Foti: “Non fai come dico? Allora sei negazionista”

Chiunque entrava in contatto con il gruppo di Claudio Foti dopo un po’ si rendeva conto che c’era qualcosa che non tornava. Le reazioni spesso eccessive e la pretesa di infallibilità dei professionisti che ruotano intorno a Bibbiano è una costante degli atti dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Mai un dubbio. Anzi. Chi si dimostrava titubante veniva accusato di essere un “negazionista” degli abusi e poi veniva cacciato dalla chat dedicata su WhatsApp. Considerato non all’altezza della lotta contro la setta di pedofili e satanisti che si nascondeva nella Val d’Enza, e di cui a tutt’oggi non esiste traccia o prova.

Nel Reggiano si annidavano veri e propri mostri capaci di abusi irripetibili, immondi al punto da far svenire le stesse vittime minorenni con le loro violenze: era questo il leitmotiv di Federica Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali, del suo braccio destro Francesco Monopoli, assistente sociale, e di Claudio Foti, terapeuta e dominus morale del gruppo e della moglie Nadia Bolognini, psicoterapeuta. I quattro sono indagati a vario titolo di diversi reati, fra gli altri anche falsa perizia, frode processuale, abuso d’ufficio e depistaggio.

Se un professionista esterno si relazionava con uno dei quattro, per un caso di presunti abusi o affido, puntualmente veniva informato del pericolo: sempre con i telefoni spenti, lontani da occhi indiscreti e telecamere, magari in un luogo all’aperto. Diversi testimoni in questi mesi hanno raccontato della pressione paranoica subita dal gruppo, che arrivava addirittura a suggerire di cambiare percorso in auto quando si rientrava a casa per controllare di non essere seguiti. Le critiche di terzi, anche apparentemente legittime, o il consiglio di rivolgersi agli inquirenti per denunciare questa orrida realtà di sette sataniche, per gli indagati diventavano un motivo valido per escluderli dalla chat WhatsApp. O peggio, per minacciare, velatamente o meno, il non rinnovo del contratto ai precari, come avrebbe fatto Federica Anghinolfi con i suoi sottoposti.

Un film di contro-spionaggio. E proprio come su un set, il copione era sempre lo stesso: quando partiva la comunicazione dell’archiviazione di un procedimento penale, dopo pochi giorni in Procura a Reggio Emilia arrivavano nuove urgenti testimonianze del minore, contro-firmate da Nadia Bolognini. Davanti alle rimostranze di terzi per questo spezzettamento del lavoro e alla richiesta di video-registrare le sedute per avere contezza dei nuovi sviluppi, Bolognini opponeva sempre un fermo rifiuto: la telecamera lede l’intimità del rapporto con il paziente minorenne. A nulla serviva portare gli esempi di altre realtà, pubbliche o meno, di terapia videoregistrata. Bolognini avrebbe avuto in realtà paura di essere ripresa al lavoro, e magari anche di poter essere segnalata all’ordine degli psicologi. Curioso, visto che il marito Foti invece delle video sedute ne ha sempre fatto un vanto. A luglio, il fondatore della onlus Hansel & Gretel ottiene la revoca degli arresti domiciliari proprio grazie a dei filmati, circa venti ore per 15 sedute di psicoterapia.

Claudio Foti era lo psicoterapeuta incaricato dall’Asl delle sedute con la minore protagonista dei video, proseguite poi nel centro “La Cura” di Bibbiano. La madre della bambina accusò poi Foti di aver usato la figlia come “cavia” per le sue terapie, accusa respinta dallo stesso nuovamente in occasione del giudizio favorevole del Riesame. Successivamente però gli stessi filmati sono stati considerati diversamente: l’analisi fatta da un consulente tecnico della Procura di Reggio Emilia ha portato a una valutazione completamente antitetica, ritenendolo piuttosto una prova a sostegno delle ipotesi accusatorie e per questo Foti ha ricevuto il divieto di esercitare la sua attività per sei mesi.

Questa settimana i carabinieri di Reggio Emilia hanno notificato a 25 persone (compresi i quattro) l’avviso di fine indagine che di solito prelude a una richiesta di rinvio a giudizio: 107 i capi di imputazione firmati da Marco Mescolini, capo della procura reggiana, e dalla pm Valentina Salvi.

Bibbiano, Salvini vuole la piazza delle Sardine

Bibbiano, da piazza virtuale al centro della campagna social a colpi di post a pagamento diventa agorà reale, contesa dai leghisti e dalle Sardine. Giovedì prossimo, Matteo Salvini chiuderà la corsa della Lega alla carica di presidente dell’Emilia-Romagna proprio a Bibbiano, forse addirittura in compagnia della candidata Lucia Borgonzoni dopo settimane in solitaria differita. La scelta del luogo per il comizio finale non è casuale: piazza della Repubblica, di fronte al municipio del sindaco Andrea Carletti, coinvolto nell’inchiesta “Angeli e Demoni” sul presunto caso di mala gestio del sistema degli affidi in Val d’Enza. L’evento è stato annunciato a ogni tappa dell’infinito tour elettorale del senatore, ma nessuno della Lega ha prenotato, ufficialmente, la suddetta piazza. È successo anche a Casalecchio di Reno, nel Bolognese, l’altra mattina: Salvini aveva invitato i suoi sostenitori a incontrarsi al bar Dolce Lucia senza fare i conti con il titolare, avvertito solo la sera prima: porte sbarrate e niente caffè.

