Craxi infanga Di Pietro: lui dice che era in bagno Poi tenta il “Salvaladri”

Dopo tanti scandali sparsi per l’Italia, nel 1992 il pool Mani Pulite scoperchia l’intero sistema di Tangentopoli. Craxi spedisce Amato a Milano come commissario del Psi. E lui si segnala subito per rigore morale e lungimiranza: “Il tentativo di coinvolgere Craxi nella storia di Mario Chiesa mi sembra il classico scandalo montato sul nulla per impedire che Craxi abbia l’incarico” (7.6.’92). Infatti sarà proprio Chiesa a inguaiare Bettino. Dopo le elezioni-terremoto di aprile e la strage di Capaci del 23 maggio, il nuovo presidente Oscar Luigi Scalfaro deve nominare il nuovo premier al posto di Andreotti. L’accordo Dc-Psi prevede il ritorno di Craxi, ma le confessioni di politici e imprenditori fanno di lui un indagato sicuro. Le alternative sono Amato e Martelli, il delfino che però sta scaricando Bettino. Così tocca ad Amato, ritenuto più fedele al segretario. Il suo governo è un lombrosario: infatti in pochi mesi perderà per strada ben 7 ministri, impallinati da avvisi di garanzia per tangenti. Poi, per tamponare la crisi economico-finanziaria che vede lo Stato sull’orlo della bancarotta, vara una legge finanziaria da 92mila miliardi di lire tutta tasse e tagli. E, non bastando, dispone nottetempo il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti degli italiani.
Molti gli rimprovereranno anche la strenua difesa della lira per tutta l’estate, decisa da lui, dal governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, dal suo direttore generale Lamberto Dini, dal ministro del Tesoro Piero Barucci (Dc) e dal suo direttore generale Mario Draghi. Una politica monetaria suicida che polverizza le riserve valutarie della Banca d’Italia (48 miliardi di dollari) e poi porta ugualmente alla svalutazione del 30%. Mega-speculatori, investitori e banche internazionali, “intuita” la linea Amato, guadagnano fortune colossali attaccando e vendendo in massa la debole valuta italiana. Ma anche banche, imprese e politici hanno tutto il tempo di uscire da debiti in monete forti, per acquistare da Bankitalia dollari e marchi (pagando con lire vicine al deprezzamento) e nascondere capitali all’estero. Come scriverà sul Fatto Ivo Caizzi, il quintetto Amato-Barucci-Draghi-Ciampi-Dini verrà soprannominato ironicamente dagli speculatori ingrassati il “Dream Team” o la “Squadra del ’92”. E farà carriera: a parte Barucci, approderanno tutti a Palazzo Chigi.
Appena giunto al governo, Amato non fa nulla per bloccare la trattativa Stato-mafia, avviata dal vicecapo del Ros Mario Mori con Vito Ciancimino. Il 22 luglio Mori ne informa Fernanda Contri, segretario generale della Presidenza del Consiglio, che avvisa subito il premier.

Sentito come teste al processo Trattativa, Amato dirà di non ricordare nulla neppure di uno dei nodi più intricati della nascita del suo governo: le manovre per cacciare due ministri antimafia come Martelli alla Giustizia e Scotti a Viminale (riuscite a metà con l’arrivo di Mancino al posto di Scotti). Un’amnesia che, scriverà nella sentenza la Corte d’assise di Palermo nel 2018, “non può non suscitare perplessità”.

Poker d’assi alla toilette. Il 27 agosto 1992, da premier, Amato partecipa alla segreteria Psi convocata da Craxi per scatenare l’offensiva dei dossier contro Di Pietro. Dirà poi di non essersi accorto dello scopo della riunione perché, nel momento clou, era andato alla toilette. In realtà in quel nobile consesso vengono esaminate alcune informative dei servizi segreti sul pm di Mani Pulite (la Mercedes usata, il telefonino, qualche prestito, le amicizie con alcuni socialisti suoi futuri indagati) e i risultati di attività spionistiche illegali sull’intero Pool di Milano. Rino Formica, all’uscita, dichiara: “Bettino ha in mano un poker d’assi”. “Amato – racconterà Di Donato – era rimasto a bocca aperta per le rivelazioni e come tutti si era sentito rassicurato per il futuro”. Altro che toilette. Carlo Ripa di Meana, allora ministro craxiano dell’Ambiente, interrogato nel ’95 a Brescia, racconterà: “Amato (nell’estate ’92, ndr) mi disse: ‘Io ho i rapporti del capo della Polizia (Vincenzo Parisi, ndr) e di tutti i servizi, che dicono che bisogna fermare questo pool, e in particolare Di Pietro, perché questi stanno mettendo in pericolo le istituzioni’…”. Altri particolari Ripa di Meana li racconterà nella sua autobiografia Cane sciolto (Kaos, 2000): “Trovavo inaccettabile il silenzio del governo (Amato, ndr) che non aveva aperto bocca per difendere l’indipendenza dei giudici… Pensavo che Craxi dovesse essere fermato prima che completasse la propria rovina personale e quella del Psi… Decisi che avrei scritto una lettera aperta ai magistrati milanesi (‘Fate un lavoro necessario. Chi vi attacca per fermarvi sbaglia’) e che comunque avrei rotto col governo, con il partito e col mio amico Bettino… Amato mi rimproverò: disse che l’azione giudiziaria di Mani Pulite – come indicavano i Servizi e il capo della Polizia Parisi – era un pericolo per le istituzioni. Poi il confronto tra noi a Brescia, con Giuliano che pretendeva di negare tutto…”.

Il 9 febbraio 1993, poco dopo le dimissioni di Craxi da segretario Psi, rientra dalla latitanza l’architetto socialista Silvano Larini, collettore delle tangenti milanesi. E svela al Pool i segreti del Conto Protezione (usato negli anni 80 dal banchiere piduista Roberto Calvi, complice Licio Gelli, per girare a Craxi una mazzetta dell’Eni di 8 miliardi). Intanto i pm arrivano al cuore di Tangentopoli con le indagini su Enimont, il Gotha della finanza (Fiat, Fininvest, Ligresti) e delle Partecipazioni statali (Eni, Iri, Enel) e sulle tangenti rosse al Pci-Pds tramite Primo Greganti. Il Sistema sta per saltare e Amato si precipita al salvamento.

