D’Amore in Versilia e Golino dappertutto

Roberto Andò tornerà sul set a Napoli in primavera per girare Il bambino nascosto, la trasposizione del suo omonimo nuovo romanzo (La nave di Teseo): dirigerà ancora Silvio Orlando a oltre dieci anni dallo spettacolo teatrale Il dio della carneficina. Ambientato nel problematico quartiere popolare di Forcella racconterà la storia di un silenzioso e colto maestro di pianoforte al Conservatorio e di un bambino di 10 anni, figlio dei suoi vicini di casa, che il protagonista ritroverà all’improvviso nascosto nella propria casa alla ricerca di protezione e aiuto.

Forte dei Marmi e la Versilia saranno nelle prossime settimane al centro delle riprese di Security, un film diretto per Indiana Production da Peter Chelsom (Serendipity, Shall we dance) e interpretato da Marco D’Amore, oltre che da Silvio Muccino, Fabrizio Bentivoglio e Ludovica Martino.

Valeria Golino reciterà dal 20 gennaio in Occhi blu, storia di una vendetta, prodotta da Palomar e Tempesta Film: al debutto alla regia Michela Cescon, autrice anche della sceneggiatura con Marco Lodoli e Heidrun Schleef. L’attrice napoletana ha iniziato intanto a sceneggiare il suo terzo film da regista – un adattamento del libro L’arte della gioia di Goliarda Sapienza – e nei prossimi mesi comparirà spesso al cinema in Last Words di Jonathan Nossiter (di cui è interprete con Nick Nolte e Charlotte Rampling), Adults in the room di Costa-Gavras, il thriller Sei tornato di Stefano Mordini (di cui è la protagonista insieme con Stefano Accorsi), Fortuna, opera prima di Nicolangelo Gelormini ambientata a Napoli e Terra dei figli di Claudio Cupellini con Maria Roveran e Pippo Del Bono.

 

“Little America”, l’immigrazione attraverso otto storie di persone normali

L’operazione è simile a quella di Modern Love, la serie antologica di Amazon in cui si parla d’amore. Ma è più coraggiosa, perché qui non ci sono attori super famosi e perché il tema è decisamente più scivoloso: l’immigrazione. Gli otto episodi da mezz’ora di Little America, da oggi su Apple Tv+, raccontano otto storie tratte dagli articoli pubblicati su Epic Magazine.

Alcune sono storie di successo. Come quella di Marisol, un’adolescente messicana che trova la sua strada quando entra per caso in una palestra di squash (entrerà a far parte della Nazionale Usa); o quella di Beatrice, ugandese, prima di 22 fratelli, che dopo mille difficoltà diventa famosa a Louisville per i suoi biscotti al cioccolato. Altre sono più dolorose. Rafiq è costretto a scappare dalla Siria dopo che il padre scopre la sua omosessualità; Kabir invece è un ragazzino di 12 anni che rimane da solo, a gestire il motel di famiglia nello Utah, quando i genitori vengono rispediti in India. Ma in generale prevale un senso di normalità: come a voler ribadire che quelle raccontate sullo schermo non sono storie di immigrati ma di persone. C’è un personaggio che più degli altri rimane nel cuore ed è il protagonista dell’episodio The Cowboy. Dal suo piccolo villaggio della Nigeria, Iwegbuna si trasferisce in Oklahoma per studiare economia. Ritroverà le sue radici in un negozio di cappelli da cowboy: quel mondo lo conosce da quando, ancora bambino, guardava i film western insieme al padre. C’è spazio anche per la sperimentazione. The Silence, ambientato durante un ritiro di yoga, rischia di entrare nel guinness dei primati come l’episodio con meno battute nella storia delle serie tv (tre o quattro nei primi 25 minuti). Little America è una serie delicata, spesso divertente, forse un po’ troppo permeata dall’ideale del sogno americano ma mai stucchevole. Fa parte dell’offerta di Apple Tv+, il servizio di streaming disponibile in Italia dallo scorso novembre (4,99 al mese). Fra gli altri titoli ci sono The Morning Show, con Jennifer Aniston, tre nomination agli ultimi Golden Globe, e Truth Be Told, con il protagonista di Breaking Bad Aaron Paul.

 

Bella Zio Vanja, commedia sexy

Ci si accorge di invecchiare quando si inizia ad amare Cechov: un grande amore col senno di poi. Lo sa pure Vanja, il vano, che piange la sua donna con un ritardo di quasi vent’anni: “Perché non me ne sono innamorato allora, quando lei aveva 17 anni e io 30? Adesso sarebbe mia moglie”. Ma non lo è, perché Jelena ha sposato Serebrjakov, ex cognato di Vanja, essendo Vera – sua sorella – morta da tempo. A portare ora in scena la tragedia di un uomo ridicolo – Zio Vanja, appunto – è la regista ungherese Kriszta Székely, che firma anche l’adattamento con Ármin Szabó-Székely: uno spettacolo fatale.

