunioni. In una gauche frammentata e che fa fatica a riorganizzarsi Ségolène, ex moglie del segretario socialista poi presidente della Repubblica Hollande, ha ancora appoggi tra i socialisti: “È evidente che si sta provando a far tacere una voce forte”, ha per esempio commentato il senatore Ps Rachid Temal.

A Strasburgo c’è anche il caso dell’hotspot di Lampedusa

La detenzione dei minori migranti è vietata in Italia. Quando un bambino arriva gli viene concesso un permesso per minore età, da qualunque Paese provenga. Sulla protezione dei minori l’Italia è molto avanti anche sulla Francia, dove una recente legge di Macron autorizza la detenzione dei piccoli migranti fino a 90 giorni. Però ci sono casi di detenzione anche da noi.

Il primo decreto Salvini prevede il trattenimento negli hotspot fino a 30 giorni a scopo identificativo. Secondo l’avvocato Loredana Leo dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) “si tratta di detenzione a tutti gli effetti” e “le garanzie previste dal decreto 113/2018, come la convalida di un giudice di pace, la presenza di un avvocato sul posto, la possibilità di fare ricorso, non sono rispettate. Se poi si tratta di minori, è una chiara situazione di illegalità”. La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha già condannato l’Italia nel 2016 per il centro di Lampedusa (sentenza Khlaifia vs. Italy) per un caso del 2011 nello stesso centro. “Abbiamo chiesto chiarimenti al governo italiano sul decreto sicurezza, bisogna giustificare i motivi del trattenimento, garantirne la qualità, offrire le giuste garanzie”, spiega il giurista che segue il caso da Strasburgo. È atteso il giudizio del Consiglio d’Europa sull’applicazione del decreto a Lampedusa. Le associazioni hanno già ottenuto 4 volte interventi urgenti della Corte con la procedura detta “articolo 39” azionabile in caso di pericolo: così sono stati trasferiti minori soli o con i genitori, a volte dopo la perdita di un familiare. “Ne abbiamo inviato ancora uno a dicembre per i minori arrivati dopo un naufragio. Stavano malissimo, avevamo perso alcuni genitori nel viaggio in mare e venivano tenuti chiusi a Lampedusa, senza ricevere cure”, spiega l’avvocato Leo. L’Asgi ha denunciato vari casi di detenzione ritenuta arbitraria di minori negli hotspot di Taranto, Pozzallo, Messina.

Minorenni reclusi nei campi: la Ue come gli Usa di Trump

Reza è iraniano, ha 17 anni e vive in prigione da un anno. In una “zona di transito” in Ungheria, a Röszke. “Di transito” perché non è completamente chiusa: aperta se decidi di tornare in Serbia, chiusa se vuoi chiedere asilo in Ungheria. Il ragazzo è arrivato qui con lo zio e i cugini, ma loro sono riusciti a passare con la protezione umanitaria. A Reza è stata negata e da più di un anno aspetta da solo, con altri 99 minori non accompagnati, in una città dove le case sono container, i confini sono filo spinato e tutto è sorvegliato da soldati armati, che ti accompagnano ammanettato anche dal medico. “Non dormo da due giorni dopo l’ultimo rigetto della mia domanda”, ci dice Reza. “Il dottore mi ha detto di non pensare troppo, ma è difficile, tutto è difficile qui. Siamo venuti dalla Serbia, con i documenti, non illegalmente. Perché l’Ufficio immigrazione gioca con noi, trascina le decisioni per mesi? Non abbiamo fatto nulla di male. Perché siamo rinchiusi qui? Pensare troppo è una bomba nella testa”.

L’Ungheria è sotto accusa perché lascia senza cibo i migranti a cui è stato negato l’asilo, in attesa di espulsione. Anche i bambini.

