La “società foggiana” in guerra con lo Stato: un altro attentato

Luca che conosce gli agenti della sua scorta e torna a casa con loro. Gli anziani ospiti che, quando il tam tam delle notizie li avverte dell’esplosione, si presentano in anticipo al “Sorriso di Stefano”, la struttura bombardata ieri mattina, che li accoglie dal lunedì al sabato. Il Viminale che annuncia: il 15 febbraio sarà istituita una sezione operativa della Direzione investigativa antimafia in una porzione della caserma Miale. E poi la lunga riunione in prefettura, già prevista, convocata dal commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, Annapaola Porzio. È un segnale allo Stato, quello che l’uomo incappucciato e in bicicletta, ha lanciato ieri mattina alle 5:50, quando ha fatto esplodere una bomba carta davanti alla saracinesca del “Sorriso di Stefano”? È una sfida ai 20 mila foggiani che il 14 gennaio hanno marciato con Libera contro la “quarta mafia”? O è un segnale indirizzato a Luca Vigilante, 38enne manager della sanità privata e convenzionata con il pubblico, un uomo che non gestisce soltanto quella struttura per anziani, ma realtà ben più consistenti, come il “nuovo” Don Uva di Bisceglie? Probabilmente è tutto questo insieme e anche molto di più.

Di certo, è il segnale di criminale indifferenza ai bisogni della città, alla necessità che gli anziani possano socializzare e vivere meglio, poiché è il loro centro, innanzitutto, che è stato colpito. I danni non sono gravi. La signora che a quell’ora era all’interno per le pulizie è per fortuna rimasta illesa. Ma la criminalità organizzata non s’è fatta scrupoli nel colpire un luogo che accoglie gente debole e fragile per definizione. Un luogo che – ci spiega Luca Vigilante – nasce come gesto di riconoscenza di Stefano, un giovane utente della struttura che, poco prima della sua morte, chiese a suo padre di donare quel luogo affinché fosse destinato all’accoglienza degli anziani. Fu così che “Il sorriso” si trasformò nel “sorriso di Stefano”. Quel sorriso ieri è stato sfregiato.

E Luca ha dovuto cambiare improvvisamente vita. Non aveva alcuna intenzione di fare l’eroe. Qualcosa gli è esploso tra le mani molto prima della bomba di ieri. Due anni fa fu raggiunto da un paio di criminali che gli chiedevano assunzioni. Lui si rifiutò. Ma non poteva immaginare che i criminali fossero sotto intercettazione, che quelle proposte venissero registrate, che qualche giorno dopo sarebbe stato convocato dagli investigatori, che si sarebbe ritrovato nei panni di una “persona informata sui fatti”.

Luca ha confermato quel tentativo di estorsione. E la sua vita ha iniziato a cambiare. Ma c’è un dettaglio che in questa storia non ci deve sfuggire: non è più un testimone. Gli imputati hanno scelto il rito abbreviato: Luca non sarà chiamato a testimoniare in questo primo grado di processo. E ancora: il 3 gennaio qualcuno ha fatto esplodere il Suv aziendale. Per quale motivo?

Sfida allo Stato? La marcia di Libera, quella che ha mostrato la reazione di Foggia, porterà per strada 20 mila persone, sì, ma soltanto una settimana dopo. Forse Luca non è solo il “testimone” che deve pagare. D’altronde, come lui stesso spiega, “compaio nel 19esimo capo d’imputazione contestato ai processati”. Forse il problema di Luca è un altro: essere un imprenditore di successo e non piegato alle logiche criminali. E la mafia foggiana deve poterlo piegare come imprenditore. Non c’è riuscita due anni fa? Probabilmente vuol farlo adesso. E lo Stato? Le marce antiracket? Forse fanno paura. Ma non tanto da retrocedere. “Chi ci ha colpiti – dice Luca – non è un mitomane, ma appartiene alla criminalità organizzata. Come traduco questo segnale? Ho mille idee per la testa che a volte si annullano tra loro. Non posso escludere che vi sia un altro scopo estorsivo. Da parte di un altro clan. Quando è esplosa l’auto è il primo pensiero che m’è venuto in mente. Ma oggi? È un segnale a me o allo Stato? Non so rispondere. Di certo la mia vita è cambiata per sempre. Non è piacevole tornare a casa con la scorta”. Forse la chiave non è a Foggia, ma a Bisceglie, dove il Don Uva è tornato a fiorire: parliamo dell’ex manicomio, che oggi è gestito dalla “Universo Salute”, gestita anche da Luca, e che s’è trasformato in una residenza sanitaria che vanta circa 1.700 posti di lavoro.

“Recuperare una realtà così grande, che aveva centinaia di milioni di debiti ed era sottoposto all’amministrazione straordinaria”, siega Luca, non è stato facile. Gestiamo appalti notevoli. Abbiamo agito con strategie nuove. E soprattutto: con la massima trasparenza pubblica. Qualcuno può non aver gradito. O magari pensa di pretendere qualcosa. Non so. Non lo escludo. E’ solo un’idea. Una fra tante”.