La trama: due parassiti – i succitati Serebrjakov e Jelena –, non potendo mantenersi in città, si fanno ospitare in campagna dai parenti della prima moglie defunta. Alla fine se ve vanno. In mezzo, risse, pianti, amplessi, schiaffi, sbornie, tentati omicidi, e intanto la vita è passata. Székely ingabbia i personaggi in una serra triste, la teca in cui l’entomologo studia i suoi insetti cattivi, cioè in cattività: in primis Vanja – qui interpretato dallo straordinario Paolo Pierobon –, un depresso, cinico e frustrato, che si crede Thomas Mann ma al massimo può aspirare al suicidio.

Non meno del protagonista sono tutti “troppo pigri per vivere”, sprecano i giorni litigando e lacrimando, flirtando e sbevazzando: solo l’alcol li fa “sentire meno morti” e, dopotutto, “è difficile stare sobri in un posto come questo”. L’inanità è la loro condanna: continuano a lamentarsi anziché lavorare, a vagheggiare il futuro, a vivere nel passato, mentre il presente scivola via dalle mani. Il cast è eccellente, dalla febbrile Lucrezia Guidone al sensuale Ivan Alovisio, ai bravissimi Beatrice Vecchione, Ivano Marescotti, Ariella Reggio, Franco Ravera e Federica Fabiani.

L’alta fattura dell’allestimento è frutto anche dell’adattamento contemporaneo, ma non banale: si parla di femminismo e ambientalismo, salvo poi sabotarli subito dopo; è tutto un blablabla fine a se stesso, con Judith Butler che si contraddice di sei mesi in sei mesi e le lezioncine in stile Greta Thunberg ascoltate solo per compiacere l’amante. Soprattutto in questo Székely si dimostra fedele a Cechov: fa brillare qualcosa e la polverizza un attimo dopo, fa balenare una speranza e poi l’ammazza l’istante successivo, come nel finale superlativo. “Zio Vanja è il testo più satirico di Cechov – spiega lei –, una commedia che può far stringere il cuore”.

Il tempo è centrale: il tempo perduto, le occasioni mancate, la vecchiaia che incombe, così come il clima impazzito che fa soffrire i meteoropatici: “Con questo tempo verrebbe voglia di impiccarsi”. Ne esce un vaudeville cupo, di intelligentissimo humour nero, quasi una commedia sexy tanta è la carnalità e la malìa degli interpreti. Qui c’è naturalezza, non naturalismo o psicologismo, che spesso mummificano Cechov rendendolo languido, malinconico e polveroso. Eppure Cechov di sé e compagnia bella diceva: “La nostra famigerata psicologia, il nostro dostoevskismo sono figli della pigrizia. Non abbiamo voglia di lavorare, e inventiamo panzane”.

Torino, Teatro Carignano, fino al 26 gennaio, Zio Vanja, Di Anton Cechov, Regia di Kriszta Székely

Corri per salvare vite, proprio come in un videogame

Niente di buono sul fronte occidentale. Dieci candidature agli Oscar, due Golden Globes in bacheca (film drammatico e regia), diffuso ma non unanime gradimento critico Oltreoceano, eppure, a voler essere clementi 1917 (dal 23 gennaio in sala) l’abbiamo già visto, e per giunta fatto meglio.

Il film bellico di Sam Mendes (American Beauty, Spectre, Skyfall) è ambientato nella Prima guerra mondiale, è dedicato al nonno Alfred H. che fece la staffetta per gli inglesi e inquadra in un unico, e però fittizio, piano-sequenza la missione impossibile di due caporali dell’8° Battaglione, Schofield (George MacKay) e Blake (Dean-Charles Chapman): armati di mappe e granate, devono attraversare la terra di nessuno tra gli opposti schieramenti e recapitare al colonnello Mackenzie del 2° Devon, dove peraltro presta servizio il fratello di Blake, un messaggio vitale per le sorti di 1600 commilitoni.

Per dirla con un altro film, Paths of Glory di Stanley Kubrick, questi sono viceversa Orizzonti di noia, che i due soldati ci dispiegano come in un videogame, Call of Duty o, meglio, Battlefield, perché poco invero si pugna: c’è al più virtuosismo tecnico – la fotografia è di Roger Deakins, quindici nomination agli Academy Awards – ma nient’altro, soprattutto a livello empatico. Performance in campo, manca la competenza umana, l’afflato umanistico, dunque la stessa natura eroica: si corre per salvare vite, ma la cornice è inerte, il ritratto anodino, salvo qualche istantanea melensa e stucchevole.

