Paragone espulso, già in tournée col libro

Catania

“Da questo momento è definitiva la mia espulsione dal Movimento 5 stelle”. A comunicarlo in diretta, ieri sera, davanti a un centinaio di persone radunate per la presentazione del suo ultimo libro, è il senatore dissidente Gianluigi Paragone. Poche parole pronunciate dopo avere sbirciato il cellulare. “Adesso capisco perché ci sono tutte queste chiamate”, aggiunge. Qualche istante prima il comitato di garanzia aveva confermato la sua espulsione, allineandosi alla scelta del collegio dei Probiviri. Fatali per Paragone – che ha già annunciato ricorso – il voto contrario alla legge di bilancio e alla fiducia al secondo governo Conte.

Così quella che doveva essere una serata in cui discutere di banche ed Unione europea si è trasformata in un conclave dei grillini delusi. Gli stessi che tempestano di domande il senatore passato ai banchi del gruppo misto. “Cosa facciamo adesso?”, gli chiedono. “Non avevo previsto questa cosa – ammette Paragone – e al posto di Di Maio avrei gestito diversamente il dissenso. Il futuro? Non mi dimetterò e continuerò la battaglia del programma che avete votato. Lo stesso che voglio difendere insieme a voi. Sono certo che prima o poi ci sarà un risveglio da questa ipnosi collettiva che c’è all’interno”.

L’ex 5 Stelle legge il programma elettorale e rispolvera lo statuto M5S. “Viene negata la possibilità di essere valutato da un giudice terzo. Chi si è occupato del mio caso è in conflitto d’interesse”. La stoccata finale è per la viceministra all’Economia Laura Castelli: “Balbetta ogni volta che bisogna dire qualcosa contro l’Europa”. In sala ad applaudirlo ci sono soltanto attivisti locali. L’unico volto noto quello dell’ex senatrice Ornella Bertorotta. Candidata alle ultime elezioni e poi costretta a ritirarsi dopo la notifica di un avviso di garanzia. Vicenda dalla quale è stata poi assolta.

A Riace il comizio leghista è per pochi. La truppa prova a imbucarsi da Gratteri

“Riace è con Matteo”. Ma solo sullo striscione appeso alla ringhiera di un balcone che affaccia sulla piazza. Poco più cento persone sotto il palco di Salvini. È un flop la visita elettorale nel paesino della Locride diventato modello di accoglienza riconosciuto nel mondo, più volte al centro della campagna mediatica della Lega contro i migranti, soprattutto dopo l’inchiesta che ha coinvolto l’ex sindaco Mimmo Lucano.

Ad applaudire il “suo capitano” mancava pure il segretario locale della Lega, Claudio Falchi, costretto a dimettersi perché condannato per bancarotta fraudolenta. In rappresentanza c’è il sindaco ineleggibile Tonino Trifoli, che non ha perso l’occasione per adulare Salvini (“Tra due anni verrai da premier”), e la candidata consigliera Caterina Capponi, moglie del gran maestro regionale della Gran Loggia Regolare d’Italia. La difende il commissario calabrese del partito Cristian Invernizzi: “Se vogliamo una legge per impedire ai parenti dei massoni di candidarsi si può fare, ma ad oggi non c’è”. Prima del comizio c’è il tempo pure per difendere Alfio Baffa, il candidato leghista diventato famoso per il video girato mentre fa un bagno sorseggiando rum con un bicchiere di plastica. Un filmato che Baffa dedica “ai cari amici del gruppo ‘Revenge porn”. Per Salvini non c’è niente di male e chiarisce il suo punto di vista: “Che problema c’è a stare in vasca da bagno e bersi un rum? Non è reato”. Il “revenge porn” sì, ma a Salvini non importa: “Le scelte sessuali dei singoli non mi appassionano. Non entro nelle vasche da bagno altrui”.

Prima di recarsi a Riace, Salvini si è presentato senza preavviso in Procura a Catanzaro. Nessun appuntamento con il procuratore Nicola Gratteri che se l’è trovato dietro la porta col codazzo di leghisti alla conquista della Calabria. “Abbiamo una squadra tosta di candidati, – dice – persone pulite. L’ho detto anche a Gratteri: contro la ’ndrangheta noi ci siamo”.