A Bibbiano invece sono arrivate prima le Sardine reggiane, guidate da Giulia Sarcone e Youness Warhou, informatico 25enne di origini marocchine: “Abbiamo ottenuto l’autorizzazione dal Comune il 14 gennaio scorso, poi è arrivata la Lega, ma tardi. Sono in stato di agitazione perché non possono speculare su questa vicenda come speravano”. Alla faccia degli sciacalli, come recita il manifesto dei pesciolini dedicato, che “usano Bibbiano come una clava” in riferimento al consiglio dato da Salvini ai suoi candidati emiliano-romagnoli. La storia di Davide contro Golia non prevedeva però le regole della campagna elettorale: in questi giorni, anche di fronte a una richiesta precedente temporalmente, i partiti politici avrebbero il diritto di prelazione sulle piazze. A sottolinearlo è Gianluca Vinci, avvocato reggiano, parlamentare della Lega: “Per legge, per i comizi elettorali, si possono prenotare le piazze da cinque a due giorni prima dell’evento, dunque prima del 18 gennaio non potremmo fare richiesta. Lo dice anche un protocollo tra le partiti e prefettura. Le Sardine non sono un movimento politico riconosciuto, dunque abbiamo la precedenza. La loro è una manovra ostruzionista e un’azione da bambini”. La palla rimbalza dunque alla prefettura che si riunirà con la questura e prenderà una decisione nelle prossime ore. Le Sardine sperano ancora, d’altronde Youness non è uno che si abbatte facilmente: “Sono un italiano senza cittadinanza, sognavo di fare il pilota d’aerei ma una volta diplomato nulla da fare, serve la cittadinanza italiana. Adesso faccio politica ma non posso candidarmi per lo stesso motivo. Mi sono tesserato col Partito democratico alle scorse elezioni comunali di Reggio Emilia, ma non sono attivo, volevo impegnarmi perché ho sentito forte il rischio che in città potesse vincere la Lega. Mi sono sempre battuto per le questioni in cui credo e contro le ingiustizie”. Non è un caso che tra le Sardine ci siano tanti giovani ‘non italiani’, dimenticati dai partiti e definiti da un vuoto. “Le Sardine lavoreranno sempre per portare i valori positivi dell’ascolto e del rispetto, valori che la Lega anche in questa occasione non ha saputo dimostrare. Gli interessa solo la propaganda, se la prefettura dovesse decidere in loro favore noi troveremo un altro giorno per fare il nostro flash-mob, ce lo chiedono molto bibbianesi, si sentono sporcati da questa propaganda. Ci battiamo contro la gogna in cui è stato buttato questo paese”.

In mezzo ci sono proprio loro, i poco più di 10 mila abitanti di Bibbiano. Ieri i sindaci dell’Unione Val d’Enza hanno detto la loro: “Decideranno le autorità competenti, ma chiediamo buon senso agli organizzatori, ossia a Lega e Sardine. Sarebbe meglio non ci fosse alcun comizio e alcuna manifestazione davanti al municipio di Bibbiano visto il clima che si respira. Chiediamo loro un passo indietro”. Chissà se Salvini gli risponderà o li prenderà in giro su Facebook come ha fatto con una sardina, reo di essersi ‘impappinato’. Il Capitano ha pubblicato un filmato dove lo definisce “un po’ impacciato, guardate la carica e la grinta che avevano i pesciolini e sinistri”. Il ragazzo a causa della gogna mediatica rischia di perdere clienti sul lavoro, è un venditore porta a porta. “Si sta rasentando il ridicolo, stiamo pensando di avviare provvedimenti legali”, commentano le Sardine.

Salvini per un giorno diventa anti-razzista

Per Matteo Salvini bisogna essere antirazzisti solo quando si parla di Israele. Per il resto, chissenefrega. È un po’ questo il clima che si è respirato ieri mattina alla Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, al convegno su “Le nuove forme dell’antisemitismo”, organizzato dalla Lega. Cominciamo col dire che gli invitati erano tutti della stessa linea: la destra israeliana che ha il suo eroe in Benjamin Netanyahu. C’erano l’ambasciatore israeliano in Italia Dore Gold, l’accademico inglese Douglas Murray e il ricercatore egiziano Ramy Aziz. Il tutto organizzato con l’aiuto di Fiamma Nirenstein, alla presenza della presidente del Senato, Casellati. I tre hanno sottolineato come siano due i fronti da tenere sotto i riflettori: il rigurgito antisemita in Europa e i nemici d’Israele in Medio Oriente, come l’Iran. Tutti hanno sostenuto che “gli antisemiti ormai si nascondono dietro l’antisionismo, che in questo momento storico coincidono”. Salvini, dimenticando certi suoi post contro George Soros, sul tema è netto. “I nemici di Israele sono i nostri nemici”. “Israele si può criticare, ma chi lo fa sempre in realtà vuole negare la sua esistenza”. “L’antisemitismo della destra razzista e del suprematismo bianco è nostro nemico, così come anche quello che viene da sinistra e magari strizza l’occhio all’Islam”. Il finale è decisamente trumpiano: “Per noi la capitale d’Israele è e sarà sempre Gerusalemme!”.