Riesce, il furbo ma nemmeno troppo Mendes, a far rivalutare la cinese parossistica di Apocalypto (2006) di Mel Gibson e l’equinomachia spielberghiana War Horse (2011), tutto fuorché due capolavori, e a far grandemente rimpiangere, per gusto stilistico – il tallonamento semi-soggettivo del protagonista – e sostanza poetica, Son of Saul, la discesa nell’Olocausto di László Nemes (2015), nonché i piano-sequenza di Espiazione (2007) e Children of Men (2006).

Non c’è alcun sussulto, alcuna variazione sul tema, le poche sparatorie sono identiche, gli incontri di Schofield penosi più che pietosi, l’introspezione psicologica è questa sconosciuta, e dunque latitante l’orrore bellico. Tra cammei altisonanti (Mark Strong, Richard Madden, Colin Firth, Benedict Cumberbatch) e paesaggi piegati all’azione da accogliere come nei peggiori diorami, si avanza di livello in ossequio ai videogiochi, mai di consapevolezza, sicché il movimento – come già Spielberg, Mendes si bea di sovvertire cinematograficamente la storica guerra di posizione – è da fermo, anzi, da immoto, perché non sposta nulla, né emozioni né riflessioni.

Così Erich Maria Remarque apriva Niente di nuovo sul fronte occidentale: “Questo libro non vuol essere né un atto d’accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raccontare di una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra”. Fatelo leggere a Mendes.

 

Cent’anni di Rodari per sentirsi bambini

C’è un prima e un dopo Gianni Rodari, nelle favole moderne. Laddove il maestro della fantasia, maestro in tutti i sensi ché insegnava alle elementari, ribaltò la prospettiva della fiaba, rivalutando la mortifera cicala, simbolo di dissoluzione. “Chiedo scusa alla favola antica,/ se non mi piace l’avara formica./ Io sto dalla parte della cicala/ che il più bel canto non vende, regala”, illustrata da Altan in uno dei primi quattro volumi mandati in libreria da Einaudi per il centenario della nascita in questo 2020 appena iniziato, che è anche il quarantesimo della morte dello scrittore: Cento Gianni Rodari; La Freccia Azzurra; L’omino di niente; Bambini e Bambole.

Gianni Rodari nacque il 23 ottobre 1920 a Omegna, che si affaccia sul lago d’Orta, in quella che oggi è la provincia di Verbano-Cusio-Ossola, in Piemonte. Morì a Roma il 14 ottobre 1980. Quattro giorni prima era stato ricoverato per un intervento alla gamba sinistra. Finì per un collasso cardiaco.

Di formazione comunista, non senza un passato da seminarista, Rodari ebbe una parabola di enorme successo nella letteratura per bambini. Forse anche per questo rimase sempre comunista, senza i dubbi dei suoi “colleghi” intellettuali. Anzi, i suoi viaggi in Unione Sovietica furono propedeutici a una fama internazionale a tutto tondo. Fu anche giornalista, scrivendo sull’Unità e Paese sera. Prima ancora aveva diretto L’Ordine Nuovo fondato da Antonio Gramsci.

Non a caso la predetta cicala è la protagonista di Rivoluzione: “Ho visto una formica/ in un giorno freddo e triste/ donare alla cicala/ metà delle sue provviste./ Tutto cambia: le nuvole,/ le favole, le persone…/ La formica si fa generosa…/ È una rivoluzione”. Spesso capita di usare la retorica in questo tipo di celebrazioni, ma lo sguardo di Rodari oltre a volare e a donare fantasia a grandi e piccini, fu davvero anticipatore dei mali odierni, in un’Europa spazzata dal rinnovato vento del razzismo e dell’odio. Ed è quello che si coglie nell’introduzione di Neri Marcorè a uno dei suoi libri più famosi: La Freccia Azzurra, da cui è stato tratto anche un film d’animazione. È la favola della Befana baronessa e di Francesco, in cui i poveri finalmente ricevono giocattoli in regalo. Ne deduce Marcorè: “Se penso al me bambino che leggeva questa storia nata prima di me, mi accorgo che sono cambiati i termini, più adulti, più intellettuali. Allora non avrei usato la parola ‘disabilità’ pensando al Pilota senza gambe, né avrei pensato alla ‘dignità’ del Generale, o alla ‘rete di assistenza’ per la vecchina dalle mani gelate, o alla ‘rivoluzione’ per la decisione dei giocattoli di riscattare la ‘povertà’ di Francesco, con un gesto di vera ‘solidarietà’. Insomma sono cambiate le etichette, razionalizzate le categorie”.