“Bettino, abbi fede”. Il 9 febbraio, mentre Larini canta in Procura, su carta intestata “Il Presidente del Consiglio dei ministri”, il premier Amato scrive una lettera non protocollata all’amico Bettino – indagato per corruzione, concussione e illecito finanziamento e furibondo perché il suo governo non fa nulla contro i pm – per suggerirgli la linea difensiva e rassicurarlo sul colpo di spugna che sta preparando. “Caro Segretario, prendo a calci i primi mattoni di un muro di silenzio che non vorrei calasse fra noi. E vorrei chiederti invece di avere fiducia in quel che io sto cercando di fare. Occorre certo che passi qualche giorno, che la situazione delle imprese, e non solo della politica, appaia (come del resto già è) insostenibile. È inoltre realisticamente utile che la macchia d’olio si allarghi. Neppure a quel punto credo che sarà possibile estinguere reati di codice. Ma credo che l’estensione per essi dei patteggiamenti e delle sospensioni condizionali sia una strada percorribile. Sto conquistando su questo preziosi consensi. E ritengo che si ottengano così procedure non massacranti, che evitano la pubblicità devastante dei dibattimenti e forniscono possibilità di uscita. Se posso darti un consiglio personale, ricomponi le tue linee difensive: tu hai detto che sapevi – come tutti – che c’erano dei finanziamenti irregolari. Ora neghi di aver avuto conoscenza delle singole cose che ti vengono addebitate. Ciò significa che neppure tu sapevi quanto fosse ramificata, estesa e legata a fatti specifici di corruzione o concussione la provvista dei fondi irregolari”. Poi parla della guerra nel Psi sul successore di Craxi: “Lo scontro è pericoloso. Anche se Claudio (Martelli, ndr) mi pare ormai in pericolo. Apprendo che, se ci fosse un riscontro a ciò che ha detto Larini, già sarebbe partito un avviso per concorso in bancarotta fraudolenta (del Banco Ambrosiano, ndr). Io sono qua. E continuo ad esserti grato ed amico. Giuliano”.

Il Dottor Spugna. Detto, fatto. Il 5 marzo Amato vara un decreto del ministro della Giustizia Giovanni Conso che depenalizza il reato di finanziamento illecito ai partiti. Un mega-colpo di spugna sulle indagini su Tangentopoli, senz’alcuna sanzione neppure politica o amministrativa per i colpevoli. Scalfaro e i presidenti delle Camere, Napolitano e Spadolini, sconsigliano. Conso tentenna. Ripa di Meana si dimette per protesta da ministro e dal Psi. Ma il premier tira dritto, garantendo l’avallo di Scalfaro. Che invece ha posto precisi paletti: “Chi confessa e patteggia per finanziamento illecito deve rinunciare per sempre alla vita pubblica”. Invece nel decreto c’è scritto solo che l’illecito finanziamento non è più reato, ma una semplice infrazione amministrativa senz’alcuna interdizione dai pubblici uffici. Non solo. C’è pure il bavaglio alla stampa: nessuna notizia sulle indagini fino al processo. “Non è un colpo di spugna, abbiamo fatto esattamente quel che ci ha chiesto il pool di Milano con Di Pietro e Colombo”, azzarda Amato. Ma il procuratore Francesco Saverio Borrelli lo sbugiarda a stretto giro: “Non consentiamo a nessuno di presentare come da noi richieste, volute o approvate, le iniziative in questione… Ciascuno si assuma davanti al popolo italiano le responsabilità politiche delle proprie scelte, senza farsi scudo… delle nostre opinioni. Che sono esattamente opposte al senso dei provvedimenti adottati. Il prevedibile risultato… sarà la totale paralisi delle indagini e la impossibilità di accertare fatti e responsabilità… Così si disincentiva qualunque forma di collaborazione”. Migliaia di cittadini indignati inondano di fax i giornali e scendono in piazza. Lega, Rete e Msi sparano a zero, il Pds si dissocia e Scalfaro non firma il decreto. Il governo Amato è ormai un morto che cammina.

(3 – continua)

Drive-in per il Colle: voto in parcheggio per i positivi

Anche il parcheggio dei deputati di via della Missione diventa seggio elettorale quirinalizio. È la soluzione trovata in conferenza dei capigruppo a Montecitorio per consentire anche ai positivi o in quarantena causa Covid di partecipare all’elezione del presidente della Repubblica. Per permettere a tutti i 1009 grandi elettori di arrivare al drive-in parlamentare sarà però necessario un intervento del governo che allarghi le maglie dei divieti in vigore per gli spostamenti di chi è contagiato o in quarantena. E che ieri è stato sollecitato dal presidente della Camera Roberto Fico, dopo che in aula due giorni fa erano stati approvati due ordini del giorno di Fratelli d’Italia e Forza Italia a larghissima maggioranza (sola eccezione, gli ex 5Stelle di Alternativa) per impegnare l’esecutivo a trovare una soluzione.

Secondo quanto apprende il Fatto da fonti del governo, “i tecnici dei ministeri competenti sono al lavoro per individuare entro domani (oggi per chi legge, ndr) le soluzioni per garantire la sicurezza sanitaria e lo strumento normativo – probabilmente un’ordinanza o una circolare – più adatto”.

Secondo quanto emerso dalla capigruppo, la possibilità di far votare i grandi elettori impossibilitati per via della pandemia è “coerente con le disposizioni costituzionali a presidio della libertà del parlamentare” e soprattutto l’opzione di farli arrivare a Roma è la modalità che maggiormente garantisce “la segretezza, la sicurezza e la contemporaneità delle operazioni elettorali”. Nel seggio volante allestito a ridosso della Camera opererebbero due segretari e alcuni funzionari parlamentari, personale che in questi mesi ha assistito i deputati che per ragioni di distanziamento si sono dovuti accomodare sulle tribune e nelle postazioni lungo il corridoio del Transatlantico: per l’elezione del Capo dello Stato l’emiciclo viene ulteriormente “allargato” al parcheggio. Che a ottobre era stato usato come area per i tamponi a cui sono stati sottoposti i delegati dei Parlamenti internazionali riuniti a Montecitorio per la conferenza sul clima.

