I virologi da talk, come il Covid, non finiscono mai

È il terzo inverno che stiamo col Covid in tasca. Imbacuccati, mascherinati, igienizzati e sconfortati ci accingiamo a subire l’ultima ondata di virologi. La pandemia che non finisce mai ha infatti svuotato la panchina dell’infezione dei suoi migliori oracoli. E così, in tv e sui giornali sbucano forze fresche ma ignote, mai scese in campo. La scienza, come le grandi squadre di calcio, pesca nelle giovanili e propone alla sfida del secolo la squadra primavera per spiegare e curare.

Ieri è stato il turno della dottoressa Anna Teresa Palamara, che è responsabile del dipartimento delle malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità. Se già ci sembrava sconfortante la predizione di Anthony Fauci, il guru americano del virus, il papà di tutti combattenti della ricerca, che aveva annunciato come metà tra noi nel mondo si sarebbe ammalata d’ora in avanti per colpa di Omicron, la Palamara ieri non ha lasciato scampo all’altra metà che riteneva di averla scampata: “Il virus raggiungerà tutti”. Uno a uno, maschi e femmine, vaccinati e non, saremo chiamati al sacrificio.

Peggio però, e peggio davvero, ha spiegato Guido Silvestri, della Emory University, un altro cervello in fuga ma coinvolto da queste ultime devianze della discussione, se non continuiamo a difenderci con i vaccini. Uno, due, tre punture. Forse quattro o anche cinque ? E chi lo sa! Forse solo per i più fragili, ma in Israele già sono alla quarta (“e sapete perché? Colpa degli ultra ortodossi, no vax irriducibili” dice Ricciardi, il consigliere scientifico di Speranza). Altrove sono arrivati già a cinque punture. Addirittura. Se ci stanchiamo di vaccinarci, avverte il professor Silvestri, a ottobre si formerà una variante che coniugherà tutte le applicazioni più cattive e fetenti, le salderà in un unico blocco e attiverà un virus “feroce”.

Feroce. Qui sono iniziati a non tornare i conti perché, secondo quanto ci era stato detto, Omicron avrebbe tolto le tende entro gennaio, già a febbraio, al massimo a marzo saremmo stati liberati definitivamente. E invece l’annuncio che a ottobre si riprende. Tutto daccapo e tutto anche più terribile? Francesco Broccolo, che insegna Virologia alla Bicocca, aveva però appena finito di dire in televisione che di vaccini ne ha piene le tasche: “Basta parlare solo di Pfizer e Moderna, basta con le classifiche e i numeri, e dobbiamo anche capire che dopo la terza dose non ci potrà essere una quarta. Dobbiamo pensare ad altro, alle riformulazione delle terapie farmacologiche, al modo di convivere col virus”.

E Broccolo spiegava con convinzione che si muore anche col vaccino in tasca, così come anche Silvestri annunciava che si muore senza il vaccino in tasca e che ad ottobre una quinta possibile ondata avrebbe mandato al Creatore un sacco di gente (non solo no vax). Che confusione e che bailamme, pari alle notizie della scuola. Aperta al 93 per cento secondo il ministro dell’Istruzione, percentuale simile ma quasi perfettamente capovolta a sentire i professori lombardi. La maggioranza degli studenti è in quarantena. Si, no, forse?

Insomma: certezze incerte e sicurezze precarie. La Gran Bretagna è quasi fuori dal tunnel, scrive l’Oms, l’organizzazione mondiale della sanità. Appena lanciato in rete il take d’agenzia che il professor Fauci, il decano, riduce la speranza: “Siamo ancora al primo atto della pandemia. È ancora il primo tempo”.

Finora non avevamo mai ascoltato previsioni così terribili. Burioni ci sembrava il tipico prof col sopracciò ma non apocalittico, il collega Galli lievemente più pessimista, Crisanti monocorde, la Viola forse leziosa, Bassetti già destinato, per la sua vis comunicativa, alla politica o in subordine, perché la televisione apre mille porte, a Ballando con le stelle. I nostri virologi e scienziati della prima ora non ci sono mai parsi così definitivi, così enormemente disorientati. Figurarsi che il professor Zangrillo, già due anni fa, decretò la sostanziale scomparsa del virus.

Ora, col terzo inverno, attendevamo parole di ottimismo e con qualche lieve senso di spavento abbiamo invece valutato il numero dei morti, davvero enorme. Chiedendone ragione. Perché dottoressa Palamara ieri più di 400 deceduti malgrado la ricerca, gli studi, i nuovi farmaci? La dottoressa ha risposto così: “È una notizia molto dolorosa, che fa comprendere quanto il virus sia pericoloso”.