L’esatto contrario del linguaggio rodariano, dove bastava un refuso o un errore a far nascere qualcosa, come Lamponia al posto di Lapponia. Ed è forse proprio questa l’eredità più bella del Maestro Rodari, con la maiuscola: aver agganciato le parole a un mondo senza confini, non senza scavare nel profondo e portare alla luce le ingiustizie. Oggi lo chiamano umanesimo, ma in realtà la teoria comunista è stata anche questo. Una lotta incessante contro le ineguaglianze di ogni genere. “Abbiamo parole per uccidere/ parole per dormire/ parole per fare solletico/ ma ci servono parole per amare”. Dove in quel “ma” si nasconde il male universale. Non è un caso, allora, che Rodari si rivolgesse ai bambini. E non è un caso che le sue opere gli abbiano fatto vincere, unico italiano, nel 1970 il premio Hans Christian Andersen, una sorta di Premio Nobel della letteratura per l’infanzia.

Tra i suoi lavori vanno citati sicuramente: Le avventure di Cipollino, Gelsomino nel paese dei bugiardi, Filastrocche in cielo e in terra, Favole al telefono, Il libro degli errori. Grammatica della fantasia è considerata invece la summa del suo pensiero, definiamolo pure così, irrinunciabile per chi vuole educare i bimbi alla lettura. Ergo, Rodari scrittore, favolista, inventore di giochi di parole, poeta, autore di filastrocche, maestro e pedagogista. Morto purtroppo a soli 59 anni.

Nel 1953 aveva fatto un matrimonio militante. Aveva infatti sposato Maria Teresa Ferretti, allora segretaria del gruppo parlamentare del Fronte democratico popolare, il fronte socialcomunista battuto alle elezioni del Quarantotto dalla Dc di De Gasperi e Gedda. Diceva Rodari: “La fiaba è un modo di parlare del mondo, di parlare delle cose; è un modo di entrare nella realtà anziché dalla porta, dal tetto, dal camino, dalla finestra”. E per farlo ci vuole un talento fuori dal comune. Ecco ancora come la politica entra dal camino delle parole. Ecco Il Dittatore, che molti troverebbero attualissima: “Un punto piccoletto,/ superbioso e iracondo/ – Dopo di me – gridava/ – verrà la fine del mondo!/ Le parole protestarono: / – Ma che grilli ha pel capo?/ Si crede un Punto-e-basta,/ e non è che un Punto-e-a-capo./ Tutto solo a mezza pagina/ lo piantarono in asso,/ e il mondo continuò/ una riga più in basso”.

Cent’anni di Rodari ci fanno sentire meno soli e soprattutto bambini come una volta.

Dagli Usa alla Russia: così si riciclano gli “ex Mossad”

Nel severo palazzo di arenaria della Corte distrettuale di Manhattan sono ripresi incontri e colloqui per selezionare i giurati del caso Harvey Weinstein. Il magnate del cinema Usa è accusato da 5 donne di stupro e violenza, altre 105 sono pronte a testimoniare sulle molestie sessuali subìte. I potenziali giurati convocati erano 600 e sono stati ridotti a 200 dopo 3 audizioni, 12 di loro alla fine saranno la giuria del tribunale presieduto dal giudice James Burke.

Tra le carte del processo che si aprirà il 22 gennaio emerge un “dark side”, un lato oscuro della vicenda che rischia di essere imbarazzante per molti in Israele. Dagli atti processuali depositati emerge il ruolo della Black Cube, società di sicurezza israeliana soprannominata da tutti “il Mossad privato”, che venne ingaggiata da Weinstein quando lo scandalo stava per esplodere nel 2017 per scavare nella vita delle sue accusatrici e trovare elementi per screditarle. Fu l’ex premier israeliano Ehud Barak a consigliare Weinstein. “Mi chiese solo un suggerimento senza spiegarmi per cosa ne aveva bisogno”, si è poi giustificato Barak.