“L’importante è che siano caduti dei tabù e che si sia affermato con forza il principio di garantire al massimo il diritto di elettorato attivo per un’elezione importantissima, poi tutte le scelte operative sono sempre opinabili” è stato il commento del costituzionalista e deputato dem Stefano Ceccanti, che nei mesi scorsi aveva invocato l’introduzione del voto a distanza per i lavori “ordinari” della Camera. La decisione della capigruppo sul voto dei positivi invece è stata contestata dai parlamentari di Alternativa. “La casta ha voluto scavare un solco più profondo tra se stessa e i cittadini italiani” ha detto Raffaele Trano, che insiste anche sulla questione di chi risiede nelle isole e attualmente, se sprovvisto di super green pass, non può imbarcarsi sui traghetti. Con chiosa degna del Marchese del Grillo: “Siamo alla sublimazione dell’‘Io so’ io e voi non siete un ca…’”.

Usa, Ue e “mercati” adesso ci ripensano: “Mario al Quirinale!”

È un venticello leggero per ora, ma ha una sua consistenza e anche se soffia sul Quirinale non è il ponentino e non arriva dal mare, ma dalle redazioni della meglio stampa mondiale. I mercati finanziari, le cancellerie europee e d’Oltreatlantico paiono aver capito che, acquisito il gran rifiuto di Sergio Mattarella, la soluzione più sensata per garantire lo status quo è Mario Draghi al Colle. Basta seguire i refoli del venticello per capire quali vele stia gonfiando.

Ultimo, ieri, è arrivato il Financial Times, giornale della City e portavoce informale della Bce (oltre che in ottimi rapporti col presidente del Consiglio). In un articolo firmato “The editorial board”, che dunque rappresenta la linea del quotidiano, si sancisce il “contrordine, banchieri”: se a novembre Draghi doveva rimanere a Palazzo Chigi, oggi serve al Quirinale. La situazione è incasinata, dice FT, e “il peggior risultato sarebbero elezioni anticipate che facciano deragliare il Pnrr. In queste circostanze, sarebbe meglio avere Draghi alla presidenza della Repubblica, dalla quale potrebbe usare i notevoli poteri e la moral suasion della carica per mantenere il Paese sulla buona strada”. Certo, c’è il problema di cosa succede al governo, ma ora non si scherza più: “Tutti i partiti principali, esclusa l’estrema destra di FdI, hanno firmato un contratto con l’Ue quando hanno approvato il Pnrr. Ora devono intestarselo”.

Mercoledì ci aveva già pensato il New York Times, anche se col suo inviato da Roma, a spiegare che le ovvie fibrillazioni seguite all’ascesa del premier al Quirinale devono spaventare, ma non troppo: “Sebbene sia una carica spesso cerimoniale, il ruolo ha anche enormi poteri, specialmente nelle crisi politiche” visto che “consente di scegliere primi ministri e governo, negare mandati a coalizioni deboli e sciogliere il Parlamento” (tanto più che Draghi avrebbe dalla sua “i rapporti coi leader stranieri e l’attenzione dei media, che potrebbero rendere la sua presidenza più robusta”). Stessa sottolineatura dell’Economist (controllato, sia detto en passant, dalla Exor di John Elkann, che giusto ieri ha visto Draghi a Palazzo Chigi) dell’8 gennaio: “Contano i risultati. I presidenti della Repubblica hanno il potere di sciogliere il Parlamento, nominano il primo ministro e restano in carica per un tempo lungo: 7 anni durante i quali acquisiscono un’autorità morale che può vincolare le azioni dei governi”. Più sfumato, ma non meno chiaro, ieri il capo delegazione dei socialdemocratici tedeschi a Strasburgo, Jens Geier (vicino al cancelliere Scholz): “Non entro nel dibattito italiano, ma conosciamo bene Draghi e sarebbe la figura adatta per il Quirinale”.

L’attuale premier può insomma garantire che tutto cambi perché nulla cambi: quale che sia il governo a febbraio o nel 2023, dal Colle sarebbe lui a guidarne l’obbedienza agli impegni già presi (checché se ne pensi nel merito, è il lavoro che – tra gaffe e incertezze – ha svolto Sergio Mattarella col governo gialloverde). Del resto la direzione di marcia per i prossimi sei anni è già fissata e si chiama Pnrr: prestiti in cambio di riforme indicate con tanto di tempistica. Una consapevolezza che qualcuno coltiva anche in Italia. Questo è l’editoriale di Paolo Pombeni sul Messaggero: dicendo che si andrà avanti col Piano qualunque sia il governo in carica, “il premier aveva semplicemente fatto presente un fatto che è ben noto agli addetti ai lavori. La realizzazione concreta delle politiche di intervento, specie di quelle di grande impegno come è nel caso del Pnrr, non è in mano ai ministri, ma alla struttura istituzionale dei ministeri”. I ministri vanno, i burocrati restano, si sa.

Il venticello, insomma, spira anche in Italia, anche se fino a ieri gli opinion maker ancora si domandavano se fosse meglio l’uovo oggi di Draghi al Quirinale o la gallina domani di Draghi premier il più a lungo possibile: “Draghi dal Quirinale può offrire all’Ue un certo tipo di garanzie; ma l’esecutivo si dirige da Palazzo Chigi ed è in quella sede che si possono fare errori dalle conseguenze imprevedibili”, s’angosciava su Repubblica Stefano Folli. Il posto, comunque, lo scelga lui, spiegava Carlo Verdelli sul CorSera: se vuole restare al governo bene, “se invece aspirasse al Colle, come forse gli era stato ventilato al momento della nomina il 13 febbraio scorso, la questione diventa come garantirgli un’elezione che non ne indebolisca la reputazione”. Per carità, a suo comodo, ma a giudicare dal venticello pare proprio che abbia già scelto.