Grazie lo stesso.

Inps, l’età media di pensione sale ancora: 64 anni

L’età pensionabile avanza. Gli effetti della riforma Fornero del 2012, malgrado i correttivi approvati, sono evidenti nei numeri dell’età effettiva in uscita. Per i dipendenti privati questa è arrivata a 64,1 anni per gli uomini e a 63,2 per le donne. Ancora più alta quella degli autonomi: 64,8 per gli uomini e 64 per le donne. Il dato è stato diffuso nella relazione di fine mandato del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inps (Civ), presieduto da Gugliemo Loy. Le cifre vanno lette nel contesto: l’età per andare in pensione di vecchiaia è a 67 anni, ma molti lavoratori sono entrati in servizio da giovani, tra fine anni 70 e inizio anni 80, e raggiungono i 43 anni (scarsi) chiesti per l’assegno di anzianità. Inoltre, nel triennio 2018-2020 Quota 100 ha favorito il pensionamento a 62 anni, oltre a Opzione Donna e Ape sociale.

Nonostante queste alternative alla pensione di vecchiaia, l’età effettiva sta crescendo. Secondo Michele Reitano, membro della commissione ministeriale per la separazione della spesa previdenziale da quella assistenziale, questi numeri “smentiscono chiaramente la retorica di chi ritiene ancora limitata l’età di ritiro in Italia grazie a presunte scappatoie offerte dalla disciplina pensionistica”. Sempre dai dati del Civ emerge che l’Inps ha un grosso problema di contenziosi con quasi 500 mila persone per ritardi nell’erogazione o errori nel calcolo delle pensioni; l’istituto ne esce soccombente nel 40% dei casi, percentuale molto alta che porta gli oneri oltre i 200 milioni l’anno.

Bollette, decreto verso i 4 miliardi ma slitta la tassa sugli extra-profitti

Alla fine il decreto per alleggerire l’impatto della stangata del caro energia su imprese e famiglie arriverà oggi in Consiglio dei ministri: vale fino a 4 miliardi grazie al rinnovo delle aste Ets e alla cartolarizzazione di alcuni oneri di sistema. Senza bisogno di ottenere uno scostamento di bilancio. Insieme ci sarà anche il mini-decreto sostegni da 1,2 miliardi per ristorare i comparti più colpiti dalle ultimi misure anti-Covid, in particolare turismo, sport e discoteche.

Il contrordine sulle misure per le bollette è arrivato ieri sera al termine di un incontro di tre ore con il premier Mario Draghi e i ministri dell’Economia Daniele Franco, dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, della Transizione ecologica Roberto Cingolani, oltre al sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli e il consigliere economico del premier Francesco Giavazzi. Fino al tardo pomeriggio, il decreto sul caro bollette era rimasto fuori dai radar. Troppo difficile riuscire a trovare una quadra sulla norma per intervenire sui “fantastici profitti”, per dirla con le parole di Draghi, che stano facendo le società energetiche alle quali il governo, Lega e 5 Stelle in testa, vogliono chiedere un contributo. Ma ci vuole tempo, che non c’è. Va ancora chiarito a quanto ammontano questi profitti extra, chi li ha realizzati, come andrebbero distribuiti.

Intanto è certo che i 3,8 miliardi inseriti nella legge di Bilancio non bastano. Il ministro Cingolani avrebbe pure pronto un piano da 10 miliardi (lo ha già presentato al premier), ma è a lungo termine, prevede tagli strutturali da almeno 10 miliardi l’anno e per attuarlo servirebbero 2/3 settimane. Pronte sul tavolo da giorni ci sono, invece, due proposte praticabili da subito, proprio quelle che andranno a comporre il decreto. Semplificando, nelle misure che il Cdm si appresta a varare oggi per calmierare i costi delle bollette ci sarà il rinnovo delle aste Ets, strumento che potrebbe raccogliere almeno fino a 1,5 miliardi. Si tratta del sistema europeo di acquisto di permessi per emettere CO2. In altre parole, le tasse che le aziende pagano per inquinare e che sono aumentate vertiginosamente negli ultimi mesi. Il governo ha già utilizzato le aste nel decreto di settembre per fare cassa, 700 milioni di euro, e alleggerire la bolletta dell’ultimo trimestre dell’anno.