Peccato però che il leader della Lega dimentichi l’antisemitismo e il razzismo che albergano nel suo partito, i diversi esponenti locali provenienti dall’estrema destra e i movimenti con cui la Lega dialoga, come CasaPound e Forza Nuova. Ultimi episodi, gli insulti di Riccardo Rodelli, segretario della Lega a Lecce, a Liliana Segre: “Una nonnetta mai eletta”. O il sindaco leghista di Biella, Claudio Corradino, che le ha negato la cittadinanza onoraria. Due mesi fa la Lega si è astenuta sulla nascita della commissione sul razzismo presieduta dalla senatrice reduce da Auschwitz. Ieri Salvini l’aveva invitata, ma Segre ha declinato, mandando un messaggio: “Ritengo che non si debba mai disgiungere la lotta all’antisemitismo dalla più generale ripulsa del razzismo e del pregiudizio che cataloga le persone in base alle origini e alle caratteristiche fisiche, sessuali, culturali o religiose”. Razzismo cui Salvini non è immune, vista la condanna per aver violato la legge Mancino a una multa di 5.700 euro per la canzoncina sui napoletani a una festa della Lega: “Senti che puzza, scappano anche i cani…”. I cronisti in sala gli fanno notare sia i legami con la destra razzista e antisemita, sia le sue politiche verso gli immigrati. “La Lega non ha rapporti, né mai ne avrà con certi movimenti”. E poi: “Fermare i barconi e l’immigrazione selvaggia non è razzismo. Da Segre sono disposto e prendere lezioni, da Carola Rackete no”.

Gregoretti, sulla data del voto su Salvini ora deciderà la Giunta del Regolamento

Questa mattina la Giunta per il regolamento del Senato è convocata per decidere. Perchè non è bastato interpellare la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati per sapere quali siano le regole di Palazzo. E cioè se la sospensione dell’attività parlamentare disposta dalla conferenza dei capigruppo all’unanimità nei giorni dal 20 al 24 gennaio, in vista delle elezioni regionali, valga anche per la Giunta per le autorizzazioni a procedere. La stessa Giunta che, prima della capigruppo in questione, aveva fissato al 20 gennaio la data del voto sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini, accusato dai magistrati di Catania di sequestro aggravato di persona per la gestione dei migranti a bordo della Nave Gregoretti a luglio scorso.

Il fatto è che la maggioranza crede che Casellati fosse in grado di prendere una decisione autonomamente già due giorni fa, quando le era stato fatto presente che la data stabilita per il voto in Giunta era in conflitto con la pausa pre-elettorale disposta per tutti gli altri senatori. Ma anche che l’indisponibilità del presidente della stessa Giunta, Maurizio Gasparri, a concedere un’integrazione dell’istruttoria sul caso Salvini rischia di menomare la capacità di decidere sulla richiesta di autorizzazione.

Insomma per la maggioranza, senza dover interrogare la Giunta per il regolamento, Casellati avrebbe dovuto semplicemente cancellare la convocazione del 20. Cosa che la presidente non ha fatto, salvo poi rimettere la questione interpretativa ad un altro organo per allontanare da sè l’accusa di voler in qualche modo favorire Salvini, il quale pretende che il Senato decida al più presto se mandarlo a processo in modo da potersene avvantaggiare il 26 gennaio alle urne.

E così ieri, quando si è sparsa voce che Casellati e Salvini si erano intrattenuti a pranzo a Palazzo Giustiniani, la dimora della presidente dove il leghista ha organizzato un convegno, è arrivata la smentita ufficiale. Poco più tardi Casellati ha poi deciso di accogliere la richiesta che fosse ripristinato l’equilibrio numerico tra maggioranza e opposizione in Giunta per il regolamento, dove stamattina si dovrà dirimere la questione: ne sono state chiamate a far parte Lorendana De Petris di LeU e Julia Unterberger del gruppo delle Autonomie, come chiede la maggioranza, che non è comunque soddisfatta. Il capogruppo dem Andrea Marcucci ribadisce il punto: l’unico calendario che vale è quello stabilito dalla conferenza dei capigruppo, che è sovrana.

Gli agit-prop del voto in cerca di popolo bue

Che differenza passa tra Matteo Salvini che comizia in quel di Bibbiano per scaricare sul Pd di Stefano Bonaccini lo scandalo dei “bambini rubati”? E il medesimo Pd che vorrebbe rinviare il voto sulla Gregoretti per non alimentare il vittimismo elettorale dell’ex ministro? Sono la stessa cosa: l’uno e gli altri ritengono che il 26 gennaio andrà al voto qualcosa di simile a un popolo bue, una massa cioè di individui ottusi privi di capacità critiche e facilmente influenzabili.

Profuma d’idiozia questa storia dell’elettore con l’anello al naso che sbarra la scheda elettorale in base all’ultima trovata agit-prop. Come gli indigeni di quelle tribù che nei fumetti adorano l’esploratore che spaccia perline. Ricorda le insopportabili diatribe sulla giustizia ad orologeria, ogniqualvolta il politico di turno veniva indagato da qualche procura, e guarda caso proprio alla vigilia di un voto e nel Paese dove non si fa altro che votare. Quando invece spesso era il povero inquisito a usare l’avviso di garanzia per effigiare il proprio martirologio gratuito ad opera delle perfide toghe rosse. Esattamente come oggi Salvini voglioso di calendarizzare prima del voto in Emilia il processo davanti alla Giunta del Senato. Con i partiti di governo che invece di inchiodarlo alle proprie responsabilità per il mancato sbarco di 131 migranti dalla nave militare italiana, si mostrano tremebondi temendo contraccolpi sull’imminente consultazione. Come avvenne nella vigilia elettorale del marzo 2018 quando il centrosinistra si rimangiò la legge su ius soli e ius culturae temendo di perdere voti a favore della destra. Cosa che puntualmente avvenne: la beffa oltre il che danno.

A parti rovesciate è ciò a cui si assiste con il caso Bibbiano dove l’ex capitano intende realizzare l’ultimo spottone a chiusura del tour elettorale. Come se i cittadini emiliano-romagnoli avessero bisogno di questo circo sulla pelle degli innocenti per farsi un’idea sull’orrenda vicenda. Anzi, com’è del tutto naturale un uso tanto strumentale delle disgrazie altrui sta producendo reazioni controproducenti tra gli stessi abitanti del comune. Stufi, leggiamo nelle cronache, di tanto fango.

