“Dà dell’ignorante a Zelensky”. Ma Honcharuk resta premier

“Il presidente ha una conoscenza primitiva dell’economia”. Questa è la frase che poteva costare la carriera a Oleksyi Honcharuk, da quattro mesi premier ucraino, 35enne neofita della vita politica di Kiev, proprio come Zelensky, il comico che ha vinto le elezioni presidenziali lo scorso aprile. Il primo ministro, che non sospettava di essere registrato, ammette agli otto seduti con lui al tavolo bianco – tra loro Kateryna Rozhkova, ai vertici del Nbu, Banca Nazionale ucraina, e Oksana Makarova, ministro delle Finanze – che lui stesso in materia finanziaria è “un ignorante”. Dopo la diffusione di questi audio sul web, dichiarazioni e smentite si sono moltiplicate da una bacheca all’altra tra commenti e messaggi gravidi di clic, fino alle dimissioni di Honcharuk, respinte però da Zelensky in serata. “Ho deciso di dare una possibilità a lei e al suo governo”, ha fatto sapere il presidente, dopo un incontro con il premier. Sul web era iniziato tutto e sul web tutto finisce. Le registrazioni sono state tagliate e cucite per creare “artificialmente l’impressione che io e la mia squadra non rispettiamo il presidente”, che “è modello di apertura e pudore” ha ribadito Honcharuk. “Per rimuovere ogni dubbio riguardo il mio rispetto per lui, ho firmato la lettera di dimissioni”. Nell’Ucraina che deve restare “unita contro le manipolazioni”, perenne vittima al centro del ciclone delle false notizie, un simile “attacco mediatico non spaventa” il governo. Pallido in video, il premier scaglia messaggi di risposta su Youtube dove il canale anonimo ha diffuso gli audio.

Registrati il 16 dicembre scorso e diffusi nello stesso giorno del mese successivo, i tre audio sono uno scandalo che non costerà 5 miliardi e mezzo di dollari: quelli che il Fondo monetario internazionale ha assicurato all’Ucraina, ha detto il premier, ansioso di rassicurare che le sue dimissioni non metteranno a rischio la decisione adottata dal Fmi. Un’indagine è stata aperta dalle divise gialloblu: “Questione di sicurezza nazionale”. Il presidente prima di rifiutare le dimissioni aveva rotto il silenzio per lanciare un ultimatum: due settimane. È il tempo concesso ai servizi per scoprire il nome della talpa nei palazzi di cui ‘Ze’, diminutivo che il presidente si è trascinato dietro dalla sua vecchia vita da attore, adesso vuole lo scalpo. Questa è la seconda registrazione che finisce in Rete dopo quella che ha coinvolto il 19 novembre scorso Roman Truba, a capo dello Sbi, agenzia statale investigazioni, destituito dal presidente stesso a dicembre. Fumo, scintille, crisi da est a ovest per Ze. La guerra nel Donbass, la scia dell’aereo caduto a Teheran, l’impeachment in cui è coinvolto a Washington, le inchieste aperte proprio su questo. L’ex comico non ha molto di cui sorridere. Bisognerà aspettare il risultato di quest’ultima inchiesta per capire se e chi ha tramato davvero contro il premier e il presidente più giovani del Paese.

Rivolte e Trump: si risente il “comandante” Khamenei

È il giorno che il regime rialza la testa, o almeno ci prova. La preghiera del venerdì è predicata – fatto eccezionale: non accadeva da otto anni – dall’ayatollah Ali Khamenei: lui, la “guida suprema”, il “comandante in capo” finito sotto accusa come “abbattitore in capo” e “occultatore in capo” dopo l’intercettazione, per errore, del Boeing ucraino con 166 persone a bordo. Dopo il sermone dell’ayatollah, manifestazioni popolari ben orchestrate si svolgono in diverse città dell’Iran per esprimere sostegno alle autorità della Repubblica islamica. Le tv locali mostrano folle di gente in strada che urla slogan come “morte all’America”, com’era già avvenuto in moschea durante la predica di Khamenei, che aveva insultato il presidente Usa Donald Trump (“Un pagliaccio”) e minacciato Israele (“un tumore nella regione”). Khamenei rilegge gli avvenimenti di questo drammatico inizio anno: l’impennata della tensione; l’uccisione a Baghdad, a opera degli Usa, del comandante delle Guardie rivoluzionarie Soleimani; la reazione iraniana su basi irachene con soldati americani e della coalizione (senza però fare vittime), l’abbattimento del Boeing di linea scambiato per un aereo ostile dalla contraerea iraniana; la ripresa nel Paese delle contestazioni esplose già a novembre e represse nel sangue, questa volta mettendo sotto accusa la guida suprema.

