“Da solo il capo non ce la può fare”: Di Maio ammette la nuova fase

Luigi Di Maio è ancora capo, ma è anche un equilibrista, sta sul filo chiamato Movimento e da sotto, tutti guardano se vorrà saltare oppure restare lassù, magari non più da solo. Di certo qualcosa cambierà, dovrà cambiare.

E lui, dalla Calabria, dove si presenta in campagna elettorale assieme a Laura Castelli, ammette da un microfono che una fase sta finendo e che a breve ne inizierà un’altra: “Per la prima volta dopo 10 anni di storia del nostro Movimento ci rivedremo tutti insieme il 15 marzo in una location che stiamo scegliendo, per mettere finalmente in piedi una nuova Carta dei valori e anche un’organizzazione più efficace, perché il solo capo politico non ce la può fare”. Tradotto, lui non potrà restare quello che è, capo in solitario. E negli Stati generali bisognerà lavorare a un organismo collegiale. Cioè, Di Maio ammette che non potranno bastare le decine di facilitatori nazionali e locali con cui pensava di ricostruire il Movimento, fermandosi lì. Quelli regionali verranno votati domani. Poi si vedrà cosa farà lui, il capo, ovvero se andrà avanti con l’idea delle dimissioni.

Nell’attesa, resta più che restio ad alleanze con il Pd a livello locale, ansioso di non contaminarsi con i dem che invece quello chiedono, un’alleanza strutturale. “Per noi importante è che ci facciano approvare le nostre proposte, non con chi stiamo al governo” scandisce il ministro alla platea di Lamezia Terme. E l’insistere sull’equidistanza, sul concetto che per Di Maio è l’eterno scudo, quello di un M5S “ago della bilancia”, e guai a pendere da una parte. Però Beppe Grillo e Giuseppe Conte sempre lì guardano, verso sinistra. E Di Movimento che deve stare nel campo riformista ha parlato dritto anche Stefano Patuanelli, un evidente rivale di Di Maio nell’ottica di un Movimento con nuove gerarchie e nuovi equilibri. E di certo il tema agita i 5Stelle.

Lo conferma quanto accaduto ieri in Veneto, con l’assemblea dei grillini locali che si è spaccata sulla proposta formulata dal palco dal ministro dei Rapporti per il Parlamento, Federico D’Incà: ovvero, votare sulla piattaforma Rousseau se allearsi con il Pd o almeno con liste civiche per Regionali della prossima primavera, oppure andare da soli. Ed è evidente come D’Incà preferirebbe evitare la corsa solitaria. Non a caso, ieri in assemblea ha ricordato gli obiettivi a suo dire finora raggiunti dal governo giallorosso. E comunque poi bisogna sempre tornare al Di Maio che ieri ha di fatto ufficializzato l’idea di un organismo collegiale al posto del capo politico. “Però non deve essere un nuovo Direttorio” si sgolano i suoi, consapevoli che Grillo non ne vuole sentire neanche parlare. Piuttosto, una sorta di segreteria politica composta da big.

Proprio per questo venerdì Di Maio ha incontrato a Roma la sindaca di Torino, Chiara Appendino, proponendole di entrare nell’organismo. Ma non subito, perché dovrebbe prendere forma a marzo, negli Stati generali che non hanno ancora neppure una sede, e figurarsi le regole e un preciso campo di gioco politico. Sono sospesi, come tutto il M5S con lo sguardo all’insù, mentre il trapezista Di Maio sceglie che futuro darsi. A brevissimo.

@lucadecarolis

“Siamo diversi dal Pd, piuttosto riprendiamoci i voti dalla Lega”

Stefano Buffagni parla al telefono già da un po’ con il Fatto, quando sulle agenzie plana una dichiarazione di Luigi Di Maio che pare indicare una nuova fase per tutto il M5S: “Gli Stati generali serviranno per mettere in piedi un’organizzazione più efficace, perché da solo il capo politico non ce la può fare”. E il lombardo Buffagni, viceministro allo Sviluppo economico, 5Stelle di peso, commenta a botta calda: “Non dobbiamo più avere paura di dire che abbiamo bisogno di una classe dirigente per gestire un’organizzazione complessa con contrappesi e responsabilità ripartite”.

La partita interna per gli Stati generali di marzo, cioè per il primo Congresso del Movimento, pare iniziata. Sembra che si stiano schierando anche le varie correnti.

Non saprei dirlo. La parola correnti non mi sembra indicata, mi sembra quasi svilire un concetto che in certi partiti funzionava. Di certo nel M5S ci sono anime diverse.

Lei a quale si sente vicina?

Sicuramente ci sono sensibilità che hanno bisogno di uno spazio. Credo di rappresentare quella parte di persone molto pragmatiche e razionali che vogliono portare concretezza nell’azione di governo con buon senso. L’anima che ha sbagliato a non far sentire con più determinazione la propria voce, forse per eccessiva educazione.

Il Movimento di governo ha fallito?

No, abbiamo ottenuto obiettivi importanti. Ma a volte abbiamo annunciato certi risultati senza poi raggiungerli. Anche il modo in cui racconti le cose fa la differenza. Bisogna porsi obiettivi alti, da cogliere però tramite passi graduali che vanno spiegati. Matteo Salvini è stato più bravo di noi nel racconto.

Ecco il Buffagni filo-leghista…

Ma va là: io sono stato querelato da Salvini, e quando mi dicono che mi piace la Lega mi incazzo moltissimo. Ma dobbiamo guardare la realtà.

