Così si ferma la mafia dentro la politica

Il 31 maggio 1991, il governo emanò il decreto legge 164 che introdusse nel nostro sistema la possibilità di sciogliere i Consigli comunali e provinciali e gli organi di altri enti locali per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso. Rappresentò una sorta di rivoluzione copernicana perché offrì uno strumento in grado di arginare l’avanzata mafiosa nei comparti dello Stato più vicini ai cittadini, permeati da amministratori collusi. Fu uno dei primi provvedimenti legislativi stimolati con successo da Giovanni Falcone, il quale, da poco più di due mesi, aveva assunto il ruolo di direttore generale degli Affari penali. Il decreto seguì i fatti cruenti che insanguinarono Taurianova (quattro persone uccise in due giorni), vicende che ebbero un notevole impatto mediatico e che fecero conoscere al mondo la realtà di una cittadina ove l’amministrazione comunale era occupata dalla mafia, la sicurezza pubblica era assente, il 90 per cento delle costruzioni dell’ultimo ventennio era abusivo e la loro edificazione era stata affidata a imprese appartenenti alla criminalità organizzata. Da questa realtà maturò la necessaria sensibilità politico-istituzionale dei ministri dell’Interno e di Grazia e Giustizia che portò a proporre in seno al Consiglio dei ministri interventi mirati da parte dello Stato nei confronti delle amministrazioni degli enti locali. Venne così deciso che il loro scioglimento potesse essere deliberato dal Consiglio dei ministri prima di essere sottoposto alla firma del capo dello Stato per un periodo compreso tra i dodici e i diciotto mesi e, in attesa del decreto presidenziale, veniva attribuito al prefetto, in presenza di motivi di urgente necessità, il potere di sospendere gli organi dalla carica ricoperta, assicurando la provvisoria amministrazione dell’ente con un’apposita commissione. La normativa introdotta – oggi regolata dagli articoli 143-146 del decreto legislativo n. 267 del 18 agosto 2000 – si è concretamente rivelata un valido strumento di contrasto delle infiltrazioni e dei condizionamenti malavitosi, capace di intervenire anche dove è impossibile per la magistratura, non richiedendo né la prova di commissione di reati né che i collegamenti tra le amministrazioni e le organizzazioni risultino da prove inconfutabili. Sono, infatti, sufficienti semplici elementi e circostanze di fatto rivelatrici di un collegamento o di influenza tra l’amministrazione e i sodalizi criminali. Ha così consentito di intervenire nei confronti di enti locali caratterizzati da dissesti finanziari, da assenza di piani regolatori, da inefficienza dei servizi di polizia municipale, da rifiuti abbandonati per la mancanza di raccolta, dall’assegnazione di appalti a mafiosi, da un dilagante abusivismo edilizio che non risparmia nemmeno il suolo demaniale, da personale assunto in maniera clientelare e senza selezione di merito, da assistenza sanitaria quasi inesistente e degradata, da scuole in rovina, da strade dissestate. La pervasività della presenza mafiosa, sempre più proiettata al controllo delle istituzioni locali, nevralgici centri della spesa pubblica, ha dimostrato nei circa 29 anni dall’entrata in vigore della normativa di saper superare ed eludere gli eventi traumatici derivanti dallo scioglimento, così impedendo di ottenere tutti i frutti che quelle norme lasciavano sperare. Si è infatti registrato, a distanza di poco tempo, che l’organo comunale è stato di nuovo disciolto. Molti amministratori sono stati rieletti nei comuni sciolti. Perché non pensare allora all’introduzione di norme che inibiscano tali rielezioni, prevedendo specifiche cause di ineleggibilità? Sarebbe opportuno riflettere, poi, sulla necessità di intervenire sui dirigenti e sui componenti degli organi revisori contabili, espressione dei rappresentanti di vertice degli enti e delle strutture politiche in cui sono inseriti, anche con meccanismi di mobilità.

Apprezzabile, al riguardo, la scelta operata dal legislatore nel 2007, che ha previsto per gli enti locali i cui Consigli sono stati sciolti, la risoluzione di diritto degli incarichi a contratto, ove la Commissione straordinaria non li rinnovi entro 45 giorni dal proprio insediamento. La circostanza che gli enti locali fanno sovente ricorso ai modelli societari privatistici comporta la possibilità di eludere la normativa sullo scioglimento, dal momento che l’articolo 146 del Testo unico degli enti locali fa riferimento alle sole aziende speciali. Sarebbe perciò auspicabile estendere l’ambito di applicazione a tali imprese che gestiscono i servizi pubblici locali (come i rifiuti e l’energia). Si tratta delle società miste (a capitale pubblico e privato) e in house (in cui l’ente locale detiene una partecipazione qualificata). Del resto, la gestione di tali servizi rappresenta un’attività di dimensioni economiche rilevanti, nella quale la criminalità ha interesse a intervenire. L’estensione della normativa dovrebbe riguardare tutte le società a partecipazione pubblica, in specie quelle in house che possono beneficiare dell’affidamento diretto, senza il ricorso a procedure a evidenza pubblica. Altrimenti vi è il rischio concreto che, attraverso questa via, gli interessi mafiosi continuino a essere salvaguardati nonostante lo scioglimento del Consiglio dell’ente. Nella prospettiva di rendere più incisiva l’azione di contrasto potrebbe essere utile poi accentuare la collaborazione tra i prefetti e i procuratori della Repubblica e pensare a una normativa appropriata sullo scioglimento dei Consigli regionali e degli apparati societari collegati che hanno mostrato di risentire dei collegamenti con appartenenti al mondo criminale.