Nel luglio scorso, la Commissione europea ha denunciato il governo Orbán alla Corte di Giustizia Ue per violazione dei diritti fondamentali. Come Reza ci sono migliaia di minori in prigione ai confini dell’Europa, in attesa dell’asilo o dell’espulsione. Non hanno commesso reati, sono solo entrati illegalmente nel territorio Ue.

L’Unione europea ha fortemente criticato il presidente americano Donald Trump per aver diviso le famiglie al confine con il Messico e chiuso i bambini nelle gabbie. “Noi abbiamo altri valori” ha detto stizzito un portavoce del governo di Parigi nel 2018. Ma la Francia ha il record di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo – sei dal 2012 – per la detenzione dei minori migranti, la maggior parte li tiene nell’isola di Mayotte nell’Oceano Indiano. Il diritto internazionale condanna la detenzione dei bambini migranti, fin dalla Convenzione sui diritti del fanciullo (art. 37) del 1989. Nel 2017, un Comitato speciale delle Nazioni Unite, ha ribadito che “i minori non dovrebbero mai essere detenuti per ragioni legate allo stato migratorio loro o dei genitori. Qualsiasi tipo di detenzione per immigrazione minorile dovrebbe essere vietata dalla legge”. Ma l’Europa non sente. Sostiene che la detenzione dei minori dovrebbe essere solo “l’ultima ratio”, ma di fatto la tollera, la incoraggia.

“La Commissione per i diritti umani nel Senato italiano ha scritto nel 2014 che oltre i 45 giorni un migrante (anche adulto, ndr) non partecipa più alla sua identificazione, quindi la detenzione è inutile e costosa”, spiega Marta Gionco della piattaforma Picum, a Bruxelles. La rivista Lancet scrive che la detenzione “provoca danni alla salute mentale e fisica dei bambini”. La rete europea per l’Alternativa alla detenzione ritiene che “consentire alle persone di rimanere nella comunità, coinvolgendole nel processo di integrazione, offrendo consigli legali, accesso a servizi e un ‘gestore sociale’, pagato dallo Stato ma indipendente, è molto più economico”. Ma l’ex commissario all’Immigrazione, Dimitri Avramopoulos non la pensa così. Nel 2018 scriveva: “Un uso più efficace della detenzione renderà più efficace l’applicazione dei rimpatri”, lamentandosi che il numero dei rimpatri restava al 36,6% nel 2017. La nuova Commissione non ha cambiato politica. “Abbiamo cercato, nella scorsa legislatura, di vietare per legge la detenzione dei bambini migranti – spiega l’eurodeputata Caterina Chinnici (Pd), presidente dell’intergruppo per i minori – ma non ci siamo riusciti”. L’Europarlamento aveva infatti approvato il divieto di privare i minori della libertà nelle riforme della Convenzione di Dublino e dei rimpatri. Ma non c’è stato l’accordo con i governi, i testi non sono stati votati. Non c’è la volontà politica di vietare la detenzione dei piccoli migranti”.

Peggio, la detenzione è vista come un deterrente alla migrazione in Europa. Il campo di Moria, a Lesbo (Grecia), ne è la prova. Prima di tutto senti colpi di tosse da quasi tutte le tende, a Moria, migliaia di tende, sparse fuori dal campo. È la tosse dei bambini che non hanno abbastanza cibo, abbastanza caldo, abbastanza cure. Li vedi correre in mezzo al fango, di notte fanno la coda per il bagno, al buio. In un’ex base militare che può contenere fino a 3.000 persone, oggi ce ne sono 18.000, di cui 1.200 bambini non accompagnati, 8.300 minori in tutto. Aspettano l’esito delle richieste d’asilo e non possono lasciare l’isola. È scritto nell’accordo Ue-Turchia firmato nel 2016 da tutti capi di governo Ue. Si erano impegnati a distribuirsi poi i migranti arrivati in Grecia e a rispedire indietro, in Turchia, chi non aveva diritto all’asilo. Ma da allora solo 1.975 persone su 98.000 sono state rimandate in Turchia. Le altre sono rimaste bloccate nelle cinque isole greche trasformate in prigioni a cielo aperto: Lesbo, Leros, Kos, Samos e Chios. La psicologa di Medici senza Frontiere, Danae Papadopoulou, dice: “Moria è in un posto così isolato da costringere le persone a vivere come in prigione. È una bomba a orologeria”. Sono i più fortunati: sulla terraferma 240 minori non accompagnati vivono in un commissariato di polizia, in attesa dell’asilo.