Soltanto l’ignoranza crassa di certi leader impedisce loro di rendersi conto che il corpo elettorale non ha bisogno di imbonitori per farsi un’idea dei valori in campo, e di scegliere di conseguenza.

Nell’epoca dell’informazione compulsiva credono di vivere ancora nel Dopoguerra quando le nonnine chiedevano al prete per chi votare e sui manifesti della Dc c’era scritto che nel segreto della cabina elettorale “Dio ti vede, Stalin no”. Quanto all’alta percentuale di incerti registrata in Emilia-Romagna dagli ultimi sondaggi, possono esserci le spiegazioni di sempre. Persone che non vogliono rivelare le proprie intenzioni di voto. O che non hanno deciso se recarsi ai seggi o restare a casa. Ma davvero potrebbero essere decisivi questi presunti indecisi che tra dieci giorni dovessero correre come frecce a votare Borgonzoni? O perché illuminati improvvisamente dalla persecuzione giudiziaria subita dell’uomo del mojito o per far scontare a Bonaccini e Zingaretti l’inchiesta “Angeli e demoni”?

Via non scherziamo. Dopo l’imprevista ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca fu chiesto a un columnist del New York Times come mai la grande stampa americana non avesse affatto previsto la vittoria del tycoon. Semplice, fu la risposta, perché gli elettori ne sanno più di noi. Appunto.

La sconfitta della Lega: la Consulta dice no alle urne “maggioritarie”

La Consulta ha deciso ieri pomeriggio: il referendum per passare al maggioritario proposto dalla Lega tramite le otto Regioni guidate dal centrodestra non è ammissibile, ma bisognerà aspettare le motivazioni per capire invece se questa sentenza costituisce una pietra tombale sulle consultazioni in materia elettorale (il rischio c’è). Senza sorprese, invece, le reazioni: festeggia la maggioranza giallorosa, avviata sulla strada del proporzionale, mentre la Lega (ma non Giorgia Meloni) reagisce coi toni grossier della propaganda, che finiscono però per illuminarne la cultura sostanzialmente a-costituzionale. Intanto i fatti. Il quesito referendario – materialmente assemblato da Roberto Calderoli, chirurgo maxillofacciale e già padre dell’incostituzionale Porcellum – era stato presentato da otto Consigli regionali a maggioranza di centrodestra: Veneto, Piemonte, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Abruzzo, Basilicata e Liguria. L’oggetto era l’abolizione – nelle leggi elettorali di Camera e Senato – della quota di seggi (due terzi del totale) assegnata col proporzionale nel cosiddetto “Rosatellum”: ne sarebbe derivato, sostanzialmente, un sistema maggioritario all’inglese, collegi uninominali in cui risulta eletto il primo classificato (un sistema simile, il vecchio Mattarellum, fu in vigore dal 1993 al 2005, ma alla Camera conservava una quota proporzionale). Come detto, la Corte costituzionale ha dichiarato – con maggioranza “solida e ampia”, ma non all’unanimità – inammissibile il quesito di Calderoli: non ci sarà alcun referendum.

A questo punto va chiarito su cosa hanno deciso i giudici delle leggi. Non certo sulla costituzionalità del sistema uninominale maggioritario: in questa fase la Consulta non si occupa della eventuale costituzionalità della legge elettorale che verrebbe fuori da un ipotetico successo dei referendari, ma solo dell’ammissibilità del quesito. In attesa delle motivazioni, che saranno depositate entro il 10 febbraio, la Corte ha già dato una prima indicazione: “La richiesta è stata dichiarata inammissibile per l’assorbente ragione dell’eccessiva manipolatività del quesito referendario”. Per capire, a questo punto, serve entrare un po’ nei dettagli. Per la giurisprudenza costituzionale un referendum elettorale deve sempre, tra le altre cose, “garantire l’autoapplicatività della normativa di risulta”: il Paese, insomma, deve essere sempre in grado di andare a votare e quindi il referendum deve produrre una legge pronta all’uso.

E qui veniamo al quesito. Il testo di Calderoli interveniva su quattro leggi per creare un sistema uninominale maggioritario, ma gli restava un problema: il referendum non avrebbe prodotto il ridisegno dei collegi necessario a rendere la legge funzionante. Il problema era stato risolto, secondo i proponenti, agganciando il quesito alla legge delega 51/2019 che – in caso di elezioni anticipate successive all’entrata in vigore del taglio dei parlamentari – assegnava al governo il compito di riscrivere i collegi del Rosatellum secondo i nuovi numeri. E qui c’è quel che non torna: la delega, come la decretazione d’urgenza, è strumento da usare con cautela visto che il Parlamento rinuncia al potere legislativo a favore dell’esecutivo; nel 2019 le Camere avevano delegato il governo appunto a ridisegnare i collegi del Rosatellum e solo se il Parlamento non avesse fatto in tempo e solo in caso di entrata in vigore del taglio dei parlamentari (riforma che deve ancora passare un referendum confermativo). Insomma, la delega non era certo a completare la legge di Calderoli: stiracchiare una procedura legislativa delicata fino a cambiarne il fine è probabilmente parso illegittimo alla Corte e quindi è arrivata l’inammissibilità per “l’assorbente ragione” (cioè quella più importante) di “eccessiva manipolatività del quesito”. Stesso parere di un soddisfatto Federico Fornaro, capogruppo di Leu che si era costituito alla Consulta contro il quesito: “Aspettiamo le motivazioni ma era evidente la non immediata applicabilità” della legge che sarebbe nata dal referendum.