Mail box

 

È un grande piacere trovare Luca Mercalli sul “Fatto”

In qualità, tuttora quasi ottantenne, grande appassionato di meteorologia, che iniziai ad amare sin dai tempi delle elementari, grazie alla sempre nuova magia della neve, delle nuvole, di un arcobaleno e insomma della affascinante mutevolezza del tempo, ho accolto davvero con grande piacere l’inizio della collaborazione domenicale al vostro quotidiano del meteorologo Luca Mercalli, presidente da anni della Società Meteorologica Italiana, che ho seguito sempre fedelmente su altro quotidiano. Mercalli è anche climatologo, termine che quasi ognuno ritiene sinonimo di meteorologo e, meritevolmente, non si stanca di segnalare da anni, con passione e con dati inoppugnabili, le prospettive non certo rosee e neppure troppo remote, del nostro pianeta, cioè sulla nave sulla quale tutti viviamo, direi ovviamente senza distinzioni di provenienza, razza, colore della pelle o che altro. Con rinnovato piacere, cordialmente saluto.

Gabriele Barabino

 

Un lungo corso da sciamani per combattere l’inquinamento

Poi uno dice il progresso. Le nostre “moderne” città stanno soffocando sotto una coltre di smog, provocato dalle nostre “moderne” automobili e dai nostri “moderni” sistemi di riscaldamento domestico. In tutta questa modernità uno si aspetta che venga trovata una soluzione altrettanto moderna ai problemi che la modernità presenta. Ebbene: “speriamo nella pioggia” è quello che dicono gli amministratori pubblici. In pratica, per risolvere i guai della modernità, siamo rimasti all’atavica “danza della pioggia”. Ora mi informo, presso le strutture pubbliche, se intendono istituire un corso per sciamani.

Mauro Chiostri

 

Piena solidarietà a Davigo per le accuse sulla prescrizione

Solidarietà con il dr. Davigo, giudice capace, intelligente e onesto, assurdamente accusato di aver espresso la sua legittima opinione sul tema della prescrizione, in linea con quanto sosterrebbe qualsiasi cittadino appartenente alla parte sana della collettività. D’altra parte, bisogna eliminare l’istituto del patrocinio a spese dello stato, almeno nel processo penale, disponendo che, per la difesa o assistenza dell’incolpato, siano istituite delle apposite commissioni presso i tribunali, composte da personale giudiziario (a tal fine basterebbe solo una frazione del personale che è già adibito per il funzionamento di detto istituto, il rimanente personale potrebbe, almeno, alleviare la terribile carenza di personale giudiziario, vera causa della lentezza del processo). In tal modo, non solo lo stato ne ricaverebbe un enorme risparmio, ma si avrebbe un effetto a cui, sembra, nessuno pensa, e cioè che, quasi nessuno, avrebbe più interesse a parlare della prescrizione, in quanto i processi terminerebbero molto prima.

Piero Angius

 

Una via a Bettino? Magari una traversa di San Vittore

Confesso che l’articolo di fondo del direttore Romanzi d’evasione, nel ricordo di Craxi, mi ha fatto sganasciare dalle risate. Un pamphlet strepitoso; un bilanciato mix di vetriolo e spassosa ironia. Finito di leggere il pezzo, la mia memoria è tornata a quegli anni e il mio ridere ha preso un retrogusto amaro. La Milano da bere, per i socialisti si trasformò nella Milano da mangiare. La loro tracotanza era insopportabile e il riverbero del loro malgoverno, e malaffare, è durato per lustri. In questi giorni di beatificazione dell’esule ho assistito a teatrini televisivi in cui, tolti dalla naftalina, sono ricomparsi alcuni protagonisti del tempo che con immutata boria hanno snocciolato il vecchio rosario dei miracoli craxiani. Tanti aneddoti di totale inanità. Altrettanto stucchevole è ciò che si è letto nei vari giornalazzi… il Fatto Quotidiano, senza peli sulla penna e con encomiabile pazienza, ha la costanza di riportare il racconto là dove stava, al 1992 inizio di Tangentopoli, alla verità nuda e cruda: si sta parlando di ladri non di poeti. Sembra che a Milano vogliano dedicare a Craxi una Via, ecco, che sia una traversa di San Vittore.

P. Stefanoni

 

Il celibato ha permesso alla Chiesa di resistere al tempo

Credo che il celibato ecclesiastico sia uno dei fattori che ha contribuito a rafforzare la Chiesa Cattolica, la cui solida struttura organizzativa le ha permesso di superare ogni crisi e di avere quindi una storia bimillenaria: non avendo una famiglia i sacerdoti sono portati ad identificarsi nella istituzione ecclesiastica che provvede al loro mantenimento e anche alla assistenza in caso di malattia. Tale condizione di dipendenza anche psicologica spinge i sacerdoti a rafforzare i legami con gli altri membri del clero che, per tale motivo, diventa una comunità molto coesa: la coesione tra i membri di una comunità è la “conditio sine qua non” della sua sopravvivenza. Spesso, poi, i preti, non avendo figli, devolvono i propri beni alla Chiesa come segno di gratitudine per i benefici ottenuti. La Chiesa sembra essersi ispirata al modello platonico dello Stato ideale; infatti, per il filosofo greco, chi governa deve rinunciare alla famiglia e alla proprietà privata per dedicarsi esclusivamente al perseguimento del bene comune senza essere condizionato da interessi particolari ed egoistici.

Maurizio Burattini

Pd-M5S. Un progetto comune, o il tirare a campare si ritorcerà contro di loro

Diventa sempre più difficile capire quali siano le vere strategie dei partiti. Il governo giallo-rosso è stato imposto al Pd da Renzi per motivi contingenti (evitare che si andasse a votare), poi Zingaretti l’ha dichiarato non tattico ma strategico, tanto da imporre l’alleanza Pd-M5S in Umbria (con esiti disastrosi). Dopo la batosta di Perugia, Di Maio ha dichiarato strategico l’isolamento elettorale dei grillini, votandosi a una patetica sconfitta sia in Emilia che in Calabria, ma continuando a governare col Pd. E Renzi, dopo essersi speso per creare il connubio Pd-M5S, ha creato un partito nuovo la cui strategia è misteriosa, oscillando come un pendolo fra governismo e opposizione…
Possibile che dobbiamo essere governati da gente simile che rinnega quanto solennemente affermato alla vigilia?
Gianluigi De Marchi

 