Prima di ripartire c’è il tempo di attaccare l’ex sindaco Lucano: “Lucano, Lucano e poi lasciano a casa i giovani della Calabria. Si occupano degli immigrati ma si dimenticano dei calabresi”. Tra i due il duello è a distanza. Salvini si ferma a Riace Marina, mentre al borgo Mimmo il “curdo” partecipa alla “contro-manifestazione”: “Lui è un personaggio importante e io appartengo, come dice Salvini, agli zero. La risposta la daremo il 26 gennaio. È molto probabile che la Lega non sarà più il primo partito a Riace”.

“Sardine, lasciate la piazza”. L’invito-sfratto del questore

Nonostante siano arrivati per prime, la Questura di Reggio Emilia avrebbe invitato le sardine a cedere la piazza di Bibbiano alla Lega. Sulla base di una regola da campagna elettorale, i partiti hanno la prelazione su qualsiasi spazio pubblico rispetto a associazioni o enti non candidati alla competizione: per questo, e per evitare altre polemiche, alle sardine sarebbe (il condizionale è d’obbligo) stato chiesto di fare un passo indietro. Virtuale e reale: cambiare giorno, venendo meno però al principio del flash-mob anti propaganda sovranista, o luogo. A Bibbiano, comune simbolo suo malgrado dell’inchiesta sui presunti abusi nella gestione degli affidi, non ci sono però molti spazi ampi come piazza della Repubblica, davanti al Municipio. A occhio qui possono starci 4.000 forse 5.000 persone, in quelle limitrofe al massimo duemila persone.

“In democrazia tutti hanno diritto di parlare. Io giovedì 23 gennaio sarò a Bibbiano con le mamme e con i papà” ha rivendicato da Riace il leader della Lega Matteo Salvini. I leghisti avrebbero richiesto la piazza con la dicitura ‘festival’ nove giorni fa dopo un errore fatto con una prima richiesta per ‘comizio’. I pesciolini hanno rivendicato il proprio legittimo primato in conferenza stampa con tanto di carta con richiesta autorizzata in data 14 gennaio. Una carta che potrebbe diventare straccia nelle prossime ore: le sardine però difficilmente torneranno indietro o cederanno il passo alla Lega. Una soluzione inconcepibile per il gruppo di Mattia Santori che alla candidata leghista in Regione ha dedicato un approfondimento ad hoc: “Su 36 post sponsorizzati, Lucia Borgonzoni ne ha pubblicato uno di programma e 14 di aspetto personale. Dov’è il programma di un partito politico populista? Di lungimirante per questa regione non c’è nulla”. Dovrà essere la Prefettura stessa a confermare la prelazione del Carroccio sulla piazza a discapito delle sardine: i pesciolini non arretreranno. “Noi vogliamo difendere la dignità di un paese composto da gente vera, chi ha sbagliato se la vedrà con la magistratura e non con una pagina Facebook. Tra di noi c’eravamo detti di evitare ‘la trappola di Bibbiano’, ma sono stati i cittadini della Val d’Enza a chiamarci e a chiederci di fare qualcosa”. L’obiettivo del movimento, vera novità di questa infinita campagna elettorale regionale, rimane quello di passare dal virtuale al reale. “Sarebbe bello potersi finalmente incontrare con Giuseppe Conte, ci sono temi come i decreti sicurezza e la democrazia digitale su cui vorremmo iniziare un’interlocuzione, non c’è differenza tra una piazza reale e virtuale, non si può scatenare odio senza un effetto reale, senza pagarne le responsabilità”.

Come ha fatto Salvini di recente, prendendo in giro sui social una sardina reo di essersi impappinato. Il ragazzo verrà difeso dall’avvocata Cathy La Torre, ideatrice della campagna #odiareticosta contro il cyber bullismo. Per le sardine bisogna fare un passo in più: “Vorremmo avere un confronto col Governo su un’idea, embrionale, di associare a ogni profilo social un’identificazione e introdurre un daspo per chi viola le regole della convivenza civile”. Una proposta che suona molto simile a quella annunciata, con coro di critiche, dal deputato di Italia Viva, Luigi Marattin lo scorso ottobre: “Al lavoro per una legge che obblighi chiunque apra un profilo social a farlo utilizzando un documento d’identità. Poi prendi il nickname che vuoi (perché è giusto preservare quella scelta) ma il profilo lo apri solo così”.