Ci sono poi le cartolarizzazioni degli oneri, che sono la parte più corposa del pacchetto: valgono fino a 2,5 miliardi. Per ora questa misura consentirebbe di spostare dalle bollette gli oneri di sistema, la voce che riguarda sia le spese di trasporto e distribuzione che gli incentivi alle rinnovabili. Attualmente pesano il 20% della spesa finale nelle fatture. Negli anni passati si è parlato della fiscalità generale, ma il Mite non ha voluto dare ancora specifiche indicazioni. Ma nel decreto a essere cartolarizzata dovrebbe essere solo la componente Asos degli oneri generali, vale a dire gli incentivi alle fonti rinnovabili e le agevolazioni alle imprese a forte consumo di energia elettrica. Molto lontana invece l’ipotesi del taglio dell’Iva o delle accise. Ieri pomeriggio il ministro Giorgetti ha incontrato le imprese sempre sul tema caro-energia. Quello che ne è venuto fuori, mentre Confindustria continua a chiedere misure immediate visto che “nel 2022 il costo dell’energia per le aziende sarà di 37 miliardi” è di “raccogliere dati e proposte per definire gli interventi del governo”. Restano in attesa.

Stellantis batte cassa: soldi pubblici o tagli

Tema: spiegare al nostro governo l’intervista di ieri di Carlos Tavares, ad di Stellantis al Corriere della Sera (titolo: “Le fabbriche italiane costano di più. Le scelte? Ne riparliamo a fine 2022”). Svolgimento: il manager, proprio nel giorno del primo anniversario della fusione tra la “sua” Psa e Fca, ha voluto mandare un segnale preciso all’Ue sul fronte della scelta ambientale per le vetture elettriche e un secondo, ancora più specifico, al nostro Paese che ospita 5 stabilimenti produttivi del gruppo – un record, se confrontato col panorama industriale di Stellantis in Francia e in Germania – chiedendo soldi, in forma di incentivi, e parlando di “rischi sociali”.

Tavares non nasconde le analisi preoccupanti per la congiuntura della pandemia: oggi si vendono soprattutto vetture di fascia alta, destinate a una clientela ristretta di ricchi, con una classe media che rischia di abbandonare il mercato. Il futuro? La situazione peggiorerà quando si abbandoneranno i motori termici per quelli elettrici: “Realizzare un’auto elettrica costa il 50% in più. Questo significherà, nei prossimi 5 anni, dover salire del 10% di produttività, quando gli attuali livelli europei sono fermi al 2-3%”. Lo scenario, per il manager, è questo: rischi sociali (perdite di posti di lavoro) nei prossimi 10-15 anni e cancellazione della classe media come cliente.

Insomma, Tavares non intravede un ritorno del mercato dell’auto ai numeri pre-Covid. A questo punto, l’ad di Stellantis usa toni ben diversi da quelli quasi trionfalistici e futuribili di un anno fa sul fronte dell’elettrico: oggi vetture di quel tipo devono percorrere 70 mila km prima di aver compensato la CO2 creata per realizzare le batterie e “sino ad allora non saranno competitive coi veicolo ibridi leggeri, prodotti spendendo la metà”.

Eccolo dunque il primo messaggio, destinato alla Ue: il limite del 2035 per l’estinzione dei motori termici è troppo ravvicinato, bisogna rallentare. Di qui all’Italia, però, il passo è brevissimo. Così Tavares, dopo aver ribadito le analisi di un anno fa (“fare auto qui costa a volte il doppio rispetto al resto d’Europa”), mette in campo qualcosa che chiamare avvertimento sarebbe forse esagerato, ma che ha comunque un rilievo inquietante: “Chiudere impianti significa mandare tutti a casa. Se posso evitarlo, lo eviterò. Di solito mantengo le promesse, ma il futuro dei nostri siti dipenderà anche dai vincoli politici sulla decarbonizzazione. Vedremo a fine 2022”.

Parole per chiedere che cosa e destinate a chi? Tavares non parla esplicitamente di incentivi e, anzi, mostra di essere consapevole di non poterli pretendere per le vetture elettriche: “Sarebbero necessari almeno sino al 2025. Ma non credo che i governi possano continuare così. La brutalità del cambiamento crea rischi sociali”. Per l’elettrico no, dunque, ma per le vetture a motore termico e ibride lo spiraglio sembra implicito: per affrontare il 2022 e anche magari il 2023.

In ballo restano dunque le sorti dei cinque siti italiani, Mirafiori al Nord e gli altri 4 al Sud, e della componentistica che sta già pagando la prima innovazione in Italia di Tavares: riportare parte della produzioni di componenti, con punte del 20-35%, all’interno di Stellantis. E con segnali che cominciano a filtrare, quantomeno tra i politici locali del Piemonte: l’area di oltre 3 milioni di metri quadrati di Mirafiori non serve più, per Stellantis ne basta la metà.