Ma il premier aspetta e teme soltanto Casini

“La pratica su Draghi al Colle non è ancora chiusa. Ma una carta alternativa ancora non c’è”. La situazione la fotografa così una fonte di governo. La sintesi potrebbe essere anche un’altra: la politica è quasi rassegnata a eleggere il premier, ma cerca ancora una via d’uscita a una soluzione che non piace davvero a nessuno (tranne, forse, a Enrico Letta).

E così, mentre vanno avanti convulse le trattative sul governo che sarà, raccontano che a calare la carta alternativa sarà Matteo Renzi. All’ultimo momento farà il nome di Pier Ferdinando Casini. La strategia, giurano, è decisa: metterlo in mezzo all’ultimo momento per non bruciarlo. Ora, Renzi conta molto relativamente. Ma Casini è forse l’unico sul quale la politica potrebbe coagularsi: i centristi lo appoggerebbero, il Pd in blocco lo voterebbe, M5S potrebbe sceglierlo come male minore.

C’è chi osserva tra i dem: “È eletto nel Pd, ma è di destra”. Notazione interessante, che offre una sponda a Matteo Salvini, per iniziare. A Palazzo Chigi seguono la pratica con attenzione: sono convinti che l’inedito duo Conte-Renzi potrebbe convergere su quello che fu il presidente della Commissione d’inchiesta sulle banche, voluto dall’allora premier, quando si indagava – tra le altre cose – sul presunto conflitto d’interessi di Maria Elena Boschi. Un paradosso. Eppure Casini è considerato una figura abbastanza innocua da poter funzionare.

Il premier, che oggi presiederà un Cdm molto delicato su bollette e ristori, ha fatto intendere di essere pronto a lasciare se la maggioranza che elegge il capo dello Stato non fosse la stessa del governo. Casini, da buon democristiano, potrebbe riuscire nell’impresa. Ma, notano ai piani alti dell’esecutivo, starebbe a quel punto a lui e a Salvini trovare la quadra sul governo. L’ex Bce prosegue gli incontri. Ieri ha ricevuto il ministro della Scuola Patrizio Bianchi, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, e John Elkann. Il Quirinale entra inevitabilmente nei colloqui. Ma sembra che Draghi si prepari alla sua successione. Peraltro, il premier, eventualmente, dovrà incaricarlo lui. E ieri è saltata agli occhi la visita a Palazzo Chigi di Elisabetta Belloni, l’ambasciatrice che il premier ha voluto alla guida dei servizi, come direttore generale del Dis. I partiti discutono di eventuale rimpasto. L’idea che il premier debba essere un tecnico (come Vittorio Colao, in pole) in realtà non piace, ma la quadra su un politico è difficile. Si cerca di stringere su un tecnico donna, allora. Marta Cartabia, il primo nome su cui si lavorava, è invotabile dal M5S. La Belloni ha rapporti trasversali con la politica. Vicina a Draghi, fu nominata segretario generale della Farnesina da Gentiloni. Incarico che ha mantenuto con Di Maio, al quale ha aperto le porte della politica estera. Per le forze politiche sarebbe uno smacco, e il trasferimento irrituale dai Servizi a Palazzo Chigi. Ma i suoi sponsor – in Italia e fuori – non si contano.

Conte e Salvini ci provano: una donna o Mattarella bis

Due uomini assediati si ritrovano in un appartamento nel centro di Roma, all’ora di pranzo. Cercano di capirsi e aiutarsi, anche se nell’agosto 2019 si lasciarono da nemici. Ma per Giuseppe Conte e Matteo Salvini è maledettamente difficile evitare ciò che tanti danno ormai per inevitabile, l’elezione di Mario Draghi al Quirinale.

Complicato trovare una “figura condivisa” che venga deglutita a sinistra come a destra. A meno che non sia Sergio Mattarella, l’unico nome su cui potrebbe reggere tutto il Movimento. “Convergi anche tu su Mattarella” chiede così Conte al leghista. Lo esorta a fare da kingmaker, anticipando quel Silvio Berlusconi che scioglierà la riserva domenica, ma che quando si scosterà dalla riffa per il Colle – è la sensazione diffusa – lo farà solo per Draghi. Salvini lo sa, ma spostare la Lega su Mattarella non è affatto semplice. Così davanti all’ex premier ritira fuori la carta Letizia Moratti, indigeribile però per i 5Stelle (un gruppo di parlamentari lo ha fatto sapere a Conte: “Per noi Moratti e Giuliano Amato sono invotabili”).

Soprattutto, insiste sulla presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati. Ma come potrebbero votarla i giallorosa? “È solo un nome da bruciare” sussurra un big del M5S. Ore dopo, al fattoquotidiano.it Conte giurerà: “Con Salvini non abbiamo fatto nomi, ma abbiamo ragionato su un presidente che rappresenti tutti”. Ma un nome lo avrebbe fatto anche lui, quello dell’ex ministra della Giustizia Paola Severino. “Incontro interlocutorio, ma Salvini vuole ancora evitare Draghi” giura – e spera – un contiano.

A oggi, metà dei parlamentari del M5S non voterebbe Draghi. Mentre un big sostiene: “A Beppe Grillo hanno chiesto che ne pensa, e ha risposto che lui ha ben altro di cui occuparsi”. Del colloquio di ieri Conte aveva preavvertito il Pd. Ma il segretario dem Enrico Letta ha solo Draghi in testa, e a Radio Immagina lo fa capire: “Serve un nome condiviso e non di centrodestra, uno super partes”. E infatti Conte ai suoi lo ha raccontato: “Per Enrico c’è solo Draghi, non vuole nomi di centrodestra”.

Sul premier ha ormai virato anche Luigi Di Maio, che ieri ha sentito vari maggiorenti politici. Lo cercano tutti, e con tutti parla. Ma in pubblico tace. Resta coperto, in corsa anche per Palazzo Chigi. Dall’altra parte c’è Matteo Salvini che, smanioso di fare il kingmaker, vuole anticipare le mosse di Berlusconi. Lui e Giorgia Meloni sono spazientiti e vogliono chiedere al leader azzurro, rinchiuso ad Arcore, che il vertice si tenga il prima possibile: “Altrimenti lo convoco io” ha detto la leader di FdI.