L’abituale discrezione che circonda gli agenti di queste company è stata violata l’altro giorno da Seth Freedman, che in una intervista con la Bbc ha ammesso di aver lavorato per l’agenzia israeliana e ha raccontato di aver avuto una conversazione telefonica di 75 minuti con Rose McGowan – una delle principali teste d’accusa – il cui contenuto venne poi riferito a Weinstein. Freeman ha anche ammesso che “l’elenco delle persone che Weinstein voleva che seguissimo era composto di 91 nomi”. Black Cube è stata oggetto di molta attenzione da quando è stata fondata nel 2010 da Avi Yanus e Dan Zorella, ex ufficiali dell’intelligence israeliana. Dal 2019 si è trasferita in nuovi uffici, un intero piano della lussuosa Bank Discount Tower su Yehuda Halevy Street e Herzl Boulevard a Tel Aviv. Arrivati in uno dei piani più alti, i visitatori dell’ufficio si trovano di fronte a un semplice ingresso nero, senza scritte e senza logo: chi arriva fin qui non ci arriva per sbaglio. Nell’organigramma societario sono presenti ex elementi di spicco dell’Idf, l’ex “ramsad” del Mossad Efraim Halevy, ex uomini di punta della Difesa come Golan Malka, oltre a figure di peso legate alle società operanti nella sicurezza e nella ricerca militare. Per anni è stata presieduta, fino alla sua scomparsa nel 2016, da Meir Dagan che ha guidato il Mossad fino al 2012. Delle molte operazioni sotto copertura della Black Cube alcune sono finite sulle pagine della stampa israeliana, apparentemente senza imbarazzare la Company. Nel 2014 agenti della Bc vennero coinvolti nel tentativo di un magnate russo di screditare l’allora ministro Yair Lapid, durante l’ultima campagna elettorale in America alcuni operativi avevano fondato una società negli Usa che aveva preso a bersaglio la candidata Hillary Clinton. E quando gli americani nel 2014 iniziarono a trattare segretamente con l’Iran per l’intesa sul nucleare, agenti della Bc entrarono in azione per cercare di screditare alti funzionari dell’Amministrazione Obama. I bersagli erano il viceconsigliere per la Sicurezza nazionale Ben Rhodes e il consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente, Colin Kahl. Black Cube aveva contattato entrambi sotto diverse coperture, per discutere dell’Iran. L’operazione è stata smascherata dallo Fbi.

Nel 2014, Buenos Aires ha voluto assumere Black Cube per raccogliere informazioni sull’hedge fund Usa Elliott Management, che aveva portato l’Argentina in tribunale per costringerla a pagare le obbligazioni che aveva precedentemente ristrutturato. Nel 2016, due agenti israeliani del Black Cube sono stati arrestati in Romania con l’accusa di voler intimidire il principale procuratore anti-corruzione del Paese. E ancora, nel 2019 mentre stavano raccogliendo le prove d’accusa contro il premier Benjamin Netanyahu, gli uomini della Special Unit 433 si sono accorti che le loro mosse erano spiate. Bc era stata ingaggiata dalla difesa del premier per scoprire fin dove erano arrivati gli investigatori anti-frode israeliani.

Epstein, le isole degli orrori. Una 15enne scappò a nuoto

Aveva 15 anni una delle ragazze vittima degli abusi sessuali del finanziere americano Jeffrey Epstein quando, dopo giorni di violenze, cercò di scappare a nuoto da una delle Isole Vergini dove il 66enne gestore di hedge fund portava aerei carichi di giovani prede, molte delle quali minorenni, per violentarle ripetutamente durante i festini con gli amici. È solo l’ultimo dettaglio della sordida storia che – insieme a quella del produttore Weinstein – ha sconvolto l’America. La ragazza non riuscì a fuggire, ma fu catturata e, per evitare che ricadesse nella tentazione di allontanarsi di nuovo, le venne sequestrato il passaporto. Non fu l’unica. Come lei, altre giovani, finanche dodicenni subirono la stessa sorte per un periodo di tempo lunghissimo, che va dal lontano 2005 e arriva fino alle soglie del 2019, anno in cui, ad agosto, accusato di traffico sessuale e scoperchiato il vaso di pandora delle sue decine di vittime, Epstein si è suicidato in carcere a New York in circostanze non ancora del tutto chiare, prima di poter affrontare il processo.