Ma il governo Draghi, pressoché silente da un anno sulla fusione e oggi in stand by per le vicende del Quirinale, è in grado di replicare? Magari chiedendo un piano preciso dei modelli e delle produzioni in Italia e concordando una transizione verso i motori elettrici che sia sostenibile. E pretendendo, in cambio di incentivi e di ammortizzatori sociali, l’individuazione di un futuro della produzione automobilistica. E magari evitando di lasciare a Tavares, com’è successo ieri sul Corriere e poi nella sua visita all’impianto di Termoli, il compito di rivelare che l’impegno per collocare nello stabilimento molisano la terza gigafactory europea di batterie “non è ancora chiuso”. Probabilmente perché non è stato ancora raggiunto l’accordo sull’intervento pubblico e senza, in particolare, che siano note le garanzie fornite da Stellantis.

Sahel, Etiopia Mozambico: l’Africa è sempre in guerra

Il mercato delle armi non conosce pandemie. Nessun conflitto in questi due anni si è fermato a causa del virus. Anzi. Lo dimostra la vicenda della nave Eolika, battente bandiera della Guyana, zeppa di munizioni. Le autorità di Dakar sospettano che il carico fosse destinato a eserciti, se non addirittura alle tante milizie armate che stanno ormai mettendo a ferro e fuoco quasi tutto il Continente africano. I conflitti più recenti sono esplosi in Mozambico, dove una delle tante bande armate che si dichiarano affiliate all’Isis ha preso di mira la zona petrolifera sfruttata da decenni dalle grandi compagnie internazionali. La zona africana attualmente più pericolosa, in seguito ai continui blitz jihadisti, è il Sahel: Niger, Mali, Burkina Faso, centri nevralgici del traffico di esseri umani verso l’Europa. Il Marocco l’anno scorso ha ripreso a combattere contro il Fronte Polisario per l’indipendenza del Sahara occidentale, sostenuto dall’Algeria. Anche il Ciad e la Repubblica Centrafricana negli ultimi anni sono nella morsa di un conflitto tra le etnie di religione cristiana e musulmana. Si combatte invece tra cristiani, di etnie diverse, in Sud Sudan mentre in Sudan, a maggioranza islamica, è ancora in corso il decennale conflitto nella regione del Darfur. Oltre ai conflitti civili e, contemporaneamente, per procura come quello libico, proseguono gli scontri in Nigeria tra esercito e i terroristi islamici di Boko Haram. L’Aqmi, un’altra delle tante sigle locali dello Stato Islamico, è arrivata anche nell’Ovest del Continente, soprattutto in Costa d’Avorio. Dalla parte opposta, in Somalia, una delle conseguenze della “guerra civile dei trent’anni ” è la presenza del gruppo al Shabaab, alleatosi prima con al-Qaeda quindi con l’Isis. I discepoli africani del defunto leader dell’Isis, al Baghdadi, sconfinano spesso in Kenya impegnando divisioni dell’esercito. Ma ora a destabilizzare del tutto il Corno d’Africa è la sanguinosa guerra scoppiata un anno fa tra il governo centrale di Addis Abeba e i ribelli tigrini contro cui combattono anche i soldati eritrei.

Delitto Attanasio: i soliti sospetti

“Vogliamo vederci chiaro”. L’operazione delle autorità congolesi lascia perplessi gli investigatori italiani. La scorsa notte, infatti, la polizia del Nord Kivu ha comunicato di aver arrestato due uomini (un terzo, il capo della banda soprannominato “Aspirant”, è ricercato) ritenuti responsabili dell’omicidio, nel 2020, dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, e del suo carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci. Operazione, sottolineano fonti inquirenti, condotta dal Congo in totale autonomia, con le autorità italiane avvertite a cose fatte. Per questo motivo la Procura di Roma da ieri è in contatto con la Farnesina. L’obiettivo è autorizzare a stretto giro una nuova missione dei carabinieri del Ros nello Stato africano, che potrebbe essere approvata già nelle prossime ore. I pm stanno preparando anche una nuova rogatoria nella speranza di acquisire i verbali e interrogare sul posto i sospettati, considerando che sono ancora pendenti le due richieste di rogatoria di marzo e giugno 2021.

