Gara Consip, verso il processo ai signori delle consulenze

Alcuni dirigenti delle quattro principali aziende di revisione dei bilanci rischiano il processo con l’accusa di turbativa d’asta in merito a una gara Consip da 66 milioni di euro.

La Procura di Roma infatti ieri ha chiuso le indagini (atto che di norma prelude a una richiesta di rinvio a giudizio) nei confronti di 14 persone, tra soci, legali rappresentanti, dirigenti e procuratori di società quali Deloitte Consulting srl, Kpmg Advisory, Ernest&Young e PricewaterhouseCooper Advisory Spa.

Si tratta di aziende dai fatturati milionari. Per fare qualche esempio – stando ad alcuni dati riportati dall’Antitrust – Ernst&Young Spa nel 2016 ha realizzato un fatturato di poco più di 341 milioni di euro, Kpmg Spa di oltre 227 milioni, PricewaterhouseCoopers di 274 milioni. L’indagine romana del procuratore aggiunto Paolo Ielo e del sostituto Claudia Terracina ha al centro una gara bandita dalla principale stazione appaltante d’Italia, la Consip, a marzo del 2015 dal valore di 66 milioni di euro e che riguarda l’affidamento di “servizi di supporto e assistenza tecnica per l’esercizio e lo sviluppo della funzione di sorveglianza e Audit dei Programmi cofinanziati dall’Unione europea”. L’indagine – svolta dagli uomini del Nucleo di polizia economico finanziaria di Roma guidati dal colonnello Gavino Putzu – nasce da una segnalazione dell’Antitrust. L’Autorità garante della concorrenza infatti con una delibera del 2017 aveva accertato che le società di revisione “Deloitte Consulting S.r.l., Deloitte & Touche S.p.A., Kpmg Spa, Kpmg Advisory S.p.A., Enrst&Young S.p.A., Enrst&Young Financial Business Advisors S.p.A., PricewaterhouseCoopers S.p.A., PricewaterhouseCoopers Advisory S.p.A” avevano posto in essere “un’intesa restrittiva della concorrenza nella forma di una pratica concordata, con la finalità di condizionare gli esiti della gara Consip, attraverso l’eliminazione del reciproco confronto concorrenziale e la spartizione dei lotti da aggiudicarsi”.

Così inizialmente sono state erogate sanzioni amministrative per un totale di circa 23 milioni di euro: 7,6 milioni per Kpmg e Kpmg Advisory, 5,9 milioni per Deloitte&Touche e Deloitte Consulting, 8,5 milioni alla Ernst&Young e 1,5 milioni per la Pwc.

I provvedimenti sono stati impugnati davanti al Tar del Lazio che nel 2018 ha in parte accolto i ricorsi delle società, chiedendo all’Antitrust di rideterminare le multe. Così l’Autorità ha emesso sanzioni minori per un totale di 10,5 milioni di euro. Nel caso invece di Deloitte Consulting Srl, di Kpmg Advisory e di Ernst&Young Financial Business Advisory spa i ricorsi sono stati accolti e nei loro confronti il provvedimento dell’Autorità è stato annullato.

Dall’Antitrust però le carte sono state mandate in procura. Qui i pm hanno ravvisato il reato di turbativa d’asta e hanno iscritto nel registro degli indagati 14 persone, tra soci, legali rappresentanti, dirigenti e procuratori delle varie società.

Secondo il capo di imputazione vi sarebbero stati “accordi preordinati”. In particolare sarebbero state fatte “offerte a scacchiera”, “concordate in maniera tale da non realizzare sovrapposizioni competitive sui singoli lotti di gara”, ma anche quelle che vengono definite “offerte di appoggio” mediate “la presentazione di offerte finalizzate per ciascun lotto ad alterare le medie dei punteggi di gara”.

L’inchiesta è stata chiusa: bisognerà capire se nei adesso i magistrati capitolini chiederanno il rinvio a giudizio o l’archiviazione.

Autostrade, i numeri e l’ad spiegano bene perché serve la revoca

Chissà come l’avranno presa le famiglie dei 43 morti del ponte Morandi di Genova (e dei 40 della tragedia di Avellino). Da 16 mesi Autostrade per l’Italia è in guerra col governo per tenersi la generosa concessione che ha fatto ricchi gli azionisti della controllante Atlantia, Benetton in testa. Ieri l’ad Roberto Tomasi ha spiegato in una lunga intervista a Repubblica i motivi per cui la revoca non va fatta. Ma leggendola si capisce perché il governo ha buone ragioni nel perseguire questa strada.