Ma l’anima dei pragmatici quanto pesa?

Molto, ma spesso è silente, anche se abbiamo perso una grande fetta di queste persone dal marzo 2018. Ma è una parte di Paese che sta smaltendo l’innamoramento per Salvini e che cerca una nuova prospettiva ed una speranza. Alla prima occasione non siamo stati adeguatamente incisivi per rappresentarla, ma possiamo riprovarci e riuscirci.

Sta dicendo che dovete riprendervi la classe media?

Noi dobbiamo rappresentarla, ascoltarla e aiutarla con risposte concrete.

Lei elenca errori, quindi è molto critico con Di Maio. Sta dicendo che deve farsi da parte? E magari si sta candidando al suo posto?

Noi oggi un capo politico ce l’abbiamo e prima di parlare di capi dobbiamo occuparci di cosa vogliamo per il Paese e di come organizzarci. Poi è chiaro che gli interpreti sono fondamentali.

Gli Stati generali di marzo dovranno essere un vero congresso?

Credo che debba essere un momento in cui coniugare la riflessione su dove andare assieme a quella su come fare funzionare la macchina, perché è chiaro che ci sono problemi strutturali. Non mi porrei dei limiti. Dopodiché va creato un metodo di lavoro che valga anche per il futuro.

Dovrete parlare anche della collocazione politica del Movimento. Stefano Patuanelli vi vorrebbe stabilmente “nell’area riformista”. Proprio come Beppe Grillo.

Io ne ho parlato con il ministro e lui giustamente ha risposto in una recente intervista che le alleanze si fanno dopo le elezioni. Io però resto convinto che il M5S debba restare una cosa diversa, ossia una forza politica di buon senso che orienti gli altri partiti con i propri valori. E ci sono valori che non puoi collocare in un campo.

Al Nord il M5S sembra quasi sparito. Il Carroccio vi ha svuotato.

È evidente, ed è anche per questo che non si sarebbero alleati con noi nelle Regioni. Ma ripeto, quell’elettorato è già stufo delle battaglie contro la Nutella. È chiaro che noi abbiamo avuto poca personalità nell’azione di governo, con un’agenda che si è dimenticata di una grande fetta di Paese.

Negli Stati generali parlerete anche di Rousseau? Molti parlamentari sono in rivolta contro la piattaforma di Casaleggio.

Se ne potrà discutere. Rousseau è uno strumento importante, ma non può essere il perno della gestione del Movimento.

Intanto lì fuori c’è un governo che va avanti. Avrete davvero la forza di imporre la revoca delle concessioni ad Autostrade?

Sicurezza per i cittadini e diminuzione pedaggi sono temi fondamentali. Io sono molto curioso di vedere come Autostrade chiuderà il suo bilancio. Dovranno fare anche gli accantonamenti per potenziali rischi e verificare la continuità. È un’azienda che negli anni ha diminuito gli investimenti e aumentato i dividendi spremendo gli italiani. Di certo non sono le vittime.

A Cosenza la politica non esiste : solo grandi famiglie e capibastone

“Volete parlare delle prossime elezioni regionali? Lasciamo perdere e beviamoci su. Provate questo, è mondiale”.

Il nostro interlocutore non vuole sentire ragioni. Quindi beviamo “Jefferson”, un infuso di erbe prodotto nel Cosentino, a Montalto Uffugo, che si è davvero aggiudicato l’Oscar di migliore liquore del mondo al World drink awards di Londra. “La grande politica in questa città è morta. Alla salute!”.

Non è una favola, perché la grande politica a Cosenza è esistita davvero. Pietro Mancini, avvocato, nel fuoco del vincente fascismo fondò la prima sezione socialista della città. Un combattente popolare che i suoi concittadini elessero deputato a pieni voti. Alla vittoria del regime fu confinato, ma nell’Italia liberata fu prefetto di Cosenza, poi di nuovo deputato e ministro. Suo figlio Giacomo fece la Resistenza, divenne deputato e fu ministro più volte, fino a diventare segretario nazionale (prima di Craxi) del suo partito. Suo avversario storico era Riccardo Misasi, democristiano, che a 26 anni salì a Montecitorio e diventò ministro di dicasteri importanti.

Certo, non stiamo parlando di personaggi in odore di santità. Raccoglievano il consenso d’opinione delle borghesie colte, ma anche delle clientele, esercitavano il potere e lo accrescevano manovrando quote importanti di finanziamenti pubblici. Se Giacomo Mancini imponeva la costruzione della Salerno-Reggio Calabria, Misasi rispondeva fondando l’Università della Calabria nella piana di Rende. Sprechi, appalti pilotati, assunzioni clientelari, dagli operai dell’Anas ai docenti universitari, ma la realtà è che ai giorni nostri non è più un tormento arrivare in macchina in Calabria, e l’Università di Arcavacata di Rende è un polo di studio d’eccellenza.

Ma oggi, chi comanda a Cosenza, qual è la qualità della politica? Il nostro interlocutore a questo punto perde la pazienza, tracanna un altro liquore e ci congeda bruscamente: “Oggi comandano i pieji (i peggiori) e le famiglie”. Eccole le famiglie in fila e in ordine di importanza e rigorosamente bipartisan. Gentile, Occhiuto, Santelli, per il centrodestra, Adamo (Bossio), Oliverio, per il centrosinistra. Jole Santelli, un ventennio in Parlamento, sta facendo una campagna elettorale che i più giudicano “moscia”.