L’ayatollah mescola retorica islamica e dati di fatto. La risposta iraniana all’atto ostile Usa “viene dalle mani di Allah” e ha dato una botta alla superpotenza americana, già colpita in Afghanistan, Iraq, Siria, Libano. Le proteste contro il regime, e la sua persona, sono manipolate dai nemici dell’Iran. Il dialogo sul nucleare offerto da Trump, dopo avere denunciato l’accordo già esistente, è “un inganno”. “Usando tecnologia, armi, politiche ingannevoli e falsa propaganda, l’Occidente cerca di dominare la regione” e “di dividere le nazioni di Iran e Iraq”. Nei due Paesi, “alcune persone irresponsabili, che si sono fatte influenzare dalla propaganda satanica dei nemici, hanno fatto dichiarazioni gli uni contro gli altri, ma il martire Soleimani ha sventato questo complotto”. L’America e l’Occidente “mentono sul fatto che l’Iran ha condotto una guerra per procura nella regione, ignorando il fatto che sono state le nazioni della regione a svegliarsi” contro la presenza militare occidentale. Per Khamenei, l’abbattimento del Boeing è “un amaro incidente”: l’ayatollah porge le condoglianze alle famiglie delle vittime ed esprime apprezzamento per la “spiegazione” fornita dalle Guardie della Rivoluzione, sottolineando però che ogni “ambiguità” va rimossa e che occorre prendere misure per evitare che incidenti simili possano ripetersi. Ma, senza “il martirio” di Soleimani, non vi sarebbe stata né la reazione iraniana né il tragico abbattimento, che “alcuni cercano di sfruttare” contro le autorità della Repubblica islamica..

Nel contesto di riscossa del regime, fanno discutere sui social, senza ancora avere una spiegazione, le immagini del presidente Hassan Rohani che lascia la moschea di Mosalla a Teheran quando non si era ancora del tutto conclusa la cerimonia guidata da Khamenei. C’è chi spiega il gesto di Rohani, che s’è velocemente alzato e allontanato, come un segnale di disaccordo con la linea espressa da Khamenei, che ha attaccato pesantemente anche i partner europei dell’Iran nell’accordo sul nucleare voluto da Rohani. Nel video, il gesto sembra sorprendere anche il presidente del parlamento Ali Larijani, al suo fianco.

Del resto, presidente e guida suprema hanno avuto in passato i loro contrasti. Khamenei, 81 anni, è stato presidente dell’Iran dal 1981 al 1989, dopo essere stato protagonista della Rivoluzione iraniana nel 1979 e intimo consigliere dell’ayatollah Khomeini. Ferito in un attentato di cui porta ancora i segni, eletto presidente con voto plebiscitario, costretto a cercare equilibri di potere con i moderati, rimase sempre vicino a Khomeini. Alla cui morte, gli successe, dopo la destituzione del delfino designato, il grande ayatollah Hossein-Ali Montazeri. Una storia, politica e religiosa, che s’intreccia con le tensioni con gli Usa e le alterne vicende iraniane tra moderati ed estremisti. La politica verso l’Iran di Trump crea, del resto, tensioni anche fra gli alleati degli Usa. Ieri, la Germania ha ribadito di non volersi aggregare “alla politica Usa della massima pressione sull’Iran”: “il nostro obiettivo è che l’accordo nucleare sia preservato” e riuscire a convincere Teheran “a tornare al rispetto degli impegni”. Il discorso di Khamanei non lo lascia sperare, per ora.

Serraj indeciso “forse assente” al tavolo con Haftar

“L’intesa sulla bozza d’accordo della Conferenza di Berlino è stata quasi raggiunta” e non “contiene alcun elemento di contraddizione con le decisioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Con quest’annuncio, a due giorni dall’appuntamento nella capitale tedesca, la buona notizia l’ha data ieri il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov. La cattiva notizia che è arrivata dal braccio destro di Vladimir Putin, che domani lo accompagnerà a Berlino, è “la difficoltà dei colloqui tra Haftar e Fayez al-Serraj. “Non è facile convincere queste due persone. I rapporti sono molto tesi, non vogliono neanche stare nella stessa stanza, figurarsi parlarsi”, ha concluso Lavrov. Mentre in serata si rincorrevano già voci della defezione di Serraj a Berlino. L’indiscrezione sul clamoroso passo indietro è stata rilanciata dalla tv Libya al-Ahrar. Forse anche per questo, Putin e Merkel si sono sentiti al telefono per “discutere i dettagli della conferenza”, mentre sull’altro versante, il presidente turco Erdogan ha accusato l’uomo forte della Cirenaica di non essere affidabile. “Le forze di Haftar continuano ad attaccare Tripoli violando il cessate il fuoco”, riporta l’agenzia turca, mentre il governo tedesco fa sapere che il 24 gennaio la cancelliera sarà a Istanbul per parlare con Erdogan di Libia, Siria, Iraq e le relazioni con l’Iran, nonché i flussi migratori. Tornando a Berlino, Serraj ha chiesto alla Germania di invitare anche Tunisia e Qatar, in quanto “paesi confinanti”, e, nel caso del Qatar , “principale sostenitore della rivoluzione del 17 febbraio”. Mentre l’Egitto ha posto il problema “dell’impatto negativo sulla conferenza dell’invio di truppe turche a Tripoli. Fanno presagisce un’internazionalizzazione della crisi libica”. L’Italia con il ministro degli Esteri Di Maio, che insieme al premier Conte sarà a Berlino domani, in un’intervista al tedesco Spiegel ha spiegato che l’Ue e l’Italia hanno perso terreno in Libia perché “non disposti all’invio di armi”.