Per Tomasi “il Morandi è stato uno spartiacque” che ha mostrato alla società che si deve “cambiare per ricostruire la fiducia tra noi e gli utenti”. Il primo passo è “inserire persone con culture aziendali diverse (…) rendendo più responsabili i vari livelli, rafforzando i controlli e la trasparenza perché le informazioni devono essere condivise”. La colpa di tutto viene implicitamente addossata a Giovanni Castellucci, di cui Tomasi è stato il braccio destro, il manager che ha trasformato Autostrade in una macchina da soldi, anche a discapito di investimenti e manutenzioni, cacciato con buonuscita a settembre scorso. Oggi Tomasi scopre che i vari livelli “vanno responsabilizzati”, ma al processo di Avellino per la strage del bus precipitato nel 2013 dal viadotto Acqualonga sulla A16, Castellucci si è difeso spiegando di non essere responsabile della mancata sostituzione delle barriere con i tirafondi resi ormai marci per l’usura. I giudici lo hanno assolto, condannando i manager sotto di lui, a partire dal direttore del tronco. Atlantia non ha fiatato lasciando Castellucci al suo posto. Oggi si parla di “un cambio di cultura manageriale”.

Il vero nodo riguarda però i soldi. L’apertura di Aspi sono le “linee guida del nuovo piano 2020-23”, approvate giovedì e prontamente illustrate da Tomasi: 5,4 miliardi di investimenti, quasi triplicati rispetto ai 2,1 del quadriennio precedente; più 1,6 miliardi in manutenzioni (+40%). Tutto questo, dice Tomasi, non può “prescindere dalla necessità di avere un piano economico finanziario bilanciato con una prospettiva di medio-lungo termine”, cioè senza privare l’azienda della sua redditività e senza la revoca, che “manderebbe il gruppo in default”.

I vertici del concessionario promettono oggi di fare quel che non hanno mai fatto. Nell’ultimo decennio Autostrade per l’Italia ha girato ad Atlantia 6 miliardi di dividendi, grazie a ricavi crescenti con tariffe salite ben più dell’inflazione (+27%). Un meccanismo che ha garantito un Roe (ritorno sul capitale investito) di oltre il 30%, senza eguali nel mondo. Dal 2008 la spesa per investimenti (dati del ministero delle Infrastrutture) è calata dagli 1,15 miliardi del 2009 ai 475 milioni del 2018. La spesa per manutenzione ordinaria è rimasta sempre inferiore ai 300 milioni l’anno.

Oggi Aspi propone 5,4 miliardi di investimenti. Il problema, però, è che questi non li decide il concessionario ma vanno autorizzati dal concedente, il ministero. E c’è un motivo: vengono remunerati in tariffa, cioè nei pedaggi pagati dagli utenti, a tassi stellari (quello garantito ad Autostrade è intorno al 10%). La società non ha diffuso uno schema con le voci dettagliate, ma si sa che dei 5,4 miliardi, solo 1,7 non verrebbero remunerati. Si tratta degli investimenti previsti dal piano finanziario del 1997, prima della privatizzazione: sostanzialmente dei potenziamenti della rete (di cui il grosso era la variante di Valico Firenze-Bologna già realizzata). Dovevano essere completati nel 2002 e in cambio Autostrade otteneva la possibilità di non ridurre le tariffe anche in caso di aumento del traffico (puntualmente verificatosi). Oggi Aspi promette di completarli, ma si tratta di opere già remunerate con un meccanismo che peraltro è diventato la norma con la concessione del 2007 ottenuta da Castellucci.

I restanti 3 miliardi saranno remunerati in tariffa. Tra questi rientrano l’ammodernamento della rete e la sostituzione delle barriere dei viadotti (e un sistema di controllo digitalizzato), ma anche investimenti come la Gronda, il passante di Genova (4,7 miliardi in un decennio), un progetto già approvato ai tempi di Graziano Delrio (e bloccato dal successore, Danilo Toninelli) remunerato con una proroga della concessione di 4 anni e un mega indennizzo di subentro. Anche i numeri assoluti non sembrano nuovi. A giugno 2018, per dire, Aspi ha proposto al ministero un rinnovo del piano economico finanziario che comprendeva 7 miliardi di investimenti al 2022.

In sostanza, più Aspi spende in investimenti più incassa. L’unico vero costo per il gruppo attiene agli 1,6 miliardi in manutenzioni, circa 400 milioni l’anno, che non sembrano in grado di scalfire più di tanto i dividendi girati ad Atlantia.

Conte lancia i Cento euro: asse con Pd, Iv e sindacati

La maggioranza di governo costruisce una forte intesa al suo interno e nel rapporto con i sindacati e con i lavoratori dipendenti. Seduti attorno al tavolo il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, la sua vice Laura Castelli, la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, entrambe M5S, e i tre segretari di Cgil, Cisl e Uil, hanno convenuto sulla proposta di riforma del cuneo fiscale che aumenta, anche se di poco, salari e stipendi.

La platea dei beneficiari del “bonus Renzi” da 80 euro mensili passa da 11,7 a 16 milioni di persone con una fetta consistente di questi che vede aumentare il proprio incremento mensile da 80 a 100 euro mensili. A chi già percepiva il bonus, a partire da luglio – la misura ha stanziato nella legge di Bilancio 3 miliardi ed è prevista nel 2020 solo per 6 mesi per entrare a regime nel 2021 – andranno 20 euro in più al mese. Chi però ha un reddito lordo compreso tra 26.000 e 28.000 euro, escluso finora dagli 80 euro, avrà 1.200 euro in più l’anno, pari a 100 euro al mese, mentre fino ai 35.000 euro il beneficio sarà di 960 euro annui, pari a 80 al mese. Gli 80 euro mensili andranno invece a scalare per chi ha un reddito lordo annuo compreso tra 35.000 e 40.000 euro.