Le perplessità degli investigatori italiani nascono dagli esiti negativi degli arresti già eseguiti in passato dalla polizia congolese. Addirittura, il 22 maggio 2021 era stato il presidente Félix Tshisekedi ad annunciare interrogatori in corso su alcuni sospettati, poi finiti nel nulla. “Per noi familiari questi arresti non contano nulla”, ha ribadito ieri all’Ansa Salvatore Attanasio, padre di Luca, spiegando di voler attendere che “le nostre autorità abbiano controllato e certificato l’operato della Polizia congolese”. Per Attanasio, “il governo del Congo ha l’obiettivo di chiudere in tutta fretta questo caso”. E anche se gli arrestati “fossero davvero gli assassini di Luca, questo non basta per fare chiarezza, in quanto bisogna chiarire le responsabilità del Pam (il Programma Alimentare Mondiale dell’Onu, ndr)”, ha detto il padre dell’ambasciatore ucciso. Proprio il procuratore aggiunto di Roma, Sergio Colaiocco, nei mesi scorsi ha iscritto fra gli indagati un funzionario congolese del World Food Program, sospettato d’avere trascurato le misure di sicurezza previste per il trasporto dei diplomatici.

Attanasio e Iacovacci furono uccisi insieme all’autista Mustapha Milambo il 22 febbraio 2020 durante un agguato sulla strada tra Goma e Rutshuru. Le indagini locali, sin dall’inizio, hanno sposato la pista della criminalità comune. Per i congolesi, i sospettati sarebbero responsabili di altri agguati nella regione, tutti finalizzati al rapimento con richiesta di riscatto. Non solo. Per la stampa locale, la banda sarebbe coinvolta anche del rapimento di tre operatori dell’Ong Concern. “Non sappiamo ancora chi sia il mandante, ma le prove ci sono: dateci il tempo di indagare”, ha risposto all’Agenzia Nova il generale Ndima Constant, governatore del Nord Kivu.

“Eolika” e quelle munizioni finite nel porto sbagliato

Un carico di munizioni da guerra italiane è al centro di un giallo internazionale, dopo il sequestro avvenuto nel porto di Dakar. Si tratta di pallottole prodotte dalla Fiocchi, azienda di proprietà della famiglia dell’eurodeputato di Fratelli d’Italia, Pietro Fiocchi, e del fondo di private equity della famiglia Montezemolo. Le munizioni viaggiavano su una nave battente bandiera della Guyana, la Eolika, partita il 1º dicembre dal porto di La Spezia. Secondo le autorità italiane, quel carico era destinato all’esercito di Santo Domingo. Resta da chiarire più di un mistero sullo scalo africano e i movimenti al largo della Capitale senegalese e gli strani movimenti in rada della nave.

La versione diffusa dalla Direzione generale delle dogane di Dakar è che i prodotti della Fiocchi sono stati sequestrati dopo un controllo casuale. I documenti di navigazione e trasporto marittimo, secondo le autorità locali, sono stati falsificati. E le risposte incoerenti del comandante, Vitaly Dovhuk, ucraino, hanno peggiorato la situazione: l’uomo avrebbe dichiarato che nei container era contenuto ferro; è stato interrogato e fermato insieme ad altri tre marinai. La Procura di Dakar è convinta di aver smantellato un traffico internazionale di armi clandestine. È possibile che gli armamenti fossero stati dirottati verso il continente africano?

A bordo c’erano un misto di munizioni calibro 9 millimetri, per armi leggere, e 5,56 millimetri, proiettili usati per fucili d’assalto e mitragliatrici. Un carico che vale circa 4,6 milioni di euro. La Eolika è una piccola nave datata, che nel corso della sua vita ha cambiato sei volte nome. Di recente è passata a un nuovo proprietario, la Imtraco, armatore libanese che la controlla attraverso una società anonima svizzera. Il gestore dell’imbarcazione è una società greca, la Fast Marine. I container che trasportavano le armi erano noleggiati da una società svizzera e da una israeliana. Per arrivare nella Repubblica Dominicana l’Eolika seguiva un giro particolare. Partenza da La Spezia, breve scalo a Las Palmas, il 19 arriva a Dakar e dovrebbe restarci 10 giorni. Iniziano strani movimenti: partenze e ritorni nello stesso porto, e vari giorni di permanenza in rada. Fino al sequestro, di cui le autorità senegalesi non hanno dichiarato il giorno esatto.

La Fiocchi Munizioni è uno dei principali produttori al mondo di munizioni: 1000 dipendenti, un fatturato di 148 milioni di euro nel 2020, con utili netti per 9 milioni. Pietro Fiocchi, europarlamentare di Fratelli d’Italia, erede del fondatore, prima di aderire al partito di Giorgia Meloni era al vertice del gruppo. Entrato in Parlamento ha lasciato tutte le cariche, tranne una: una piccola partecipazione azionaria nella holding di famiglia, la Giulio Fiocchi Spa. Attraverso cui è detenuto il 40% della Fiocchi Munizioni. Il restante 60% è stato acquistato nel 2018 da Charme III, uno dei fondi di private equity fondati da Luca Cordero di Montezemolo e da suo figlio Matteo.