“Non si vota su Bibbiano: basta speculare sugli affidi”

Manca una settimana al voto in Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini ha un’agenda che non gli consente neanche un raffreddore ed è più determinato che mai. Ma in questi giorni l’inchiesta di Bibbiano sul presunto sistema di affidi illeciti in Val d’Enza torna al centro della campagna elettorale. Giovedì a Bibbiano si contendono la piazza la Lega e le Sardine. Ma il Pd finora sulla vicenda è stato molto prudente.

Non pensa che qualcosa non andasse nel sistema dei servizi sociali della val d’Enza?

Ce lo diranno i magistrati. Se qualcuno ha violato la legge dovrà risponderne e pagare senza sconti. Ma in democrazia i processi si fanno in tribunale e le sentenze le scrivono i giudici, non i politici.

Il sindaco di Bibbiano Carletti, per i pm, era “pienamente consapevole dell’illiceità del sistema degli affidi”. Ma per tanti esponenti del suo partito è una vittima. Perché non lo scaricate?

La Cassazione ha ritenuto infondate le ragioni delle misure restrittive che gli erano state imposte e lo stesso capo della Procura ha chiarito bene come gli illeciti a lui contestati non abbiano nulla a che fare né con i bambini né con le famiglie. Non sta certo a me difendere il sindaco per gli addebiti a suo carico, lo dovrà fare lui in un processo. Ma si è fatto credere che togliesse i bambini alle famiglie mentre di questo non è mai stato minimamente accusato.

Non converrebbe di più dire “sul centro Hansel e Gretel ci siamo sbagliati”?

Io non gestisco quei servizi. E le sentenze le scrivono i giudici. Se qualcuno ha sbagliato è sacrosanto che paghi, ma la responsabilità penale è personale.

Però, il sospetto è che in molte situazioni il sistema dei servizi in Emilia sia ormai talmente stratificato da dover tollerare situazioni che poi si rivelano oltre i limiti.

Che si tenti di prendere un fatto giudiziario specifico e con un processo ancora da celebrare per trasformarlo in una condanna al sistema dei servizi, a tutti gli operatori e a una Regione è semplicemente grottesco.

Quanto pesa Bibbiano sul voto?

Né la Regione né alcun amministratore regionale è minimamente coinvolto in questa vicenda. I nostri avversari stanno strumentalizzando quanto successo. Stanno addirittura facendo pubblicità sui social indirizzando questi messaggi di odio ai minorenni, fino ai bambini di 13 anni. Davvero si può affrontare una vicenda così drammatica in questo modo? La Giunta regionale non si occupa di affidi: non gestisce né i servizi sociali, che sono comunali, né il Tribunale dei minori, naturalmente. Borgonzoni finge di non sapere queste cose. O forse non le sa. Ma è così.

Il segretario del Pd Emilia-Romagna, Paolo Calvano, ha detto che se ci sarà conferma delle accuse il Pd si costituirà parte civile.

Confermo: la Regione è parte lesa. Ma la nostra Regione ha condotto un’analisi molto seria delle norme, delle procedure, delle garanzie in questi servizi. I dati ci dicono che non esiste una anomalia nel numero di affidi in Emilia-Romagna rispetto ad altre regioni, né in Italia rispetto ad altri Paesi, anzi. Le indicazioni ci permetteranno di rafforzare ulteriormente strumenti di controllo e garanzia.

Perché lei non ha sfidato Salvini su Bibbiano? Alla fine lo faranno le Sardine. Andrà con loro in piazza?