Milano, c’è un “mondo di mezzo” all’autosalone di viale Espinasse

Showbiz e malavita, bolidi da sogno e incontri con i padrini della ’ndrangheta, droga e serate di gala con politici e star del calcio. Il menu è ghiotto e rappresenta oggi a Milano il nuovo mondo di mezzo, dove boss e comprimari, colletti bianchi e jet set vanno a braccetto e pianificano affari: dal facchinaggio dell’Ortomercato alla sicurezza nella movida fino ai maxi-appalti edilizi in Iraq. Per capire questa storia inedita bisogna, però, lasciare le luci del centro. La strada è semiperiferica, macchine in coda, semafori. Viale Espinasse a Milano non ha nulla di seducente. Al civico 137 l’autosalone Pegaso vende auto, anche di lusso, anche supersportive. Il locale è gestito dalla Pegaso srl. Il sito mette in vetrina Ferrari, Audi, Bmw. L’indirizzo è noto anche agli investigatori più aggiornati sulle cose della malavita milanese. La Pegaso ha due socie. Una si porta dietro una parentela pesante. È infatti la moglie di Luigi Mendolicchio broker, secondo gli inquirenti, di questa nuova malavita.

Milanese, classe 1965, Mendolicchio se nel casellario ha solo vecchi precedenti di polizia in tasca si tiene contatti di livello con esponenti della ’ndrangheta. Tra questi, uomini del clan Barbaro-Papalia e soprattutto Giuseppe Calabrò, detto ’u Dutturicchiu, legato alle potenti cosche di San Luca, già in contatto con ex ministri della Dc e oggi, secondo gli investigatori, silenzioso plenipotenziario milanese delle ’ndrine. Il fratello di Mendolicchio, Michele, nel 1992, secondo alcuni pentiti, partecipò all’omicidio di Carmine Carratù avvenuto in via Ippocrate. Con lui anche il boss Domenico Branca legato alla cosca Libri. Michele Mendolicchio non sarà processato perché deceduto. Oggi Gino Mendolicchio si divide tra l’autosalone, l’ufficio di viale Sondrio, piazza Prealpi e risulta imputato per traffico di droga dalla Procura di Catanzaro che ha chiesto il rinvio a giudizio. Secondo l’indagine “Ossessione” (febbraio 2019) del procuratore Nicola Gratteri, infatti, Mendolicchio assieme ad altri personaggi rappresentava la testa di ponte milanese di un giro di cocaina con il Sudamerica gestito dalla cosca Mancuso.

Gli investigatori hanno monitorato i suoi spostamenti e hanno fotografato un summit “per gli affari illeciti” all’interno dell’autosalone Pegaso. La società non sarà coinvolta penalmente. Si legge nell’atto dei magistrati: “I rendez-vous tra i predetti soggetti avvenivano presso l’autosalone di viale Espinasse nella disponibilità di Luigi Mendolicchio”. E ancora: “Mendolicchio rappresentava un soggetto di rilevante affidabilità economica, in ragione dell’attività commerciale esercitata, che gli garantiva copiosi introiti derivanti dalla compravendita di autovetture”. Le auto in parte sarebbero fornite da un manager albanese che vive in una villa dell’hinterland nord. Il particolare è contenuto in una denuncia anonima, e che per questo dovrà essere verificata dai magistrati, arrivata pochi giorni fa alla Procura di Catanzaro e al presidente della Commissione antimafia di Milano, David Gentili.

Saranno poi i magistrati calabresi a studiare gli assetti societari della Pegaso e a tracciare, senza però indagarlo, la figura di Stefano Pampillonia, giovane agente finanziario con studi in Bocconi e già iscritto a un club di Forza Italia con tessera numero 0502. Il ragazzo, incensurato, è socio in un’agenzia di casting. Viaggi, bella vita, Rolex, carte di credito black e serate di gala sono immortalati sul suo profilo Instagram dove ama postare immagini sue assieme a noti politici lombardi. Con Mendolicchio il legame è stretto, tanto che sarà lo stesso Pampillonia ad accompagnare Gino a un incontro con il boss Giuseppe Calabrò e con il suo luogotenente Saverio Gualtieri. Il dato emerge dalle carte dell’indagine Rinnovamento. Lo stesso Gino ha partecipato al matrimonio di Pampillonia organizzato da due noti wedding planner televisivi. Alla Pegaso, oltre a ex campionissimi dell’Inter anni Ottanta, si vede anche Franco Terlizzi, ex pugile ed ex partecipante de L’Isola dei Famosi, noto alle indagini, ma mai indagato, per i suoi rapporti con esponenti della cosca Flachi. È però con Domenico Vottari, anche lui frequentatore della Pegaso, che Gino Mendolicchio pianifica affari.