Chiarito questo, e cioè che la bocciatura del referendum era esito prevedibile, sarà più facile apprezzare – per così dire – la qualità delle reazioni politiche. La maggioranza, come detto, festeggia lo scampato pericolo e rilancia il sistema proporzionale con sbarramento al 5% (e diritto di tribuna per i piccoli) proposto dal grillino Giuseppe Brescia.

Matteo Salvini, invece, la mette così: “È una vergogna, è il vecchio sistema che si difende: Pd e 5 Stelle restano attaccati alle poltrone. Ci dispiace che non si lasci decidere il popolo: così è il ritorno alla preistoria della peggiore politica italica”. In serata, da un palco calabrese, s’avventura addirittura sul “furto di democrazia”. Riassumendo: sentenza politica, il popolo (?) è stato silenziato e ora si torna alla Prima Repubblica. I commenti dei leghisti seguono questa traccia, variamente declinata.

Non sono questi, però, i toni scelti dall’alleata-concorrente Giorgia Meloni, che trova un altro fronte per distanziarsi dal leghista: “La bocciatura del referendum per il maggioritario era prevedibile sia per l’aspetto politico non gradito alla sinistra, e quindi sgradito alla maggioranza della Consulta, sia per la natura tecnica del quesito a nostro avviso corretto ma obiettivamente al limite del consentito. Ottima l’intenzione, ma quasi inevitabile l’esito tecnico-politico”. Posizione che, al di là della preferenza di Fratelli d’Italia per il maggioritario, appare equilibrata pure nel ricordare la natura (anche) politica della Corte.

Voce del verbo cuccare

Da quando è nato il partito-ossimoro Italia Viva, abortito ancor prima del parto, tutti si domandano che senso abbia, chi ne sentisse la mancanza e chi mai lo voterebbe. Ora però che la sventurata creaturina ha compiuto tre mesi di vita (anzi di morte), la risposta ai tre quesiti è chiara a tutti: siccome la politica è di una noia mortale, Iv serve a farci divertire un po’. Ha funzioni di svago, come i giullari nelle corti reali. Il primo partito che unisce l’inutile al dilettevole. Il capocomico è Renzi, che si sta impegnando allo spasimo per scendere nei sondaggi dal 3 allo zero per cento e, per quanto ardua sia l’impresa, ce la può fare. Per lui la politica è come il tressette, dove chi ha più punti perde e chi ne ha meno vince. Infatti, non bastando la sua faccia, pur utilissima come sfollagente, ci mette pure le parole: ogni volta che apre bocca, se ne vanno 10 mila elettori. L’altro giorno, per dire, ha dichiarato che Craxi era “un gigante” e fu “condannato perché non poteva non sapere”. Una minchiata che ormai non osano ripetere nemmeno i figli di Craxi. Figurarsi l’entusiasmo dei suoi eventuali elettori, in un Paese che si beve di tutto, persino che B. era un perseguitato (tesi ovviamente sostenuta anche da Renzi per le accuse di mafia e strage), ma almeno i ladroni di Tangentopoli non li ha mai perdonati, specie se latitanti.

Tre giorni fa, con mirabile scelta di tempo, Renzi ha dipinto il sindaco Pd di Bibbiano come un perseguitato solo perché la Cassazione aveva annullato le sue misure cautelari (piuttosto blande: arresti domiciliari e obbligo di dimora, mai il carcere): un minuto dopo la Procura di Reggio ha depositato gli atti dell’indagine, confermando e anzi rincarando le accuse. Che solo in minima parte riguardano il sindaco e in massima parte la galleria degli orrori di una terrificante setta di presunti assistenti sociali e sedicenti psicologi protetti dal “sistema Emilia” che rubavano i bambini ai genitori inducendoli ad accusarli di abusi inesistenti con ogni sorta di violenza psicologica. Se il sindaco tenuto a casa per qualche settimana è un martire, cosa sono quei poveri padri, madri e bambini? Poi, l’altroieri, il capolavoro: il voto di Iv alla controriforma della prescrizione del forzista Costa, a braccetto con FI, Lega e FdI che ha battezzato l’ingresso trionfale dei renziani nel centrodestra. Per giunta gratis, visto che la legge Costa è stata bocciata comunque, relegando i renziani al rango di pelo superfluo della politica italiana. Ora però, senza offesa per il Cazzaro di Rignano, il suo primato di cialtroneria è insidiato da una nuova stella che brilla nel firmamento italo-vivo.

È il senatore Giuseppe Luigi Salvatore Cucca, avvocato cassazionista di Nuoro. Entrato in Parlamento nel 2013 col Pd e ora trasmigrato in Iv, non ha lasciato nelle cronache alcuna traccia di sé, fuorché per una meritoria impresa: nel maggio del 2016 firmò con l’ex pm Felice Casson un emendamento che tagliava drasticamente la prescrizione, prima delle indagini e dopo il processo di primo grado. In pratica, la aboliva. Già, perché il Pd, allora guidato dal segretario Matteo Renzi, voleva bloccarla addirittura alla richiesta di rinvio a giudizio, o al massimo al rinvio a giudizio. Il 18 febbraio 2015 il capogruppo in commissione Giustizia, Giuseppe Lumia, aveva fatto mettere a verbale testuali parole: “La posizione ufficiale del Pd è che la prescrizione deve cessare di decorrere dopo l’emanazione del decreto di rinvio a giudizio”. E nessuno s’era adontato, sostenendo magari che così il processo diventa eterno e si viola la Costituzione (queste stronzate le dicevano Schifani, ancora in Ncd, e i forzisti). Infatti tutti i senatori pidini che si occupavano di giustizia, da Casson a Cucca, dalla Capacchione a Lo Giudice, dalla Cirinnà alla Filippin alla Ginetti, avevano firmato emendamenti fotocopia. Poi, il 26 maggio 2016, per non urtare troppo alfaniani e verdiniani, si era optato per il blocco alla sentenza di primo grado. Ma con un formidabile freno anche in fase d’indagine, facendo decorrere la prescrizione non più dalla consumazione, ma dalla scoperta del reato.