Si tratta della individuazione di un referente sociale molto preciso e molto ampio, storicamente appannaggio delle forze di sinistra, su cui l’asse Pd-M5S, e gioco forza anche Iv, trova un collante. Unito alla platea beneficiaria del Reddito di cittadinanza, la fascia più povera, si delinea un blocco sociale su cui fare leva per contrastare il “populismo” di Matteo Salvini.

Conte ha spiegato che cuneo e Irpef sono solo il primo pezzo di un “progetto di riforma complessiva del sistema fiscale” aggiungendo che “questa misura è la prova che la nostra manovra riduce davvero le tasse per famiglie e lavoratori”. Gualtieri, invece, ha assicurato che le misure su cui si è aperto il confronto sono “un primo passo”, su cui peraltro “c’è ampio consenso nella maggioranza e con i sindacati”.

Positiva la reazione dei sindacati. “Credo sia una giornata importante, perché dopo tanti anni c’è un provvedimento che aumenta il salario netto di una parte dei lavoratori”, ha detto Maurizio Landini, segretario della Cgil, cha rilanciato la defiscalizzazione degli aumenti salariali per i rinnovi dei contratti nazionali. Soddisfatta anche Annamaria Furlan, segretaria Cisl, convinta che quella del governo “non è una risposta che potrà soddisfare tutti, ma è un primo passo importante”. Carmelo Barbagallo della Uil ha detto che “siamo partiti con il piede giusto”.

Soddisfatto anche Matteo Renzi che rivendica la bontà dei “suoi” 80 euro. Durante l’approvazione della legge di Bilancio, però, fu proprio Italia Viva a cercare di dirottare i fondi del taglio del cuneo fiscale verso altre categorie più forti come le industrie toccate dalla plastic tax.

L’ex marescialla azzurra che fischia per Matteo

Lei prova a difendersi come può: “La mia terzietà non è in discussione”. Ma per la maggioranza il suo contributo determinante perché a Senato chiuso, la Giunta per le autorizzazioni a procedere si pronunci su Salvini, proprio come lui desiderava, è la prova definitiva che Maria Elisabetta Alberti Casellati non è un arbitro imparziale. In questi 22 mesi sullo scranno più alto di Palazzo Madama, la presidente del resto ce l’ha messa tutta: appena eletta, per dire, andò a dichiararsi “orgogliosamente berlusconiana” nel salotto tv di Bruno Vespa. E poi venne la cena a cui aveva attovagliato lo stato maggiore di Forza Italia per il genetliaco di B., neppure Palazzo Giustiniani, la residenza presidenziale, fosse il tinello di casa sua. Ma per Matteo Salvini, la seconda carica dello Stato che ambisce a diventare la prima, sembra addirittura disponibile a rischiare l’osso del collo.

Come è avvenuto a luglio scorso, quando Casellati aveva zittito il capogruppo del Pd Andrea Marcucci che chiedeva che Salvini riferisse in aula sull’inchiesta dei rubli russi che si sospetta siano finiti nelle casse della Lega. I dem si erano messi a gridare alla censura, ma la lei, l’ex marescialla azzurra, li aveva messi a cuccia: “Il Senato non può essere il luogo del dibattito che riguarda pettegolezzi giornalistici. Qui non si discute liberamente di questioni che non hanno alcun fondamento probatorio, qui dobbiamo parlare di fatti che abbiano una giustificazione”. E che dire della gestione del dibattito sulla crisi del Conte I? Matteo Renzi, oggi capo di Italia Viva era stato implacabile. “La scelta della Casellati di convocare il 13 agosto un’assemblea per il calendario non è solo una provocazione: è l’ennesima scelta partigiana della presidenza che vuole compiacere Salvini, ancora una volta. Ma che in realtà finirà con il fare un danno a Capitan Fracassa che non ha capito che non è al Papeete, ma in Parlamento dove è in minoranza”.

In effetti per Salvini andò male, nonostante l’impegno della Presidente. A cui anche LeU rimprovera più di qualcosa. Ad esempio di aver lasciato che il gruppo per un anno e mezzo non fosse rappresentato nella Giunta per il regolamento: finalmente Casellati lo ha concesso, ma solo l’altro giorno perchè bisognava decidere su Salvini.

A buon diritto pure i 5 Stelle non la amano affatto. Solo un episodio per tutti: l’informativa del governo sul Meccanismo europeo di Stabilità, quando Salvini ha potuto pronunciare indisturbato un intervento al vetriolo, culminato con un “si vergogni” all’indirizzo del presidente del Consiglio. Lo sentirono tutti, ma non la Casellati. Costretta poi a riprendere il leader del Carroccio dopo le proteste di quelli del Pd e dei M5S saliti fino al banco della presidente per richiamarne l’attenzione. Insomma mesi e mesi di episodi. L’ultimo in occasione della manovra. Quando aveva bocciato l’emendamento pentastellato sulla canapa light, nel mirino della grancassa leghista. Decisione accompagnata da un monito molto poco presidenziale: “Se ritenete questa misura importante per la maggioranza fatevi un disegno di legge”.