Ora a quelle denunce se ne sommano altre che arrivano dalle Isole Vergini, dove il procuratore locale, Denise N. George, ha raccolto le testimonianze di altre minorenni, alcune delle quali all’epoca degli abusi quasi bambine, che il miliardario “offriva” ad amici vip nelle sue isole. Da quelle violenze le ragazze non si sarebbero mai riprese, conservandone intatte “le conseguenze fisiche, mentali ed emotive”, scrive il procuratore. Stando alle ricostruzioni, per assicurarsi le prede, Epstein si sarebbe procurato visti falsi e avrebbe messo su un database computerizzato per rintracciare i movimenti delle sue vittime per la maggior parte aspiranti modelle autoctone o straniere “attirate e reclutate” nella sua casa ai Caraibi, nelle sue tenute isolane. “Epstein ha chiaramente usato le Isole Vergini e la sua residenza a Little Saint James per nascondere e per espandere la sua attività qui”, sostiene il procuratore George. Ma ora è tardi per un procedimento penale contro Jeffrey Epstein. L’unica possibilità di rivalsa avanzata dai pubblici ministeri è quella di indagare sui suoi amici di merende. Tra loro anche il secondogenito della regina Elisabetta II, il quale ha negato ogni coinvolgimento in un’intervista tv, ma che per quest’ombra è stato allontanato dalla scena pubblica. Per il resto, a disposizione delle vittime e del procuratore locale resta la fortuna di colui che fino a un anno fa vantava la vicinanza addirittura ai presidenti degli Usa, da Bill Clinton a Donald Trump. Si tratterebbe di sequestrare un patrimonio stimato in 577 milioni di dollari, nonché, della proprietà degli atolli Little Saint James e Great Saint James. Questi ultimi valutati 86 milioni di dollari.

Ukrainagate, si apre il processo a Trump

Con la lettura dei capi d’imputazione e il giuramento dei senatori di agire da “giudici imparziali”, s’è ufficialmente aperto nel Senato di Washington il processo per l’impeachment di Donald Trump, rinviato a giudizio dalla Camera per abuso d’ufficio e ostruzione alla giustizia nel Kievgate, il “quid pro quo” tra aiuti militari all’Ucraina e l’apertura di un’inchiesta contro i Biden, il padre, Joe, candidato alla nomination democratica a Usa 2020, e il figlio Hunter, socio di una società energetica ucraina.

Si avvia quindi all’epilogo una vicenda sviluppatasi dopo l’estate, quando si seppe della telefonata del 25 luglio di Trump con il presidente ucraino Volodymyr Zelenski, cui fu proposto il baratto: tu mi fai un favore e apri l’inchiesta sui Biden, io ti do gli aiuti. Se il rinvio a giudizio del presidente spetta alla Camera, il processo e il verdetto toccano al Senato, dove i repubblicani sono maggioranza. Un’assoluzione di Trump, allo stato delle cose probabile, potrebber trasformare l’impeachment in un boomerang per i democratici, anche se Nancy Pelosi, speaker della Camera, dice che resterà per sempre una macchia sulla presidenza del magnate.

I capi d’accusa sono stati letti da Adam Schiff, presidente della Commissione Intelligence, deputato e maratoneta. Lui è il capo del pool di deputati – in gergo, managers – che rappresenteranno l’accusa nel processo: gli altri sono il presidente della Commissione Giustizia Jerry Nadler e Jason Crow, Val Demings, Sylvia Garcia, Hakeem Jeffries, Zoe Lofgren, cinque uomini e due donne. I “manager” avevano già provato mercoledì sera a consegnare al Senato gli articoli di impeachment, con una sorta di ieratica processione tra le due ali del Congresso.

Ma Mitch McConnell, il leader della maggioranza repubblicana al Senato, non aveva voluto riceverli: aveva infatti programmato l’inizio dell’iter per oggi alle 12.00 e aveva convocato per le 14.00 il presidente della Corte Suprema John Roberts, per il giuramento. Roberts presiederà il dibattimento, che comincerà martedì. “Ci risiamo, un’altra truffa dei nullafacenti democratici”: così Trump ha accolto su Twitter la messa in moto del processo. Ma l’osservatorio indipendente del Government Accountability Office dà forza alle accuse, sostenendo che l’Amministrazione Trump ha violato la legge congelando gli aiuti all’Ucraina, già stanziati dal Congresso. Il Gao punta il dito sulla Casa Bianca e sulla decisione dell’estate: “La legge – scrive – non permette che il presidente sostituisca le priorità politiche decise dal Congresso con le sue proprie priorità”. La Pelosi sostiene che il rapporto del Gao rafforza la necessità di consultare nuovi documenti e ascoltare nuovi testimoni. È un punto di conflitto tra democratici e repubblicani, che sono maggioranza al Senato (53 su 100) e non vogliono ammettere nuovi testi, soprattutto non vogliono sentire l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, disponibile a parlare, se convocato. L’obiettivo di Trump, e di McConnell, che, in barba al giuramento, ha già detto di non sentirsi vincolato all’imparzialità, è di chiudere in fretta il processo con un’assoluzione. Una grana per Trump e il suo avvocato Rudy Giuliani arriva dal faccendiere ucraino Lev Parnas, secondo cui il presidente “sapeva esattamente cosa stava succedendo”. Parnas, la cui credibilità non è adamantina, arrestato mesi fa insieme a un complice, era un cliente, o un agente, di Giuliani. Kiev, intanto, chiede elementi a Washington per corroborare l’inchiesta sui Biden, che è stata avviata (e così gli aiuti sono arrivati). Ma la polizia ucraina ha anche aperto un’indagine per capire se l’ex ambasciatrice Usa a Kiev, Marie Yovanovitch, rimossa da Trump, era sotto sorveglianza da parte di persone legate a Giuliani.