I suoi spin doctor le hanno fatto pubblicare certe foto eccessivamente casalinghe. Jole a casa sua che a piedi nudi sorseggia un tè, Jole che smanetta al portatile. È stato un boomerang. Peggio è andata in un confronto tv con gli altri candidati quando ha parlato del dramma dell’emigrazione giovanile, che in Calabria ha proporzioni da esodo biblico. “Anch’io sono partita quando avevo 18 anni per andare a studiare e poi sono tornata…”. Troppo.

Chi ha memoria lunga ricorda gli anni passati da “Jole l’emigrante” nello studio Previti, poi con Marcello Pera al Senato, infine da deputata. La mossa azzeccata, invece, è stata quella di far dimenticare ai cosentini che l’onorevole è stata anche vicesindaco della città. Un bel passaggio del cerino acceso nelle mani di Mario Occhiuto, il sindaco. Perché il Comune, dove la sorella di Jole, Roberta, già al Senato come capo della segreteria di Marcello Pera, è stata membro dello staff del sindaco, è in pieno dissesto finanziario.

Una Caporetto del bilancio certificata dalla Corte dei conti. E non è l’unica grana per Occhiuto, indagato per associazione a delinquere transnazionale in una inchiesta che vede coinvolti anche l’ex ministro all’Ambiente Corrado Clini e l’ex assessore di Palazzo dei Bruzi, Martina Hauser, compagna del ministro. Guai a parte, la Santelli già si sente prima governatrice della Calabria. Grazie a liste forti, piene di portatori di voti e transfughi del centrosinistra, al sistema elettorale che non prevede il voto disgiunto, e soprattutto al sostegno dei Gentile brothers.

Innanzitutto Pino, che a 76 anni, incurante della condanna a restituire 63 mila euro per la Rimborsopoli calabrese, sta facendo la sua ottava campagna elettorale da consigliere regionale. La prima fu nel 1985. Lo affiancano la figlia Katya, che è stata vicesindaco della città e studia da prossimo sindaco, e il fratello Tonino, senatore e più volte sottosegretario. L’altra famiglia politica, ma di sponda diversa, è quella degli Adamo-Bossio. Marito Nicola, coinvolto nella maxi-inchiesta di Catanzaro e colpito dal divieto di dimora, e la moglie Enza, combattiva (soprattutto contro il procuratore Gratteri) parlamentare del Pd. In questa tornata sono fuori gioco, colpa delle iniziative giudiziarie, e soprattutto della scelta di Zingaretti di non ricandidare il loro referente Mario Oliverio. La Lega, che alle ultime Europee a Cosenza e provincia portò a casa il 22,82%, è in imbarazzo per il caso Alfio Baffa, numero due della lista per le regionali.

Si tratta di quel personaggio diventato stella del web dopo la pubblicazione di un video che lo riprende in una vasca idromassaggio mentre sorseggia rhum e saluta i suoi amici del “revenge porn”. “Quindi abbiamo fatto bene – dice Francesco Noto – a scaricare davanti all’albergo di Salvini quando è venuto a Cosenza, una montagna di letame”. Personaggio della città che non si rassegna, Ciccio è famoso perché l’estate scorsa staccò l’amplificazione a un comizio del “Capitano” a Soverato. “La città non sa per chi votare, e molti verranno chiamati dai capi-clientela all’ultimo momento”, è l’analisi di Ferdinando Gentile del Comitato “Prendo casa”. “Una speranza erano i 5stelle (31,17% alle Europee, ndr) ma hanno deciso di trombare il loro candidato prima del voto. Non arriveranno al 4%”. Auguri di buon voto ai cosentini che a urne chiuse brinderanno alla loro immutabile città. Ma con un liquore da Oscar.

Oggi a Bologna il Sardina Day Sfida su Bibbiano

Nessun passo indietro della Lega, la piazza di Bibbiano spetta a loro e se la prenderanno. A nulla è valsa l’offerta delle Sardine di deporre le armi, Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni chiuderanno la campagna elettorale nel paese reggiano finito al centro dell’inchiesta sulla presunta mala gestione nel sistema degli affidi. Ai “pesciolini”, il questore Antonio Sbordone ha concesso un’altra piazza, vicina, ma le Sardine raddoppiano la posta e annunciano che chiederanno direttamente ai bibbianesi se li vogliono con un’assemblea pubblica lunedì prossimo.

“Eravamo pronti a rinunciare, pur avendola prenotata in Comune molti giorni fa, ma chiedevamo alla Lega di fare lo stesso passo indietro, un gesto di responsabilità, il primo di civiltà in questa campagna elettorale”. Parole cadute nel vuoto. Mentre le Sardine erano chiuse nella questura di Reggio Emilia, dal palco di Maranello, nel Modenese, Salvini ribadiva a viva voce che il 23 gennaio sarà lì: “Lo avevo promesso a quelle mamme e a quei papà, noi le promesse le manteniamo”.

Venerdì sera le Sardine erano state invitate, informalmente, a cedere la piazza, pur avendola prenotata con largo anticipo, in virtù della prelazione politica su uno spazio durante la campagna elettorale. Ieri pomeriggio, ufficialmente, le Sardine sono state convocate dalla questura di Reggio Emilia, che ha offerto loro, invece di piazza della Repubblica di fronte al municipio, piazza Libero Grassi. “Rispetteremo sempre la legge, non andiamo contro le istituzioni e non vogliamo strumentalizzare un caso che non ha nulla a che vedere con il futuro dell’Emilia Romagna. Abbiamo dimostrato, ancora una volta, che le parole di Salvini sono solo propaganda, ‘prima gli italiani’ ma in questo caso è lui il primo a non rispettare gli italiani abitanti di Bibbiano”.