Erdogan e l’accordo libico. Il peso del petrolio sulla pace

Il generale Khalifa Haftar è volato ad Atene alla vigilia della Conferenza di Berlino sulla Libia, a cui la Grecia non è stata invitata, per assicurare al premier Kyriakos Mitzotakis che i recenti accordi stipulati tra Ankara e il governo di accordo nazionale libico presieduto dal proprio rivale Fayez al-Serrraj “sono illegali”. Una mossa astuta, e allo stesso tempo logica, quella dell’uomo forte della Cirenaica che nei giorni scorsi ha dovuto accettare la tregua richiesta dalla Turchia, pena l’arrivo di nuovi soldati turchi in Libia e l’inizio di una nuova fase della guerra. L’avventura neo-colonialista del presidente turco Recep Tayyip Erdogan non coinvolge solo la Libia ma, loro malgrado, anche altri Paesi del Mediterraneo tra cui Grecia e Cipro, entrambi membri dell’Unione europea e della Nato. Dopo la firma, lo scorso novembre, del memorandum sui confini marittimi nel Mediterraneo fra Ankara e Tripoli circa l’estensione delle proprie Zone Economiche Esclusive (Zee), rendendo di fatto frontaliere due nazioni che geograficamente non lo sono, la Grecia ha espulso l’ambasciatore libico e accusato Ankara di violare il diritto marittimo internazionale.

A causa di questo accordo, Atene si è vista infatti restringere la propria Zee attorno ad alcune isole finite all’interno dei nuovi confini delineati da Ankara e Tripoli senza consultarla. “L’accordo viola il diritto internazionale ed è quindi invalido”, ha dichiarato Haftar.

Erdogan però non sembra preoccupato, anzi ha annunciato una nuova mossa unilaterale ai danni non solo della Grecia. Il “Sultano” ha spiegato che la nave-trivella turca Oruc Reis inizierà le esplorazioni in queste aree. La questione non è nuova, ma l’intreccio con la crisi libica la rende più spinosa. Nel Mediterraneo orientale dalla fine del secolo scorso sono stati fatti importanti ritrovamenti di gas, specialmente nei bacini di Cipro, Israele e del Delta del Nilo, e la Turchia ha sempre reclamato voce in capitolo. Forte della presenza a Cipro Nord, occupata dall’invasione del 1974, sostiene che le concessioni rilasciate dal governo di Nicosia alle compagnie petrolifere occidentali non siano valide, proprio perché non riconoscono gli interessi turco-ciprioti. A febbraio del 2018 le navi da guerra di Ankara sono passate a vie di fatto, bloccando la Saipem 12000 noleggiata dall’Eni. Lo scorso ottobre la Yavuz si è mossa per effettuare esplorazioni in un’area in concessione a Eni e Total. In seguito all’accordo Ankara-Tripoli, il gasdotto Eastmed progettato da Israele, Cipro e Grecia, e appoggiato dall’Italia, dovrebbe sottostare al nullaosta turco per poter approdare sulle coste greche, e poi italiane. Del resto Ankara è alla disperata ricerca di petrolio e gas, dato che non ne possiede, né sulla terraferma né attorno alle proprie coste. Per questo motivo l’accordo con Serraj riguarda le acque zeppe di giacimenti del Mediterraneo, comprese quelle della Cirenaica, regno di Haftar, e non della Tripolitania molto meno ricca. Ankara non ha ancora una Zee se non quella delimitata nel 2011 con l’autoproclamata Repubblica turca di Cipro del Nord, ma reclama come propria la porzione della Zee cipriota, contrastando con azioni in mare l’offshore energetico. La Grecia, vincolata dagli obblighi Nato che le impongono di non esacerbare le tensioni con la Turchia generate nel 1974 dal caso della piattaforma continentale dell’Egeo, si è imposta sin qui di non istituire la Zee. L’iniziativa turco-libica ha però infranto lo status quo.

La Turchia si presenta ora come lo Stato che fronteggia le coste della Cirenaica senza tener conto dei diritti a proprie Zee, anche delle isole di Rodi e Scarpanto. La potenziale Zee di Creta è stata inoltre privata di un’ampia porzione poiché quella turco-libica si estende dal promontorio a ovest di Antaya al tratto di costa libica tra il confine con l’Egitto e Derna e al suo interno si trova l’isola greca di Castellorizo. Molte sono le criticità di questo provvedimento che ignora volutamente tutte le complesse questioni del diritto delle isole ad avere una propria Zee. Nella partita libica, imperniata sullo sfruttamento dei giacimenti, il “Sultano” cerca di trovare nuova energia, anche per tornare potente in patria.

Danza delle suore: Venezia scomunica Paolo Sorrentino

Il dubbio non aveva nemmeno sfiorato i vertici della Fondazione Cini, quando avevano ricevuto la richiesta di Paolo Sorrentino. In fondo, il Cenacolo Palladiano sull’isola di San Giorgio non è una chiesa, non è un luogo sacro, ma soltanto lo straordinario refettorio del convento dei Benedettini restaurato una dozzina di anni fa e impreziosito da una copia delle Nozze di Cana del Veronese, che Napoleone ha trafugato da Venezia.