Nei nostri Paesi la detenzione minorile è vietata ai minori di 13-14 anni. Ma non se il bambino è un migrante.

Per la Commissione Ue “migliorare i rimpatri, anche con la detenzione, manderà un forte segnale a chi vuole intraprendere viaggi pericolosi verso l’Europa”. I bambini, però, continuano ad arrivare in barca, a Lesbo e in Europa.

L’inchiesta completa su www.ilfattoquotidiano.it*Investigate Europe

Sulle barricate con gli “anziani” e i loro fratelli

Icorpi sono ancora per strada, alcuni accasciati in macchina e altri riversi sulla strada sterrata, tra i palazzi della zona residenziale di Ain Zara. La periferia a sud di Tripoli, negli ultimi mesi è rimasta travolta dalla furia dei combattimenti tra le forze del generale Khalifa Haftar e i gruppi armati della coalizione del governo di Accordo nazionale. “Ci sono anche i corpi di due bambini intrappolati sul fronte. Stavano rientrando nella loro abitazione per recuperare vestiti e documenti, quando sono finiti sotto il fuoco di Haftar”, ha raccontato al Fatto un volontario della Mezzaluna Rossa. Il padre sarebbe sopravvissuto al fuoco dei cecchini insieme a un terzo figlio, ma due sono rimasti uccisi sul colpo. “Eravamo abituati al recupero dei corpi dei combattenti, invece oggi ci tocca recuperare civili, tra cui donne e bambini”, spiega l’uomo che, suo malgrado, da oramai otto anni fa recupero dei corpi sulla linea del fronte. Quel fronte mobile lungo il quale combattono gli “anziani”, ovvero quelli che hanno preso le armi nei mesi della rivoluzione contro Gheddafi, ormai trentenni, accompagnati da fratelli, cugini: sono famiglie intere a comporre l’“esercito” di Sarraj.

Doveva essere un’operazione lampo quella del generale al comando dell’Est del Paese. Avrebbe conquistato la capitale in un paio di giorni, aveva promesso ai suoi principali sponsor, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania e Francia. Invece l’arrivo degli uomini armati da lui istruiti hanno fatto compattare anche i gruppi rivali in controllo del territorio a Tripoli. E da otto mesi si combatte nelle periferie a sud di Tripoli tra i quartieri di Swani, Salah Din, Ain Zara e Wadi Rabi e lungo la strada dell’Aeroporto internazionale.

“Preferisco morire con dignità a casa mia, e non nella palestra di una scuola”, ha detto al Fatto una delle 270 mila persone che vivono nelle aree colpite dal conflitto. All’inizio dei combattimenti molte famiglie erano state sistemate nelle scuole, poi è iniziato l’anno scolastico e hanno dovuto sgomberare anche quel rifugio di fortuna. Gli sfollati dall’inizio dell’offensiva di Haftar a Tripoli sono circa 140 mila. In tanti tra questi fanno la spola con le loro case sulla linea del fronte per recuperare effetti personali. Dei circa 1300 morti nella capitale, 300 sono civili.

I cecchini impediscono
di recuperare i cadaveri

Marwan e gli altri volontari della Mezzaluna Rossa libica vorrebbero recuperare i cadaveri dei civili intrappolati sulla frontline e restituirli alle famiglie, ma i cecchini che affollano la prima linea del fronte continuano a tirare su qualsiasi cosa si muova. Il cessate il fuoco richiesto una settimana fa da Turchia e Russia, e successivamente accettato dai relativi partner sul campo, il premier Fayez Al Sarraj e il generale Haftar, è una tregua fragile. Tanto fragile da non lasciare spazio neanche a corridoi sicuri per i civili.