Perché non accetto che una vicenda giudiziaria sia trasformata in uno scontro politico per interessi di partito. Perché la comunità di Bibbiano e quelle della Val d’Enza meritano rispetto e non possono essere quotidianamente teatro di scorribande d’odio. Perché gli operatori dei servizi, non solo di quei Comuni, stanno ricevendo da mesi insulti e minacce in modo molto preoccupante, senza avere alcuna responsabilità. E perché credo che con questa campagna la destra abbia toccato il punto più basso, sul piano politico e morale. E no, non andrò con le Sardine a Bibbiano: sono il presidente della Regione e non voglio prestarmi a strumentalizzare quella comunità.

Che rapporto ha con le Sardine?

Non c’è in realtà un vero e proprio rapporto: conosco naturalmente tante persone che sono andate nelle piazze riempite da loro, ma non conosco personalmente i quattro organizzatori che hanno dato il via al movimento. Non ho difficoltà a dire che mi piacciono, sono una ventata positiva. Apprezzo soprattutto i toni, così distanti dalla politica urlata della destra.

La vostra narrazione positiva della Regione non rischia di ignorare una serie di problemi che la Lega cavalca? Come la questione degli immigrati a Goro.

Se c’è uno che sta sul territorio tra le persone e ne respira gli umori, senza puzza sotto il naso, quello sono proprio io. Io qui ci vivo, in trincea ci sto da cinque anni, a Goro sono andato diverse volte e ci tornerò. Non ho la presunzione di avere tutte le risposte o le risposte sempre giuste, figuriamoci. Ma con me la narrazione di una destra popolare non attacca. Non hanno il fisico per farmi la lezione.

Siamo agli sgoccioli di una battaglia campale, diventata un test nazionale. Quanto pesa la responsabilità?

Sento tutta la responsabilità di non consegnare l’Emilia-Romagna a chi non la conosce e non la rispetta. E sento che tanti, davanti a una scelta che sarà tra me e un’avversaria sostituita da un altro, sceglieranno per il bene della Regione. Anche se magari non sono di sinistra. Il 26 gennaio si vota per l’Emilia-Romagna. Non per altro.

Fiascheroli

Viva sorpresa e costernazione ha suscitato fra i leghisti la sentenza della Consulta che boccia il referendum dei leghisti per cancellare il Rosatellum (votato anche dai leghisti) e sostituirlo con una legge elettorale maggioritaria su misura dei leghisti. Eppure un indizio preciso di come sarebbe finita ce l’avevano: l’autore del quesito era Roberto Calderoli. Un nome, una garanzia di catastrofe. Calderoli, in arte “Pota”, dentista di Bergamo Alta inopinatamente scambiato da 25 anni per un riformatore, vanta una collezione di fiaschi che nemmeno una cantina sociale. Un giorno, a Pontida, per sventare l’avvento dell’euro, s’inventò il tallero padano, detto “calderòlo”. Quando il pataccaro Igor Marini fu accolto in commissione Telekom Serbia come “supertestimone” delle tangenti a Prodi, Fassino e Dini sui conti “Mortadella”, “Cicogna” e “Ranocchio”, fu il Pota a garantire sulla sua attendibilità, definendolo “una persona di una memoria che fa impallidire Pico della Mirandola, intelligente, sveglia e preparata”. Infatti Marini fu arrestato per essersi inventato tutto. Quando Ratzinger fu eletto papa, Calderoli pensò di migliorare i rapporti fra Lega e Vaticano dichiarando: “A Benedetto XVI avrei preferito Crautus I”. Nell’estate 2005 si inerpicò su una baita di Lorenzago del Cadore, in compagnia di costituzionalisti del suo calibro (D’Onofrio, Brancher e Tremonti che portava da bere), per riscrivere la Costituzione fra un grappino e una polenta taragna: la famosa devolution, regolarmente spazzata via nel referendum del 2006.