Sentite che meraviglia. Comma 1: “La prescrizione cessa comunque di operare dopo la sentenza di primo grado”. Comma 2: “Il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la notizia di reato viene acquisita o perviene al pubblico ministero”. Firmato: “Casson e Cucca”. Roba che, al confronto, la legge Bonafede è acqua fresca. Infatti i 5Stelle si affrettarono ad applaudire e ad annunciare voto favorevole, pur preferendo l’alt al rinvio a giudizio. Alfaniani e verdiniani alzarono le barricate insieme ai forzisti, Cucca fu costretto a ritirare la firma dal suo doppio emendamento e non se ne fece più nulla (la riformicchia Orlando della prescrizione era, appunto, il nulla). Dopodiché, un anno fa, la maggioranza giallo-verde approvò la riforma Bonafede che copiava il comma 1 della norma Casson-Cucca, ma non il 2, e ammorbidiva di parecchio quella che ancora nel 2015 era “la posizione ufficiale del Pd”. Ma il Pd votò contro insieme a FI. E il pidino Cucca, con faccia tosta ai limiti dell’autofagia, tuonò: “Sulla prescrizione si fanno errori che puniscono tutte le parti in causa nel processo, con rischi di incostituzionalità”. Errori e rischi che, ove mai fossero fondati, sarebbero identici a quelli della legge firmata da lui. Ora il renziano Cucca partecipa ai vertici di maggioranza in quota Iv, assieme alle onorevoli avvocate Boschi e Annibali. E chiede, pancia in dentro e petto in fuori, di riesumare la vecchia prescrizione plenaria che solo quattro anni fa il pidino Cucca e il suo partito volevano cancellare molto più drasticamente della legge Bonafede. Resta a questo punto da stabilire che differenza passi fra un senatore renziano e un giullare.

“Colpa di Amazon”: chiude la seconda libreria più antica

“Questo è il prezzo che si paga a essere librerie indipendenti: i ricavi coprivano a malapena i costi, non era più sostenibile”: con queste parole Nadia e Sonia, titolari della storica libreria Paravia di Torino, la seconda più antica d’Italia, hanno annunciato l’abbassamento delle saracinesche. “Colpa di Amazon”, hanno ammesso. Nelle scorse settimane era toccato anche a due Feltrinelli di Roma. L’Associazione italiana librai denuncia la chiusura di 2300 esercizi in cinque anni e da agosto scorso giace in Senato il dl Lettura, che andrebbe soprattutto a regolamentare, riducendola, la scontistica applicata dal colosso dell’e-commerce. In un Paese che legge sempre meno, può bastare questo a salvare il patrimonio librario? Lo abbiamo chiesto a Romano Montroni e Giuseppe Laterza.

 

L’intervista/1  Romano Montroni – Centro per il libro
“È un mondo piccolo e rissoso: cambiamo anziché lamentarci”

Romano Montroni, lei che è presidente del “Centro per il libro” come giudica la chiusura di Paravia: un punto di non ritorno o è nell’ordine delle cose?

Siamo in un secolo diverso: i libri sono sempre libri, ma la quantità non è più un valore, rispetto a un concorrente – Amazon – che ha 600 mila titoli. Bisogna lavorare su altro: i librai devono essere formati e competenti e la libreria diventare un luogo di promozione, qualità e incontro, un presidio culturale del territorio. Bisogna creare un’atmosfera cordiale, non standardizzata né morta. Le librerie storiche non sempre hanno questo tipo di atteggiamento. Eppure l’ambiente è fondamentale, così come quella cosa che non si trova su Internet: la relazione umana.

Voi librai non vi sentite dinosauri nel momento dell’estinzione?

No, senza librai sparirebbe pure il libro, che, disse Eco, è come la forchetta, o la ruota: quando mai si cambia? Bisogna cambiare il modo di essere librai: né commessi né santoni. Oggi i migliori sono giovani e lavorano in provincia.

La categoria dovrebbe fare un mea culpa, insomma.

In parte sì: i librai non possono non essere ottimisti per cercare di guadagnarsi quel poco che c’è. È come lo skipper: quello bravo va in mare anche con un refolo di vento.

Il discrimine per il cliente però è spesso economico, non umano.

Concordo, ma anche questo ostacolo può essere superato: prima gli sconti arrivavano al 40 per cento, ora al 15… Ma un certo tipo di librerie sopravvive comunque.

È favorevole all’ulteriore abbassamento al 5 per cento (la legge è ferma in Senato, ndr)?

Totalmente. In Germania non esistono sconti.

I grandi editori si oppongono…

Sconti o no, sono anni che il mercato non cresce, e ci guadagnano solo i forti editori contro le piccole librerie. Ma se vivi in una zona di guerra ti lamenti perché sparano o cerchi di non essere ucciso?

Il vostro è un piccolo mondo rissoso. Forse il nemico sono le lotte intestine prima di Amazon.

Sì, ma la conflittualità esiste soprattutto in ambienti in cui il livello culturale è più alto. Però non lamentiamoci. Hai freddo? Ti vesti.

 

L’intervista/2  Giuseppe Laterza – L’editore
“Sono luoghi sociali e per questo devono essere sostenuti”

Giuseppe Laterza, dopo le due Feltrinelli a Roma, ha chiuso anche la Paravia a Torino. L’Associazione librai lancia l’allarme. È una catastrofe?