Il caso ha sollevato polemiche e richieste di chiarimenti. Il Coordinamento campagne rete italiana pace e disarmo ieri ha chiesto all’Autorità portuale e al ministero degli Esteri di chiarire “se quelle armi sono state esportate dall’Italia e se in modo regolare”. Secondo l’Autorità portuale di La Spezia il carico era stato imbarcato attraverso la dogana di Como, autorizzato dal Prefetto della città. Le armi, destinate all’esercito regolare della Repubblica Domenicana, avrebbero avuto un’autorizzazione dell’Uama (autorità della Farnesina competente in tema di export di materiale bellico) datata 2021. Contattata per un commento, Fiocchi Munizioni non ha risposto.

“Ha ingannato il fisco”: Trump accerchiato dalla Procura

Un doppio cappio si stringe intorno a Donald Trump: quello della magistratura di New York e quello della commissione d’inchiesta della Camera. Per la procuratrice capo della Grande Mela, Letitia James, la Trump Organization, il cui direttore finanziario Allen Weisselberg è già stato formalmente incriminato, ha compiuto, per anni, pratiche “fraudolente e ingannevoli”.

Il magnate ed ex presidente avrebbe gonfiato il valore delle sue proprietà e della sua fortuna: obiettivo, fare vedere che la sua ricchezza era maggiore del reale e trarne vantaggio presso banche e investitori, riuscendo nel contempo a eludere il fisco.

E i deputati che indagano sulle responsabilità della sommossa del 6 gennaio 2021, quando migliaia di sostenitori dell’ex presidente diedero l’assalto al Campidoglio e invasero il Congresso, vuole interrogare Rudolph Giuliani, l’avvocato di Trump, e altri tre sodali dell’ex presidente, gli avvocati Jenna Ellis e Sidney Powell e l’ex funzionario della Casa Bianca Boris Epshteyn. Intanto, a un anno esatto dal suo insediamento alla Casa Bianca, Joe Biden canta il proprio elogio in conferenza stampa. “L’America è di nuovo in moto”, dice, nonostante i sondaggi lo diano intorno al 40% di approvazione, più giù di quanto non fosse Trump dopo un anno di presidenza.

Inchiesta a New York: la James afferma che ci sono “prove significative” contro Trump e la Trump Organization, e deposita in tribunale una memoria di 160 pagine per contrastare il tentativo dell’ex presidente d’evitare una sua eventuale testimonianza giurata e quella dei suoi figli Donald jr e Ivanka.

L’inchiesta del procuratore di New York è civile: può denunciare Trump, ma non può muovergli accuse penali. L’indagine è parallela a quella penale del procuratore distrettuale di Manhattan. I fedelissimi del tycoon tagliano corto; l’indagine della procura è la solita “caccia alle streghe” e servirebbe ad impedire all’ex presidente di partecipare – e vincere – alle elezioni del 2024. Tornando ai fatti di Capitol Hill, a Giuliani e agli altri, la Commissione d’inchiesta della Camera contesta d’avere sostenuto teorie non sostanziate sulle frodi elettorali e d’avere cercato di rovesciare l’esito del voto. La commissione vuole pure vedere i tabulati telefonici di Eric Trump, terzo figlio di Donald, e Kimberly Guilfoyle, la fidanzata di Donald Jr.

Israele, la polizia spia tutti usando il malware Pegasus

In nome della sicurezza dello Stato in Israele tutto è possibile, con ogni mezzo, lecito e anche illecito. Gli israeliani hanno da poco scoperto da un’inchiesta del giornale Calcalist che quasi 500 di loro – invisi al governo per le posizioni politiche, attivisti di Ong, sindaci di cittadine sempre sull’orlo della rivolta – sono stati spiati con il famoso malware “Pegasus” della NSO per gli smartphone. Ancor prima che lo spyware fosse venduto a Paesi amici, come l’Arabia Saudita, gli Emirati, il Kazakistan, il Cile, il Messico, l’India o l’Uganda, veniva testato su ignari cittadini di Israele, senza che nessun giudice venisse informato delle investigazioni e dei loro risultati.