E poi, quando il regista premio Oscar aveva girato negli stessi luoghi The Young Pope, non c’erano state polemiche. Soltanto elogi. Perfino da Avvenire e dal compassatissimo Osservatore Romano.

Come sospettare che il seguito, The New Pope, ovvero cosa è accaduto dopo il coccolone che ha colpito cinematograficamente Pio XIII di fronte a un’osannante piazza San Marco, avrebbe fatto gridare allo scandalo proprio la Chiesa veneziana?

Eppure la bacchettata (bacchettona) è arrivata dal palazzo del Patriarca, dove in un secolo sono transitati tre futuri papi. Perché la sigla con le monache in sottoveste bianca, belle e discinte che danzano e si toccano sotto un’enorme croce sfavillante, ha turbato le coscienze. Almeno quella di monsignor Francesco Moraglia. Il quale ha dapprima fatto lanciare un anatema al suo delegato per i beni culturali, l’architetto don Gianmatteo Caputo: “La scena risulta offensiva, è simile a un video musicale realizzato in un luogo fondamentale della storia e della tradizione monastica a Venezia, una sorta di stage per una danza dal contenuto ammiccante e allusivo, collocata sotto il simbolo cristiano per eccellenza, la croce”.

E aveva aggiunto: “È un episodio che offende e profana. Sarebbe stato opportuno non concedere, per le riprese, l’utilizzo di quello spazio a elevato valore storico e simbolico”.

Poi il Patriarca ci ha messo la faccia: “Non si tratta di scandalizzarsi, ma la croce è un simbolo per molti, vuol dire il sacrificio, la salvezza, il dono totale di sé. Per molti, chi era in quella croce era ed è il figlio di Dio. Il rispetto dei simboli è il rispetto delle persone”. E per non scivolare sullo sdrucciolo percorso del rapporto tra espressione artistica e religione, ha aggiunto: “L’arte è libertà, l’arte è creatività, l’arte è qualcosa a cui non si può mettere la museruola. Eppure la croce non è un soprammobile, per molti credenti è il riferimento ultimo della vita”.

Com’è ovvio, il produttore Sky Tv non si scompone, anzi, gongola. L’ombra del Sant’Uffizio è pur sempre una pubblicità, per una serie televisiva che sembra aver fatto centro.

“Non dobbiamo analizzare l’opera di Sorrentino con un approccio didascalico. Lo sappiamo tutti che è un regista visionario”. Bastano due minuti di vestali ancheggianti con l’accompagnamento delle note di Good Time Girl del duo Sofi Tukker a turbare il sentire religioso? Ha facile gioco, lo sceneggiatore Umberto Contarello, a zoomare: “L’arte è un rischio, se non è rischio non è arte”. E il rettore dello Iuav, Alberto Ferlenga, che fa parte del consiglio generale della Fondazione Cini (dove siede anche il Patriarca): “ Non è stato né indebito, né blasfemo girarlo lì, non siamo a San Pietro. La chiesa ha le sue opinioni, ma nell’arte contemporanea spesso di questi simboli c’è stato un uso provocatorio”.

L’architetto Michele De Lucchi, che restaurò il refettorio, ci ricorda che “ai tempi di Napoleone era una scuderia per cavalli e il complesso benedettino una caserma militare. Oggi, grazie alla Fondazione Cini è uno spazio culturale internazionale, ma senza gli aiuti dei privati non potrebbe continuare a questi livelli”.

Al punto da rendere tutto commerciabile? Carlo Alberto Tesserin, vicepresidente della Fondazione veneziana. “Non ne sapevo nulla, sono dispiaciuto. Avrei dovuto essere quantomeno avvertito. Il segretario generale Gagliardi ha la responsabilità della concessione degli spazi. Anche se è ben remunerato, non vuol dire che si sia autorizzati a fare qualsiasi cosa”.

E il Patriarca conclude: “Chi ha dato i permessi dovrebbe riflettere sul perché lo ha fatto e trarne le conseguenze”.

 

Carandini, il conflitto d’interessi e le troppe querele intimidatorie

Due sentenze irrevocabili emesse dal Tribunale di Roma hanno messo fine a una lunga vicenda giudiziaria che prese le mosse con due querele presentate da Andrea Carandini dopo vari articoli che gli dedicai, su Left e su questo giornale, nel 2012.

In uno avevo commentato questa notizia uscita sull’Espresso: “Il Consiglio Superiore per i Beni culturali ha approvato il versamento di 288.973 euro ai proprietari del Castello di Torre in Pietra, a Fiumicino: e cioè al presidente del medesimo Consiglio, il conte Andrea Carandini, e alle sue sorelle”. E avevo, tra l’altro, scritto: “Ma in Italia, dove i ministri comprano case senza saperlo, figuriamoci se il professor Andrea Carandini si sente tenuto ad accorgersi di auto-stanziarsi 300 mila euro, o a sapere se casa sua sia aperta o no ai cittadini che gli elargiscono quella somma. E poi, il pensiero unico ortodosso sul patrimonio culturale non prevede oggi la totale abdicazione dell’interesse pubblico nei confronti degli interessi privati? E il conte Carandini all’ortodossia – comunista o ultraliberista, poco importa – ci ha sempre tenuto”.