Gregoretti: assist di Casellati a Salvini per votare lunedì

La prova d’amore alla fine c’è stata: grazie al voto determinante della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, il voto sulla autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini si terrà il 20 gennaio proprio come chiedeva il capo della Lega che con questa grancassa vuole vincerci le Regionali. E questo alla fine di uno psicodramma durato giorni in cui alle esigenze di parte si è sacrificata l’immagine dell’istituzione. La maggioranza potrebbe decidere addirittura di promuovere un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale per stigmatizzare le decisioni della Casellati. E, probabilmente, lunedì, disertare la Giunta che deve decidere se mandare a processo il capo della Lega, perché ne ritiene illegittima la convocazione: a quel punto, dal centrodestra verrà dato semaforo rosso ai magistrati di Catania che a Salvini contestano il reato di sequestro di persona per la gestione dei migranti trattenuti a luglio a bordo della nave Gregoretti. Ovviamente in attesa del voto vero, quello che si terrà in aula a febbraio e che deciderà sulle sue sorti processuali.

Ma la decisione di Casellati apre soprattutto uno squarcio di natura istituzionale perché non è più considerata una figura super partes: i rappresentanti della maggioranza hanno voluto farlo sapere anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella intervenendo ieri in aula alla fine di una due giorni consumata tra cavilli interpretativi e furbeschi escamotage politici.

“La presidente del Senato Casellati alla fine ha gettato la maschera: ha votato insieme alla destra per convocare lunedì 20 gennaio, una Giunta illegale, contro il regolamento e contro il buon senso. È un fatto molto grave, la presidente del Senato da oggi non è più considerabile carica imparziale dello Stato, ma donna di parte” attacca il capogruppo del Pd, Andrea Marcucci. Rincara la dose il Movimento 5 Stelle con Alessandra Maiorino: “Casellati con il suo voto insieme alle opposizioni smette di essere arbitro e indossa la maglia di una delle squadre in campo”. Per Francesco Bonifazi di Italia Viva si è consumato “un sopruso contro cui lottare con tutte le nostre forze”.

La presidente del Gruppo misto al Senato Loredana De Petris di LeU prova a spiegare la gravità dell’accaduto. “Le opposizioni hanno fatto un autogol e hanno cercato di rimediare con l’aiuto della presidente Casellati che dovrebbe essere terza”. Che autogol? Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia volendo che la Giunta per le autorizzazioni a procedere votasse su Salvini il 20, si erano rivolti alla Giunta per il regolamento per ottenere una cosa precisa. Ossia che dichiarasse perentorio il termine di 30 giorni in cui le pratiche vanno decise. Salvo poi invocare subito una deroga per Salvini: nel frattempo infatti quelli del centrodestra si erano accorti di essersi messi nel sacco perché il mese di tempo per il caso del leghista, sarebbe scaduto alla mezzanotte di ieri: insomma la pratica rischiava di decadere in Giunta e slittare direttamente in aula, a febbraio.

A quel punto, dato l’equilibrio numerico in Giunta per il regolamento, tra maggioranza e opposizione (6 voti a 6) Casellati ha deciso di votare pure lei la deroga ad personam che fa ottenere a Salvini quel che voleva fin dal principio: un voto sulla richiesta di autorizzazione a procedere prima del 26 gennaio in modo che, se dovessero mandarlo a processo, possa almeno avvantaggiarsene in termini di propaganda con gli elettori. Come detto, che ottenga questo risultato non è certo. Ma è un fatto che l’intero centrodestra lavori ventre a terra da giorni con l’obiettivo di accelerare.

Il presidente della Giunta Maurizio Gasparri ha negato alla maggioranza ogni supplemento di istruttoria persino quella utile a capire se il ritardo nelle operazioni di sbarco abbia aggravato le condizioni di salute dei migranti a bordo della nave Gregoretti. Lunedì si potrà solo dire sì o no alla relazione predisposta dallo stesso Gasparri che ritiene che il caso della nave Gregoretti sia del tutto analogo a quello della nave Diciotti in cui a gennaio scorso a Salvini venne riconosciuto l’esimente di aver agito per perseguire un preminente interesse nazionale.