Ma non basta: in una seconda puntata della sua inchiesta, Calcalist ha rivelato ieri che la polizia d’Israele si è rivolta anche più volte ad almeno tre hacker “privati” per spiare possibili sospetti, lasciando sempre all’oscuro di tutto la magistratura inquirente. Il “sistema” è andato avanti per anni, certamente tra il 2015 e il 2018. La NSO – fondata da due ex militari dell’Unità Speciale per la Cyberwar 8200 dell’IDF – è tra le maggiori security company al mondo e proprio nel novembre scorso gli Usa hanno inserito l’azienda in una lista nera a causa delle sue attività. Calcalist, con una lunga e dettagliata inchiesta in due puntate, racconta che il primo a usare “Pegasus” (già acquistato dalle forze dell’ordine nel 2013) sia stato Roni Alsheich – un ex ufficiale dello Shin Bet (sicurezza interna) – a capo della polizia dal 2015 alla fine del 2018. Il tutto approfittando di un buco nel sistema legale del Paese e senza nessuna autorizzazione da parte di giudici.

Obiettivi dell’hackeraggio telefonico sono stati nel corso degli anni sindaci, organizzatori delle proteste settimanali contro l’allora premier Benjamin Netanyahu, attivisti delle campagne anti Lgbt, uomini vicini ai politici ma anche anche impiegati di aziende governative. Una rete di cittadini tenuti segretamente sotto controllo e da cui ottenere informazioni da usare poi contro di loro, a volte mascherando dietro presunti “motivi di riservatezza delle fonti” il vero sistema usato, ovvero “Pegasus”. Soltanto un pugno di alti ufficiali della polizia era a conoscenza dell’uso dello spyware e le attività erano seguite da un team di operatori speciali della divisione nota come “Sigint” (che indica raccolta di informazioni tramite comunicazioni), le cui operazioni erano tutte classificate. L’attuale capo della polizia Kobi Shabtai – pur senza negare decisamente il tutto – ha attaccato le rivelazioni del giornale definendo alcune di queste “non corrette”, come lo spionaggio ai danni degli organizzatori delle proteste o civili innocenti.

Poi ha aggiunto – dopo aver annunciato un’inchiesta sulla vicenda – che “tutto è stato fatto con le autorizzazioni legali richieste”. Non sembra dello stesso avviso il Difensore civico Matanyahu Englman, che ha annunciato un’inchiesta sull’uso di “Pegasus” per verificare le violazioni. Il ministro della Sicurezza, Omer Bar Lev, esclude che la polizia abbia “sorvegliato cellulari senza un’approvazione giudiziaria”: nessun uso politico. Certo è che la NSO – finita nel mirino in passato delle attenzione mediatiche in vari Paesi, Usa compresi, dove è stata portata in tribunale da Apple e WhatsApp – aveva giurato che il suo spyware non era usato su apparecchi telefonici statunitensi e israeliani. Invece è stato ritrovato nei telefoni di diversi funzionari del Dipartimento di Stato Usa e adesso anche in quelli di cittadini israeliani. L’inchiesta rivela poi che l’unità Sigint della polizia ha assunto almeno tre hacker esterni come subappaltatori per raccogliere informazioni in diversi casi penali. Questi hacker, essenzialmente privati cittadini, sono stati messi a conoscenza di informazioni riservate senza il nulla osta di sicurezza richiesto e senza garanzie che non ne stessero abusando. La polizia israeliana nega le rivelazioni di Calcalist, ma il comunicato diffuso ieri è pieno di ambiguità: “L’attività della polizia in questo settore è sotto costante supervisione e ispezione del procuratore generale di Israele e di altre entità legali esterne. Naturalmente, la polizia non intende commentare gli strumenti nel loro utilizzo. Tuttavia, continuerà ad agire con determinazione e con tutti i mezzi a disposizione, per combattere la criminalità in generale, e quella organizzata in particolare, per tutelare l’incolumità della popolazione”. La questione certamente non si chiuderà qui.

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Draghi sarebbe adatto per il Quirinale?

È una vergogna che B. venga proposto come presidente della Repubblica, anche se solo in prima battuta. “È difficile che ci riesca”, come scrive lei, direttore, nel suo editoriale “Quelli che… figuriamoci”. Non crede che siamo di fronte a un gioco delle parti? B. è difficile che ci riesca. Mattarella ha più volte ribadito la sua indisponibilità. Per ora i nomi che circolano sono questi due. Sullo sfondo c’è Draghi che penso verrà eletto, spacciandolo per l’unico sul quale sia possibile trovare un accordo. Un uomo al quale dobbiamo una riforma del fisco tutta a favore dei privilegiati, lo sblocco dei licenziamenti che ha prodotto solo lavoro precario, la peggior riforma della giustizia e molto altro ancora. Le sembra un uomo degno di salire al Colle?