Nel secondo, firmato insieme a Malcom Pagani, ricordavo che “nell’aprile del 2008 il Mibac firmò un protocollo di intesa con la cattedra di Archeologia classica della Sapienza, per cui quest’ultima avrebbe ceduto alla Soprintendenza di Roma un brevetto informatico per realizzare il ‘sistema informativo territoriale archeologico per il centro storico e il suburbio di Roma’. Un ingenuo cittadino potrebbe pensare che l’università pubblica cedesse questo brevetto gratuitamente all’altrettanto pubblica Soprintendenza. Manco per niente: la cessione sarebbe dovuta avvenire ‘alle condizioni di mercato’, da definire in un accordo separato. E il bello è che il brevetto (ottenuto grazie a ricerche finanziate dall’università) non era intestato alla Sapienza, bensì ‘ai professori Andrea Carandini e Paolo Carafa’. Ciliegina sulla torta, in quel momento Carandini era il coordinatore nazionale della Commissione paritetica per la realizzazione del Sistema Informativo Archeologico delle città italiane e dei loro territori. Insomma, uno strepitoso modello di rapporto pubblico-privato: il superconsulente accademico vende al Ministero il proprio brevetto. Ma il piano alla Totò-truffa non andò in porto per la sollevazione dei funzionari della Soprintendenza di Roma, che trovavano scandaloso comprare da un privato ciò che si poteva avere gratuitamente”.

Ebbene, il tribunale ha infine riconosciuto che ciò che ho scritto era vero, di interesse pubblico ed espresso in modo continente. La sentenza (10467/16) sul castello ha stabilito che il Carandini “in presenza di una decisione dell’organo da lui presieduto che, seppure, indirettamente avrebbe influito sui suoi interessi personali in relazione ad una vicenda specifica non si era astenuto, e ciò, nonostante esistessero, da un lato norme giuridiche e deontologiche che gli avrebbero imposto di farlo e, dall’altro, ragioni di opportunità che gli suggerivano di fare altrettanto … il prof. Carandini, per le ragioni sopra esposte, avrebbe fatto meglio ad astenersi”. La seconda sentenza (7954/2019) ha precisato che, nella vicenda del restauro del Castello Andrea Carandini “si è trovato effettivamente in una posizione di conflitto di interessi”, e ha stabilito che l’articolo ha esplicitato “criticamente fatti che meritavano di essere denunciati all’opinione pubblica”. Anzi, ha lamentato che, nel corso del processo, “Carandini ha fornito una descrizione non sempre fedele” delle competenze del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, “sminuendone in buona sostanza le funzioni decisorie”.

Sulla seconda questione, il giudice ha accertato che Carandini e Carafa si mossero “al fine di ottenere un tornaconto economico”. E dunque ha stabilito che l’espressione “il piano alla Totò-truffa non andò in porto per la sollevazione dei funzionari della Soprintendenza di Roma” è “la rappresentazione sarcastica e pungente … con cui l’autore del testo ha denunciato un fatto segnalato alla sua attenzione dopo averne accuratamente verificato la genuinità e la verità”. Le presunte “offese” contenute nell’articolo, dunque, sono scriminate perché “riconducibili a comportamenti concretamente tenuti da Carandini Andrea che meritavano di essere segnalati all’opinione pubblica”.

Nel complesso, le due sentenze restituiscono un ritratto assai efficace dell’attuale presidente del FAI e danno il giusto rilievo al diritto di critica. E, tuttavia, è impossibile non chiedersi: questa interminabile vicenda giudiziaria ha avuto senso?

Ricordo quando i carabinieri vennero a cercarmi nel mio dipartimento universitario per identificarmi in seguito alla denuncia di Carandini, o la mattinata trascorsa in un pittoresco ufficio della polizia postale. E le tante giornate d’udienza cui ho partecipato, una volta prendendo posto sul banco degli imputati subito dopo che dallo stesso banco si era alzato un Casamonica all’epoca imputato. Un’esperienza sconcertante, finita bene grazie alla qualità della magistratura italiana, alla mia decisione di rinunciare alla prescrizione per poter vedere riconosciuta la mia piena ragione, alla solidità non solo economica di questo giornale e al lavoro straordinario degli avvocati Caterina Malavenda, Mario Geraci e Angela De Rosa – che sono andati (e anche lì con successo) per ben tre volte fino in Cassazione, per far dissequestrare la versione online dell’articolo e perché il Gup mi aveva prosciolto.

Ma è accettabile che – avendo evidentemente torto – si possano tenere in ostaggio per anni le vite e le finanze di chi, non sempre economicamente capiente, scrive la verità nell’interesse pubblico? E che si possa farlo senza pagare alla fine alcun prezzo, se non quello – sacrosanto – della perdita del processo che finisce per avere ricadute sulla reputazione, ma non sulla tasca di chi ha agito?

È fin troppo chiara l’urgenza di una legge che ponga fine alla costante pressione su giornalisti e opinionisti attraverso querele pretestuose e infondate. Che cercano solo di rovesciare il tavolo della verità: per fortuna non riuscendoci quasi mai.