“L’Europa aveva detto che Tripoli fosse la linea rossa. Ma Haftar ha varcato la linea da mesi. E ancora lo invitano ai tavoli negoziali per discutere la pace”, sbraita un uomo a Tripoli. Tuttavia anche l’interventismo della Turchia sul suolo libico è accolto da tutti in Tripolitania con favore. “Erdogan dice che ci vuole aiutare ma chi vive qui siamo noi. Per loro è una partita da giocare per interessi, per noi è questione di sopravvivenza. I muscoli non ci piacciono”, ha detto al Fatto un uomo di Misurata, la città-Stato che in asse con Tripoli combatte in prima linea sul fronte anti-Haftar. “L’Europa sia assuma le proprie responsabilità per aver lasciato Haftar arrivare fin qui” continua l’uomo. Dalla scorsa estate anche Misurata è sotto attacco dei missili di Haftar.

Misurata e il destino
da città-martire

Le brigate che riforniscono il fronte a Tripoli sono in buona parte della città costiera che, nel 2011, si guadagnò la medaglia al valore di città martire per via dell’alto numero di vittime cadute durante l’assedio sulla città da parte delle forze gheddafiane. Misurata oggi è anche in prima linea sul fronte Est in Tripolitania. Da quando due settimane fa le forze del generale sono entrate nella città di Sirte, Misurata demarca il confine tra la Libia di Haftar e quella di Serraj.

Mentre l’artiglieria pesante tace a sud della capitale, e soprattutto la stop alla campagna di bombardamento aereo su Tripoli concede ore di sollievo alla popolazione, il morale resta basso. “Haftar è stato messo alle strette, ecco perché ha accettato di andare a Berlino. Ma troverà il casus belli per riaprire il fuoco”, dice al Fatto una fonte da Tripoli.

Difatti, mentre Haftar confermava la sua presenza a Berlino, dove gli verrà proposto di firmare un accordo di pace con Tripoli, il suo portavoce Ahmed al-Mismari faceva sapere da Bengasi che le forze dell’Est avevano già proceduto alla chiusura di tutti gli oleodotti che dai pozzi di petrolio nel sud del Paese pompano l’oro nero verso i terminal sulla costa. Di fatti le forze di Haftar controllano tutti i pozzi del Paese a eccezione del campo di Wafa, che rifornisce il terminal Mellita, a Ovest di Tripoli, a bandiera Eni. Ma questo pompa metri cubi di gas e non petrolio. Il presidente della Compagnia Petrolifera libica, Mustafa Sanalla, avverte che la perdita per i libici è di circa 50 milioni di euro al giorno, praticamente quanto basta per tenere in piedi il paese e le sue due amministrazioni nell’Est e nell’Ovest. Già venerdì sera Mismari da Bengasi precisava: “È il popolo che chiude i terminal”, dopo che alcuni gruppi armati locali hanno bloccato il porto di Zueitina, nella regione della Cirenaica sotto il controllo del Generale.

Sotto scacco di Putin, suo alleato ma anche suo garante, Haftar ha accettato, sì, di prendere l’aereo che lo avrebbe portato nella Capitale tedesca, così come ha accettato di rispettare la tregua sulla linea del fronte. Tuttavia il suo istinto allo scontro non gli ha chiaramente impedito di ricorrere a un escamotage per lanciare, ancora una volta, il guanto della sfida in faccia agli avversari. Tocca ora capire se questo, da parte di Haftar, non sia solo un messaggio inviato per interposta persona, perché chi di dovere gli faccia trovare oggi a Berlino una bozza di accordo per lui soddisfacente, o se è l’ultimo colpo di coda prima di dismettere definitivamente i panni del negoziatore e annunciare la guerra totale non solo a Tripoli ma anche ai suoi alleati. La Turchia ha già avvertito nei giorni scorsi Haftar che, in caso di violazione da parte del Generale degli accordi, Ankara non perdonerà.