Poco dopo, il cavadenti padano sfornò la più indecente legge elettorale della storia dell’umanità prima dell’arrivo di Renzi. Infatti lui stesso, conoscendola, la definì “una porcata” (per gli amici Porcellum, ovviamente fulminata dalla Consulta). E, conoscendosi, confidò al Corriere: “Su di me non avrei scommesso un euro”. Ma gli altri sì, anche se lui faceva di tutto per metterli sull’avviso: come la sera che apparve al Tg1 e si aprì la camicia mostrando in mondovisione una canotta con una vignetta anti-Maometto, che nel giro di 48 ore provocò una rivolta a Bengasi, 11 morti dinanzi al consolato italiano e le sue immediate dimissioni da ministro delle Riforme. Ma non bastò, nemmeno quando si riempì il giardino di leoncini, che lo riconobbero e lo azzannarono agli arti inferiori. L’equivoco continuò, tant’è che nel 2008 fu promosso ministro della Semplificazione Normativa: ruolo che purtroppo interpretò con la consueta dedizione. Appena arrivato, accatastò nel cortile del ministero un mucchio di norme stampate su carta.

Poi convocò la stampa e, con gli occhi spiritati a favore di telecamera, le semplificò bruciandole col lanciafiamme. “Sono 375 mila leggi inutili”, annunciò trionfante. Si scoprì poi che l’Italia, fra leggi utili e inutili, non supera le 150 mila, anche perché il Parlamento, per produrne 375 mila, avrebbe dovuto lavorare ininterrottamente dall’Unità d’Italia per 150 anni, compresi quelli di guerra e i mesi di ferie, sfornandone una media di 7,8 al giorno. Dunque non s’è mai capito che diavolo abbia bruciato Calderoli quel giorno. E soprattutto cosa si fosse fumato. In ogni caso qualcuna la incendiò: per esempio, i decreti ottocenteschi di annessione all’Italia del Veneto e del ducato di Mantova, riportando in vita i serenissimi dogi e i Gonzaga. Più utile si rivelò la depenalizzazione del reato di banda armata a fini politici, che salvò i leghisti imputati a Verona nel processo “Camicie verdi”, tra i quali lui. Che, intanto, continuava a lasciare tracce, come le molliche di Pollicino, per far capire ai suoi che dovevano fermarlo. Chiamava i gay “culattoni ricchioni” e gl’immigrati “bingo-bongo”. Proponeva un “Maiale Day” contro la nuova moschea di Bologna. Chiedeva le dimissioni del premier Monti per aver festeggiato il Capodanno con i parenti a spese dei contribuenti (Monti rispose: “Gli acquisti di cotechino, lenticchie, tortellini e dolce sono stati effettuati a proprie spese dalla mia signora”), proprio mentre la

Procura di Roma indagava Calderoli per truffa su un volo blu da Roma a Cuneo per visitare il figlio della compagna Giovanna Gancia in ospedale per un incidente stradale (la trasvolata da 10.271,56 euro restò impunita per il solito no del Senato all’autorizzazione a procedere).
Ma niente, tutti continuavano a prenderlo sul serio. A destra e pure a sinistra, malgrado avesse dato a dell’“orango” alla ministra Kyenge e chiesto l’immunità al Parlamento perché la sua era “una critica politica al governo Letta per il divertimento delle persone presenti, con toni leggeri, infatti non ho detto ‘orango’, ma ‘oranghi’, riferendomi a tutti i ministri” (la cosa però non parve un alibi di ferro, lui andò a giudizio e fu condannato per razzismo). Così nel 2015 fu correlatore della controriforma costituzionale Renzi-Boschi-Verdini. E fu una fortuna: anche quella fu bocciata dagli elettori nel referendum del 2016. Con questo curriculum era naturale che Salvini e gli otto governatori di centrodestra promotori del referendum maggioritario chiedessero a lui di scrivere il quesito. Tutti i costituzionalisti, ma anche i passanti, che lo leggevano sapevano che sarebbe stato respinto perché, essendo troppo manipolativo, avrebbe lasciato il Paese senza legge elettorale. Ma l’Uomo Fiasco garantiva: “Niente paura, passerà”. Aveva pure chiesto alla Consulta di presenziare all’udienza in qualità di “delegato della Basilicata”. E la presidente Cartabia, con uno strappo alla regola, aveva accettato. Lui pensava che la cosa fosse di buon auspicio. In realtà era un premio per aver garantito alla Corte la piena occupazione con la sua produzione industriale di leggi incostituzionali. Infatti è entrato dall’ingresso fornitori.