Mimmo Vottari, originario di San Luca, è un uomo libero che ha scontato la sua pena. Condannato per omicidio, ma mai per mafia, anche lui ha un’agenda fitta di nomi del milieu calabrese a Milano. Oggi si occupa di bar e ristoranti. Ascoltato in una indagine milanese Vottari spiega a Gino: “Mi hanno proposto un lavoro in Iraq, si parla di 25 milioni di euro, riusciamo ad avere degli operai e una ditta ci danno il 30% subito?”. Per arrivare all’Ortomercato l’obiettivo, poi, era entrare negli assetti societari di una srl perché, spiega Mendolicchio intercettato, “Eh, c’hanno dentro l’appalto dell’Ortomercato”. Sul fronte movida e locali, è Vottari a parlarne con Gino: “Questo amico mio fa già la sicurezza nei locali”. Eccolo il nuovo mondo di mezzo milanese. Da viale Espinasse alle serate di gala con i politici, fino ai progetti d’affari all’Ortomercato e addirittura in Iraq.

Riecco i forzisti per le esequie dell’impunità

In un angolo, Niccolò Ghedini, storico avvocato dell’ex Cav., parla fitto con Sestino Giacomoni, il consigliori del capo che l’ha voluto nel collegio dei reggenti di Forza Italia. Maurizio Gasparri non sarebbe mancato per nulla al mondo, sebbene solo per un saluto, dato il trambusto in corso sul caso Gregoretti nella Giunta che presiede a Palazzo Madama. E poi ci sono Giacomo Caliendo, sottosegretario del governo Berlusconi, il portavoce Giorgio Mulè, le capogruppo di Camera e Senato, Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini: in platea i volti più noti di Forza Italia, che sarà pure afasica politicamente ora che è ai minimi termini, ma quando si tratta di giustizia, o meglio di prescrizione, riprende voce alla grande. Al convegno organizzato dal partito dopo il fallito tentativo di convincere il Pd ad appoggiare il ddl Costa che vorrebbe cancellare la riforma Bonafede, c’è Marcella Panucci di Confindustria e pure Edoardo Bianchi dell’Associazione nazionale costruttori. Ma l’ospite d’onore è l’ex magistrato Carlo Nordio che si è conquistato un posto speciale nel cuore di Forza Italia. Anzi, per dirla con Anna Maria Bernini “è il numero uno del pantheon del garantismo. Per lui ho un’ammirazione che sconfina nell’idolatria”. Lui non delude: randella a dovere Piercamillo Davigo, nemico numero uno del partito di B. E sfiora la standing ovation quando suona la carica: “Lo stop alla prescrizione è incostituzionale e disonorevole per il governo che aveva promesso che la riforma sarebbe entrata in vigore insieme a quella del nuovo processo penale. Questo è l’inizio della fine della civiltà giuridica: è stata aperta la diga al giacobinismo forcaiolo”.

Il presidente dell’Unione Camere penali Giandomenico Caiazza fa di tutto per emozionare pure lui la platea azzurra: “È una riforma sciagurata, un cavallo di troia per arrivare a limitare il diritto di appello”. La sua arringa piace ma le mani ancora non si spellano. E allora riattacca: “Ogni anno la prescrizione riguarda centinaia di migliaia persone, ma evidentemente si vuole che i giornali titolino sulla sconfitta dell’impunità dei potenti: 30-40 casi eclatanti che riguardano processi di grande risonanza” dice, facendo fischiare le orecchie a Berlusconi che è presente ma tramite il suo avvocato Ghedini. Che resta impassibile in sala dove c’è chi sgomita per omaggiarlo.

Caiazza, che prima del convegno aveva già incontrato la Lega per chiedere sostegno logistico su un eventuale referendum per abolire la riforma Bonafede, si allontana per un altro impegno. Ma non prima di aver assicurato sostegno alla battaglia parlamentare di Forza Italia: un picchetto di avvocati davanti alla Camera all’avvio della discussione del ddl dell’azzurro Costa, il 27 gennaio. Voluto dagli azzurri in aula nella speranza che le Regionali del 26 incrinino i rapporti interni alla maggioranza. Ma Francesco Paolo Sisto che ne sa una più del diavolo, come avvocato e pure come parlamentare, non ci fa affidamento nonostante l’ok dei renziani sia stato già incassato. “Sono imbullonati alle poltrone: non resta che sperare nella Consulta”.

“In politica saremo gli arbitri: domande a tutti”

Sono le venti, in onda dal 20 gennaio sul canale Nove dal lunedì al venerdì, è la nuova striscia di informazione quotidiana condotta dal direttore de ilfattoquotidiano.it, Peter Gomez. La produzione è di Loft Produzioni e nelle intenzioni del direttore David Perluigi, rappresenta una sfida rispetto al panorama del mondo delle news. Sono le venti durerà 30 minuti e punterà sulle notizie della giornata da approfondire, attraverso le immagini raccolte da una squadra di giovani video-giornalisti e l’intervento dei protagonisti e di alcuni opinionisti. “Non sarà un vero e proprio telegiornale – spiega Peter Gomez – Come prima missione c’è quella di fornire un canale di approfondimento ai telespettatori affinché possano vedere le cose raccontate in maniera diversa”. Spazio sarà dato, oltre alla cronaca e ai fatti internazionali, all’approfondimento politico: “La nostra posizione politica sarà come quella dell’arbitro sul campo. Ossia imparziale – specifica Gomez –. Poi, certo, potrà capitare che qualche rigore non si vedrà e scatterà la rissa (ride, ndr), ma in linea di massima sarà così. Non deve accadere, come succede a Otto e mezzo o dalla Annunziata per citarne qualcuno, che ogni volta che arriva Matteo Salvini venga intervistato, spesso, ai limiti dell’aggressione, quando poi viene il politico più ‘vicino’ l’intervista non è più intervista. Il metro di giudizio deve essere uguale per tutte le squadre in campo”.