Il bon ton come categoria politica e il pericolo autoritarismo

Era fatale, ora ci siamo arrivati. Quando uno vuole rimuovere il conflitto dalla società e trasformare la buona educazione in una categoria della politica ci si arriva sempre. Ci riferiamo alla proposta (“allo stato embrionale”, bontà loro) da sottoporre al governo avanzata un paio di giorni fa dal portavoce Mattia Santori a nome delle Sardine per arginare “la manipolazione delle informazioni sui social e la violenza digitale”: “Perché non introduciamo un daspo anche sui social network?”. Eh, perché no? All’ingrosso funzionerebbe così: ogni profilo sui social sarebbe associato a “residenza o codice fiscale” – e tanti saluti alla Dichiarazione dei diritti di Internet elaborata da Stefano Rodotà – perché “un controllo c’è già: se non rispetti le regole Facebook può chiudere il tuo profilo, ma è facilmente aggirabile”, quindi serve “la vigilanza di un organo di polizia che garantisca che c’è un livello di sostenibilità democratica all’interno dei social network”. Ora, a parte che quell’incarico di polizia politica preventiva se l’è già attribuito la cosiddetta “commissione Segre”, ci pare di ricordare che nella storia italiana ci sia già stato un periodo in cui era la polizia e non un giudice ad autorizzare e, se del caso, sequestrare i giornali (non c’erano i social): adesso non ricordiamo esattamente gli anni, ma ci pare di ricordare che a quei tempi piazza Venezia a Roma fosse spesso piena di gente, i treni arrivassero in orario e si dormiva con la porta aperta. A pensarci bene hanno ragione le Sardine: un rischio di deriva autoritaria in Italia c’è, eccome.

Primavera a Boston e San Pietroburgo: fa un caldo ateniese

In Italia – A metà gennaio il tempo si è ancora mantenuto anticiclonico. Le solite inversioni termiche hanno portato temperature primaverili in collina, mentre in pianura ristagnava aria più fredda (punte tra -5 e -7 °C nelle minime al Nord) e carica di polveri sottili, con media giornaliera di 118 microgrammi di Pm10 al metro cubo mercoledì 15 a Bologna. Solo da venerdì sera una perturbazione atlantica ha finalmente smosso questa palude meteorologica causando le prime precipitazioni diffuse del 2020: neve su Alpi e Appennino Settentrionale (20 cm a Sestriere), forti temporali sul Levante genovese (117 mm a Ognio), piogge vivaci anche in Valpadana ieri notte (quasi nulla in Piemonte, ma 20-40 mm tra Lombardia ed Emilia), e aria un po’ più pulita. Correnti fredde stanno affluendo da Nord-Est, ma dureranno poco. Nei prossimi giorni Bolzano sarà sede di due rilevanti eventi sul clima: mercoledì 22, alla Libera Università, il convegno Emergenza climatica: cosa succede in Alto Adige, a latere dell’annuale fiera Klimahouse sul risparmio energetico in edilizia, e da martedì 28 a venerdì 31 all’Eurac si terrà SnowHydro 2020, conferenza internazionale su neve e idrologia.