Quanto è umano il dottor Dolittle che ama gli animali

Alcuni libri nascono da circostanze drammatiche. È il caso delle storie con protagonista il dottor Dolittle, ideato da Hugh Lofting mentre era in trincea e scriveva lettere ai suoi figli. Anziché raccontare degli orrori delle guerra dava fondo alla fantasia in forma di racconto.

Uno di questi fu pubblicato nel ’20 col titolo Il dottor Dolittle, divenne di culto in Inghilterra, seguito da 14 romanzi a narrarne le avventure in giro per il mondo. Ora riproposto in una nuova versione illustrata da Feltrinelli, sia per il centenario sia per l’imminente uscita (30 gennaio) del terzo adattamento cinematografico, kolossal con Robert Downey Jr., è un testo intramontabile. Abile chirurgo che alla compagnia umana preferisce quella degli animali, di cui comprende e parla il linguaggio (a dargli l’input l’amata pappagallina Polinesia), Dolittle se ne circonda – i più cari sono Dab-Dab l’anatra, Jip il cane, Gub-Gub il maialino e il gufo Tu-Tu –, se ne prende cura e per loro è disposto a tutto, anche a partire per l’Africa, senza un penny in tasca, per curare le scimmie colpite da un’epidemia. Altruista, onesto ed empatico, è ecologista, animalista, usa l’astuzia solo a fin di bene, al portafoglio pieno preferisce la ricchezza dei legami autentici, affronta i suoi limiti ma non si atteggia a eroe. Mica poco.

Il dottor Dolittle, Hugh Lofting e Ole Könnecke, Pagine: 182, Prezzo: 12, Editore Feltrinelli Kids

“La geografia non è una scelta”: il deserto australiano è un vero thriller

Le distanze ammazzano. Parliamo di distanze continentali, che sono una delle ultime tendenze del thriller internazionale. Dopo gli smisurati paesaggi di ghiaccio e neve della Lapponia, adesso viene lanciato il micidiale outback australiano, il deserto dove tutto è piatto e viene bruciato senza pietà dal sole. È vero che l’Australia è un continente: ci sono proprietà dove pascolano le vacche che arrivano a 3.500 chilometri quadrati. Un’enormità per i nostri standard di vita.

Nathan Bright è un mandriano che sta da solo, dopo il tempestoso divorzio dalla moglie, figlia di uno dei proprietari più ricchi del Queensland, a est dell’Australia. Brisbane, dove si va studiare, è a 1.500 chilometri da dove è stanziato Nathan. La sua famiglia, la mamma e due fratelli, vivono “vicino” a tre ore di auto, più di quanto ce ne vogliano da Napoli a Roma, giusto per rendere l’idea. Uno dei fratelli di Nathan, Cameron detto Cam, viene trovato morto accanto a una misteriosa tomba del mandriano. Da queste parti bisogna avere fortuna se ci si perde. Se non passa nessuno (una macchina al giorno se va bene), l’alternativa può essere la morte. “Basta essere preparati. Tanto non hai scelta, è la geografia”. Dice Nathan a proposito della sua casa che rimane isolata per mesi quando il fiume esonda per le piogge del Nord. Nella fine di Cam c’è qualcosa che non torna. Non ha avuto un incidente. Si è ucciso? È lui L’uomo perduto del titolo del nuovo thriller di Jane Harper (in uscita il 22 gennaio), giornalista inglese che vive a Melbourne? La pecora nera dei Bright è lo stesso Nathan, per aver fatto morire il suocero senza soccorrerlo, ma la trama del libro riserva altre sorprese “familiari”. Soprattutto, si resta storditi dalle distanze.