In studio ci saranno anche ospiti che si racconteranno senza filtri. “Staremo molto attenti al costume e allo spettacolo – conclude Gomez – Vogliamo dimostrare che dietro un artista o un personaggio, che ha milioni di follower sui social, c’è un pensiero legato alla politica e alla società”. “L’informazione che si vede” è il claim principale del programma, scelto non a caso dal direttore artistico, il regista e autore Duccio Forzano. Lo studio è composto da totem digitali sui quali scorrono le notizie e le immagini, mentre dalla sua scrivania interattiva Gomez lancerà i temi della giornata. “La nostra missione – racconta Forzano – è quella non solo di essere interessanti, ma anche affascinanti e belli. Dimostreremo che l’informazione, la bellezza e l’estetica possono camminare di pari passo”. Aggiunge Laura Carafoli, Chief Contents Officer Discovery: “Questo programma vuole mantenere una promessa con il nostro pubblico: spiegare l’attualità con un linguaggio e uno stile diversi”. Primo, l’interazione: i telespettatori potranno inviare i video, in formato verticale a redazione.sonole20@gmail.com, Gomez potrà rispondere durante la puntata.

Gli avvocati al Csm: punire le idee del giudice Davigo

Punite Davigo: a chiederlo è l’Ordine degli avvocati di Torino, con un lungo comunicato firmato dalla presidente, Simona Grabbi. Di solito gli avvocati tifano per l’innocenza, ma in questo caso è colpevolezza assoluta quella che vedono aleggiare attorno a Piercamillo Davigo, magistrato colpevole di aver rilasciato al Fatto Quotidiano, il 9 gennaio, un’intervista sulla prescrizione e sulla riforma del processo penale.

Smessi i panni del difensore e del custode delle garanzie, l’avvocato Grabbi indossa quelli dell’inquisitore, o almeno del pubblico ministero, e stila una sorta di richiesta di rinvio a giudizio, anzi quasi già una sentenza di condanna. E chiede il pronto intervento della Procura generale presso la Cassazione: apra immediatamente un procedimento disciplinare a carico di Davigo. “Al fine di porre fine” – conclude il comunicato – alle sue “ormai quotidiane e avvilenti esternazioni”: fatelo tacere.

A Davigo – già pm di Mani Pulite a Milano, poi presidente di sezione in Cassazione e ora componente del Consiglio superiore della magistratura – è rivolta l’accusa più infamante per un magistrato: disprezzare la Costituzione. Egli dimostra infatti – scrive Grabbi – una “visione profondamente anti-costituzionale del processo penale”, ma anche e soprattutto “del ruolo dell’avvocato e della presunzione d’innocenza”. E calpesta i principi che sono espressione “di altrettanti diritti umani fondamentali”: il “diritto a un processo equo”, davanti “a un giudice imparziale”, con “garanzia del contraddittorio” e con la “presunzione di essere considerato non colpevole sino alla condanna definitiva”. Insomma: è un cupo inquisitore medioevale, questo Davigo, che non tiene in alcuna considerazione quei principi per cui – scrive sobriamente Grabbi – “l’Uomo ha sacrificato la propria vita e talvolta anche la libertà, così garantendo la nascita di quella società libera di cui oggi tutti noi beneficiamo”. Che cosa aveva mai detto Davigo al Fatto? Tra l’altro, che “per la Costituzione, la pena ha anche funzione rieducativa: dunque chi ricorre solo per rinviarla differisce la rieducazione dell’imputato”. Che per abbreviare i tempi del processo è necessario incentivare i riti alternativi: “Oggi li scelgono in pochi perché conviene tirare in lungo e puntare alla prescrizione”. Che sarebbe bene “abolire il divieto di reformatio in peius in appello”, come in Francia: “Se ti condannano e tu appelli, può toccarti una pena più alta. In Italia non si può. Il che incentiva tutti a provarci”. Negli Usa patteggiano “quasi tutti: lì, se l’imputato si dichiara innocente, sceglie il rito ordinario e poi si scopre che era colpevole, lo rovinano con pene così alte che agli altri passa la voglia di provarci”.

Scandalo: per l’avvocato Grabbi è una “concezione inquisitoria del processo penale tipica degli Stati autoritari”; è una visione in cui l’imputato è un “presunto colpevole” e in cui, con “la determinazione della pena”, il giudice si vendica “della mancata scelta di riti deflattivi, in palese violazione dei diritti costituzionali”. Inaccettabile, per l’Ordine degli avvocati.