Gianfranco, da B. a Monti a Iv: lei non sa chi ero io

Avere tra i seguaci un deputato ricco, come Gianfranco Librandi, può far comodo: ti può sempre finanziare la fondazione – e parliamo di Open di Matteo Renzi – con 800 mila euro. Così come avere un bel posto in Parlamento, alla Camera dei deputati, ha la sua convenienza. Ti permette di dire al finanziere di turno che sta controllando i bilanci della tua società il classico “lei non sa chi sono io”. Nel caso in questione, racconta l’Espresso, Gianfranco Librandi, imprenditore di Saronno e deputato di Italia Viva, è andato un po’ oltre. “Io sono un onorevole, un intoccabile, voi siete morti…”, ha detto rivolgendosi ai funzionari della Guardia di Finanza che, il 24 luglio scorso (quando era ancora nel Pd), stavano eseguendo controlli nella sede della sua società, la Tlc comunicazioni, azienda elettronica da 200 mila euro di fatturato. “Io lavoro mentre voi non fate un cazzo dalla mattina alla sera (…) chiamerò i vostri superiori, vedrete…”. E ancora, rivolto a un finanziere: “Lei non prenderà la pensione (…), mi saluti i suoi amici leghisti!”.

Ora Librandi nega di aver ecceduto così tanto, ma il personaggio è notoriamente pepato. Per comprenderlo meglio va prima raccontata la sua transumanza politica. La sua stagione inizia nel 2004, quando diventa consigliere comunale a Saronno per Forza Italia. Da FI entra senza indugi nel Pdl. Poi inizia ad avere qualche rimorso di coscienza. “Mi sono accorto che Berlusconi, che reputo una persona geniale, non era quello che pensavo. E il suo appoggio alla flat tax porterà danni. Così come l’alleanza con Salvini, che ci vuole portare fuori dall’euro. Noi imprenditori abbiamo bisogno di stabilità”, dice al Foglio nel febbraio 2018.

Insomma, nel 2011 diventa montiano. Una Scelta azzeccata, anzi Civica, visto che nel 2013 è in Parlamento con Monti. “Sono un imprenditore appassionato di politica. In futuro vorrei fare solo quello…”, racconta di sé nei suoi primi giorni nel Palazzo. Monti lo nomina addirittura tesoriere del partito. Poi, in un paio d’anni, Scelta civica va a ramengo e si spacca in due. Al Professore, però, non sfugge che, alle Amministrative del 2016, Librandi finanzia con 10 mila euro Fratelli d’Italia. “Ma che ti sei impazzito?”, gli disse, invitandolo a pranzo. “Ma io con la mia azienda ho finanziato quasi mezzo Parlamento. Non sai quanti sono stati eletti con il mio contributo…”, la sua risposta davanti a un Monti più verde del suo loden. Vero: dal 2008 al 2017 l’imprenditore-deputato ha finanziato partiti per circa 500 mila euro. “Monti ha salvato l’Italia, è un grande economista, ma non ha saputo trasmettere la sua simpatia. Peccato, perché dopo mezzo bicchiere di vino è davvero simpatico. Quando uscivamo la sera, ci rilassavamo e sapeva essere ironico…”, dirà poi Librandi. Che, dopo quell’esperienza, sceglie di traslocare nel Pd, con un nuovo amore (politico) nel cuore: Matteo Renzi. È in questo periodo che, tra il febbraio 2017 e il giugno 2018, finanzia la Fondazione Open di Alberto Bianchi con 800 mila euro. Il 4 marzo 2018 viene rieletto alla Camera col Pd di cui Renzi è segretario. “Ci sono imprenditori che acquistano barche o opere d’arte. Io preferisco sostenere un leader politico e il suo progetto per l’Italia… Mi sarei comprato il seggio? Ma quando mai! Non dovevo comprarmi un bel niente, in Parlamento c’ero già…”. Nel Pd non ci sta male, ma il richiamo renziano è più forte: dopo la nascita del Conte 2, segue il leader in Italia Viva. E la prima riunione degli scissionisti, nel settembre scorso, si tiene proprio a casa sua, in via Poli, a due passi da Fontana di Trevi.

Ma Librandi è anche un prezzemolino tv. I suoi battibecchi nei programmi del mattino fanno alzare lo share. A Coffee Break, il 18 ottobre scorso, si è presentato con un elmetto alla Francesco Giuseppe. “Sto per andare alla Leopolda, siamo pronti alla battaglia. Renzi ha avuto coraggio: ha lasciato un grande partito per fondare una start up”. Sempre col piglio del ghe pensi mi dell’imprenditore lombardo con la fabbrichetta, una mattina se l’è presa pure con Diego Fusaro: “Ti consiglio di ascoltarmi, perché io sono uno che lavora e può insegnarti qualcosa, non come te che non fai una mazza…”. Per gli amanti del genere, su Twitter c’è anche un suo “rap antipopulista”. Non molto divertente, per la verità.