Berlino e la sfida libica: “Solo guardiani di pace”

È una missione di peace monitoring quella alla quale Europa e Onu stanno lavorando. Ieri Giuseppe Conte, ad Algeri dopo gli incontri con il primo ministro della Repubblica Algerina, Abdelaziz Djerad, e il Presidente della Repubblica, Abdelmadjid Tebboune, ha ribadito la posizione italiana: “La Libia non ha bisogno di nuovi combattenti”, è il momento “della diplomazia e del dialogo”, “non possiamo accettare ulteriori armi e ulteriori militari”. Però, “una volta accantonata l’opzione militare, lavorare per portare in Libia un contingente di interposizione e di pace è un’opzione e noi possiamo già dire che siamo disponibili”. Dunque, “ci confronteremo a Berlino”.

In realtà, i “caschi blu” di cui si parla da giorni non dovranno essere una forza di interposizione. Mantenere la Libia unita è il risultato a cui l’Europa sta lavorando e una forza di interposizione potrebbe invece preludere alla divisione del paese. Le regole d’ingaggio saranno oggetto di un negoziato complicatissimo.

Sempre che poi l’operazione riesca effettivamente a partire. Occhi puntati sulla Conferenza di Berlino. Oltre al premier del Gna al Sarraj e al generale Haftar, la Germania ha invitato a livello di capi di Stato e di governo Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Repubblica del Congo, Italia, Egitto, Algeria, nonché rappresentanti di Nazioni Unite, Unione africana, Unione europea e Lega araba.

Non a caso Conte ha concluso ad Algeri un tour diplomatico piuttosto impegnativo (questa settimana è stato a Ankara e al Cairo): l’Italia rivendica di aver influito sull’invito fatto arrivare all’Algeria. Mentre per ora la Tunisia è fuori: pressing diplomatico in corso per farla entrare, con ruolo attivo del nostro paese.

Quello che potrebbe ottenere l’appuntamento di domenica è il mantenimento della tregua. Ma nel giorno in cui anche il generale Haftar annuncia la sua partecipazione al summit, la mossa della Turchia di sbandierare l’invio di nuove truppe in Libia crea qualche perplessità. Critico Conte: “Possiamo trovare una soluzione alla crisi libica, senza ulteriori combattenti”. Tutti cercano di alzare il proprio prezzo negoziale: la Turchia con quest’ultima mossa, così come ha fatto Haftar non firmando la tregua a Mosca (probabile sostegno di Egitto e Emirati Arabi Uniti).

Se a Berlino si otterrà il mantenimento della tregua (anche nonostante il mancato ritiro delle truppe) comincerà un lungo percorso, nel quale dovranno essere affrontate questioni centrali come l’organizzazione politica del paese, la sicurezza (bisognerà valutare se l’esercito dovrà essere quello della Cirenaica), l’economia (con la complessa gestione dei proventi petroliferi).

Tra le novità centrali degli ultimi giorni c’è la partecipazione alla conferenza di Mike Pompeo. Finora l’America si era disinteressata del dossier. Ma la crescente presenza della Russia l’ha portata a tornare sui suoi passi. Intanto, anche la Grecia protesta per il mancato invito. Ieri il premier Kyriakos Mitsotakis, che oggi vedrà Haftar, ha dichiarato che metterà il veto in sede Ue su qualsiasi accordo di pace se non sarà cancellato il memorandum tra Tripoli e Turchia che garantisce ad Ankara di poter effettuare trivellazioni petrolifere in ampie zone del Mediterraneo. L’Europa le missioni deve approvarle all’unanimità. Quello greco rischia di essere un ostacolo.

Per chi suona il Big Ben? Il grande party di Farage per la liberazione dall’Ue

Gli immancabili circenses se li è già aggiudicati Nigel Farage, perfetto esempio contemporaneo di patrizio fattosi tribuno della plebe. Ha ottenuto il permesso per la sua “Brexit celebration”, dalle 21 alle 23:15 del 31 gennaio, giorno fatidico dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea per cui ha lavorato tutta la sua vita adulta. Festone organizzato dalla lobby Leave means Leave con tanto di sito dal design festoso, che ricorda le card di auguri con cui gli inglesi celebrano ogni ricorrenza, un pratico countdown per i distratti, un disegnino del Big Ben sullo sfondo, la form per inserire la propria mail e ricevere aggiornamenti e la possibilità di donare, minimo 10 pound, per coprire i costi dell’organizzazione. Il luogo? Parliament square, naturalmente, perché cos’è la politica senza simboli, e cos’è una vittoria senza lo scalpo del nemico, quell’establishment dei politici di professione che Farage ha sempre detto di voler cancellare?