Cellulari e tumore, perché i periti dei giudici non escludono il nesso

Sta facendo molto discutere la sentenza della Corte d’appello di Torino che ha dato ragione a un dipendente della Telecom, Roberto Romeo, che denunciava l’esistenza di nesso causale tra una intensa e prolungata esposizione alle emissione del cellulare e la comparsa di un tumore, benigno, all’orecchio destro che lo ha reso parzialmente sordo. Su questa base, l’Inail è stata condannata a corrispondere un indennizzo, trattandosi, per la Corte, di malattia professionale. La sentenza è stata criticata da molti esperti. “I dati disponibili sulla base delle ricerche degli ultimi 30 anni suggeriscono che l’uso dei telefoni cellulari non sia associato all’aumento del rischio di tumori”, ha dichiarato al Corriere della Sera Roberto Moccaldi, responsabile della medicina del lavoro al Cnr che da 30 anni si occupa di protezione dalle radiazioni ionizzanti e non ionizzanti, quelle appunto dei campi elettromagnetici. Secondo Alessandro Polichetti dell’Iss, gli studi finora a disposizione “non sono sufficienti a emettere una sentenza del genere”.

Perché dunque i due periti della Corte di Torino ritengono che le 12.600 ore totali in 15 anni a cui Romeo è stato esposto per ragioni professionali (dal 1995 al 2010, anno in cui gli è stato diagnosticato il tumore) siano la causa del neurinoma acustico di cui è affetto? I due periti, Carolina Marino, Specialista in Medicina Legale, e Angelo d’Errico, Dirigente Medico del Servizio Sovrazionale di Epidemiologia ASL TO3, hanno consegnato una corposa consulenza tecnica. Nel documento hanno analizzato tutti gli studi scientifici pubblicati dalla fine degli anni 90 al novembre 2019. Almeno 50 pubblicazioni, tra studi clinici e su animali, rapporti ufficiali delle agenzie europee per la sicurezza ambientale e sul lavoro e dello Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Oms. La loro conclusione non contraddice la letteratura corrente. Mostra solo di saperla leggere con attenzione, anche rispetto alle distorsioni statistiche di cui molti studi in materia sono affetti (come è ben noto alla comunità scientifica internazionale) e analizzando i dati significativi rispetto a casi di intensa e prolungata esposizione, in cui ricade quello di Romeo. A partire da Interphone, uno studio multicentrico finanziato dall’Oms e da varie compagnie telefoniche in 13 nazioni, i cui risultati sono stati pubblicati a partire dal 2010.

Il gruppo Interphone ha analizzato migliaia di casi di pazienti affetti dalle principali patologie tumorali nella regione cranica, come gliomi, meningiomi e neurinomi dell’acustico. Li hanno poi intervistati per ricostruire il numero di ore a cui erano stati esposti alle emissioni dirette del cellulare prima della diagnosi di tumore. Il gruppo Interphone definisce “utilizzo regolare” del cellulare – quello per cui conclude che non ci siano evidenze di aumento di rischio – sulla base di almeno una chiamata alla settimana. Circa 86 ore in 10 anni. Un utilizzo così basso che molti scienziati ritengono abbia diluito troppo i risultati degli studi Interphone. Gli autori hanno organizzato in dieci fasce i soggetti intervistati, in base al crescente utilizzo annuo (sotto le 5 ore fino a 1640 ore totali) e al numero di anni di esposizione prima della diagnosi di tumore (da meno di due fino a oltre 10). Le uniche associazioni significative tra utilizzo del cellulare e insorgenza di gliomi e neurinomi acustici sono state riscontrate per l’ultima fascia, quella oltre le 1640 ore – la più intensa esposizione studiata – dove si riscontra un aumento del rischio del 40% per il glioma e di 2,5 volte per il neurinoma acustico, rispetto al gruppo di controllo dei non utilizzatori di cellulare. “Tale incremento potrebbe essere dovuto al caso, a una distorsione nello studio, come il cosiddetto recalling bias (cioè una sovrastima o sottostima del tempo trascorso al cellulare nel decennio precedente alla scoperta del tumore nel ricordo dei pazienti intervistati, ndr) ma anche a un effetto causale”, scrive il gruppo Interphone nelle conclusioni dello studio sul neurinoma, del 2011. “È anche possibile che l’intervallo tra l’introduzione dei cellulari e l’insorgenza del tumore fosse troppo breve per osservare un effetto, nel caso ce ne sia uno, poiché il neurinoma acustico cresce molto lentamente”, aggiungono. Possono volerci anche 20 anni perché si sviluppi. In più, le 1640 totali di esposizione sono otto volte inferiori a quelle di Romeo: 12.600 ore in 15 anni. E per i primi anni Romeo ha utilizzato cellulari analogici, dotati della tecnologia Etacs, con emissioni di radiofrequenze 100 volte superiori a quelli degli smartphone 3G e 4G (in ogni caso sempre superiori a quelle dichiarate dalle aziende).

Ma se un’esposizione intensa e prolungata al cellulare fosse causa di insorgenza di tumore, non avremmo registrato, negli anni e nel mondo, un aumento dei casi di neurinoma acustico? È l’obiezione scientifica di Inail e di parte della letteratura scientifica. “I registri tumori per i casi di neurinoma acustico sono incompleti – rispondono i periti – Non è possibile stimare il numero di nuovi casi nel corso degli ultimi decenni”.