Non solo: Davigo dimostra – scrive Grabbi – “un profondo disprezzo del ruolo istituzionale dell’Avvocato nel processo, disegnato come l’istigatore di condotte processuali dilatorie al solo fine di poter locupletare abusando di diritti che il processo riconosce all’imputato o finanche espletando attività difensiva del tutto inutile, qualora l’assistito sia ammesso al gratuito patrocinio, al solo fine di aumentare la parcella”. Tradotto: per Davigo gli avvocati tirano in lungo i processi puntando alla prescrizione e a incassare ricche parcelle dal cliente oppure (se ha il gratuito patrocinio) dallo Stato. “Oltremodo inaccettabile” che la pensi così. Ma l’avvocato Grabbi esclude che succeda? Forse vive nel Paradiso subalpino del Diritto. Ma avremmo qualche esempio da farle, almeno qui sulla Terra.

Giustizia, Renzi prepara lo sgambetto post-Emilia

La data da cerchiare sul calendario, subito dopo il 26, è quella di martedì 28 gennaio: perché quel giorno l’aula della Camera voterà la proposta Costa per abrogare la riforma Bonafede che ferma la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. E Matteo Renzi ieri ha annunciato che – come fatto mercoledì in commissione Giustizia – dirà sì, insieme a Lega e Forza Italia e contro la sua maggioranza. Mentre il governo corre qualche rischio, il Pd si trova nella difficile posizione di trattare per convincere il ministro Bonafede a modificare la sua legge, ma nello stesso tempo di dover prendere le distanze rispetto a una posizione (quella dei renziani) che in parte è pure quella degli stessi democratici.

Difficoltà che arrivano da lontano. Nel 2016 i relatori della riforma del processo penale erano Felice Casson, magistrato, oggi non più in Parlamento, e Giuseppe Cucca, avvocato, capogruppo in commissione Giustizia di Italia Viva (e responsabile Giustizia, insieme a Lucia Annibali, presidente dell’omologa commissione alla Camera). “Dopo la sentenza di primo grado cessa di operare”, diceva quell’emendamento: esattamente come la nuova norma entrata in vigore il primo gennaio. C’erano le firme – tra gli altri – anche di Cucca e di Nadia Ginetti. Pure se il primo anche a distanza di anni sostiene che la firma era stata messa “a sua insaputa”.

Tra gli emendamenti presentati alla riforma penale ce n’era persino uno per chiedere che il termine della prescrizione partisse dal giorno in cui la notizia di reato arrivava o veniva acquisita dal pm per i delitti ambientali e i morti sul lavoro. Una proposta che i termini della prescrizione li avrebbe accorciati parecchio. La firma di Cucca appariva pure su quella.

In entrambi i casi, poi, Cucca “ritirò” la firma. Racconta lui: “Io avevo l’idea che la prescrizione non dovesse essere toccata, Casson no. Non fui mai avvisato della mia firma sulla richiesta di farla cessare dopo la riforma di primo grado”. Ancora: “Poteva essere stato un errore, una svista. Forse Casson lo fece solo per rispetto nei miei confronti”. L’altro la mette in un altro modo: “Il Pd cambiò posizione e io non votai”. Dice oggi Cucca: “Io avrei voluto tempi di prescrizione più lunghi e tempi dei processi più corti”. A ogni modo, alla fine non la spuntò la visione di nessuno dei due. Ma si arrivò alla mediazione della riforma Orlando.

La storia di questi giorni racconta che arrivare a una linea su questi temi è difficile ancora oggi. “La novità non è che Italia Viva ha votato la legge del governo in cui c’era Orlando, ma vedere il Pd a rimorchio della cultura giustizialista del M5s. La riforma Bonafede è una schifezza”, ha detto Matteo Renzi, annunciando il voto favorevole alla proposta Costa anche in aula. Possibile perché – secondo il Regolamento della Camera – essendo in quota opposizione, la proposta si può ripresentare.

L’ex premier ha appena iniziato una maratona radiotelevisiva che aumenta i sospetti sulle sue reali intenzioni. Perché il voto sulla prescrizione potrebbe essere l’occasione perfetta per far cadere il governo, magari in caso di sconfitta di Stefano Bonaccini, e riposizionarsi in campo centrodestra. Questo nonostante le assicurazioni contrarie sue e di tutti i suoi: “Non faremo cadere l’esecutivo”.

La settimana scorsa c’è stato un accordo nel vertice sulla giustizia, con la promessa veicolata da Giuseppe Conte di introdurre una distinzione tra le sentenze di primo grado di assoluzione e quelle di condanna. Dice Andrea Orlando, non senza qualche difficoltà, giustificando la scelta del Pd di martedì: “Pensiamo che sia giusto evitare, in presenza di un confronto aperto, appunto, di sommare i nostri voti alla destra. Un atteggiamento del genere rischierebbe soltanto di offrire alibi per chi non vuole modificare la norma e un immeritato spazio politico alla Lega e ai suoi alleati”. Al Nazareno sono furibondi con la scelta di Italia Viva di spaccare la maggioranza proprio durante la battaglia campale emiliana. Nel dibattito è intervenuto lo stesso Conte, che invita Iv a valutare la riforma nel suo complesso: “Esaminiamo la versione ultima nel merito, questa è la cosa più importante”.