Il suo scoramento è condivisibile. La politica italiana continua a non avere un baricentro degno di questo nome. Se in personaggi come Salvini o Berlusconi questa caratteristica non desta ormai stupore – insieme realizzarono il “porcellum” spezzando una consuetudine maggioritaria più che decennale e ora si lamentano che la Consulta abbia negato loro proprio il maggioritario – la cosa è insopportabile quando a smentire costantemente le proprie dichiarazioni sono coloro che intendono nobilitare la vita pubblica. L’attuale maggioranza, tra l’altro, da un atteggiamento che rinnega puntualmente le proprie promesse ha tutto da perdere. Come sarà possibile votare per partiti che hanno formato, in tutta emergenza, un governo come il Conte 2 se al momento delle elezioni questi si accuseranno l’un l’altro o se, peggio, continueranno a farlo per tutta la durata del governo? Pd-5Stelle e il partitino di Renzi (la sinistra formalmente non esiste, visto che LeU è solo una sigla) devono decidere se vogliono continuare a governare e, quindi, dotarsi di un progetto comune. Altrimenti, il tirare a campare buono per Andreotti, se sarà assimilato anche da Di Maio e Zingaretti, si ritorcerà loro contro. Anche perché, contrariamente a quanto ripetono, una base elettorale comune esiste: si guardi al plauso riservato alla nomina congiunta dei ministri dell’Istruzione e dell’Università, al lavoro di ministri come Patuanelli, Catalfo, Provenzano o, ancora, Lamorgese, Speranza, Costa, De Micheli. A volte è difficile affibbiare l’etichetta di partito a ognuno di questi mostrando che spesso il governo è più avanti dell’alleanza tra i partiti che lo compongono.
Salvatore Cannavò

Al prof. indagato incarico regionale da 12 mila euro

È una consulenza da 12 mila euro, assegnata al professore Giuseppe “Uccio” Barone, indagato nella maxi inchiesta sui presunti concorsi truccati all’Università di Catania. L’incarico, che ha la data del 31 dicembre 2019, è stato firmato dal presidente della Regione Nello Musumeci. L’ex docente di Storia contemporanea, con un passato anche da direttore del dipartimento di Scienze Politiche, si dovrà occupare “di uno studio specifico che illustri i momenti salienti dei moti europei del 1820, nel corso dei quali la Sicilia ha rivendicato l’indipendenza, l’autonomia e la costituzione del 1818”. Un lavoro, quello del prof in pensione dalla scorsa estate, definito “complesso” e da concludere entro quattro mesi. Poi sarà la volta di “organizzare un convegno a fine di divulgare la storia della Sicilia” e, possibilmente, acquisire la proprietà del lavoro per una pubblicazione. Evidentemente non c’era nessun altro senza pendenze giudiziarie.

Nel decreto del governatore però non c’è alcun cenno ai guai giudiziari del professore, ormai pubblici da fine giugno quando finì nel calderone insieme ad altre 80 persone, tra cui l’allora rettore Francesco Basile e il suo predecessore Giacomo Pignataro. Sotto la lente d’ingrandimento finirono 27 concorsi, tutti riguardanti l’ateneo del capoluogo etneo.

L’inchiesta da allora è proseguita e proprio Barone, insieme ad altre nove persone, all’inizio del dicembre 2019 è stato tra i destinatari di un avviso di conclusione indagini. Il professore, secondo i pm, avrebbe determinato l’assegnazione di due posti. Una cattedra al figlio Antonio, docente di Diritto amministrativo e anche lui indagato, e l’altra al ricercatore di storia Sebastiano Angelo Granata. In un’intercettazione agli atti, Barone parlando delle domande presentate per un concorso commentava: “Vediamo chi sono questi stronzi che dobbiamo schiacciare”.

Per la nomina di Granata, stando alle accuse, il professore si sarebbe occupato di contattare i colleghi da inserire nella commissione di valutazione. Successivamente, insieme al ricercatore poi vincitore della cattedra, avrebbe “valutato gli altri candidati in modo da stilare una graduatoria con un punteggio finale che vedeva Granata vincitore”, si legge nell’avviso che solitamente precede la richiesta di rinvio a giudizio. Tra i faldoni dell’inchiesta, ribattezzata Università bandita, per Barone oltre alle accuse di associazione a delinquere e turbata libertà del procedimento c’è anche l’ipotesi di truffa ai danni dello Stato. Accusa contestata in relazione a un presunto convegno fantasma, costato circa mille euro, dal titolo I volontari italiani in Russia durante la grande guerra. L’evento, ideato da Barone, non si è mai svolto rimanendo soltanto sulla carta. Come quella di una locandina, appositamente realizzata da una stretta collaboratrice del professore, necessaria per ottenere i finanziamenti da parte del dipartimento di Scienze politiche.

I soldi, stando sempre alle accuse, in realtà sarebbero stati utilizzati per tutt’altro. E cioè pagare il vitto e un biglietto aereo Napoli-Catania, che avrebbe utilizzato la professoressa Giovanna Cigliano, commissaria proprio del concorso da ricercatore a tempo determinato vinto da Granata.

“Uccise mio figlio, libero per il ritardo della Cassazione”

“Èla sconfitta delle sconfitte, per tutti noi, il paradosso della giustizia, è inaccettabile che si debba muovere la madre della vittima, dover fare un terremoto mediatico per catalizzare i riflettori su una vicenda che i giudici non sono stati in grado di risolvere”. Daniela Ricci, madre di Alessandro Polizzi, ucciso a 23 anni nel 2013 a Perugia, ha manifestato ieri mattina davanti la sede della Cassazione, perché gli ermellini non hanno mai fissato l’udienza permettendo all’omicida, condannato all’ergastolo, di tornare in libertà.

Dopo quattro processi e sei anni di detenzione, lo scorso 10 gennaio, Riccardo Menenti è uscito dal carcere di Terni. La sentenza di Appello-bis di Firenze, del 19 giugno scorso, lo ha condannato all’ergastolo per aver ucciso a colpi di pistola il giovane perugino e aver attentato alla vita della sua fidanzata Julia Tosti, ferita alla mano. L’uomo si era introdotto nel loro appartamento la notte del 26 marzo 2013, per “dare una lezione” a Polizzi, che avrebbe provocato e aggredito il figlio di Menenti, ex compagno della Tosti. Valerio Menenti è stato condannato per concorso in omicidio a 16 anni e mezzo. La scadenza dei termini di detenzione, in attesa della sentenza definitiva, era stata fissata per la prima settimana di gennaio, i legali avevano fatto ricorso alla Corte Suprema, che però non ha mai fissato l’udienza.