Qualche giorno fa i sindaci dell’Unione Val d’Enza, di cui Bibbiano fa parte, hanno indetto una conferenza stampa: “Chiediamo buon senso agli organizzatori, ossia a Lega e Sardine. Sarebbe meglio se non ci fosse alcun comizio e alcuna manifestazione davanti al municipio di Bibbiano visto il clima che si respira”. Le Sardine ci stanno pensando: “Lunedì ci incontreremo coi cittadini di Bibbiano in un’assemblea pubblica e chiederemo loro se ci vogliono. L’evento su Facebook ha 7.000 aderenti, se ritengono che non sia il caso noi rinunciamo con grande serenità, le persone unite di una comunità sono la migliore risposta, noi vogliamo tutelare questa comunità non metterla in difficoltà”.

Anche il Pd di Reggio Emilia, per bocca del segretario Andrea Costa, ha chiesto ai leghisti di ripensarci ma per ora non ha ricevuto nessuna risposta: “Un conto è il regolamento, un altro è il buonsenso, questo è un segno della prepotenza con la quale agisce la Lega, c’è una questione anche di educazione e sensibilità”.

Accantonato l’affaire piazza, i pesciolini guidati da Mattia Santori stanno ultimando i preparativi in vista del grande evento di oggi. Sei ore di arte, cultura e musica con grandi ospiti: tra gli altri Subsonica, Afterhours, Vasco Brondi, Marlene Kuntz e Marracash. Tutti a titolo gratuito. E poi ancora Pif e Moni Ovadia e altri ospiti a sorpresa. Oltre 70 mila euro raccolti grazie a donazioni online e alla vendita delle sardine di stoffa. Sono attese almeno 30 mila persone per il primo, forse unico, “Sardina Day”. A Bologna dove tutto è nato e dove sembra che il mondo possa finire il 26 gennaio in caso di vittoria della Lega. Un’ipotesi che va ribaltata, dice Santori: “Se Salvini vince vorrà dire che abbiamo perso tutti. Noi non avremo nulla da recriminare, abbiamo ribaltato in ogni caso un paradigma fatto da parole di odio. Ma se Salvini invece dovesse perdere, cosa succede?

In Toscana il Pd prova a far entrare le Sardine in una lista civica per Giani

Nei mesi scorsi si sono annusati, poi avvicinati e a fine novembre contaminati, con la grande manifestazione dei 40 mila in piazza della Repubblica a Firenze. Adesso, però, i flash mob non bastano più e la liaison dangereuse tra Sardine e Pd passa su un piano più politico: la formazione delle liste del centrosinistra in vista delle elezioni regionali di maggio.

Il segnale lo ha dato lunedì il segretario del Pd toscano, Simona Bonafè, dopo l’annuncio di altre tre manifestazioni tra Pistoia, Pisa e Grosseto: “Siamo stati e saremo ancora in piazza con le Sardine e per questo, nel rispetto dell’autonomia del movimento, siamo pronti ad accogliere le idee che porteranno al dibattito politico nella nostra regione anche in vista delle regionali”. Ovvero: reclutare i referenti toscani delle sardine e inserirli o nella lista Pd o in una civica di sostegno al candidato governatore del centrosinistra, Eugenio Giani. Si parla già di un nome – “Giovani per Giani” – in grado di attrarre quel bacino elettorale su cui il presidente del consiglio regionale non ha mai fatto breccia. Al di là della forma che prenderà, la sostanza rimane: l’operazione di arruolamento delle Sardine è partita e l’anello di congiunzione è Bernard Dika, 21 anni e collaboratore per le politiche giovanili proprio di Giani. A pochi giorni dalla manifestazione fiorentina del 30 novembre scorso, quando si scoprì che era iscritto al Pd e che lavorava per Giani, Dika aveva fatto un passo di lato lasciando l’organizzazione della piazza agli altri tre coetanei, ma lui in queste settimane nelle Sardine toscane ci è rimasto eccome e viene considerato un riferimento per gli attivisti provinciali.

Dika sarà uno dei primi a candidarsi, ma negli ultimi giorni sono molte le offerte arrivate dal centrosinistra alle sardine toscane: “Diversi referenti in queste settimane sono stati presi come punto di riferimento anche per le candidature e molti sono stati contattati – conferma al Fatto Quotidiano, Daniele Tarantino, leader delle sardine a Massa Carrara – Qualcuno ha accettato, altri ci stanno pensando o hanno preferito dire di no”.

Lui stesso è uno di questi, anche se non conferma che il tentativo sia arrivato dallo staff di Giani: “C’è stata una richiesta e ancora ci sto pensando, alle Regionali mancano diversi mesi – continua Tarantino – Se accettassi lo farei a titolo personale e non come Sardina, perché non è il movimento a entrare in campo direttamente”. L’obiettivo principale del Pd, però, resta Firenze dove i quattro organizzatori sono riusciti a portare in piazza più di 40 mila persone: da giorni i dem stanno provando a convincere uno tra Danilo Maglio, Cristiano Atticciati e Matilde Sparracino a correre in sostegno di Giani. Per il momento ottenendo solo rifiuti, ma il corteggiamento andrà avanti nelle prossime settimane.