I periti hanno poi considerato anche i risultati dei più recenti studi indipendenti su topi esposti a emissioni da cellulare in tutto il corpo e da cui è emerso lo sviluppo di tumori “dello stesso tipo istologico del neurinoma acustico”. Per tutte queste ragioni hanno concluso che “si può ammettere un nesso eziologico tra la prolungata e cospicua esposizione lavorativa a radiofrequenze emesse da telefono cellulare e la malattia denunciata dal signor Romeo all’Inail”. Una considerazione che non va contro la letteratura scientifica internazionale in merito all’utilizzo cosiddetto “regolare” del cellulare – definizione su cui comunque si nutrono molti dubbi –, ma mostra di saper leggere e interpretare i risultati di tutti gli studi disponibili nel caso di esposizioni intense e prolungate nel tempo. Come quella del 57enne Romeo e chissà di quanti altri.

Giulio mani di forbice, Andreotti, Tatti e la censura

Bei tempi quando c’era la censura, quella vera, a suon di cesoiate. Tempi di forchettoni e di forbicioni, quando Giulio Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo, ebbe potere di visto e di morte sulla sua passione giovanile, il cinema. Non si diventa divi a caso. Il cinema visto da vicino, film-intervista di Tatti Sanguineti trasmesso su Sky Arte, mostra quale occhiuta vigilanza vegliasse sull’immaginario collettivo nell’Italia degli anni 50: forse non moriremo democristiani, però ci siamo nati. Giulio mani di forbici è dire troppo, non è il suo stile. Piuttosto mani di forbicine, quelle della signorina della manicure, utili a smussare, a spuntare più che a trinciare. Tre le preoccupazioni principali: coprire il corpo delle donne (dove però Andreotti fu surclassato dal suo successore alla Commissione censura, Oscar Luigi Scalfaro); sminare il pericolo comunista; troncare e sopire chi dava del Paese un’immagine depressiva. Sarà vero che a pensar male ci si azzecca, però si fa peccato. Quindi “i panni sporchi si lavano in casa”, sentenziò il Divo a proposito dell’Umberto D. di De Sica e Zavattini; un’argomentazione imperitura nella sostanza, non così diversa sessant’anni dopo da chi ha giudicato inopportuna Gomorra – La serie perché fa una brutta pubblicità a Scampia. Bei tempi quando c’era la censura con le cesoie maiuscole; ora c’è l’autocensura a propria insaputa, certe cose non c’è bisogno di proibirle, basta non pensarle.

Librerie in crisi: più a rischio il libero pensiero

“Seguendo l’abitudine di una vita, ho cercato consolazione nelle mie letture – logori mazzolini di saggezza da annusare quando il puzzo della vita diventa opprimente”
(da “Darke” di Rick Gekoski – Bompiani, 2017 – pag. 121)

 

La crisi delle librerie in Italia è, innanzitutto, una crisi cronica della lettura in un Paese incline a leggere poco e a pensare ancor meno. È la crisi globale del libro come prodotto cartaceo, destinato a convivere sempre più con gli e-book e gli audio-libri. Ed è poi la crisi di un’editoria come la nostra, in larga parte mercantile ed esterofila, che preferisce frequentare fiere e saloni per acquistare i diritti su libri stranieri – spesso scritti male e tradotti o editati peggio e infarciti di “refusi” – piuttosto che sperimentare nuovi generi e lanciare nuovi autori. E infine, è anche la crisi delle librerie come luoghi di incontro, di confronto e di socializzazione, con spazi inadeguati e dispersivi come labirinti o bazar, con commessi o commesse per lo più indisponibili e indisponenti.

Non c’è da meravigliarsi troppo, dunque, che in tutto questo tante librerie (2332 negli ultimi cinque anni, secondo Confcommercio) siano costrette a chiudere i battenti, fagocitate dalla concorrenza spietata di Amazon, come da ultimo due storiche Feltrinelli a Roma e la bicentenaria Paravia a Torino. Ma non è retorico dire che, per ognuna che scompare, si perde un presidio di cultura e di libero pensiero; un deposito di idee, di fantasia, di linguaggio. È giusto perciò occuparsene e cercare i rimedi, al di fuori però di qualsiasi tendenza protezionistica orientata alla conservazione e all’assistenzialismo.

Si può apprezzare, allora, la proposta del ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, di stanziare fondi pubblici con una legge ad hoc per sostenere l’intera filiera del libro, come si fa già per il cinema. A condizione che ciò avvenga secondo criteri oggettivi di merito e di trasparenza. Magari privilegiando le piccole librerie e i cosiddetti librai indipendenti nel segno della “bibliodiversità”.

Contro la crisi della lettura, sono gli editori in primis che devono avere più coraggio e spirito d’iniziativa. Selezionando i titoli che pubblicano, in ragione della qualità e del pluralismo culturale. Offrendo edizioni più economiche e maneggevoli. Mettendo fine alla “guerra degli sconti” e proponendo prezzi ridotti per i giovani e gli studenti; lanciando eventi multimediali o campagne promozionali all’interno delle librerie e istituendo “Scuole di lettura”, con il coinvolgimento degli scrittori e dei critici letterari.