La Ricci e il marito Alessandro Polizzi, insieme a parenti e amici, hanno esposto tre striscioni davanti al palazzo di giustizia di piazza Cavour. “lo Stato tutela e libera gli assassini, e non protegge le vittime” e “A che serve la Cassazione? A perdere tempo per liberare gli assassini” erano stampati nei manifesti insieme alle foto del volto tumefatto del giovane figlio e il corpo in una pozza di sangue.

“Vergogna, vergogna. Ha ucciso mio figlio ed è fuori, e a me e alla mia famiglia venite a chiedere i documenti”, ha urlato Polizzi quando sono intervenuti gli agenti per identificare i presenti.

“Riccardo Menenti in sei anni e mezzo è stato un detenuto modello: ha studiato sostenendo esami universitari, ha lavorato, non ha mai ricevuto un rimprovero. Si è pentito già da tempo, è cambiato profondamente. Ora fuori dal carcere, vive con ansia l’attesa di un nuovo verdetto che potrebbe cambiargli notevolmente la vita”, ha detto il suo legale Giuseppe Tiraboschi.

“Abbiamo presentato ricorso in Cassazione ma l’udienza non è stata ancora fissata – aggiunge Tiraboschi -, chiediamo per Riccardo il riconoscimento delle attenuanti generiche e quindi un diverso conteggio della pena”.

“Riccardo pentito? Non ci risulta – ha replicato Nadia Trappolini, legale dei Polizzi – In tanti anni, non c’è stato mai un segnale: nelle aule di giustizia siamo stati fianco a fianco ma nemmeno uno sguardo. A parte le parole di circostanza pronunciate davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze, che secondo i genitori della vittima sono state strumentali, volte all’ottenimento delle attenuanti, non ha mai chiesto scusa. Ben più grave il fatto che non si sia mai pentito. Un ulteriore dolore per i familiari”.

“Siamo stati sempre contrari ai processi mediatici, rifiutando di partecipare a programmi televisivi, proprio perché crediamo che i processi vadano fatti nelle aule di tribunale – aggiunge la Ricci –, è stata una violenza, che una madre e un padre debbano affrontare una cosa simile per farsi ascoltare”.

L’eclatante protesta ha catalizzato l’attenzione mediatica sul caso di malagiustizia, spingendo il guardasigilli Alfonso Bonafede a intervenire, chiedendo agli ispettori ministeriali di fare luce sulla vicenda.

“Ci hanno detto che il ministro Bonafede si è attivato, abbiamo fiducia nella giustizia e ci auguriamo che venga fissata al più presto l’udienza in Cassazione, per ottenere le condanne definitive e mettere un punto finale a questa maledetta storia”, ha concluso la Ricci.

Il gasolio, lo “sconto” e la Lega. Rubligate minuto per minuto. Da Savoini a Irina

C’è il petrolio e c’è la politica. Ci sono milioni di dollari in ballo, un affare di gasolio e percentuali da triangolare dalla Russia all’Italia sui conti della nuova Lega di Matteo Salvini per finanziare le elezioni europee dello scorso maggio. Eccolo il Russiagate di casa nostra. Il caso che prima era giornalistico ora è un’inchiesta penale che, settimane dopo settimane, si irrobustisce. Sei mesi dopo l’inizio dell’indagine della Procura di Milano, molto è successo e non solo sui tavoli giudiziari. Matteo Salvini, ad esempio. Il leader del Carroccio, pur non indagato, viene travolto. Lo sarà da ministro e vicepremier, lo è ora che ha lasciato le cariche ed è uscito dal governo. È lui il convitato di pietra dell’intera vicenda. A lui si chiede quanto sappia dell’affare. Inutile. Nei primi giorni dello scandalo, il capo del Carroccio nega addirittura di conoscere Gianluca Savoini, suo ex portavoce. Eppure il 17 ottobre 2018, Salvini era a Mosca ospite di un convegno di Confindustria Russia. La data è importante perché il giorno dopo si terrà l’ormai noto incontro all’hotel Metropol di Mosca.

L’avvocato massone e l’ex politico del Pd

Fissiamo i punti fondamentali. Sappiamo che a Milano c’è un’indagine per corruzione internazionale e che ci sono, al momento, tre indagati. Sono Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini e sherpa per gli affari leghisti in terra di Russia; c’è poi Gianluca Meranda, avvocato d’affari un po’ spiantato, ex massone; infine, il toscano Francesco Vannucci da Suvereto, ex politico locale prima in quota Margherita e poi nelle file del Pd. Attorno ruotano altri personaggi che al momento non risultano indagati. Sono Ernesto Ferlenghi e Luca Picasso, rispettivamente presidente e direttore di Confindustria Russia. Poi Claudio D’Amico, ex responsabile delle missioni speciali di Salvini e Irina Aleksandrova, giornalista dell’agenzia di stampa russa Tass. Sono figure importanti. Lo vedremo dopo. Ora questa storia inizia nell’estate del 2018, ma è solo nel febbraio successivo grazie a un articolo dell’Espresso che i cittadini vengono a conoscenza dell’ormai noto incontro all’hotel Metropol di Mosca.