Anche a Siena – dove giovedì il movimento ha portato in piazza 150 persone contro lo spettacolo del filosofo Diego Fusaro su Bibbiano – Pd e Sardine si lanciano appelli reciproci: il referente delle piazze locali, Mattia Ciappi, qualche settimana fa ha scritto un documento per invitare il Pd a “dare spazio ai giovani” rendendoli “protagonisti e dando loro anche ruoli di responsabilità” e il segretario dei dem Massimo Roncucci ha risposto spalancando le porte: “A loro dico: venite, dateci una mano”.

Oggi Ciappi si dice “contento” per l’apertura del Pd e conferma l’ipotesi di una propria candidatura: “Per ora non ho ricevuto alcuna proposta, ma se arrivasse sarei ben felice di mettermi in discussione”. Unica condizione: “Non essere considerati solo figurine, ma avere un ruolo attivo anche nei contenuti”. In ogni caso, le intenzioni del centrosinistra toscano riguardo al coinvolgimento delle Sardine sono chiare: “Lo hanno detto Zingaretti e la Bonafè – conferma il vicesegretario dem Valerio Fabiani – e io sono d’accordo. Ci stiamo lavorando”.

L’Agcom deve intervenire: troppi spazi al leghista

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha richiamato le reti al rispetto del pluralismo introducendo un criterio di riferimento: che il racconto giornalistico dei soggetti politici sia “coerente” con le rappresentanze parlamentari, fatti salvi la libertà editoriale e i diritti di cronaca imposti dall’attualità, che non possono naturalmente ingessare l’informazione nelle proporzioni parlamentari. Ma se invece, come accade, sono proprio queste ultime a essere clamorosamente smentite ogni giorno è evidente che si apre un vulnus

e che il Garante avverta l’obbligo di sanarlo.

L’ordine emanato l’altroieri è di “assicurare ai notiziari una immediata inversione di tendenza” rispetto al passato. Bene. Da alcuni mesi l’Agcom però ha cominciato a pubblicare i dati del parlato dei politici, per i tiggì e per i talk, dati che prima restavano appannaggio degli addetti ai lavori. Da questi numeri, che fotografano l’esposizione dei leader e dei principali politici, si evince una grave distorsione cui il Garante dovrebbe porre attenzione: la gigantesca disparità di accesso alla parola per i vari leader (come testimoniano le nostre tabelle).

Ebbene, in una realtà politica dove oggi a contare, proprio per i processi di mediatizzazione estrema, sono le leadership personali piuttosto che i soggetti collettivi, di questa distorsione occorre tenere conto. I numeri dell’Agcom ci dicono che all’indomani del voto del 4 marzo 2018 Salvini ha progressivamente accresciuto la sua potenza di fuoco fino a diventare il dominus

assoluto della scena. Un fatto del tutto inedito ora che è all’opposizione. Un problema su cui l’Autorità dovrebbe allargare lo sguardo.

Salvini “one man show”: 12 ore di tivù in un mese

Alla ricerca della notizia? Macché! Alla ricerca di Matteo Salvini, raccontato in tutte le salse. Il diritto di cronaca è diventato diritto a Salvini, l’attualità è sempre lui. Se a novembre ci si era illusi che il trend stesse cambiando, nemmeno l’avvento, il 7 dicembre scorso, della par condicio per le Regionali ha fatto il miracolo, anzi. Al punto che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), preso atto della parzialità di un racconto dopato, al primo caveat del 31 dicembre ha fatto seguire questa volta l’ordine per Rai, Mediaset, La7 e Sky di ristabilire al più presto l’equilibrio rotto.

Vedremo se questa volta riuscirà a farsi ascoltare. Intanto a dicembre succede che i tg Mediaset regalino alla Lega quasi due punti in più del tempo di parola (dal 13,7 al 15,4%) rispetto a novembre e che il Tg5 contribuisca in maniera determinante a questa ascesa, visto che qui il partito che fu di Bossi passa dal 14,7 al 18,3% di parlato. Sempre al Tg5 Forza Italia continua a ritagliarsi uno spazio (12,3%) del tutto sproporzionato al suo peso politico: per intenderci il Pd è al 6,7%, il M5S al 7,2 mentre Fratelli d’Italia quasi al 9%.

Dove Mediaset fa il capolavoro (sporco), però, è nei talk dove il 47% del tempo di parola va a esponenti dell’opposizione (a novembre era il 40), il 33% a quelli della maggioranza, il 2,2% a governo e premier.

A parte il rapporto storico tra Mediaset e la destra, che comunque non finisce mai di stupire, e la cronica incapacità dei governi di riformare un duopolio malato con una legge sul conflitto d’interessi e il dimagrimento del privato (come da sentenze della Corte), oggi salta agli occhi uno scandaloso squilibrio tra i leader. Salvini a dicembre ha parlato nei telegiornali delle 7 reti generaliste 1 ora e 50 minuti, meno del premier Giuseppe Conte (2 ore e 44 minuti ma nel mese della sua conferenza stampa di fine anno), ma molto di più di Sergio Mattarella (60 minuti), di Luigi Di Maio (59 minuti), Giorgia Meloni (33), Nicola Zingaretti (25) e Matteo Renzi, il quale raccoglie solo 17 minuti nei tiggì, ma si rifà con gli interessi nei talk.