 

L’uomo perduto, Jane Harper, Pagine: 427, Prezzo: 19, Editore: Bompiani

Sulla “Luna 2069”: dopo “Rat Man” Ortolani conquista lo spazio siderale

Da quando Leo Ortolani ha chiuso la saga del suo personaggio più famoso, Rat Man, per lui è iniziata una seconda vita artistica. Non era ovvio, molti grandi fumettisti sono rimasti intrappolati nel loro successo al punto che, piuttosto che diversificare, hanno smesso di scrivere (vedi Bill Watterson con Calvin & Hobbes). Ortolani invece continua ad avere storie da raccontare e le sue recensioni a fumetti dei film di supereroi hanno la cattiveria che soltanto i veri fan sviluppano verso la condivisione con le masse del proprio immaginario nerd. Luna 2069, volume pubblicato da Feltrinelli Comics in una elegante edizione, è un’altra cosa. Si distacca dal filone delle rielaborazioni-parodie dell’immaginario supereroistico e presenta il Leo Ortolani più autoriale. È un fumetto complesso, sempre divertente, ma non basato sulle gag. Ha funzione divulgativa – è co-prodotto dall’Agenzia spaziale italiana e da quella europea – ma non è certo didascalico e pedante, anzi. Però la collaborazione permette un rigore divulgativo che spesso manca a fumettisti magari animati dalle migliori intenzioni. Mister Mask (una fusione tra Rat Man ed Elon Musk) e l’alter ego fumettistico dell’astronauta Luca Parmitano si muovono tra complottisti, paradossi temporali e desideri di eternità per riportare l’uomo sulla luna cento anni dopo il primo sbarco. Grazie a una trama fantastica e (un po’ troppo) complessa, Ortolani riesce a ricostruire tutte le fasi della conquista lunare, ma soprattutto a restituire quei desideri di infinito e di conoscenza che hanno animato la prima fase dell’esplorazione spaziale e che poi sono rimasti patrimonio di una minoranza di scienziati, mentre il grande pubblico si è rifugiato nei confini angusti di questo pianeta, forse per paura o per pigrizia.

Luna 2069, Leo Ortolani, Pagine: 240, Prezzo: 20, Editore: Feltrinelli Comics

 

Impressionisti (quasi) segreti, ma iconici

Non c’era occasione mondana o domestica cui Nanà (la protagonista dell’omonimo capolavoro di Émile Zola) presenziasse senza prima aver passato ore – ma a volte anche solo manciate di minuti in cui si acconciava in fretta aiutata dalla domestica Zoe – di fronte alla grande psiche nella sua camera da letto. Complemento d’arredo desueto già nel ’900, si tratta di una specchiera oscillante di forma ovale o squadrata che ebbe grande fortuna tra i secoli XVIII e XIX, e la cui misura poteva variare al fine di incorniciare il volto o la figura intera. Non esisteva probabilmente una sola dimora borghese o nobile in cui non fosse presente almeno una psiche. Non è un caso, allora, che nei tanti dipinti che ritraggono donne della pittrice impressionista Berthe Morisot, esse siano immortalate di fronte a una psiche durante la toletta, mentre s’imbellettano o annodano un nastro alle loro chiome. Come nel suggestivo Devant la Psyche, in cui l’artista con le sue generose e impastate pennellate così riconoscibili, dipinge una dama di spalle nell’atto di sciogliere uno chignon mentre i vestiti le scivolano via e scoprono la pelle bianca.

Quadro iconico dell’Impressionismo, l’opera è uno dei pezzi da novanta dell’esposizione Impressionisti segreti (a cura di Marianne Mathieu e Claire Durant-Ruel, fino all’8 marzo) a Palazzo Bonaparte, lo spazio museale da poco inaugurato nella restaurata dimora romana di Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone. Il titolo è presto detto: opere provenienti soprattutto da collezioni private, raramente esposte, dunque “segrete”.

Ecco, allora, sfilare insieme a Morisot, alcuni ritratti domestici di Renoir, paesaggi meno noti di Gauguin come il caldo Breton Fishermen giocato sui toni del rosso, e vedute di Monet: niente ninfee da Giverny, ma Il frutteto (dipinto quando viveva ad Argenteuil) e soprattutto il magnetico Meli in fiore in riva all’acqua in cui fogliame, fioritura dell’albero e riflessi dell’acqua derivano dalla medesima raggiante tavolozza. E ancora, nomi meno celebri quali Federico Zandomeneghi (l’unico italiano insieme a De Nittis a partecipare alle otto esposizioni impressioniste organizzate da Degas tra il 1874 e il 1886) ottimamente rappresentato in mostra dal dipinto di struggente luminosità Sul divano; Eva Gonzales (amica di Manet) con il trasognante ritratto femminile L’indolence; Camille Pissarro, che risponde presente grazie all’ipnotica veduta di un filare di alberi in Les grands hêtres à Varengeville. Tesori segreti (ma non troppo) per una mostra che entusiasma.