Salvini domani potrebbe andare ad Arcore per incontrarlo. I due “giovanotti” non vogliono aspettare che sia Berlusconi, domenica sera, a decidere di ritirarsi indicando un nome. Lo vogliono anticipare.

E quindi il leghista ieri per tutta la giornata ha parlato anche con gli altri leader della coalizione (Lupi e Toti) per sondare altri nomi, sfiduciando di fatto Berlusconi. Poi, per dargli la carota, ha spiegato che “il centrodestra sarà compatto dall’inizio alla fine” e che “Silvio sarà determinante”. Un modo per provare a tenersi buono il leader di Forza Italia e fargli capire che sarà decisivo in ogni caso. Salvini però ha un problema: i nomi “di alto profilo” che ha in testa difficilmente sarebbero accettati da Berlusconi.

Nella Lega si pensa che alla fine il segretario sarà costretto a “subire” l’elezione di Draghi in cambio di un governo in cui il Carroccio abbia ancora più spazio. Per ora tiene il punto sul “no” al premier perché, dicono dalla Lega,, “sta facendo un ottimo lavoro a Palazzo Chigi”. L’ipotesi di Draghi in queste ore titilla anche Berlusconi. Anche se chi gli ha parlato sostiene che non abbia ancora mollato nonostante tutti, compresi i ministri azzurri, gli dicano di non avere i numeri. Gianni Letta dice a Ignazio La Russa che Berlusconi “è ancora convinto” di essere in corsa. Salvini e Meloni permettendo.

Affossa-lira e salva-ladri

Dopo tanti scandali sparsi per l’Italia, nel 1992 il pool Mani Pulite scoperchia l’intero sistema di Tangentopoli. Craxi spedisce Amato a Milano come commissario del Psi. E lui si segnala subito per rigore morale e lungimiranza: “Il tentativo di coinvolgere Craxi nella storia di Mario Chiesa mi sembra il classico scandalo montato sul nulla per impedire che Craxi abbia l’incarico” (7.6.’92). Infatti sarà proprio Chiesa a inguaiare Bettino. Dopo le elezioni-terremoto di aprile e la strage di Capaci del 23 maggio, il nuovo presidente Oscar Luigi Scalfaro deve nominare il nuovo premier al posto di Andreotti. L’accordo Dc-Psi prevede il ritorno di Craxi, ma le confessioni di politici e imprenditori fanno di lui un indagato sicuro. Le alternative sono Amato e Martelli, il delfino che però sta scaricando Bettino. Così tocca ad Amato, ritenuto più fedele al segretario. Il suo governo è un lombrosario: infatti in pochi mesi perderà per strada ben 7 ministri, impallinati da avvisi di garanzia per tangenti. Poi, per tamponare la crisi economico-finanziaria che vede lo Stato sull’orlo della bancarotta, vara una legge finanziaria da 92mila miliardi di lire tutta tasse e tagli. E, non bastando, dispone nottetempo il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti degli italiani.

Molti gli rimprovereranno anche la strenua difesa della lira per tutta l’estate, decisa da lui, dal governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, dal suo direttore generale Lamberto Dini, dal ministro del Tesoro Piero Barucci (Dc) e dal suo direttore generale Mario Draghi. Una politica monetaria suicida che polverizza le riserve valutarie della Banca d’Italia (48 miliardi di dollari) e poi porta ugualmente alla svalutazione del 30%. Mega-speculatori, investitori e banche internazionali, “intuita” la linea Amato, guadagnano fortune colossali attaccando e vendendo in massa la debole valuta italiana. Ma anche banche, imprese e politici hanno tutto il tempo di uscire da debiti in monete forti, per acquistare da Bankitalia dollari e marchi (pagando con lire vicine al deprezzamento) e nascondere capitali all’estero. Come scriverà sul Fatto Ivo Caizzi, il quintetto Amato-Barucci-Draghi-Ciampi-Dini verrà soprannominato ironicamente dagli speculatori ingrassati il “Dream Team” o la “Squadra del ’92”. E farà carriera: a parte Barucci, approderanno tutti a Palazzo Chigi.

Appena giunto al governo, Amato non fa nulla per bloccare la trattativa Stato-mafia, avviata dal vicecapo del Ros Mario Mori con Vito Ciancimino. Il 22 luglio Mori ne informa Fernanda Contri, segretario generale della Presidenza del Consiglio, che avvisa subito il premier.