Una responsabilità particolare spetta alla scuola in quanto istituzione. È proprio sui banchi che si può cominciare a diffondere l’abitudine e la passione per la lettura tra i più piccoli. L’importante è far capire fin dall’inizio ai bambini e ai ragazzi che non esistono soltanto i libri di testo da studiare, ma anche quelli di narrativa da gustare e da amare.

Un ruolo decisivo compete infine al sistema mediatico, a cominciare dal servizio pubblico radiotelevisivo. È la radio che può valorizzare il contenuto dei libri, anche più della tv e dei giornali che si rivolgono generalmente a un pubblico di habitué, attraverso la parola, il linguaggio, la comunicazione orale. Mentre la televisione ha bisogno di spettacolarizzare tutto, la radio è in grado – magari con appropriati accompagnamenti musicali – di suscitare l’interesse e catturare l’attenzione anche dei lettori non abituali, uscendo dal perimetro delle trasmissioni-ghetto o dal recinto delle cosiddette reti culturali.

È vero: leggere libera la mente. Ma, prima, bisogna imparare a leggere.

Cara Meloni, cosa ha fatto per l’Italia?

Cara Giorgia Meloni, l’altra sera da Mario Giordano ho registrato per lei una domanda Fuori dal Coro, che diceva testualmente: “Il Times l’ha inserita tra le 20 persone che cambieranno il mondo. Per il futuro, vedremo. Ma per il passato, essendo lei in politica da un quarto di secolo, anche con ruoli importanti di governo e istituzionali – ministro, vicepresidente della Camera, deputata – com’è che, in tutto questo tempo, non dico il mondo, ma almeno un po’ l’Italia non è riuscita a cambiarla?”. Nella sua risposta – al di là dell’esordio ironico “Mi vuole un gran bene Luisella Costamagna… da sempre” – ha rivendicato quanto fatto da ministro della Gioventù, “il massimo con cui mi sono potuta misurare”, “per il resto sono sempre stata all’opposizione e pure da lì qualche cosuccia sono riuscita a portarla a casa, tipo i seggiolini Salva Bebè, approvati dal Parlamento in questa legislatura”. Applausi del pubblico.

Cara Meloni, tanto tengo a lei e alla sua (ir)resistibile ascesa (FdI oltre il 10% nei sondaggi), che non posso fare a meno di sopperire alla sua umiltà ricordando che lei di cose ne ha fatte eccome. Già, perché in questi 25 anni di carriera politica, in cui ha polverizzato tutti i record di ruoli ricoperti in giovane età, non è “sempre stata all’opposizione”, anzi, è stata a lungo al governo con Berlusconi e la Lega, votando le leggi ad personam (Lodo Alfano, legittimo impedimento…), le misure economiche e fiscali che ci rendono il “paradiso” che siamo oggi, su su fino all’epocale Ruby nipote di Mubarak. Da donna avrà agito in buona fede: non in difesa di Berlusconi (certo che no!), bensì della giovane marocchina e del suo sogno di avere radici certe. Era il 2011, di lì a poco – dopo un’estate più che sprint, spread – Berlusconi si dimise e nacque il governo Monti. E lei? Pancia a terra, da grande lavoratrice qual è, a sostenerlo e votare i provvedimenti Salva Italia cui il suo ex governo ci aveva costretti (e su cui ora lei dà battaglia): la legge Fornero, il ritorno della tassa sulla prima casa (Imu), l’abbassamento del tetto sull’uso del contante. Pure il Fondo Salva-Stati, che adesso la manda in “Bestia” sui social con Salvini, fu istituito dal governo in loden che lei (non la Lega) appoggiava. E pure sull’odiato Fiscal Compact, imposto dall’Europa matrigna, invece di dire no preferì non partecipare al voto.

Su una cosa, va riconosciuto, ha tenuto il punto: il taglio dei costi della politica. Almeno dei parlamentari, visto che ha votato sì e non ha firmato per il referendum. Non si può dire altrettanto, invece, dell’abolizione delle Province: la “nuova” Meloni oggi condivide l’insofferenza popolare verso i “carrozzoni”, ma la “vecchia” votò nel 2011 contro la soppressione delle Province in Costituzione.

Cara Meloni, per tornare alla mia domanda iniziale, lei sicuramente più che “stella nascente”, come l’ha definita il Times, è “già nata” parecchi anni fa (quelli so’ inglesi e nun ricordano). Ma “stella” del firmamento della politica italiana resta comunque. Per farla brillare ancora di più in futuro, ci permettiamo solo due consigli: 1) faccia i conti col suo passato, invece di puntare sulle dimenticanze sue e degli italiani; 2) combatta anche doppi incarichi e assenteismo: c’è ad esempio una deputata, leader di partito, che non lascia la poltrona di consigliere comunale a Roma, anche se va poco sia all’Assemblea Capitolina (solo 6 sedute su 60 nel 2019) sia alla Camera (assente al 71% delle votazioni in questa legislatura, sestultima in classifica). In compenso impazza in tv. La conosce?

Un cordiale saluto.