“Barriere insicure, finora Aspi ha fatto solo melina”

Sarebbe una vera e propria strategia dilatoria, quella adottata da Autostrade per l’Italia (Aspi). Strategia “che sta purtroppo determinando un ingiustificato rallentamento degli interventi di sostituzione delle barriere laterali in sequestro” su ordine della magistratura di Avellino, perché i sistemi di ancoraggio non sono a norma, e i new jersey (le barriere) potrebbero cedere in caso di un impatto simile a quello che nel 2013 provocò i 40 morti intrappolati nel bus precipitato dal viadotto di Acqualonga. “Tanto che ad oggi – come evidenziato dall’ufficio di Procura – neppure una sola delle barriere oggetto di sequestro è stata sostituita”. Nemmeno una. A quasi otto mesi dai primi sequestri sui viadotti della A16 in Irpinia. A dispetto di recenti comunicati trasudanti soddisfazione per l’ottenimento dei primi dissequestri, e delle continue rassicurazioni che la sicurezza della rete viaria autostradale sta migliorando. Nemmeno una barriera ‘a rischio’ è stata cambiata. Lo scrive il Gip Fabrizio Ciccone, quello che ha lanciato l’allarme sulla tenuta dei piloni del viadotto Cerrano sulla A14 (“c’è stato uno spostamento di sette centimetri, bisogna impedire il passaggio dei mezzi pesanti”) e che ora bacchetta severamente l’operato di Aspi.

La critica del giudice si riverbera sul pool di avvocati e tecnici che cura, in maniera legittima e nell’interesse di Aspi, i rapporti con la Procura di Avellino guidata da Rosario Cantelmo e con l’Ufficio tecnico ispettivo (Uit) del ministero delle Infrastrutture, diretto dall’ingegnere Placido Migliorino, che vigila sulle concessioni autostradali del centro sud.

Il dottor Ciccone ce l’ha con la loro “sistematica presentazione, a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, di istanze di dissequestro parziale per ottenere l’autorizzazione alla modifica delle modalità di cantierizzazione già concordate con i competenti uffici ministeriali”. Vengono respinte dopo il parere negativo del pm, riproposte quasi identiche, respinte di nuovo. Un loop che di fatto ha stoppato, ancora prima che cominciassero, i lavori faticosamente stabiliti tra le parti in campo.

Per capire fino in fondo la portata di queste poche righe a firma del Gip, bisogna fare un passo indietro al 20 dicembre. A partire da maggio e fino a quel giorno Aspi ha subito una serie di sequestri di new jersey di viadotti tra la Campania, le Marche, l’Abruzzo e altre località. Poche decine, ma secondo un rapporto dell’Uit sarebbero 1600 i viadotti con barriere non a norma, e 310 quelli sui quali intervenire con urgenza perché di rischio ‘fascia 1’. Poco prima di Natale però Aspi annuncia che finalmente la Procura ha “accolto l’istanza relativa al dissequestro delle barriere di sicurezza bordo ponte di dieci viadotti lungo le autostrade A14 e A16”. L’Adriatica e la Napoli-Bari.

“Il dissequestro temporaneo – si leggeva nella nota – consente alle competenti Direzioni di Tronco della società di procedere immediatamente con i lavori di cantierizzazione necessari per la sostituzione delle barriere di sicurezza. Gli interventi verranno svolti secondo le modalità indicate dagli uffici tecnici del Mit”. I cantieri dovevano partire entro il 23 dicembre.

Queste righe vanno chiarite. La magistratura non ha deciso il dissequestro delle barriere perché il pericolo è stato eliminato. Lo ha disposto per dare luce verde ai lavori per la loro sostituzione, secondo un protocollo concordato tra Aspi e Uit, sul quale Procura e Gip hanno dato l’ok. Un protocollo che però, a leggere le tre pagine sottoscritte dal Gip il 14 gennaio, non sarebbe rispettato. Aspi, ottenuto il provvedimento favorevole, avrebbe chiesto di aprire il cantiere piazzando barriere di sicurezza provvisorie a solo 1.60 metri dai new jersey sequestrati. Questo per riaprire la corsia di marcia di cui veniva disposta la chiusura insieme al sequestro dei new jersey, restringendo la carreggiata e rallentando il traffico.

L’ingegnere Migliorino ha risposto che questo non è possibile. Questo tipo di barriere provvisorie ha caratteriste tecniche per uso da spartitraffico. Ma se messe a bordo ponte, devono essere piazzate ad almeno 3.15 metri, altrimenti “non consentono di raggiungere gli standard di sicurezza certificati dai crash test”. Ma così non si recupera la corsia.

Un tira e molla in più istanze “senza alcun elemento di novità”. Che ha spazientito il Gip. Intanto le barriere da cambiare restano lì.