Sentito come teste al processo Trattativa, Amato dirà di non ricordare nulla neppure di uno dei nodi più intricati della nascita del suo governo: le manovre per cacciare due ministri antimafia come Martelli alla Giustizia e Scotti a Viminale (riuscite a metà con l’arrivo di Mancino al posto di Scotti). Un’amnesia che, scriverà nella sentenza la Corte d’assise di Palermo nel 2018, “non può non suscitare perplessità”.
Poker d’assi alla toilette. Il 27 agosto 1992, da premier, Amato partecipa alla segreteria Psi convocata da Craxi per scatenare l’offensiva dei dossier contro Di Pietro. Dirà poi di non essersi accorto dello scopo della riunione perché, nel momento clou, era andato alla toilette. In realtà in quel nobile consesso vengono esaminate alcune informative dei servizi segreti sul pm di Mani Pulite (la Mercedes usata, il telefonino, qualche prestito, le amicizie con alcuni socialisti suoi futuri indagati) e i risultati di attività spionistiche illegali sull’intero Pool di Milano. Rino Formica, all’uscita, dichiara: “Bettino ha in mano un poker d’assi”. “Amato – racconterà Di Donato – era rimasto a bocca aperta per le rivelazioni e come tutti si era sentito rassicurato per il futuro”. Altro che toilette. Carlo Ripa di Meana, allora ministro craxiano dell’Ambiente, interrogato nel ’95 a Brescia, racconterà: “Amato (nell’estate ’92, ndr) mi disse: ‘Io ho i rapporti del capo della Polizia (Vincenzo Parisi, ndr) e di tutti i servizi, che dicono che bisogna fermare questo pool, e in particolare Di Pietro, perché questi stanno mettendo in pericolo le istituzioni’…”. Altri particolari Ripa di Meana li racconterà nella sua autobiografia Cane sciolto (Kaos, 2000): “Trovavo inaccettabile il silenzio del governo (Amato, ndr) che non aveva aperto bocca per difendere l’indipendenza dei giudici… Pensavo che Craxi dovesse essere fermato prima che completasse la propria rovina personale e quella del Psi… Decisi che avrei scritto una lettera aperta ai magistrati milanesi (‘Fate un lavoro necessario. Chi vi attacca per fermarvi sbaglia’) e che comunque avrei rotto col governo, con il partito e col mio amico Bettino… Amato mi rimproverò: disse che l’azione giudiziaria di Mani Pulite – come indicavano i Servizi e il capo della Polizia Parisi – era un pericolo per le istituzioni. Poi il confronto tra noi a Brescia, con Giuliano che pretendeva di negare tutto…”.
Il 9 febbraio 1993, poco dopo le dimissioni di Craxi da segretario Psi, rientra dalla latitanza l’architetto socialista Silvano Larini, collettore delle tangenti milanesi. E svela al Pool i segreti del Conto Protezione (usato negli anni 80 dal banchiere piduista Roberto Calvi, complice Licio Gelli, per girare a Craxi una mazzetta dell’Eni di 8 miliardi). Intanto i pm arrivano al cuore di Tangentopoli con le indagini su Enimont, il Gotha della finanza (Fiat, Fininvest, Ligresti) e delle Partecipazioni statali (Eni, Iri, Enel) e sulle tangenti rosse al Pci-Pds tramite Primo Greganti. Il Sistema sta per saltare e Amato si precipita al salvamento.
“Bettino, abbi fede”. Il 9 febbraio, mentre Larini canta in Procura, su carta intestata “Il Presidente del Consiglio dei ministri”, il premier Amato scrive una lettera non protocollata all’amico Bettino – indagato per corruzione, concussione e illecito finanziamento e furibondo perché il suo governo non fa nulla contro i pm – per suggerirgli la linea difensiva e rassicurarlo sul colpo di spugna che sta preparando. “Caro Segretario, prendo a calci i primi mattoni di un muro di silenzio che non vorrei calasse fra noi. E vorrei chiederti invece di avere fiducia in quel che io sto cercando di fare. Occorre certo che passi qualche giorno, che la situazione delle imprese, e non solo della politica, appaia (come del resto già è) insostenibile. È inoltre realisticamente utile che la macchia d’olio si allarghi. Neppure a quel punto credo che sarà possibile estinguere reati di codice. Ma credo che l’estensione per essi dei patteggiamenti e delle sospensioni condizionali sia una strada percorribile. Sto conquistando su questo preziosi consensi. E ritengo che si ottengano così procedure non massacranti, che evitano la pubblicità devastante dei dibattimenti e forniscono possibilità di uscita. Se posso darti un consiglio personale, ricomponi le tue linee difensive: tu hai detto che sapevi – come tutti – che c’erano dei finanziamenti irregolari. Ora neghi di aver avuto conoscenza delle singole cose che ti vengono addebitate. Ciò significa che neppure tu sapevi quanto fosse ramificata, estesa e legata a fatti specifici di corruzione o concussione la provvista dei fondi irregolari”. Poi parla della guerra nel Psi sul successore di Craxi: “Lo scontro è pericoloso. Anche se Claudio (Martelli, ndr) mi pare ormai in pericolo. Apprendo che, se ci fosse un riscontro a ciò che ha detto Larini, già sarebbe partito un avviso per concorso in bancarotta fraudolenta (del Banco Ambrosiano, ndr). Io sono qua. E continuo ad esserti grato ed amico. Giuliano”.
Il Dottor Spugna. Detto, fatto. Il 5 marzo Amato vara un decreto del ministro della Giustizia Giovanni Conso che depenalizza il reato di finanziamento illecito ai partiti. Un mega-colpo di spugna sulle indagini su Tangentopoli, senz’alcuna sanzione neppure politica o amministrativa per i colpevoli. Scalfaro e i presidenti delle Camere, Napolitano e Spadolini, sconsigliano. Conso tentenna. Ripa di Meana si dimette per protesta da ministro e dal Psi. Ma il premier tira dritto, garantendo l’avallo di Scalfaro. Che invece ha posto precisi paletti: “Chi confessa e patteggia per finanziamento illecito deve rinunciare per sempre alla vita pubblica”. Invece nel decreto c’è scritto solo che l’illecito finanziamento non è più reato, ma una semplice infrazione amministrativa senz’alcuna interdizione dai pubblici uffici. Non solo. C’è pure il bavaglio alla stampa: nessuna notizia sulle indagini fino al processo. “Non è un colpo di spugna, abbiamo fatto esattamente quel che ci ha chiesto il pool di Milano con Di Pietro e Colombo”, azzarda Amato. Ma il procuratore Francesco Saverio Borrelli lo sbugiarda a stretto giro: “Non consentiamo a nessuno di presentare come da noi richieste, volute o approvate, le iniziative in questione… Ciascuno si assuma davanti al popolo italiano le responsabilità politiche delle proprie scelte, senza farsi scudo… delle nostre opinioni. Che sono esattamente opposte al senso dei provvedimenti adottati. Il prevedibile risultato… sarà la totale paralisi delle indagini e la impossibilità di accertare fatti e responsabilità… Così si disincentiva qualunque forma di collaborazione”. Migliaia di cittadini indignati inondano di fax i giornali e scendono in piazza. Lega, Rete e Msi sparano a zero, il Pds si dissocia e Scalfaro non firma il decreto. Il governo Amato è ormai un morto che cammina.