Qualche incoerenza c’è: per esempio, il fatto che fino a ieri Farage definiva l’accordo concluso da Boris Johnson con Bruxelles “capitolazione all’Unione europea”; “accordo precotto” e destinato a produrre “molti anni di indigestione e agonia”. Ma tanto la storia la scrivono i vincitori, e non c’è dubbio che senza Farage e la minaccia che dal 2010 ha rappresentato per l’egemonia a destra dei conservatori, prima con l’Ukip e poi con il Brexit Party, la Brexit sarebbe rimasta un faida interna ai Tory.

Manca la ciliegina sulla torta: cinque minuti di fuochi d’artificio che Farage ci teneva a far esplodere a partire dalle 23, la mezzanotte per Bruxelles, il momento esatto della “liberazione”. Non ha avuto il permesso, e i suoi ricchi alleati ora cercano proprietari di terrazze private in zona disposti ad aggirare il divieto, a beneficio della plebe e dello spettacolo.

Poi c’è la battaglia sul Big Ben. Uno dei leader dell’agguerrito e vincente plotone dei Brexiteers, il coriaceo parlamentare conservatore Mark Francois, isolazionista di ferro che porta senza imbarazzo il suo cognome da immigrato, si sta dedicando con tutte forze a coronare il suo sogno nazionalista. Ha firmato una mozione alla Camera dei Comuni chiedendo che a marcare il raggiungimento della libertà siano i rintocchi del Big Ben, simbolo globale di britannicità. Non si può fare, gli hanno risposto dalla Camera dei Comuni. Anche i simboli hanno bisogno di manutenzione, e il Big Ben al momento è in fase di restauro. Spacchettarlo per l’occasione potrebbe costare fino a mezzo milione di sterline, 45.454 e rotti a rintocco. Non è aria, alla vigilia di una Brexit molto probabilmente lacrime e sangue. Nulla di più facile che capitalizzare consenso su un rifiuto: ieri il Daily Express tuonava contro la lobby dei Remainers in Parlamento, accusati da un sottosegretario di “volere soltanto impedirci di celebrare nel modo opportuno questo momento storico”, anche perché secondo i calcoli dei Leavers, la faccenda non costerebbe più di 120 mila pound.

Per Farage: “Francamente penso che, se alle 23 il Big Ben non suona, nel mondo penseranno che il nostro paese è una presa in giro”. Qualcuno lo pensa comunque.

Sconfitto ma non domo, Francois ha fatto ricorso a condivisibili considerazioni pratiche: “Quelli che vogliono festeggiare, dato che usciamo a un’ora precisa, dovranno guardare l’orologio”. E quindi “per risparmiare mi sono già offerto di salire sul Big Ben e suonare le campane io stesso, con l’aiuto di Bill Cash, presidente della Commissione di Controllo sull’Europa. E se anche questo non funziona, la Bbc deve avere una registrazione dei rintocchi del Big Ben che può mandare in onda senza spese per i contribuenti”.

È andato male anche l’appello a tutte le chiese del Regno perché suonino all’unisono alle 9 del 1º febbraio. Stavolta si oppone anche il Central Council of Church Bell Ringers, l’associazione dei campanari, che non intende appoggiare scampanate “per motivi politici”. Come chiarito a Bbc Radio dal reverendo Alan Wilson, vescovo di Buckingham: “È un tema che divide, non unisce, ed è davvero il momento di andare avanti”. Sembra, con qualche ambiguità, anche la posizione del governo, tuttora in fase ecumenica post-elettorale, con la missione dichiarata di sanare le divisioni, e quindi cauto nell’infierire sulla metà del paese che il 31 gennaio sarà a lutto.

Prima Boris Johnson ha dichiarato che il governo aveva un piano per far suonare il Big Ben, poi, scoperto il costo, ha ripiegato su un appello a una raccolta di fondi popolare. Al momento in cui scriviamo, a due giorni dal lancio, mancano ancora 450mila pound, malgrado il generoso contributo di 1.000 pound del soldato Francois. A cui, temiamo, resterà solo la gloria: dalla Camera dei Comuni hanno già chiarito che non accetteranno donazioni pubbliche.