I sei uomini ai tavolini dell’hotel Metropol

L’incontro, come si legge nell’articolo, avviene il 18 ottobre 2018. È mattina e ai tavolini dell’albergo nel centro di Mosca si accomodano sei uomini. Gli italiani sono i nostri indagati, gli altri sono russi. Di due conosciamo l’identità. Sono Ilya Andreevich Yakunin e Andrey Yuryevich Kharchenko. Non sono pubblici ufficiali, sono dei professionisti, che a quel tavolo hanno, secondo la Procura, un ruolo di mediatori. In più hanno rapporti diretti con l’entourage del presidente Vladimir Putin e nello specifico con l’avvocato Vladimir Pligin e con il filosofo di estrema destra Aleksander Dugin. Al centro della discussione c’è un affare di gasolio per 1,5 miliardi di dollari. Chi vende sarà un’azienda di Stato russa (Rosnfet o Gazprom), chi acquista sarebbe la nostra Eni che però fin dall’inizio ha sempre smentito il suo coinvolgimento, costituendosi come parte offesa nel fascicolo. Eni non è indagata, ma nei suoi uffici la Guardia di finanza ha acquisito decine di documenti. In quell’articolo si parla di una fetta dell’affare che dovrà finire alla Lega. La cifra si aggira attorno ai 3 milioni di dollari. La notizia, però, viene ripresa poco dai media nazionali. Non dalla Procura. La discovery avverrà nel luglio scorso quando il sito americano Buzzfeed rende pubblico un audio. Non si sapeva, ma qualcuno a quel tavolo ha registrato tutto. L’audio fa il giro del mondo. Parlano i russi, ma parlano soprattutto Savoini e Meranda, non Vannucci che non sa l’inglese e viene soprannominato “il nonno”. La cifra che doveva finire alla Lega viene quantificata in 65 milioni di dollari, il 4% dell’affare. Nell’audio non emergono i nomi. Si sa solo quello di Savoini, citato nell’articolo dell’Espresso. Il giorno dopo, l’agenzia Agi dà la notizia che a Milano è aperta un’indagine per corruzione internazionale.

L’inchiesta: sequestri e interrogatori alla Gdf

Il Russiagate inizia a prendere corpo. Che Savoini è indagato lo si saprà subito. Pochi giorni dopo, ecco Meranda e Vannucci ammettere di essere stati presenti al Metropol. Finiranno indagati e perquisiti. I tre, interrogati, si avvalgono della facoltà di non rispondere. La Procura ottiene il sequestro dei cellulari. Su questo la difesa di Savoini farà ricorso al Tribunale del Riesame, che però confermerà la bontà dell’azione della Procura e l’autenticità dell’audio la cui provenienza è nota ma segreta. Tradotto: sappiamo chi ha registrato quell’audio e ipotizziamo con buona probabilità che l’autore sia uno dei tre italiani del Metropol. Le motivazioni sono esplosive. Nel frattempo le parole dell’audio chiariscono i contorni dell’affare. L’incipit politico è quello di Savoini: “Il prossimo maggio ci saranno le elezioni europee. Vogliamo davvero decidere per il nostro futuro. Salvini è il primo uomo che vuole cambiare tutta l’Europa”. Ed ecco Meranda spiegare l’affare: “L’idea come concepita dai nostri (…) politici è che con uno sconto del 4 per cento possono sostenere una campagna (…). Direi che hanno fatto i loro piani con un 4 per cento netto, quindi se ora dici che lo sconto è del 10 per cento, direi che il 6 per cento è vostro. Ok?”. In sostanza i political guys della Lega non vogliono oltre il 4%, il resto del “discount” resta ai russi ed è su questa parte che s’innesta l’accusa di corruzione internazionale. A far da mediatore ci potrebbe essere una banca, una londinese o austriaca, si cita anche Banca Intesa Russia nel cui board siede l’avvocato Andrea Mascetti (non indagato) tra i più influenti consiglieri di Matteo Salvini. Tutto questo viene appuntato da Meranda in un pizzino la cui fotografia sarà ritrovata nel cellulare e in alcune chat. Si scoprirà più avanti che Meranda era solito registrare le sue telefonate con una app-spia. Al momento sono 20 quelle al vaglio della Procura.

L’audio, il “pizzino” e l’accordo illecito

L’esistenza del pizzino è la prima grande novità dopo la notizia degli indagati. A stretto giro arriveranno le motivazioni del Riesame. Per dimostrare “la natura illecita dell’accordo” si sottolinea il passaggio in cui Meranda dice: “Credo che loro abbiano interesse a fare il colpo grosso!”. E che, secondo i giudici, gli accordi siano illeciti lo dimostrano anche i passaggi in cui i tre spiegano che non bisogna “destare sospetti sull’illecito ritorno del denaro”. In questo caso parla lo stesso Savoini: “Noi avremo i telescopi addosso”. Il timore nasce dal denaro “scontato” che dovrà finire alla Lega. Dice Meranda: “Sarà Francesco (Vannucci, ndr) a vedere come organizzare il ritorno”. Savoini: “Io mi fido dell’abilità di tutti noi, ciascuno per il suo campo (…). Noi abbiamo creato questo triumvirato e deve funzionare così (…). La cosa è proprio il compartimento stagno”. L’affare è ben avviato. A febbraio 2019 è Savoini a cercare contatti con Gazprom a cui propone un piano simile a quello raccontato al Metropol. Meranda consiglia di mandare una lettera di referenza che Eni e in particolare Eni trading and shipping ha inviato alla banca d’affari londinese Euro-Ib per la quale Meranda ha fatto il consulente. Sia la banca sia la società di Eni (non coinvolte penalmente) sono a Londra e per questo la Procura ha inviato una rogatoria internazionale nel Regno Unito. Che l’accordo del Metropol sia bene avviato lo si ricava da una frase di Savoini: “La sensazione è buona”. Tanto più che c’è un “ritorno” anche per i russi e questa, dice Savoini, “è una garanzia”. E Salvini? Sapeva? Di certo il 17 ottobre era a Mosca, prima al convegno di Confindustria e poi nello studio di Pligin a incontrare in modo riservato il vicepremier russo con delega all’Energia Dimitry Kozak, in serata a mangiare all’85° piano del grattacielo Eye con Ferlenghi, Picasso, D’Amico, Savoini e la giornalista Irina Aleksandrova che è stata sentita dai pm. Lei è una testimone chiave perché il giorno prima del Metropol ha seguito Matteo Salvini in tutte e tre i suoi spostamenti, facendo da interprete con Kozak e cenando con lui. Il resto della storia è ancora tutto da scrivere.