Detto ciò, vediamo cosa succede nei programmi che si occupano di politica. Qui Salvini continua a incamerare tempi di esposizione incredibili: a dicembre 10 ore e 29 minuti di parlato, molto più del premier Conte (8 ore e 11 minuti), e andrebbe già bene, se non guardassimo agli altri, il primo dei quali è Renzi con 4 ore e 18 minuti, mentre Di Maio, pur sempre capo di quello che fu il primo partito alle ultime Politiche, è lontanissimo con 3 ore e 41 minuti di parlato. Anche la Meloni (2 ore e 54 minuti) fa meglio di Nicola Zingaretti, tenuto a distanze siderali (2 ore e 10 minuti): il segretario del Pd si gode giusto una manciata di minuti in più di Vittorio Sgarbi (che di suo rappresenterebbe un soggetto politico da prefisso telefonico).

Si è capito qual è il trucco: per la Lega si offre il microfono quasi sempre a Salvini, idem per Fratelli D’Italia e la Meloni, mentre per gli altri, a partire da M5S e Pd, c’è la teoria dei dichiaranti. Il risultato finale, che vede a dicembre il leader della Lega parlare complessivamente, tra tg e talk, per oltre 12 ore (cioè il triplo di Di Maio, il quadruplo di Zingaretti e molto più di Conte che parla 10 ore e 55 minuti) ci pare non sia quello, per usare un eufemismo, del racconto equilibrato della politica.

In Rai poi rimane aperta la questione dei telegiornali. Non solo non ce n’è uno che si avvicini all’equilibrio chiesto dall’Agcom, ma perdono pure ascolti: il Tg2 serale scende nel 2019 al 7%, il Tg1 scivola pericolosamente sotto il 23%, perdendo circa 250 mila spettatori. E questo a vantaggio del Tg5 e di Studio Aperto (dati Frasi). In particolare il Tg1 continua a regalare spazio all’uomo del “Papeete”, mentre il Tg2 realizza la difficile impresa di ridurre i tempi di parola a Salvini facendo salire quelli della Lega, dal 14,2 di novembre al 15,3% di dicembre: miracoli di Sangiuliano.

A questo punto non si capisce che cosa aspettino il Pd di Zingaretti, ma anche i Cinquestelle di Di Maio, a decidere di affrontare finalmente, priorità indifferibile, la riforma del sistema televisivo e degli spuntati organi di controllo.

Filosofia d’una Myss: “L’intelligenza è ridere”

Il momento alto: “Essere il vero te stesso è una cosa super-politica”. Quello basso: “Ho cercato di dare a Massimo D’Alema dei boa di struzzo per completare il suo look, ma ha sempre rifiutato”. Lo sguardo sul mondo: “Dall’Oriente viene questa suggestione del Medioriente” e “del Giappone amo la cultura manga”. E quello su casa nostra: “Milano è super-europea, Roma è monumentale”. Quella che è andata in scena giovedì pomeriggio nel prestigioso palazzo Mattei di Paganica dove ha sede la Treccani sembra una pièce teatrale. Da un lato, Nicola Lagioia, lo scrittore “super” impegnato che riconosce il primato alla sua ospite – “Max Pezzali ha sdoganato lo ‘sticazzi’, ma tu sei arrivata prima con ‘Mortacci tua’”, dall’altro una signora seminuda con mascherina argentata e occhiali da sole che invoca i “raga” ogni cinque parole. E in effetti a vedere, anzi a sentire visto il volto coperto, l’indecifrabile Myss Keta sono arrivati in trecento, da tutta Italia: c’è una ragazzina giunta a Roma dal Veneto che si è messa in fila alle due del pomeriggio e quando, finalmente, siede ai piedi della “imperatrice”, le confessa “Ti vedo come mia madre”. Prima di cominciare, anzi prima dell’apertura dei cancelli, come in un concerto, la fila gira l’angolo del lungo marciapiede.

Myss Keta, per chi non ne avesse ancora mai sentito parlare (ma la si vedrà, per modo di dire, come conduttrice del prossimo “Dopo Festival” dopo il successo dell’ultimo album Le ragazze di Porta Venezia), nasce nel 2013 dal collettivo milanese Motel Forlanini. Fa sue le suggestioni dell’underground, suona musica rap ma è anche molto pop. Se ne fotte dell’apparire, “la maschera rappresenta la libertà totale”, e incarna parte della cultura dei club Lgbt e queer. Nessuno conosce la sua età, ma va in vacanza ai Caraibi con un noto avvocato meneghino.

L’incontro di giovedì si è inserito nel ciclo “Le parole delle canzoni” ed è proprio dalle parole, infatti, che Lagioia sceglie di partire. Brama e inerzia, laddove brama sta per “il desiderio di divertirmi con il mio gruppo, ma anche l’agonismo, la voglia di migliorare” e inerzia significa “recuperare l’ozio e la noia, durante i quali si manifesta il momento creativo”. Non proprio esternazioni filosofiche – tanto che qualche giornalista esce dalla sala al sussurro di “basta!” – ma per i fan assiepati è tanta roba. Ha due pregi, Myss Keta: non ha filtri, proprio grazie al travestitismo, e non ha paura. Sa di provocare, ma lo fa in maniera non fine a se stessa. Crede in ciò che racconta. Per esempio: “In Italia politica e divertimento sono sempre stati slegati (De Michelis, chi era costui?, ndr), come se uno che ha un ruolo istituzionale non possa andare di notte in un locale queer. Trovo che le persone troppo serie, che non sanno ridere, siano anche poco intelligenti”. È seguitissima sui canali social e, naturalmente, c’è da sempre chi la insulta: “Il giorno in cui non vedo haters mi preoccupo”. Come fare a schermarsi, le chiede Lagioia? Con lo yoga e un po’ di filosofia spicciola: “Quando capisci che ti stai caricando di stress inutili, puoi scegliere di continuare a far guidare ad altri la tua vita o scegliere di prendere in mano il volante. E poi con gli haters ci divertiamo, perché sono sgrammaticati. Cazzo, raga, le o senza h…”. Standing ovation.