Prescrizione, quando Renzi diceva: “Così si nega la dignità dello Stato”

Il Matteo Renzi di governo e di opposizione tuona e, soprattutto, vota contro il blocco della prescrizione. Italia Viva non si è fatta alcun problema nel supportare con il suo voto Forza Italia che con il ddl Costa vuole cancellare la legge Bonafede. Ma il Matteo Renzi presidente del Consiglio sosteneva che bisognasse arrivare a sentenze di merito: non può esserci la prescrizione, ragionava, soprattutto di fronte a ipotesi di corruzione. Nel dicembre 2014, sul canale YouTube di Palazzo Chigi, sull’onda degli arresti per Mafia Capitale, faceva sapere agli italiani che sarebbero state innalzate le pene per corruzione: “Uno che ruba può patteggiare e trovare la carta ‘uscire gratis di prigione’ come al Monòpoli, è inaccettabile”, quindi annunciava che “per i reati legati alla corruzione si allungheranno i tempi per la prescrizione”. Il 17 marzo 2015 ne parlò pure alla Scuola Superiore della Polizia: “Le pene sulla corruzione devono essere aumentate e non c’è dubbio che l’immagine della prescrizione che viene dove si prova un fatto corruttivo è un elemento che nega la dignità allo Stato. Perché uno può dire: ‘Ti processo e sei innocente’, ma pensare che si possa arrivare semplicemente a prescrivere la corruzione è inaccettabile”. Si fece la legge Orlando che bloccava la prescrizione solo per i condannati di primo grado e solo se Appello e Cassazione si celebravano in 18 mesi ciascuno. Oggi, Renzi si schiera con il centrodestra e accusa di “populismo giudiziario” i suoi alleati di governo. Non accetta nemmeno il compromesso ideato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte per non mettere a rischio la maggioranza: prescrizione bloccata dopo il primo grado per i condannati, come già prevede la legge Bonafede, ma per tutti, mentre per gli assolti in primo grado ci sarebbe una prescrizione processuale come avrebbe voluto il Pd per tutti: tornerebbe a scorrere se l’appello non si conclude in due anni e il ricorso in Cassazione in un anno. Renzi, invece, tre giorni fa ha votato in Commissione Giustizia il ddl Costa e continua ad accusare il Pd di andare a rimorchio di M5S: “Ho fatto un governo per mandare a casa Salvini mica per diventare grillino”. Peccato che sulla prescrizione abbia votato pure con la Lega e con Fdi.

Nel Risiko campano ora gioca anche Ruotolo

Il coniglio dal cilindro del Pd viene estratto alle 19, orario perfetto per i tempi dei media. E infatti il nome che secondo il lancio di agenzia dovrebbe unire il centrosinistra, vestito da ‘coalizione civica larga’ senza simboli di partito o movimenti, intorno alla candidatura per le suppletive del collegio senatoriale numero 7 della Campania, è quello di un giornalista. E che giornalista: si tratta di Sandro Ruotolo, già inviato delle trasmissioni di Michele Santoro e oggi firma di punta di Fanpage, che dal 2015 vive sotto scorta per le minacce del boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria dal carcere di Opera dopo la messa in onda a Servizio Pubblico di una inchiesta sui rapporti di Zagaria coi servizi segreti.

Lunedì vanno chiuse e depositate le candidature e l’operazione Ruotolo, proposta in gran segreto dal segretario del Pd di Napoli Marco Sarracino a Nicola Zingaretti e Andrea Orlando il 5 gennaio scorso, ha raccolto l’ok del movimento DemA fondato da Luigi de Magistris – da ambienti vicini al sindaco è trapelata la prima indiscrezione, poi confermata in serata da Zingaretti – che è amico di Ruotolo e con Orlando ha sempre coltivato un ottimo rapporto personale. Fino a ieri DemA era pronto a mettere in pista Annamaria Palmieri, l’unico assessore sopravvissuto sin dal 2011 ai forsennati turn over in giunta imposti dal primo cittadino arancione. E che dunque continuerà a detenere questo record. Da Italia Viva parla col Fatto Quotidiano l’ex deputato partenopeo Giovanni Palladino, ma solo a titolo personale: “Ruotolo è una candidatura di altissimo profilo per il suo impegno antimafia”. Vedremo cosa decideranno ufficialmente i renziani, che sono ancora al tavolo. Al quale è seduta anche la sinistra di Leu. Mentre il M5S sarebbe fuori da questo costruendo cartello civico.

Restano quindi le possibili ripercussioni sul governo, in arrivo dal collegio che abbraccia un terzo della città di Napoli. Collegio dove il 23 febbraio si tornerà a votare per la scomparsa di Franco Ortolani, il professore ambientalista eletto nel 2018 a Palazzo Madama in quota M5s con il 53 per cento. Numeri irripetibili. Tutto è cambiato nel frattempo. E al Senato la maggioranza giallorosa balla, è risicata. Per questo, e per evitare di rafforzare Salvini, su Napoli si era a provato a costruire una intesa che tenesse dentro anche i pentastellati. Un incubatore di una eventuale alleanza larghissima al voto in primavera per la Regione Campania – ma il nodo sul bis del piddino Vincenzo De Luca, inviso a De Magistris e ai grillini di fede dimaiana, pare impossibile da sciogliere – e poi, chissà, da estendere al 2021 per il prossimo sindaco di Napoli. Città in cui Matteo Renzi vorrebbe candidare Gennaro Migliore. Le cui chances, però, sarebbero vicine allo zero senza il sostegno di Pd, M5s e de Magistris, il sindaco che dichiarò Napoli “derenzizzata”. Il risiko, per incastrarsi, avrebbe bisogno di diversi passi indietro o di lato. Ruotolo è attualmente presidente del Comitato per la legalità del Comune di Napoli (su nomina di De Magistris) e vanta una quarantennale amicizia col presidente del Pd napoletano Paolo Mancuso (i due spesso guardano insieme le partite del Napoli e le foto finiscono sui social). Alle politiche del 2013 il giornalista partecipò alla sfortunata avventura delle liste di ‘Rivoluzione Civile’ guidate dall’ex pm della Trattativa Stato-mafia Antonio Ingroia. In quell’anno fu candidato anche alla presidenza del Lazio, sempre nelle liste di Rivoluzione Civile.