No, è un fenomeno che coinvolge tutti i settori. Le vendite online hanno ridotto fortemente il commercio su strada. Vale per le ferramenta, per le scarpe e pure per i libri.

Quindi è colpa di Amazon?

Cominciamo col dire che bisogna regolamentare il commercio online. Amazon, ma come Uber, come AirBnb, devono pagare le tasse e i Paesi europei devono uniformare le loro legislazioni fiscali. Però è evidente che sono difficilmente opponibili le comodità del commercio online: il magazzino, per esempio – lo dico da editore di catalogo – ma anche la consegna nei luoghi più sperduti del Paese.

Di fronte a queste caratteristiche per le librerie non c’è speranza.

Invece sì, ragionando in termini di diversificazione. Prima di tutto io da consumatore non mi fido di chi mi assicura di trovare tutto. Il Grande Fratello non lo voglio, anche se è il migliore. E nulla può sostituire il suggerimento di un libraio, sicuramente non un algoritmo.

E poi?

Operando una sorta di rivoluzione culturale. Le librerie sopravvivono se diventano luoghi sociali, in cui condividere un’esperienza, un libro. Il tema non è leggere, ma discutere. Ognuno di noi è immerso nel suo telefonino, eppure i festival o le nostre Lezioni di storia sono affollatissimi. Gli stessi librai devono inventarsi nuove forme di aggregazione, dentro e fuori dai propri negozi. Cominciamo a equiparare le librerie ai teatri.

Tutelandole allora con un contributo pubblico?

Non vedo perché il cinema e il teatro debbano godere dell’aiuto statale e le librerie no.

Eppure il dl Lettura giace da agosto in Senato.

Quello interviene sulla scontistica, però. Ed è un’illusione pensare che ridurre lo sconto metta i librai al riparo da Amazon.

 

Scrivere secondo Arbasino

“La necessità dello scrivere diverso, che alla coerenza del senso preferisce il rumore del mondo”. Così Angelo Guglielmi nel rievocare l’esperienza del Gruppo 63, condivisa a suo tempo con Alberto Arbasino.

Lo scrittore lombardo compirà 90 anni mercoledì prossimo e Guglielmi – critico letterario che i 90 li ha festeggiati lo scorso aprile – racconta al Fatto la parabola di un amico la cui voce “si è spenta”. Arbasino scrisse: “In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di giovane promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro”. Per stare alla sua stessa dissacrante etichetta, il nostro venerato maestro nasce a Voghera nel 1930 e trascorre un’infanzia “di guerra e di merda nelle campagne lombarde” per poi finire col mettere piede in ogni angolo del mondo e diventare un intellettuale cosmopolita. Romano d’adozione, frequenta negli anni 50 e ’60 quasi tutte le personalità della cultura e dello spettacolo tanto da ricavarne una sterminata antologia di ritratti, sempre sul filo di uno snobismo sottile. Un letterato tanto atipico e lontano dai clichè che la sua biografia contempla persino la conduzione televisiva.

Da ricordare almeno la trasmissione Match nel 1977 e una memorabile puntata che vide contrapposti Monicelli e un giovane Nanni Moretti. Un inclassificabile che ha sempre licenziato opere tanto innovative che persino la critica più militante si è dovuta arrendere, soverchiata dal suo genio di auto-esegeta. Da L’anonimo lombardo, romanzo epistolare con apparato di note, a La bella di Lodi, parodia di una storia da rotocalco da cui il film con protagonista Stefania Sandrelli, a Fratelli d’Italia, romanzo-conversazione che Raffaele Manica ha definito “enciclopedia della modernità”, a Super-Eliogabalo, testo surreale e a frammenti con infinite liste nominali su un moderno imperatore.

Non c’è nulla nell’opera di Arbasino che vanti una qualche parentela con altri autori di casa nostra. Questa fame di sperimentazione, di sovvertimento dei canoni, di insofferenza per il già visto, non poteva che trovare facile approdo in quella “rivoluzione di carta” che fu il Gruppo 63.

È vero che forse si ricorda la neoavanguardia solo per la taccia sprezzante di Liale con la quale bollò Bassani e Cassola, ma tocca riconoscere che da quella stagione di rottura uscirono autori che hanno contrassegnato la nostra storia letteraria, da Eco a Sanguineti, da Manganelli a Balestrini, fino appunto a Arbasino. L’esigenza di un “altrove” è suggellata dall’uscita, proprio quello stesso anno, nel 1963, di Fratelli d’Italia, la cui eredità, puntualizza ancora Guglielmi, “vive in Celati e in Tondelli, che riconobbe di avere tradotto il parlato in letteratura leggendo proprio Arbasino”.

“Oggi gli scrittori italiani cedono all’autobiografismo che altro non è se non il riparo di chi non sa che cosa sia scrivere” tuona Guglielmi e aggiunge: “È il limite di chi non sa che aggrapparsi alla propria soggettività e raccontarci le proprie vicende private”. La singolarità irriducibile di Arbasino resta sempre come scomoda pietra di paragone. “Che dire della celebre Gita a Chiasso?” si interroga Guglielmi e come appunto non ricordare quel celebre articolo in cui Arbasino invitava i nostri intellettuali a fare una gita “a due ore di bicicletta da Milano per sprovincializzarsi”.