Nessuno storca il naso, a questo punto, dal proprio salotto letterario. Anzi, bisogna cominciare a pensare di non aver compreso ancora dove va il mondo. Perché c’è addirittura una ragazza che vuole fare di Myss l’oggetto della sua tesi di laurea in Lettere moderne.

Quell’enorme salto nel vuoto chiamato diventare genitori

La premessa è che in questo articolo non ci sarà nulla di politicamente corretto. Perché nulla di politicamente corretto c’è nella genitorialità, e soprattutto nell’arrivo, a distanza di sei anni dal primo, del secondo figlio. Una deflagrazione nella vita di ogni coppia. Di quelle ricche, che godono dell’aiuto di due filippini ma poi si ritrovano i bambini che parlano filippino; di quelle naturiste, che regalano a Natale un’unica scarpa per insegnare il valore degli oggetti ma che poi per disperazione cedono al tablet; di quelle che hanno troppi figli e soggiacciono al Caos – nel senso greco di voragine – e pure dei padri separati, che fanno sesso selvaggio ma sono molestati dai cattolici sensi di colpa. E, ovviamente, persino nelle coppie “normali”, dove l’“andrà tutto bene” più che una certezza è un’invocazione a dio, il quale però non ti punisce mai abbastanza. E allora Sara (Paola Cortellesi) e Nicola (Valerio Mastandrea) siamo tutti noi che abbiamo due figli ma pure tutti noi che i figli ancora non li abbiamo o non li vogliamo. Perché il loro microcosmo, i loro stereotipi, gli scazzi e la voglia di spiccare il volo dalla finestra di casa sono, inevitabilmente, quelli di chiunque voglia tentare di protrarre una storia d’amore il più a lungo possibile.

Nella scrittura di Figli – che arriverà in sala il 23 gennaio – c’è tutta l’eredità del compianto Mattia Torre, che se n’è andato a luglio dello scorso anno a 47 anni, dopo averci regalato film e serie tv come Boris, Ogni maledetto Natale, Il grande salto e La linea verticale. Suo era il monologo – in realtà un pezzo giornalistico – Figli, recitato da Mastandrea anche sui palchi televisivi. Suo è lo sguardo realistico, ironico, dissacrante, “sfrontato” – come ha spiegato il “regista di sostegno” Giuseppe Bonito, chiamato a finire il lavoro che Torre non è riuscito a ultimare – sul rapporto di coppia e sul modo perennemente sbagliato di essere genitori. Ma non solo: anche sulla assurda dialettica con i nonni pensionati, che si guardano bene dall’aiutare i neo genitori, sui sogni giovanili, che si trasformano in vittorie quando si paga l’ultima rata del debito con Equitalia, e sulla follia di un Paese che non mette al mondo figli, perché “fare figli è una cazzata”.

Sara e Nicola sono due quarantenni con due impieghi stabili – quindi addirittura privilegiati – e una figlia di 6 anni, Anna, grande, tranquilla, docile. Hanno una vita sociale, amici, momenti di convivialità e persino di sesso. Ecco, appunto, il sesso: quando Sara scopre di essere incinta per la seconda volta chiede a Nicola di rassicurarla: “Andrà tutto bene?”. “Andrà tutto bene”. Da lì in poi, invece, nulla sarà più lo stesso e l’arrivo del piccolo Pietro sconvolgerà le loro esistenze facendo vacillare l’amore e l’unione familiare. Notti insonni, rigurgiti, pianti inspiegabili, sensi di colpa, desiderio di fuga e quel maledetto clichè tutto italiano che la maternità è un dono e il punto di arrivo di una donna. Tanto che l’uomo lasciato solo una giornata a occuparsi dei bambini si sente come un supereroe solo per aver compiuto in via straordinaria tutto ciò che una madre fa “di natura”. Si ride fino alle lacrime guardando questi 97 minuti di pellicola, che vede riuniti – e meravigliosamente uniti – gli attori-amici di Mattia Torre: oltre a Cortellesi e Mastandrea, ci sono Stefano Fresi, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Andrea Sartoretti, Carlo De Ruggieri, Massimo De Lorenzo, Betti Pedrazzi, Gianfelice Imparato, Giorgio Barchiesi, Cristina Pellegrino.

Quale genitore non ha desiderato almeno una volta di vedere scomparire il proprio neonato? Chi non ha mai pensato di mettere fine alla propria insonnia dormendo per sempre? E ancora, chi non ha cercato scuse per tornare a casa quando, per la prima volta, è riuscito a uscire di sera lasciando i figli a un’improbabile tata? C’è molto dell’esperienza personale di Mattia Torre in questo film ma, si diceva, c’è molto delle nostre sfide quotidiane. Laddove la più impegnativa, senza giudicare chi non ce la fa, è quella di tenere insieme tutto, di compiere un lavoro certosino per venirsi incontro, di saper ridere pure all’apice di una lite. Perché fare figli sarà pure una cazzata, ma è pur sempre un atto d’amore.