(3 – continua)

Pompei, il direttore si “veste” da vigilante: “Per capire cosa vogliono i visitatori”

“Stare vicino ai visitatori è fondamentale, perché ti aiuta a capire il loro punto di vista e come incuriosirli: anche questo fa parte del mio lavoro”. Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Pompei, il 18 gennaio l’ha passato come un normale addetto alla vigilanza: tra l’incredulità generale, si è presentato in mattinata nell’ufficio del personale, chiedendo di essere inserito nel turno di guardia. E così ha passato un intero pomeriggio coprendo una vasta area che va da via dei Sepolcri fino alla celebre Villa dei Misteri. “Non sono il primo a fare una cosa del genere – dice Zuchtriegel – che anzi mi ha fatto tornare in mente il periodo dell’Università, quando facevo la guida nei musei di Berlino e dovevo seguire tanti bambini: un’esperienza per me importantissima, dato che rischiavo sempre di perderli di vista, e quindi provavo a ‘catturarli’ raccontargli i monumenti in maniera accattivante”. Nato nel 1981 a Weingarten, nell’allora Repubblica Federale Tedesca, Zuchtriegel ha studiato archeologia a Berlino, conseguendo un dottorato di ricerca sul sito di Gabii, vicino Roma, all’Università di Bonn. Dopo una lunga esperienza di docenza universitaria, è stato messo alla guida del parco di Paestum, in provincia di Salerno, prima di essere nominato dal ministro della Cultura, Dario Franceschini, a capo del sito di Pompei lo scorso febbraio: uno dei parchi archeologici più famosi al mondo, talmente grande da risultare difficile da gestire, con i suoi 44 chilometri quadrati di estensione. “Questa mia visita – prosegue – mi ha dato diversi spunti su come gestire le complessità derivanti da questa vastità. Diversi visitatori andavano nella Villa dei Misteri perché guidati dalla mappa o dalla nostra app, ma molti altri ci arrivavano per caso, forse attratti dalla bellezza del paesaggio di quella zona. E questo può essere un buono spunto, per noi archeologi, al fine di migliorare l’esperienza delle persone”. Girando fra gli scavi, Zuchtriegel ha fornito indicazioni ai visitatori sulle tante domus del parco, raccontando la storia di monumenti e strutture seppelliti dalla cenere del Vesuvio durante l’eruzione del 79 d.C. “Il lavoro di quelli che di solito vengono chiamati ‘custodi’ va ben oltre la vigilanza: stanno a contatto con i visitatori, li accolgono e gli danno informazioni” dice il direttore, spiegando il lavoro degli impiegati del parco. “Fare questa cosa è stata un’occasione importante, per capire quali sono i comportamenti e le domande dei visitatori, ma anche per mettermi nei panni dei collaboratori del sito archeologico” spiega Zuchtriegel, parlando dell’impegno nella gestione del parco, e che riguarda anche la tutela dei beni presenti. Lo scorso ottobre è stato rubato un reperto, un chiusino di marmo, dalla domus di Sirico. Per questo, alcune parti del sito vengono chiuse a rotazione, “unite a un sistema di videosorveglianza sempre attivo. È che, per far sì che questi episodi si ripetano, bisogna assicurarsi che i visitatori seguano i percorsi prestabiliti”.

“Licorice Pizza”, un gioiello per star, trama e figlio di…

Era la prova del nove – i lungometraggi in un quarto di secolo – e il sommo Paul Thomas Anderson non l’ha fallita: Licorice Pizza è un gioiello. Nella forma cinematografica, nella sostanza vitale, nell’educazione sentimentale: boy-meets-girl per genere, American Graffiti e il primo Woody Allen, i Goonies e l’ultimo Quentin Tarantino per prossimità, sopra tutto, il genio di PTA (Magnolia, The Master, Il filo nascosto), che della leggerezza calviniana qui provvede davvero lezioni americane.

1973, San Fernando Valley, le geometrie variabili del primo amore, i rovesci e le schiarite del quindicenne Gary Valentine e della venticinquenne Alana Kane. A incarnarli sono gli strepitosi Cooper Hoffman, il figlio del compianto Philip Seymour che PTA ha allevato come proprio, e Alana Haim, la chitarrista della band Haim formata con le sorelle Este e Danielle, ambedue nel cast, cui tocca una missione proibitiva: passare da Zemeckis a Truffaut, da Doillon a Sayles senza colpo ferire, rimodulando e risintonizzando – la colonna sonora di Jonny Greenwood ospita David Bowie, Nina Simone, Paul McCartney, Donovan, Sonny & Cher – le toccate e fughe della giovinezza, la sinfonia pudica e sensuale della gioventù.

Dunque Gary, baby attore per lo showbiz, pasciuto adolescente sulla bilancia, adulto mitologico nell’ambizione: dai ristoranti nippoamericani pubblicizzati per conto madre ai letti ad acqua veicolati con Alana, fino ai flipper in solitaria, una ne fa e cento ne pensa, ma l’ostinazione per gli affari rimane seconda a quella per Alana, che non è canonicamente bella, è straordinariamente intensa, promessa di felicità e premessa di fatica. Insieme elevano a potenza la coppia come raramente al cinema: PTA si fida e affida, concedendo i propri ricordi e desideri. Non c’è calco, ma surplus di accudimento, senza dover dare spiegazioni: come fa il quindicenne Gary a trovare tanto credito presso la seconda e terza età? Licorice Pizza – basterebbe il titolo che non ha evidenza diegetica a suggerirlo – non nasce per suffragare, cresce per appassionare. Un feel good movie eterodosso, umile nell’attitudine e prezioso nella fattura, che non dispensa buoni sentimenti, ma offre persone buone. A corroborare i corposi cammei di Sean Penn, Bradley Cooper (rischia l’Oscar), Benny Safdie, tutti e tre attori e registi nella vita, e Tom Waits, che essendo solo attore interpreta un regista: non sono figurine, bensì valore aggiunto, in primis storico. Se lo stesso Gary è modellato sul child actor Gary Goetzman, il Jack Holden di Penn echeggia il re del botteghino degli anni 50 William Holden, il Rex Blau di Waits il cineasta de I ponti di Toko-Ri Mark Robson, Safdie è il politico, allora gay non dichiarato, Joel Wachs e Cooper il produttore John Peters, confesso “malato di fica”, già partner di Barbra Streisand e cinque volte sposo, l’ultima volta a Pamela Anderson. Nessuno escluso, ci stanno a meraviglia in questa pizzata tra amici e familiari, giacché nel cast compaiono pure la moglie Maya Rudolph e i quattro figli di PTA. “My Valentine”, lo dirà prima o poi Alana al suo Gary? La soluzione in sala a metà marzo con Eagle Pictures, ora una previsione: per i parametri degli Oscar forse Licorice Pizza è di piccola taglia, ma ha una misura unica. Quella umana.