Nel mondo – Giunti a metà di un inverno che già si annuncia tra i più miti da oltre un secolo, in Europa la stagione non vuol cambiare rotta, ed è sempre il Nord-Est del continente a vivere le anomalie termiche più incredibili. Mercoledì 15, nuovi record di temperatura massima per gennaio in Germania e Danimarca, 14,2 °C a Rostock, sulla costa baltica, e 11,9 °C a Copenaghen. A San Pietroburgo le minime sono rimaste sopra zero tutta la settimana e giovedì a mezzanotte pioveva con 8 °C, ben 15 °C in più del normale e quanti ce n’è in media ad Atene in una notte di gennaio! In pianura la neve è confinata a latitudini scandinave e a Est di Mosca, e un po’ di ghiaccio marino si trova solo lungo le coste lapponi del Golfo di Botnia. A corto di innevamento anche il Nord del Giappone, e si teme per l’imminente festival della neve di Yamagata. Atmosfera primaverile pure negli Stati Uniti orientali: domenica 12 a Boston c’erano 23,3 °C, altro primato per gennaio dall’inizio delle misure nel 1872. Ora tuttavia bufere di neve si sono propagate dal Midwest ai Grandi Laghi alla costa atlantica. Tra venerdì 10 e sabato 11, tempeste e tornado avevano spazzato invece il Sud, dall’Oklahoma alla Louisiana, causando 8 vittime e lasciando senza elettricità 300 mila persone. Tra gli altri eventi dannosi, le disastrose valanghe e alluvioni che in Afghanistan e Pakistan hanno provocato almeno 54 morti. Sospinti dai venti occidentali, i fumi degli incendi australiani hanno attraversato il Pacifico raggiungendo perfino il Cile e l’Argentina, distanti 12 mila chilometri, ma adesso si esulta per i temporali che hanno finalmente bagnato il Nuovo Galles del Sud e lo stato di Victoria attenuando l’emergenza incendi (fino a 126 mm piovuti in 24 ore tra giovedì e venerdì). La Nasa e la Noaa confermano che il 2019 è stato il secondo anno più caldo, dopo il 2016, in 140 anni di misure a scala planetaria, 1,1 °C sopra la media preindustriale, e le temperature dell’ultimo decennio secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale sono le più alte mai registrate. Oltre il 90 per cento dell’energia termica in eccesso intrappolata nel sistema-Terra per l’aumento dei gas serra viene assorbita dagli oceani, che nel 2019 hanno raggiunto un nuovo record di contenuto di calore nei primi duemila metri dalla superficie, irrobustendo un’inquietante tendenza descritta nell’articolo Record-Setting Ocean Warmth Continued in 2019 di Lijing Cheng e colleghi, su Advances in Atmospheric Sciences. Basterà il (benvenuto) Green Deal europeo a placare il mostro che abbiamo creato?

Meglio essere vicini a Dio nel deserto che lontani da lui in Terra Promessa

Che la pratica religiosa in Italia (e in Europa) sia in caduta libera non lo dicono soltanto le ricerche sociologiche, ma anche l’esperienza quotidiana di tutti noi. Ricordo una mamma arrabbiatissima, davanti alla scuola di mia figlia, che raccontava a un’altra mamma la “pretesa” del parroco che il figlio andasse anche qualche volta a messa per prepararsi alla cresima: “Ma non gli basta che già vada a catechismo?”. Proprio non capiva. E anche in ambito protestante le cose non sono molto diverse. La verità è che la fede, in particolare quella cristiana, è sempre meno una questione di tradizione e abitudine e sempre più una scelta personale. Il che incide sui numeri. Un bene per alcuni, un grave male per altri.

Tra le letture bibliche proposte per questa domenica dal lezionario Un giorno una parola (ed. Claudiana), troviamo il brano di Esodo 33,12-23 in cui Mosè implora Dio di continuare ad accompagnare il suo popolo nel lungo viaggio dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della Terra Promessa. Che cosa era successo? Era successo che dopo la fuga miracolosa dall’Egitto e un lungo cammino nel deserto, il popolo si era accampato ai piedi del monte Sinai, dove aveva ricevuto le tavole della Legge (Esodo 20) ma dove aveva anche tradito la fiducia nel Dio liberatore adorando un idolo che aveva rappresentato con la statua di un vitello d’oro (Esodo 32).