Mario Ambrogi

No.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano con il titolo “‘Congo: l’Eni pagò, ma fu costretta’. A rischio l’indagine su Descalzi&C”, Eni precisa quanto segue: 1) Consideriamo sconcertante il tentativo di accostare (nel titolo e nel testo dell’articolo), attraverso nessi fattualmente e giuridicamente inesistenti, l’Ad di Eni alle indagini relative alle attività della società in Congo, nelle quali egli non è mai stato coinvolto. La locuzione “Descalzi&C” ha evidenti profili lesivi de-correlati da qualsiasi contesto e riferimento con il corpo dell’articolo (di cui non si comprende quale sia la notizia che intendete riferire al Vostro pubblico). 2) Non possiamo, infatti, non notare che il vostro giornale si occupa dello stato attuale di indagini nei confronti di persone fisiche che non hanno alcun legame con Eni o non sono da tempo più dipendenti a quasi un anno di distanza dal pronunciamento di un giudice. L’articolo presenta ancora oggi l’indagine come riferita alla corruzione internazionale quando ricordiamo che la derubricazione inerente ai fatti ed alla loro qualificazione giuridica (che ha escluso ogni ipotesi corruttiva) fu avanzata dai pm inquirenti. Eni vi aderì quindi solo e soltanto per evitare la prosecuzione di un iter giudiziario che avrebbe comportato un nuovo e significativo dispendio non recuperabile di costi e risorse, come nel caso dei procedimenti Opl245 e Algeria dei cui esiti pienamente assolutori siamo tutti a conoscenza. In seguito alla configurazione di un diverso reato, proposta dai PM ed accertata in sentenza (ora definitiva) dal giudice non si comprendono le perplessità (e quali siano i fondamenti giornalistici delle stesse) espresse nell’articolo e men che meno si capisce su quali basi le persone fisiche citate potrebbero mai rispondere di un reato diverso da quello accertato o perché mai associarne maliziosamente alcune ad Eni quando hanno lasciato la società oltre 17 anni fa o non ne hanno mai fatto parte. Ciò che è certo è che in relazione alle attività di Eni in Congo non vi fu alcun caso di corruzione internazionale. 3) In merito all’accusa di conflitto di interessi, rivolta all’Ad di Eni rispetto alle attività della signora Ingoba, Eni ricorda che furono svolte analisi approfondite affidate dai propri organi di controllo a consulenti terzi e indipendenti, e che tali indagini esclusero violazioni o condotte in favore e/o a danno di Eni, volte ad avvantaggiare i fornitori aggiudicatari dei servizi per ciò che atteneva alle circostanze oggetto di indagine. La stessa signora Ingoba, per il tramite dei suoi legali, ha sempre respinto ogni accusa o illazione su ipotetici investimenti in conflitto con la carica ricoperta dal dottor Descalzi. Va invece notato che il requisito giuridico di sussistenza del reato posto alla base dell’ipotesi di incolpazione di omessa comunicazione di conflitto di interessi (la sussistenza di un danno alla società o terzi), delle cui indagini non si hanno più notizie da settembre 2019, non trova riscontro non soltanto nelle verifiche interne ma nemmeno nell’ipotesi di indagine.

Ufficio Stampa Eni

 

Ringraziamo Eni per la lezione di giornalismo, della quale non avvertivamo il bisogno. L’indagine sugli affari della compagnia in Congo, infatti, è tuttora aperta, dunque d’interesse giornalistico, dopo il patteggiamento che ha riguardato soltanto l’azienda, non le persone fisiche indagate, tutte comunque considerate dagli inquirenti “soggetti collegati a Eni spa”, a partire da Roberto Casula, Chief Development Operations & Technology Officer di Eni fino alla primavera del 2018, che si è autosospeso dall’incarico soltanto dopo la pubblicazione sulla stampa delle prime notizie sulla sua presenza tra i soci della Wnr Ltd. Il cambiamento della qualificazione giuridica del reato riguarda, finora, solo l’azienda e non le persone fisiche, su cui la Procura non ha ancora preso alcuna decisione, non avendo ancora formulato alcun capo di imputazione. Nella stessa indagine, è allo stato indagato anche Descalzi, seppur per una diversa ipotesi di reato. Nell’assemblea dei soci 2017, Eni aveva negato affari con Petro Services. In seguito li ha ammessi, dicendo che però non hanno arrecato danno economico all’azienda. Resta comunque un caso unico al mondo che sia tollerato – che sia o meno reato – che una moglie faccia affari attraverso sue società private con l’azienda di cui il marito è manager di vertice.

FQ