 

“Fedez mi ha salvato Sanremo. E va bene il 2° posto dopo Ranieri”

Caro Gianni Morandi, cosa le ricorda la data del 5 luglio ’71?

La mia notte più buia. Ancora la sogno.

Lei al Vigorelli, prima dei Led Zeppelin.

Quel pazzo di Radaelli, organizzatore del Cantagiro, invitava le star mondiali a ogni tappa. Temevo l’impatto dei Led Zeppelin.

Le tirarono di tutto.

Zolle, pomodori. Si esibivano pure Dalla, Milva, New Trolls, i Vianella. Radaelli sentiva il boato dei rocchettari, li credeva entusiasti. Cantai C’era un ragazzo, ma non bastò.

Andò in crisi.

Non erano più gli anni spensierati del boom, i Settanta sarebbero stati tragici. Ci misi un decennio per tornare in sella. Mogol, che aveva rotto con Battisti, mi volle nella Nazionale Cantanti. Parlavamo di pallone. Mi fece: ‘Tu non canti più?’.

E ricominciò.

Ci vuole culo, nella vita. Agli esordi, il mio manager, un arbitro di pugilato, invece di portarmi a Milano mi condusse a Roma. Provini di fronte a Morricone, Bacalov. Poi la fortuna devi sapertela mantenere.

Il primo 45 giri nel ’62, sessant’anni fa.

Andavo a cento all’ora. Negli stessi giorni esordivano i Beatles con Love me do. Loro si presero il mondo, io Monghidoro.

Via, ha resistito bene. Anche alle fiamme.

Altri sette secondi e sarei morto. Non avevo colto la gravità dell’incidente. Pensavo di cavarmela con le pomate. Mia moglie Anna chiamò l’ambulanza. Tre settimane al Bufalini di Cesena. Dove ho visto persone che stavano molto peggio.

La chiamò Jovanotti.

Mi disse: ‘Se vuoi, ho una canzone nel cassetto per te, dovevo cantarla io ma…’. Era L’allegria.

Il vostro secondo step è Apri tutte le porte, in gara a Sanremo.

Un inno di ottimismo. Molti ci vedono una spruzzata retrò, l’arrangiamento è di Mousse T, quello di Sex Bomb. Lorenzo ha creato un’atmosfera Motown, echi di Wilson Pickett. Amo sia un pezzo ritmato, di quelli melodici sanremesi ne ho fatti a palate. Devo solo ricantarmela mille volte prima dell’Ariston. Lorenzo ha messo mille incroci di parole nel testo.

(Morandi videochiama Jovanotti, che rivela di faticare affrontando le salite in bici per la fiacchezza post-Covid. Jovanotti: “E tu Gianni, ce la fai a suonare la chitarra? Come sta la mano?”. M: “Meglio. Provo con tre dita. Mi confronto con Nek, ha avuto anche lui un infortunio e ancora non ce la fa, ma riesce con il basso”. J: “Gaber usava tre dita. E Django Reinhardt due. Vidi un giamaicano, One Finger, aveva una chitarra con una corda sola, ci fece ballare tutti”. M: “Potrei fare un Tre Dita tour. Se Baglioni è alle prese con il suo Dieci Dita…”).

Voi due sarete insieme al Festival, per una sera?

M: Non possiamo annunciare i duetti, lo farà Amadeus. Per la cover penso a un medley dai 60 ai 90, con un mio classico in mezzo.

J: Non era scontato che Ama prendesse la nostra canzone. È stato Gianni a voler andare in gara, dopo avermi spinto a finire la bozza (Si congeda).

Morandi, perché in concorso?

È più emozionante. I big italiani dovrebbero andare, non solo da ospiti in promozione. Venditti, De Gregori. Da direttore artistico mi inginocchiai per convincere Vecchioni, che vinse. Convinsi Dalla per Carone, Battiato a dirigere l’orchestra per Luca Madonia…

Ha rischiato la squalifica per uno spoiler su Instagram.

Ho sbagliato. Mi ha salvato il precedente di Fedez che poi mi ha chiamato: “Ti serve un social manager?”.

Ieri lei ha ripreso l’attività live dal Duse di Bologna.

Avevamo interrotto il tour a inizio pandemia, pensavamo di star fermi tre settimane, sono passati due anni. Stiamo recuperando le date, c’è il tutto esaurito, abbiamo aggiunto uno show il 17 febbraio. Non canterò con la mascherina. Con la FFp2 non si capirebbe niente. Amo il Duse. Il teatro dove nel ’64 debuttò Dalla. Mamma Jole lo aveva portato, c’era la compagnia di Elsa Merlini, Lucio doveva dire una battuta. Chissà come si celebrerà il decennale della scomparsa. Andrò alla messa in suo ricordo.

L’autore della canzone che dà il titolo al recital, Stasera gioco in casa, è suo nipote Paolo Antonacci, figlio di Biagio.

Che ha anche scritto Sesso occasionale, con cui Tananai sarà a Sanremo. Nonno e nipote rivali.

Il suo vero avversario è Ranieri.

Se arrivasse primo e io secondo ci metterei la firma. Ma anche da ultimo non rischierò la carriera. Spero solo che la canzone piaccia.

Da Sanremo al Colle: una donna Capo dello Stato?

Sarebbe una gran cosa. Cartabia, Casellati, Moratti…

“Oggi”, Verdelli nuovo direttore del settimanale al posto di Brindani

“Ho diretto tanti giornali e c’è una regola alla quale attenersi. L’esperienza consiglia che è meglio non dire niente quando inizi e niente quando finisci. Si parla nel mezzo”. Così Carlo Verdelli che dal 1º febbraio assume la direzione di Oggi al posto di Umberto Brindani. Per l’uscita di Brindani la redazione del settimanale Rcs si era detta “sconcertata”.