La crisi viene superata drammaticamente ma, ci racconta il libro dell’Esodo, Dio incomincia a disperare di poter educare questo popolo ad avere un rapporto leale e fiducioso con lui. Perciò decide di farlo partire verso la Terra Promessa senza di lui ma solo con l’accompagnamento di “un angelo” (33,2). La promessa di Dio, perciò, rimane e si compirà, ma la sua presenza in mezzo al popolo non sarà piena ma parziale, non più vicina ma lontana perché delegata a un angelo. Per quale motivo? Perché: “Voi siete un popolo dal collo duro; se io venissi un momento solo in mezzo a te, ti consumerei” (33,5).

Mosè non sa che cosa fare. Partire o non partire? Fino lì sono arrivati, Dio continua a tener ferma la promessa di portarli in una terra dove “scorre il latte e il miele”, ma che cosa succederà poi? Quale futuro avrà questo popolo? Potrà e saprà vivere senza essere accompagnato “da vicino” dal suo Dio? Mosè sa che questa presenza vicina è vitale per lui e per il popolo appena liberato. Perciò decide di dirgli: “Se non vieni anche tu, io non mi muovo”. Mosè non vuole essere a capo di un popolo di Dio che ha perso Dio per strada! “Se la tua presenza non viene con me, non farci partire di qui. Poiché, come si farà ora a conoscere che io e il tuo popolo abbiamo trovato grazia agli occhi tuoi, se tu non vieni con noi?” (33,15-16).

Come risponde Dio? Ancora una volta dà ascolto alla preghiera di Mosè: “Farò anche questo che tu chiedi, perché tu hai trovato grazia agli occhi miei, e ti conosco personalmente” (33,17). Dio continuerà a camminare accanto al suo popolo. Mosè non ha dato per scontata la presenza di Dio, e forse anche per questo la riceve. E ciò non avviene per meriti particolari, ma per sola “grazia”. Mosè l’ha capito e a questa grazia ha fatto appello nella sua preghiera a Dio: tre volte pronuncia questa parola e, in questo dialogo, tre volte la pronuncia Dio.

Il cristianesimo di oggi, nella sua attuale situazione di difficoltà e disorientamento, dovrebbe ricordare più spesso questo episodio: meglio vicini a Dio nella precarietà del deserto che lontani da Dio nella sicurezza della Terra Promessa. Senza questo accompagnamento “da vicino” non c’è popolo di Dio, non c’è missione evangelicamente orientata, non c’è benedizione per tutti i popoli della terra.

Ci sono due Papi ma nessun leader

Il fatto che dal Colle del Vaticano due Papi veglino sulle sorti della cristianità cattolica non permette neppure ai credenti più rigorosi di pensare a un nuovo disegno di uno Spirito Santo estroso. Il problema è terrestre, romano e politico. Tutto si poteva accettare dalla volontà di Dio, ma non un Papa progressista che non santifica il potere, non vede niente di divino nella ricchezza e ama come figli e fratelli gli immigrati. Come se non bastasse, è un uomo intelligente e colto, anche abile, difficile da confutare. Per agganciare in uno scontro questo Papa, che non abita neppure in Vaticano, bisognava dimostrare che la Chiesa era in pericolo per gravi ragioni di Chiesa; per esempio, aprire alle donne il sacerdozio e discutere sul celibato. Ma donne e celibato sono una perfetta ragione finta.

Un Papa come Bergoglio ha creato un grande problema politico, dal rifare i conti al tesoro della Chiesa al cambiare, senza convenienti sottomissioni, il rapporto con i governi. Ha svelato l’ipocrisia delle destre accanitamente cristiane (dal passato indimenticato della crudele Spagna di Franco alla Polonia attuale di Kaczynski e dei suoi colleghi fascistizzanti). Il problema, è giusto ripetere, è politico, non religioso. Perciò qualcuno, in Chiesa e fuori, ha deciso che era necessario nasconderlo. E allora bisognava trascinare in scena un altro Papa che, da mite e nascosto ex Vicario di Dio, è stato forzato a impersonare, come un attore, la “vera Chiesa”. Tutto ciò, benché pericoloso e squilibrante, dimostra che due diversi eserciti di Dio sono vivi e attivi, se non altro nel fronteggiarsi, e ciascuno è deciso a non cedere il passo.