Secondo quanto riportato dall’Ansa, Ruotolo avrebbe già accettato l’investitura per la corsa al Senato. Si profila una scheda elettorale composta così: il candidato con il simbolo M5S è il 44enne Luigi Napolitano, amico di Di Maio, uscito vincitore dalle parlamentarie indette su Rousseau l’altro ieri. Con il simbolo della vecchia alleanza Berlusconi-Salvini-Meloni il centrodestra dovrebbe riproporre lo sconfitto di due anni fa, Salvatore Guangi. Anche Potere al Popolo di Viola Carofalo sarà della partita: ha raccolto le 300 firme necessarie e schiera Giuseppe Aragno, storico del movimento operaio.

Senza il maggioritario Salvini non è più il perno

La legge elettorale vigente è il “Rosatellum” con il suo strambo mix di maggioritario (3/8) e proporzionale. Ma la bocciatura del referendum leghista che proponeva il passaggio al maggioritario integrale traccia una nuova strada. Che assumerà il nome di “Germanicum”, la legge proporzionale con sbarramento al 5%, collegi plurinominali piccoli, al massimo con 8 eletti e un “diritto di tribuna” per le formazioni al di sotto del 5%. La legge, che porta il nome del deputato 5Stelle, Giuseppe Brescia, presidente della Commissione Affari costituzionali, ha appena iniziato l’iter parlamentare e il suo effetto, quando sarà approvata, sarà quello delle “mani libere”.

La Lega isolata. Matteo Salvini dopo aver attaccato la sentenza della Corte “a difesa del vecchio sistema”, ora punta sull’ennesima trovata: una legge di iniziativa popolare per l’elezione diretta del capo dello Stato. Come se un passaggio di tale portata costituzionale fosse possibile solo con le battute a effetto. Il leader leghista in realtà, perde centralità come perno del centrodestra il quale, quando si andrà a votare, si presenterà con tante liste quanti sono i partiti che lo compongono.

Meloni all’attacco. La più pronta a far capire l’antifona è Giorgia Meloni la quale, dopo aver sottolineato come il quesito proposto dalla Lega fosse “al limite del consentito”, gioca la campagna elettorale emiliana soprattutto in proprio e non certo per la candidata di Salvini. Poi, ieri sera, quasi a rassicurare, ha dichiarato: “Salvini non tema, vogliamo governare insieme: la nostra crescita non deve andare a scapito della Lega”. Infine, propone il “Mattarellum” (distrutto, anche da lei, con il “Porcellum”).

Forza Italia divisa. In Forza Italia, Maurizio Gasparri, ex An ma berlusconiano di ferro, utilizza le stesse categorie salviniane circa “l’uso politico” che la Consulta farebbe delle proprie prerogative. Rappresenta così chi lega a filo doppio il proprio futuro a quello della Lega (vedi anche Casellati sul caso Gregoretti). Mara Carfagna, invece, che parla a nome della propria associazione “Voce libera”, tratta già sulla nuova legge elettorale per la quale propone la “sfiducia costruttiva”, il meccanismo esistente in Germania che consente di sfiduciare il capo del governo solo se nel frattempo si è formata una maggioranza alternativa su un altro nome (ma in Germania c’è il principio del Cancelliere, in Italia no).

I due Narcisi. Chi si frega le mani è quel “centro” liberal-democratico composto da Matteo Renzi e Carlo Calenda destinati a convergere, chiosa Pier Luigi Bersani, “sotto il simbolo di Narciso”. I due, come ha raccontato ieri il Foglio, hanno iniziato a convergere se non altro su liste comuni provando a coinvolgere la parte di +Europa che non ha voluto appoggiare il governo Conte. Renzi ritiene che superare il 5% sarà una passeggiata, ma sarà tutto da vedere.

Sollievo 5Stelle. Per il M5S si spiana la strada del proporzionale che evita di dover prendere impegni prima del voto e che quindi solleva lo stesso Di Maio. Nel Movimento di fatto è partito il “congresso” interno, ma lo schema proporzionale permette a tutti di giocare le proprie carte in piena libertà.