Lo stato delle mafie nel rapporto Dia

Iclan affondano sempre più i tentacoli nella raccolta “ufficiale” dei rifiuti, nel Lazio i gruppi autoctoni coabitano con le mafie tradizionali e a Foggia operano mutuando i meccanismi della ’ndrangheta. Che si dimostra in grado di penetrare sempre più a fondo il mondo della politica. Sono alcune delle principali indicazioni contenute nel rapporto del primo semestre del 2019 della Direzione investigativa antimafia.

I crimini ambientali sono “in preoccupante estensione” poiché coinvolgono “interessi diversificati”, scrivono gli analisti sottolineando il tentativo delle mafie “di acquisire gli appalti per il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani” e quelli per le “attività di bonifica dei siti”. Un fenomeno che non è ascrivibile solo ai mafiosi, perché “nei reati connessi al traffico illecito dei rifiuti si intrecciano condotte illecite di tutti i soggetti che intervengono nel ciclo, dalla raccolta allo smaltimento: non solo elementi criminali, ma anche imprenditori e amministratori pubblici privi di scrupoli”.

Una commistione, scrivono …, che caratterizza il modus operandi della ’ndrangheta, “che riesce a relazionarsi con le altre organizzazioni criminali del Sud o del Centro, ma anche con interlocutori di diversa estrazione sociale, siano essi politici, imprenditori o figure professionali in ogni caso utili ai tornaconti delle cosche”. Così l’organizzazione “esprime un radicato livello di penetrazione nel mondo politico ed istituzionale”.

Le ’ndrine operano da decenni anche nel Lazio, dove da un lato le associazioni locali non risparmiano il pugno duro (uno dei gruppi citati è il clan Casamonica-Spada-Di Silvio) e dall’altra le tradizionali consorterie contengono la violenza prediligendo “proficue relazioni di scambio e di collusione finalizzate ad infiltrare il territorio in modo silente”. Ciò fa della regione un “laboratorio criminale dove le mafie tradizionali interagiscono, in equilibrio (…) con le associazioni autoctone”.

In quest’ultima categoria, la mafia foggiana vuole assumere “nuovi assetti organizzativi e fondati su strategie condivise, emulando, anche in ottica espansionistica, la ’ndrangheta”. “Anche in provincia di Foggia si sta consolidando” un “punto di incontro tra mafiosi, imprenditori, liberi professionisti e apparati della Pa. Una ‘terra di mezzo’ dove affari leciti e illeciti tendono a incontrarsi, fino a confondersi”. Lo scioglimento dei comuni di Monte Sant’Angelo, Mattinata, Manfredonia e Cerignola sono “indicativi di questa opera di contaminazione”.

E se in Sicilia è sempre più forte il legame tra gli “scappati” di Cosa nostra e le famiglie americane e Matteo Messina Denaro resta un punto di riferimento anche se cresce “l’insofferenza” nei suoi confronti per l’ingombrante latitanza, a far rumore in Campania non sono i clan storici ma i giovanissimi. Una pletora di “aspiranti camorristi” dice la Dia, organizzati in bande spesso senza alcun legame con le organizzazioni ma che agiscono con la stessa violenza “esasperata”. Una sorta, scrivono gli investigatori, di “Accademia della camorra” nella quale si formano i boss del futuro.

Graviano in silenzio. Prima vuole sentire le sue parole su B.

Da due mesi, il boss che conosce i misteri delle stragi del 1992 e del 1993, Giuseppe Graviano, dice di voler parlare al processo ’Ndrangheta stragista che si tiene a Reggio Calabria.
Per rispondere alle domande dei pm e della Corte d’assise che lo sta giudicando però ha posto una condizione: vuole ascoltare prima le intercettazioni audio-video dei suoi colloqui nel carcere di Ascoli Piceno nel 2016-2017, in cui lui (per i magistrati del processo Trattativa almeno) parla al compagno di detenzione Umberto Adinolfi di Silvio Berlusconi come di un “traditore” che gli ha chiesto una “cortesia” nel 1992 e poi si è dimenticato di lui. Da tre udienze però la situazione è di stallo. Il presidente della Corte d’Assise di Reggio Calabria Ornella Pastore insiste a dire “non esiste alcun motivo per impedire a Graviano di ascoltare queste intercettazioni”.

Da tre udienze, il pm Giuseppe Lombardo ha chiarito: “Sono atti depositati e la Procura è d’accordo che Graviano li ascolti”. C’era solo un dubbio su un diniego del Dap sulla base di un veto della Procura di Firenze. Poi, appurato che non c’è nessun veto, ecco comparire un altro problema. Stavolta di natura tecnica. Il carcere di Terni non dispone di un apparecchio in grado di far sentire al boss le sue intercettazioni.
Ieri la presidente Ornella Pastore, evidentemente spazientita, ha ordinato alla direzione del carcere di Terni di mettere a disposizione di Graviano un personal computer “entro stasera”. E, dal carcere di Terni in collegamento con l’aula del processo, si è sentita la promessa solenne: “Stanno andando a comprarlo”.

Alla prossima udienza, il 23 gennaio 2020, Graviano dunque non avrà più scuse e – dopo aver sentito cosa ha detto nel 2016-2017 in carcere – potrebbe finalmente fornire la spiegazione delle sue parole. Quelle intercettazioni (come lo stesso Graviano ha sottolineato in udienza) sono state già mostrate in un documentario video, realizzato dalla piattaforma Loft del Fatto, intitolato Sekret Speciale Trattativa. Sono state commentate dai magistrati e dai giornalisti ma manca l’interpretazione più interessante: quella del boss che le ha pronunciate, spesso a bassissima voce per non farsi capire. Graviano era già stato convocato durante il processo di primo grado della Trattativa a Palermo nell’ottobre del 2017 e si era avvalso della facoltà di non rispondere, come aveva fatto anche al processo di appello contro Marcello Dell’Utri per concorso esterno a Palermo nel 2010.