L’altra parte dello schermo italiano mostra il fotogramma fisso e vuoto della politica dei partiti, del Parlamento, delle istituzioni e soprattutto dei cittadini soli e sbandati. Come ai tempi della pellicola in celluloide, che a volte si bruciava nel mezzo di una proiezione, sullo schermo della politica vedi segni di bruciato (bruciato il vecchio leader, bruciato il nuovo, bruciato il progetto promesso, annullato l’intervento su cui si era giurato ). Il pubblico (in certi contesti si dice “il popolo”) appare diviso in arrabbiati, vendicativi e inerti. Ma quasi dovunque, nel Paese, è stato lasciato un vasto spazio libero, senza popolo. In quello spazio non c’è traccia né di un primo né di un secondo Papa. Sì, certo, ci sono spietate e furibonde lotte intestine, ma, appunto, intestine, combinate in modo da colpire l’avversario personale, non la visione di qualcosa che riguarda tutti.

I cittadini, che vorrebbero sapere, capire ed essere coinvolti (tramite il Parlamento), vengono esclusi, dimenticati nella lotta fra modesti capi di qualche cosa che non si può decifrare neppure nei più accurati Tg e nei migliori talk show. Il lettore ha già capito che non sto parlando solo del clamoroso caso del Pd, che da secondo partito del Paese si è auto-bloccato per dedicarsi a un feroce cannibalismo interno. Ciò che sto raccontando avviene in tutto l’universo politico italiano, in cui ogni partito è dotato di memoria offesa, rancore, trabocchetti già aperti, vendetta che sta per venire, rivelazioni che mobiliteranno la stampa, i social, la tribù, la Rete, ma non la politica. Però non si vede, salvo qualche offerta personale che non incontra attenzione, l’ombra di un leader o – è il vero fatto nuovo – la ricerca aperta e consapevole di un leader.

Legittime le obiezioni. La Lega ha un capo e lo usa come arma. Ma la Lega è una storia a parte, la storia di un uomo solo al comando, che vuole e chiede pieni poteri. La Lega, secessionista e nazionalista, partito di patria e di affari, è una costruzione abusiva fuori dalle mura costituzionali italiane e delle leggi europee. È una forza mercenaria che serve ancora e solo gli interessi secessionisti (detti ora “autonomia”) di una parte di business del Nord, più altri interessi mai rivelati. Altrimenti incontrate il partito detto (dal bel titolo del celebre libro di Arbasino) “Fratelli d’Italia”, che non nasce da camuffamenti e da imbrogli, ma da una marcia bene organizzata e ben diretta verso il passato. Si è formato intorno a una leader che può anche avere cattivi sentimenti (come affondare subito le navi che hanno salvato migranti, e rispedire subito i migranti nei peggiori lager del mondo), però mantiene, senza trucchi e repubbliche da spiaggia, una sua autorevolezza. Dovremmo dire che la politica italiana ha un solo punto vivo in una larga e confusa aggregazione di destra che occupa tutto lo spazio che altrove si chiamerebbe “conservatore”?

Non ho parlato delle Sardine, della sorpresa e dell’ammirazione per il fenomeno inatteso accaduto “fuori le mura”, mentre i partiti che avrebbero dovuto essere in piazza si massacravano al chiuso, nelle stanze delle loro sedi, dove stanno le vere poltrone. Non ne ho parlato, anche se vedo il segnale di un vero risveglio e lo attendo, perché devono parlare loro. Possibilmente non in televisione.