I vizi del letterato italiano medio, sembra suggerire il critico, non sono più ravvisati nemmeno come tali. Se tanti altri scrittori sono immersi in un conformismo di categoria, ecco la battaglia costante di Arbasino contro le ideologie e i tic linguistici, contro la retorica e l’omologazione. Se tanti altri scrittori non osano oltrepassare l’asticella del romanzo canonico, ecco la capacità camaleontica di Arbasino di assorbire tutti i generi e di rielaborarli in uno stile personalissimo e inimitabile. Tutti i materiali – diari lettere conversazioni reportage – toccati dalla penna di Arbasino confluiscono in una “lingua-mondo come oggetto d’arte”.

Angelo Guglielmi ribadisce: “Fratelli d’Italia e prima ancora i racconti di Le piccole vacanze mostrano una scrittura nuova, precipitosa e anche slabbrata, ricca di odori sgradevoli e di rumori molesti. La natura del romanzo è oggettiva, è parlare di altro e di altri inventando una scrittura”. In effetti Arbasino, nipotino di Gadda, dalla lunga frequentazione con l’Ingegnere in blu ha ereditato l’ossessione patologica per la lingua, per una scrittura totalizzante. Arbasino è notoriamente l’autore che ha trasformato la sua bibliografia in un perenne work in progress, macerando le sue pagine di continue aggiunte e di riscritture.

Guglielmi ricorda quando taluni detrattori lamentarono l’oscurità dei pezzi di Arbasino su Repubblica. “Scalfari prese le sue difese, asserì che di ciò che scrivono i grandi scrittori gli unici responsabili sono loro stessi”.

Vero, perché la letteratura di Arbasino “non comunica, esiste. Fa concorrenza al mondo”.

Noiosi&uguali, lo show Dem lo vince Trump

I dibattiti televisivi tra i candidati democratici alle Presidenziali 2020 sono diventati un format tv sempre più noioso. Non hanno gran senso politico, come hanno capito gli spettatori dell’ennesimo confronto di martedì sera a Des Moines, in Iowa, il primo Stato dove si vota alle primarie, il 3 febbraio.

Finalmente c’era un numero ragionevole di sfidanti sul palco, soltanto sei (invece che dieci o undici), finalmente una scadenza elettorale. E invece niente, tutto inutile. Gli opinionisti del New York Times non riescono a decidere chi ha vinto, il sito di analisi elettorali Five Thirty Eight non registra alcun vero cambiamento nei sondaggi. Perché i candidati Dem sono diventati come i personaggi dei talk show italiani: ognuno gioca il suo ruolo, gli spettatori aspettano le stesse battute, le medesime gag. Nessuno emerge come il vero sfidante di Donald Trump.

Joe Biden non riesce a completare una frase senza incespicare, si avvia verso i 78 anni e offre argomenti a chi dubita della sua tenuta fisica e mentale. Alla prima domanda deve giustificare il suo voto in favore della guerra in Iraq nel 2003. Eppure Biden resiste, primo nei sondaggi nazionali con il 27,2 per cento e primo in Iowa con il 20 (alla pari con Bernie Sanders). Perché conta su una parola magica: “Obama”. Ogni volta che ricorda agli elettori di essere stato il vicepresidente del suo amico “Barack”, i dubbi svaniscono. E in una corsa rimasta senza afroamericani o latinos, è l’argomento più efficace per cercare il voto delle minoranze. Sul fronte radicale è arrivato il momento tanto atteso: Elizabeth Warren e Bernie Sanders hanno avuto il primo scontro, non ci sarà spazio per sempre per due candidati che puntano allo stesso bacino di giovani, classe media delusa ed elettori in cerca di proposte drastiche.

La Cnn ha rivelato che a dicembre 2018, mentre entrambi si preparavano alla campagna presidenziale, Sanders avrebbe detto di non credere che una donna possa diventare presidente. I dettagli restano fumosi, ma la Warren ha confermato e durante il dibattito ha usato per la prima volta la carta del genere: “Gli uomini su questo palco hanno perso dieci elezioni, le sole persone che hanno vinto ogni singola competizione sono due donne”. Lei e Amy Klobuchar, la senatrice del Minnesota che un po’ a sorpresa è l’unica rimasta dei candidati di seconda fila, insieme al miliardario ambientalista Tom Steyer che usa la sua fortuna (accumulata con petrolio e carbone) per pagarsi la campagna. Eppure lo stallo tra Warren e Sanders prosegue: il dibattito tv si è avvitato, come tutte le altre volte, sulla riforma del sistema sanitario. E le differenze tra i piani dei due candidati radicali sfuggono alle masse: l’impressione generale è che la loro richiesta di meno mercato e più Stato porterà a maggiori tasse per la classe media e meno servizi. Impressione quasi certamente infondata, ma gli americani sono terrorizzati da ogni cambiamento nel loro pur costosissimo e inefficiente sistema. Lo stallo dura anche tra i moderati: Pete Buttigieg, il giovane sindaco gay, bianco, conservatore, ex soldato, ex Harvard ed ex McKinsey è terzo nei sondaggi in Iowa.

Ma non riesce a emergere come volto centrista del partito. Nessuno ricorda mai cosa abbia detto esattamente in questi dibattiti, restano il sorriso affettato e la cravatta blu elettrico. Amy Klobuchar è una Warren più moderata, con maggiore esperienza politica. E alla Warren ora ruba anche gli slogan, come l’ormai celebre “I have a plan”.

Sullo sfondo c’è il miliardario Michael Bloomberg, nei sondaggi nazionali ancora basso (6,6 per cento), ma che continua a comprare spazi pubblicitari in tv in vista del super tuesday di marzo, quando si decideranno le primarie in 14 Stati. Difficile che possa essere lui a salvare un partito ancora senza un leader credibile, che comincia a rassegnarsi alla possibile seconda vittoria di Trump, visto che l’economia regge e la Borsa tocca ogni giorno nuovi record.