Stavolta però il boss ha un alibi: “Il 22 gennaio 2019 – ha raccontato all’udienza del 7 gennaio 2020 – il commissario mi ha detto: ‘Sono usciti ad acquistarlo’ (questo strumento informatico che mi spetta di diritto) ma è passato un anno e non ho avuto nulla”.
I file audio-video sono ormai da anni depositati nel processo Trattativa (in fase di appello) e sono stati trasmessi da due anni e mezzo ai pm di Caltanissetta e di Firenze, dove il procuratore Giuseppe Creazzo e l’aggiunto Luca Turco hanno reiscritto per la terza volta (dopo due precedenti archiviazioni) Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nell’indagine sui mandanti delle stragi del 1993.

Il capo mandamento di Brancaccio è stato condannato a Caltanissetta per le stragi del 1992 (Capaci e via D’Amelio dove trovarono la morte Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte) e a Firenze per le stragi del 1993 a via dei Georgofili e a Milano più gli attentati a Roma contro Maurizio Costanzo, contro le basiliche di san Giorgio e San Giovanni e contro il pentito Salvatore Contorno. Ora Graviano è imputato con il boss calabrese Rocco Santo Filippone a Reggio Calabria. L’accusa è quella di essere i mandanti dell’uccisione di due carabinieri nel gennaio 1994 e di avere ordinato altri due agguati contro altre due pattuglie dell’Arma, sempre in Calabria, tra dicembre 1993 e gennaio 1994. La tesi dell’accusa è che la ’ndrangheta in accordo con Cosa Nostra abbia partecipato alla “strategia della tensione” per convincere lo Stato a cedere alle pretese di Totò Riina. Graviano si dice disposto a rispondere alle domande dei pm di Reggio, il sostituto Giuseppe Lombardo e l’aggiunto Gaetano Paci però prima vuole ascoltare i cd. Non solo quelli con le sue conversazioni nel carcere di Ascoli. Anche le deposizioni dei collaboratori di giustizia al processo in corso. Sul punto però il pm Lombardo ieri è sembrato poco convinto: in fondo Graviano era presente in video-collegamento e ha sentito tutto in diretta. Il 23 gennaio capiremo se Graviano sta bluffando o davvero stavolta ha qualcosa da dire.

I soldi e l’appunto per il giudice: le “anomalie” su Mediolanum

L’inchiesta per corruzione in atti giudiziari sulla vicenda della sentenza Mediolanum e in cui era indagato Silvio Berlusconi, mesi fa è stata archiviata. Il Gip Daniela Caramico D’Auria ha archiviato la posizione del leader di Forza Italia e tutti gli altri indagati, come Roberto Giovagnoli, giudice del Consiglio di Stato, estensore del verdetto finito nel mirino dei pm, e l’ex funzionario della Presidenza del Consiglio dei ministri, Renato Mazzocchi.

Il caso, dunque, è chiuso, tuttavia per il Gip ci sono elementi che restano poco chiari: dai soldi a casa di Mazzocchi alle dichiarazioni di Pietro Amara, avvocato al centro di diverse vicende giudiziarie. Scrive il giudice: “Se da un lato sono emersi elementi anomali che lasciano presumere una forma di intervento e/o di condizionamento nella stesura delle motivazioni della sentenza, dall’altro gli elementi acquisiti non consentono di superare il vaglio dibattimentale, il quale non potrà avere un esito favorevole per l’accusa stante l’insufficienza e non univocità delle fonti di prova, che porterebbe a un’assoluzione quantomeno ai sensi dell’art. 530 comma II del codice di procedura penale”. Ossia per mancanza o insufficienza di prove. Per il Gip quindi “gli elementi investigativi non sono sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio”. Ma è interessante leggere le motivazioni del 27 giugno 2019 per comprendere cosa c’era dietro l’accusa e cosa giustifica l’archiviazione.

E Fininvest riottenne il 20 per cento della banca

La sentenza oggetto dell’inchiesta è quella del 3 marzo 2016. Dopo la condanna definitiva per frode fiscale, l’ex premier perde i requisiti di onorabilità e la Banca d’Italia gli impone di cedere il 20% di Banca Mediolanum. Berlusconi ricorre al Tar e perde. Presenta ricorso in appello al Consiglio di Stato che gli darà ragione (la questione è ancora pendente davanti alla Corte Ue). All’inizio i pm – che pure chiederanno l’archiviazione – sospettano che dietro la decisione favorevole a Fininvest ci fosse la promessa di denaro. Che tale sarebbe rimasta: non sono mai stati trovati flussi di denaro. Vengono però iscritti per corruzione in atti giudiziari Berlusconi e il giudice Giovagnoli che viene accusato inizialmente di aver accettato “la promessa della consegna di 247 mila euro per svolgere la funzione in senso favorevole ai ricorrenti”.

I 247 mila euro e gli appunti finiti in sentenza

I 247 mila euro sono quelli trovati a casa del funzionario Mazzocchi, insieme anche ad alcuni appunti sul caso Mediolanum e alla sentenza del 3 marzo del 2016. Infatti a far partire l’indagine è stata una perquisizione disposta, nell’ambito di una differente inchiesta, nell’estate del 2016 a casa dell’ex funzionario di Palazzo Chigi.

Due appunti ritrovati – che per i pm sarebbero stati scritti da Francesco Marascio, un avvocato indagato e poi archiviato – “contengono informazioni da trasferire ai giudici del Consiglio di Stato, componenti del collegio competente a decidere sull’impugnazione proposta da Berlusconi”.

I soldi e i manoscritti per il Gip sono gli elementi a sostegno dell’accusa di corruzione in atti giudiziari. “Di segno accusatorio – è scritto nelle motivazioni – sono senza dubbio il rinvenimento della somma in contante nello stesso armadio ove erano custoditi i documenti manoscritti dal Marascio e la copia delle sentenze, circostanze che lasciano ipotizzare una connessione tra il denaro e i documenti”. Non solo: “La circostanza che uno dei manoscritti (…) contenga indicazioni poi recepite in sentenza induce a ritenere che lo stesso fosse indirizzato all’autore della motivazione”.