E il Pd? Apparentemente lo schema funziona anche per il Pd, però in quel partito esiste ancora una componente che aspira alla veltroniana “vocazione maggioritaria” e che, soprattutto, vorrebbe distanziarsi dal M5S. Il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha sottolineato che la prossima legge elettorale dovrà stabilizzare il governo. Nel linguaggio tecnico significa che una dose di maggioritario ci vuole. Il dibattito è stato reso ancora più esplicito dall’offensiva del redivivo Luca Lotti contro l’idea di un nuovo partito con Bersani e varie componenti movimentiste. Qualche sorpresa ancora potrebbe venire.

Sinistra non pervenuta. A sinistra, invece, c’è poco da dire. Continua l’equivoco di una componente del governo, LeU, che non esiste in forma partitica con formazioni come Sinistra italiana del tutto marginalizzate. Il Germanicum garantisce un “diritto di tribuna” ed è probabile che i vari spezzoni, che nel frattempo non rientreranno nel Pd, si possano accontentare.

Di Maio è al bivio. Ma nei 5 Stelle si è già aperto il congresso

Il capo è a pochi metri dal suo bivio. Così consulta big, conta le truppe e prova a rilanciare offrendo alla sindaca di Torino, Chiara Appendino, un ruolo in un possibile, futuro organo collegiale a 5Stelle. Ma prima di ogni altro passo, di tutto e di tutti, c’è lui, Luigi Di Maio, che deve decidere se andare avanti con il suo piano, ossia se dimettersi all’inizio della prossima settimana, prima delle Regionali in Emilia Romagna e Calabria del 26 gennaio. E fuori della porta ad aspettare c’è tutto il M5S, dove già corrono a posizionarsi in vista degli Stati generali di marzo, con Stefano Patuanelli che a Repubblica dice che il campo del M5S “è certamente quello riformista” ed evoca una “guida collegiale”. E tutti commentano ad alta voce: “È iniziato il congresso”.

Ma fuori dell’uscio c’è anche Vito Crimi, da Statuto il reggente in caso di dimissioni di Di Maio. Attivissimo, raccontano, cioè pronto ad avviare la fase di transizione verso l’evento di marzo assieme agli altri due membri del comitato di garanzia, Giancarlo Cancelleri e Roberta Lombardi. “I passi necessari sono già stati fatti” giura una fonte qualificata. Ma prima bisogna aspettare Di Maio, che tra giovedì sera e ieri ha incontrato e sentito vari big. Ministri, innanzitutto. Ma anche una sindaca, la Appendino, che ieri è stata a Palazzo Chigi per vedere alcuni 5Stelle di governo. Tra cui Di Maio, che le ha ventilato il possibile inserimento in un organo collegiale che rappresenti le varie anime del Movimento.

Una sorta di caminetto con i grandi nomi dei 5Stelle, da Roberto Fico a Paola Taverna fino ad Alessandro Di Battista. Ma non ora, non subito. Casomai a marzo. Prima Di Maio dovrà decidere se fare davvero ciò che aveva deciso, dimettersi. Fare un passo di lato, anche per favorire la transizione verso quegli Stati generali che vorrebbe come un evento “aperto”, sussurra un parlamentare a lui vicino. Dove tutti possano parlare liberamente, “come in uno sfogatoio”. Ma l’altro capo, Davide Casaleggio, non vuole un congresso con le mozioni e tutto il resto. E allora l’unica certezza che questi Stati generali sono ancora un guscio vuoto. Non è stata ancora stata scelta neppure la sede, eppure mancano meno di due mesi alla tre giorni, fissata tra il 13 e il 15 marzo. L’ulteriore conferma di come il prossimo futuro dei 5Stelle sia appeso alla scelta del capo, alla strada che vorrà imboccare. Molti ritengono che le sue dimissioni non sarebbero un addio definitivo al ruolo di capo politico. Altri fanno filtrare che invece la sua sarebbe “una scelta radicale”, senza ripensamenti né piani B. Forse anche un modo per spaventare i tanti avversari.

Perché Di Maio sapeva e sa che una vera alternativa non c’è. Per questo ragiona anche di organi collegiali in un prossimo futuro, “e comunque non sarebbe un Direttorio” precisa un dimaiano di provata fede. Quella parola è eresia per le orecchie del fondatore Beppe Grillo, in silenzio da giorni. Però negli ultimi giorni il Garante ha dato qualche segnale in conversazioni privatissime, ribadendo la stima nel’attuale capo e che non ha in testa altri nomi per la guida del M5S. E un 5Stelle di peso commenta così: “L’impressione è che Beppe sia spaventato da un addio di Luigi, perché gli imporrebbe di tornare a occuparsi di quasi tutto”. Ma l’addio di Di Maio, va ripetuto, potrebbe essere solo un arrivederci a tempi migliori e più chiari. Di sicuro è lì sul tavolo. Così la Appendino a Un giorno da pecora è sincera: “Spero che non lasci”.

Fuori, i 5Stelle in attesa. Molto più lontano, un ex grillino, l’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, che sta provando a costruire un suo gruppo alla Camera, Eco, con altri transfughi vecchi, nuovi e magari futuri dal M5S. Così fiducioso nella riuscita del suo progetto che ha chiesto di poter partecipare al tavolo di governo per le prossime nomine di enti e autorità, da leader della nuova formazione.