Sanremo, sono tornati gli anni 80 (e la politica)

Come ogni anno all’ascolto dei brani sanremesi, i giornalisti sottoscrivono all’ingresso un patto di riservatezza firmato con sangue e codice fiscale. Solo che stavolta fa vieppiù ridere perché l’elenco delle 22 (poi lievitate a 24) canzoni in gara è uscito su un giornale (a cui qualcuno dell’organizzazione l’ha evidentemente passata). Fughe di notizie a parte, restano nella mattina milanese gli strascichi delle polemiche sul presunto sessismo di Amadeus, che si è già scusato 185 volte circa. Ma sarà il Festival del #metoo di casa nostra e dunque avremo modo di parlarne ampiamente. Accanto al conduttore c’è il neo direttore di RaiUno Stefano Coletta, al secondo giorno di scuola, che si presenta con grande stile (“sono qui in punta di piedi e con una gioia profonda”). Vi diremo solo che l’anno scorso (le prove sono su Twitter) profetizzò la vittoria di Mahmood la prima sera. Ma veniamo al quello che dovrebbe essere il cuore di tutto, cioé le canzoni.

La playlist di dj Amadeus evoca a più riprese sonorità anni Ottanta, con un mix molto vario di generi, toni, emozioni che però non ha entusiasmato i critici in sala. Si passa dall’elettro-pop all’indie, dal reggaeton alla canzone d’autore. E, come accade da qualche anno, al rap incazzato (ci sono un mucchio di parolacce in questa edizione). Per esempio quello di Anastasio, che in Rosso di rabbia non si scosta dalle parole d’ordine del genere: furore giovanile, eccessi, rivoluzione. Menzione d’onore per il verso “voi scrocconi di emozioni sempre in cerca di attenzioni”. Giordana Angi in Come mia madre sfida i luoghi comuni (parlar della mamma a Sanremo!). Non è il solo testo familiare: Paolo Jannacci si rivolge a una figlia nella dolcissima Voglio parlarti adesso, Piero Pelù si presenta come nonno Litfiba in Gigante due volte. Bugo e Morgan, con Sincero evocano Battiato, ma anche il Venditti di Compagno di scuola (saranno mica finiti in banca pure loro? “Volevo fare il cantante delle canzoni inglesi così nessuno capiva cosa dicevo, vestirmi male e andare in crisi, invece faccio sorrisi ad ogni scemo”). Interessante e potente, con un testo per nulla banale, l’Eden perduto di Rancore che rappa tutto intorno alla mela: New York, Ipad, Isaac Newton, il giudizio di Paride. “Tu vuoi nemici sempre, se la strega è in Iraq, Biancaneve è con i sette nani e dorme in Siria”. Rita Pavone si presenta con il vitaminico Niente (Resilienza 74), scritta dal figlio, mentre Vasco ha regalato a Irene Grandi Finalmente io (“Da sempre arrabbiata da sempre sbagliata e ancora così”). Autore di Elodie è invece il vincitore dello scorso anno Mahmood, che canta Andromeda, la ninfa vanitosa.

No grazie di Junior Cally sarà la canzone più discussa perché parla di politica e populismo (dicendo, finalmente!, che sta dittatura del politicamente corretto ha rotto). “Spero si capisca che odio il razzista che pensa al Paese ma è meglio il mojito /e pure il liberista di centro sinistra che perde partite e rifonda il partito”. I due Mattei la useranno per far parlare di sé (tanto per cambiare). In quota ma che davero? Elettra Lamborghini, con Musica (e il resto scompare), lei compresa. I Pinguini Tattici Nucleari presentano un omaggio indie a Ringo Starr, perché “In un mondo di Paul e di John io sono Ringo Starr”.

Tra i grandi ritorni Francesco Gabbani con una gabbanata, Viceversa, che farà fischiettare grandi e piccini; Achille Lauro si tiene lontano da sostanze psicoattive preferendo l’amore, a modo suo, in Me ne frego (“Quest’amore è panna montata al veleno”, mezzo Fotoromanza di Gianna Nannini mezzo Brava di Vasco Rossi); Raphael Gualazzi sorprende con Carioca giocando con sonorità sudamericane; Marco Masini interpreta per l’ennesima volta se stesso ne Il confronto (“Hai dato tutto il peggio ma hai fatto del tuo meglio”); Michele Zarrillo, si dibatte Nell’estasi o nel fango (forse più la seconda); Enrico Nigiotti, con la sua voce carezzevole porta un brano facile facile, Baciami adesso. Ci sono, naturalmente, i brani più squisitamente sanremesi: Fai rumore di Diodato e Ho amato tutto di Tosca, elegantissima nell’interpretazione e nella modulazione vocale che sarà ancora meglio con l’orchestra (e probabilmente si piazzerà alta in classifica). Bello il pezzo di Levante, Tikibombom, che parla della difficoltà di individuarsi in un mondo conformista. Un po’ incomprensibile la scelta di Alberto Urso, il tenore che ha vinto l’ultima edizione di Amici, che porta Il sole a est (vi ricorderà Con te partirò di Bocelli), così come quella del bel Riki che con Lo sappiamo entrambi racconta un amore sfilacciato che affoga in un mare di banalità (“Ti scrivo e dopo cancello o non ti scrivo che tanto è inutile”). Enfin, la ballata delle Vibrazioni ,Dov’è , a un primo ascolto è parsa un po’ insipida.