E poi c’è la questione del cambio del relatore della sentenza, da Contessa “il quale aveva preannunciato di voler rimettere la questione alla Corte di giustizia Europea” a Giovagnoli.

L’avvocato Amara: “Parlai del caso con Verdini”

Il Gip però elenca anche tutti gli elementi a favore dell’archiviazione. Ad esempio il fatto che il denaro trovato da Mazzocchi “fosse contenuto in una busta diversa a sua volta suddiviso in tre distinti contenitori (…) non consente di escludere che si trattasse di questioni, pure illecite, diverse dalla vicenda Mediolanum”. Inoltre “le modalità con le quali si è giunti alla assegnazione di Giovagnoli quale relatore (…) potrebbe trovare spiegazione nel fatto che” al Consiglio di stato “non esistono criteri rigidi di assegnazione ai collegi”.

Ci sono poi le dichiarazioni di Piero Amara, avvocato coinvolto in una diversa vicenda giudiziaria. Ai pm romani Amara dice “di essere venuto a conoscenza, tramite il consigliere di Stato Nicola Russo, della vicenda relativa alla sentenza Berlusconi”. Secondo Amara, Russo (non indagato) gli raccontò che la somma di denaro trovata da Mazzocchi “era stata promessa a Giovagnoli (…) ma che non era giunta a destinazione perché… trattenuta da Mazzocchi”. Amara dice che Russo gli chiese “di far giungere a Berlusconi, attraverso Verdini, la notizia che l’impegno che era stato preso non era stato onorato”.

Il legale spiega di averne parlato con Denis Verdini, mai indagato in questa inchiesta, il quale “mi disse – continua a verbale Amara – di non essere più in grado di poter fare questi discorsi a Berlusconi, con il quale aveva interrotto i rapporti”. Versione smentita da Verdini, mai indagato in questa inchiesta. “Non mi ha mai fatto richieste del genere – dice l’ex senatore in un verbale del 25 novembre 2018 –. Non mi sono mai occupato di questioni che riguardano giudici. (…) Escludo che mi si sia fatto cenno a contenziosi di Mediolanum e Berlusconi”.

Per il Gip, quindi, le parole di Amara non trovano riscontro: Verdini nega e Russo si è avvalso della facoltà di non rispondere. Di qui l’impossibilità di sostenere validamente l’accusa.

La guerra per la guida della cassa dello sport

AAA: cercasi il nuovo capo dello sport italiano. Un’altra volta: dopo l’addio di Rocco Sabelli bisogna riscegliere il presidente di Sport e Salute, la società creata per amministrare i fondi pubblici al posto del Coni. Non mancano nomi di peso: fra manager e avvocati, spicca Vito Cozzoli, già capo di gabinetto di Luigi Di Maio e ora di Stefano Patuanelli allo Sviluppo Economico. Ma non mancano nemmeno tensioni: tra il ministro Vincenzo Spadafora che punta a mettere una persona di fiducia e i parlamentari 5 Stelle che preferirebbero un uomo del settore.

Ieri mattina scadevano i termini per candidarsi alla presidenza di Sport e Salute Spa. È la seconda manifestazione d’interesse in un anno: alla prima, che prometteva di essere una rivoluzione, parteciparono in 230, manager, dirigenti, persino il dentista di Malagò, come rivelato dal Fatto che pubblicò in esclusiva la lista. In un anno però è cambiato il mondo: la riforma dell’ex sottosegretario Giorgetti si è rivelata complessa, l’impero del Coni che pareva dissolto ha saputo resistere, mentre la creazione di un ministero ha ridimensionato la partecipata a succursale di Palazzo Chigi. Lo dimostra l’addio burrascoso di Sabelli, portato alle dimissioni dalla sfiducia di Spadafora. Troppe incognite rendono la poltrona meno appetibile. Non a caso per questo secondo bando sono arrivati appena 60 curricula.

Nell’elenco le donne si contano sulle dita di una mano, in compenso ci sono diversi nomi noti: Umberto Gandini, già dirigente di Roma e Milan; il figlio d’arte Luigi Carraro (erede del “poltronissimo” Franco), l’ex presidente di Trenitalia Tiziano Onesti, l’ex n.1 di Coni Servizi Alberto Miglietta, il capo delle strategie di Sport e Salute Francesco Soro, il segretario dell’atletica leggera Fabio Pagliara; in quota Campidoglio il grillino Angelo Diario; l’ex Corte dei Conti, Raffaele Squitieri, dall’Ice Riccardo Monti. I favoriti però sono altri.

Senza escludere outsider, nell’elenco il candidato del ministro pare Cozzoli: già braccio destro di Di Maio al Mise, con la benedizione del capo politico del Movimento (e quindi di Spadafora) ha avanzato la sua candidatura. In ambito sportivo, di lui si era già parlato per la Federcalcio (sponsorizzato da Gravina, che poi ne è diventato presidente).

La nomina però non è scontata: Cozzoli non piace ai parlamentari 5 Stelle che seguono lo sport e che con Spadafora sono già entrati in contrasto, per il tentativo di allargare il Cda ma più in generale per la visione sulla riforma; temono venga annacquata a favore del Coni. Loro preferirebbero un nome vicino allo sport e più in linea con le idee grilline: ad esempio Francesco Landi, primario del Gemelli, esperto di medicina dello sport, che già siede in Cda come consigliere. La sua promozione avrebbe un ulteriore vantaggio: farebbe decadere la leghista Cassarà e libererebbe altri due posti da assegnare (su cui spera pure il Pd). Soluzione di compromesso è Fabio Pigozzi, rettore dell’Università del Foro Italico, gradito alle grandi Federazioni (ma stimato anche al Coni e a Chigi).

L’intenzione è indicare il presidente già la settimana prossima, intesa permettendo. Il nome dovrà passare in commissione: il parere non è vincolante ma un voto contrario degli stessi parlamentari 5 stelle aprirebbe un caso politico (col pericolo di far saltare la nomina). Per questo è stato convocato un incontro lunedì: un accordo va trovato. Il M5S si contende lo sport e rischia di spaccarsi.