Dossier revoca, le promesse dei Benetton non bastano

Nel governo è ormai opinione condivisa: solo Atlantia, o meglio il suo azionista di controllo, la famiglia Benetton, può evitare la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia. Tanto più che anche il Pd si è convinto che sia l’unica strada possibile, stante la chiusura finora manifestata dal colosso a qualsiasi seria ipotesi di compensazioni dopo il disastro del Morandi di Genova. Ieri Aspi ha fatto il primo passo, presentando le “linee guida” del piano industriale 2020-2023. In sintesi: più fondi per investimenti e manutenzioni, i primi – sostiene – vengono “quasi triplicati” rispetto al quadriennio precedente (da 2,1 a 5,4 miliardi), i secondo aumentati del 40% a 1,6 miliardi; le buone intenzioni passano anche da mille assunzioni e un sistema digitalizzato per monitorare in tempo reale i viadotti. Nessuno crede davvero a questi numeri, ma è il segnale che il colosso è pronto a ridurre l’incredibile redditività garantita dalla generosa concessione, che non trova pari in nessun altro settore, e che tiene a galla la controllante Atlantia. Non basta, però.

L’unica possibilità per i Benetton è aprire a una pesante riduzione delle tariffe, garantire un rilevante aumento di investimenti e manutenzioni rinunciando a gran parte del miliardo di utili l’anno che Aspi garantisce e a un pezzo dei 2800 km di rete in gestione (nel mirino ci sono le tratte del Nordovest). Le divisioni all’interno della famiglia hanno portato allo scontro frontale col governo, mentre il debito di Aspi e Atlantia è stato declassato da tutte le agenzie di rating a livello spazzatura.

Sia il Pd che i 5Stelle sono ormai compatti sulla revoca. Al netto dell’opposizione dei renziani di Italia Viva, il problema è come arrivarci. Sicuramente sarà dopo le elezioni regionali. Ieri la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli (Pd) ha difeso in audizione alla Camera la norma del decreto Milleproroghe che cambia i meccanismi di risarcimento per revoca della concessione applicando a tutte le concessionarie quanto previsto dal codice degli appalti: via il mega-indennizzo previsto grazie alle clausole regalo del 2007-08, giudicate nulle anche dalla Corte dei conti visto che violano il codice civile. In caso di revoca la rete passerebbe temporaneamente all’Anas in attesa di individuare via gara il nuovo concessionario.

Atlantia, i suoi azionisti e quelli di Aspi hanno già scritto a Bruxelles denunciando la modifica unilaterale del contratto, citando il precedente del 2006, quando la Commissione avviò una procedura di infrazione per il tentativo del governo Prodi di modificare il sistema concessorio.

Per De Micheli si tratta di una norma sacrosanta che non viola la Costituzione: “Elimina con una disposizione di legge una situazione di privilegio attribuita, sempre per legge, ad alcuni concessionari – ha spiegato – non vi è stata alcuna violazione del principio pacta sunt servanda”. Semplicemente finora non esisteva una regolamentazione in caso di revoca per grave inadempimento del concessionario, come nel caso del Morandi: “C’è solo l’esigenza di assicurare che l’inadempimento degli obblighi assunti determini conseguenze anche per il patrimonio dell’inadempiente così come previsto per la generalità dei consociati e non già un fatto del tutto neutro”. Insomma, se sbagli paghi. E non è affatto detto che ad Aspi debba andare anche l’indennizzo per gli investimenti non ammortizzati (si parla di 7 miliardi): “Potrebbe essere assorbito interamente dal risarcimento dl concessionario per il danno arrecato.

Gli indagati del Morandi e le pressioni sui periti

“Una guerra. Questo incidente probatorio sarà durissimo”, aveva detto un perito all’inizio dell’inchiesta sul Morandi. E così è stato. La prova è arrivata ieri: sul tavolo della Procura è piombata una segnalazione in cui i periti del Gip denunciano di “ricevere pressioni costanti dai consulenti delle parti e di non essere sereni nello svolgimento del loro lavoro”.

Il fascicolo con la videoregistrazione dell’ultimo incontro tra periti è sulla scrivania del procuratore di Genova Francesco Cozzi. Dovranno essere esaminati tutti i passaggi, soprattutto le frasi di due periti di parte, per valutare se si possa ipotizzare un oltraggio (i periti del gip sono considerati pubblici ufficiali). In sostanza, riferisce chi era presente, i periti del Gip sarebbero stati accusati con toni piuttosto accesi di non essere imparziali e di uniformarsi a tesi altrui. Parole che per qualcuno dei presenti sono risultate “offensive” e “quasi minacciose”. Saranno i video a chiarire se si sia andati oltre una pur accesa dialettica processuale. È accaduto nella riunione del 21 dicembre.

L’atmosfera dall’inizio dell’incidente probatorio è incandescente: oltre 70 indagati, con relativi periti. Ma soprattutto una posta in gioco immensa: non soltanto condanne (sono indagate anche Aspi e Spea) e risarcimenti milionari. La partita è decisiva anche per la revoca della concessione ad Autostrade. Uno dei periti presenti definisce l’atmosfera: “Pesantissima. E non soltanto per lo stillicidio di richieste delle parti, che allungano così i tempi”. Tra i tecnici c’è chi all’uscita si sfoga: “Ci sono toni troppo duri… fanno male… io così non riesco a lavorare”.

Insomma, guerra. Non è la prima volta che accade, al di là delle dichiarazioni di fair play e di massima collaborazione. All’udienza del 4 giugno 2019 alcuni avvocati degli accusati erano arrivati a lamentare una “asimmetria conoscitiva” e uno sbilanciamento a favore dell’accusa. Ma c’era anche chi aveva abbandonato il felpato linguaggio legale invitando i pm a preservare il principio di legalità per evitare di scivolare nel “diritto penale nazionalsocialista”, in pratica quello utilizzato nel periodo nazista. Altri avevano ricordato che un pm che presenti quesiti inammissibili può essere sottoposto a procedimenti disciplinari.