Impressionisti segreti, Palazzo Bonaparte, Roma. Fino all’8.3

La sonata a metà del pianista Gabriel

Bianchi e neri. Come i tasti del pianoforte. Anche se i neri sembrano più dei bianchi. Parlo de Il tocco del pianista, romanzo nel quale le note basse sembrano più frequenti di quelle alte, quasi che le mani dell’autore abbiano indugiato sulla parte sinistra della tastiera. Peccato. Perché il movente narrativo è forte: una realtà che diventa – letteralmente – intoccabile, nella quale l’unica salvifica eccezione è la tastiera del pianoforte. All’autore – insegnante di filosofia e letteratura all’Università di Lubiana e autore di numerosi testi scientifici di teoria politica, antropologia sociale e psicoanalisi teoretica – non mancano certo cultura, sensibilità e idee.

È il passaggio dalla potenza all’atto, per dirla con la lingua della filosofia, che lascia perplessi. E dire che l’incipit prende: “Tenebra. Priva di tempo, di tinta, di gravezza. Grama vacuità priva di me, priva di te, di lui o di chiunque altro, di qualsiasi altra cosa. Nulla, nulla, non c’è nulla”. Se a questo aggiungiamo che Gabriel Goldman – il protagonista – è solo “uno tra i mille e quarantaquattro bambini” che si affacciano alla vita mentre, a New York, avvengono “ottantotto incidenti automobilistici, sedici rapine a mano armata, tre omicidi e un unico suicidio”, ci rendiamo conto che le premesse ci sono. Cosa accade dopo? Perché l’autore non riesce a trasmettere “tutta la banalità della vita dell’uomo”, a spiegare le ragioni per le quali “sarebbe stato meglio non essere mai nati”, a farci sentire che l’illuminato maestro di Gabriel ha ragione: “Suonare il piano […] è la vita in atto”? Entriamo nella sala da concerto: Komel siede al piano e comincia a suonare. L’attacco è fulminante: un uomo si risveglia nel reparto rianimazione di un ospedale con “gli occhi rivolti al muro e il naso in un respiratore”. A mano a mano che la sonata si sviluppa, però, le dita si perdono. I movimenti appaiono confusi, slegati, impacciati. I cambi di tempo, forzati. Ironia fragile, descrizioni ridondanti, aggettivi (troppi) e raramente sorprendenti; similitudini non sempre felici (“la testa calva […] scintillante come la palla di vetro di una veggente o come una palla da biliardo”), giudizi estemporanei o apodittici. I temi di cui l’autore avverte l’urgenza (sincera) di parlare sono tanti: musica, filosofia, psicologia, sociologia, mitologia, etimologia. Il loro peso, però, piega le ali al romanzo, impedendogli di spiccare il volo. Peccato perché, nel blocco di marmo, si intravede la statua. Batte i pugni e chiama con tutta la voce che ha. Ma non riesce a liberarsi né a farsi sentire. Nemmeno Ester – l’amore – va oltre un’oleografia adolescenziale. Paradossalmente, le pagine più interessanti appartengono a una lunga digressione sul rapporto musica/presente. Ottimo spunto per un saggio, infilato, però, a forza nel romanzo. Che dire? Ha ragione Komel: “Non puoi definirti pittore solo per il fatto che ti arricci i baffi a punta, né scultore solo per il fatto che ti lasci crescere la barba […] non diventi poeta infilandoti una penna colorata nel culo e non basta vestirsi in bianco e nero per diventare pianista”. Né basta avere qualcosa da dire per saperla dire. E, soprattutto, scrivere.

Il tocco del pianista, Mirt Komel Pagine: 170, Prezzo: 15,50, Editore: Carbonio