Clima e atteggiamenti che avevano colpito i parenti delle vittime, come Emmanuel Diaz che nel crollo del Morandi ha perso il fratello Henry: “Il pm Massimo Terrile sta lavorando benissimo. Anche se alcuni legali sono strafottenti, sta reagendo bene, non perde mai la calma ma risponde battuta su battuta. Bisogna che si raggiunga la verità, che sia fatta giustizia. I soggetti forti di questo processo, che dispongono di miliardi, non possono schiacciare quelli deboli e senza mezzi come noi”.

E ieri Cozzi, che sta valutando la segnalazione inviata dal gip Nutini, è stato chiaro: “C’è un clima che deve essere cambiato. Serve maggiore correttezza reciproca e rispetto anche per le difese, il giudice e le vittime”.

Che il momento sia decisivo e la partita durissima lo testimonia un altro fatto: la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli ha ‘commissariato’ l’Ufficio Ispettivo Territoriale di Genova del ministero che doveva compiere controlli su tunnel e viadotti e quindi vigilare sul lavoro delle concessionarie. Alla guida quattro anni fa era stato posto Carmine Testa, che però nel 2018 era stato iscritto nel registro degli indagati. La ministra ha inviato in Liguria e Piemonte l’ingegner Placido Migliorino, quello che i dirigenti delle società indagate nelle intercettazioni definivano “il mastino” da “tenere a bada”.

E Migliorino ha già cominciato il suo lavoro: ha dato disposizione ad Autofiori (gruppo Gavio) di chiudere il casello di Altare (A6, Savona-Torino) se non fossero stati compiuti lavori. Subito gli interventi sono stati avviati. Sono stati poi accertati problemi statici su tre viadotti (tra cui il Cento) sempre della A6 (in attesa di interventi sostanziali saranno avviate modifiche del traffico), quella dove a novembre crollò un viadotto.

Migliorino ha riscontrato problemi anche su tre viadotti della A26: Fado, Pecetti e Bormida (già oggetto di indagine dei pm). Dieci viadotti sono stati esaminati. Altri sette lo saranno molto presto.

Lo strano caso dei gemelli al comizio

Le campagne elettorali sono pesanti. Le Regionali in un territorio come quello calabrese lo sono ancora di più se sei un candidato impegnato per conquistare un seggio a palazzo Campanella. Occorre il physique du rôle. O almeno un gemello che ti sostituisca a Crotone per salire sul palco del comizio accanto a Matteo Salvini. Il tutto mentre tu continui la ricerca dei voti sul tuo territorio.

Stando a quello che scrive il sito del Corriere della Calabria, la trovata “geniale” è di Leo Battaglia, candidato della Lega alle elezioni del 26 gennaio. Il leghista calabrese infatti, avrebbe sfruttato il gemello Francesco Battaglia. Per ottimizzare i tempi di una campagna elettorale troppo corta, avendo a disposizione praticamente il suo “sosia” (che tra l’altro è consigliere comunale a Castrovillari), Leo Battaglia è riuscito a dare la sensazione di godere del dono dell’ubiquità.

Un valore aggiunto rispetto agli altri candidati della Lega che il 10 gennaio non hanno potuto scegliere se rimanere nella zona del Cosentino a caccia di voti o presenziare a Crotone dove Salvini ha presentato le sue liste. Un problema che Leo Battaglia non si è dovuto nemmeno porre. E siccome al Consiglio regionale si entra con i voti e non con i selfie, all’evento di Crotone, sul palco con Salvini, il candidato Leo Battaglia avrebbe mandato il suo gemello. Sorrisi, applausi e foto di gruppo come da copione assieme agli altri candidati leghisti e al “capitano” Matteo che non si sarebbe accorto di nulla.

E per la cena? A stringere mani e parlare di politica con i commensali ci sarebbe sempre il gemello Francesco. Il tutto mentre Leo Battaglia, stando a quanto riporta il sito locale del Corriere della Calabria, “continuava la campagna elettorale sul territorio per rastrellare consensi e, magari, superare quota 2271, che nella scorsa tornata regionale non fu sufficiente ad assicurargli un posto al caldo dell’Astronave della politica calabrese”.

Già perché il candidato leghista nel 2014 si era presentato alle Regionali con Fratelli d’Italia e in quell’occasione finì al centro di una polemica perché in tutte le strade statali della provincia di Cosenza comparve la scritta “Leo Battaglia alla Regione”. Muri imbrattati e mai puliti per cui, a distanza di cinque anni, non essendoci alcun riferimento a FdI, quelle scritte adesso tornano utili al candidato.

Leo Battaglia rivendica invece la sua presenza a Crotone: “Ero io su quel palco e non mio fratello. Chi ha scritto l’articolo deve cambiare ottico. Non vedevo l’ora che arrivasse Salvini in Calabria”.