Referendum. Dimissioni. Un nuovo premier. È successo ieri in Russia dopo un discorso alla nazione di Vladimir Putin, che tutti si aspettavano uguale a quello dell’anno scorso in una giornata che a Mosca nessuno aveva previsto. Più potere al Parlamento. Putin ha proposto ieri un referendum per le riforme costituzionali – l’ultimo risale al 1993 – che permetteranno alla Camera di designare il primo ministro e ai deputati della Duma di confermare la candidatura del premier, che poi porrà al vaglio del Parlamento i nomi del suo governo.
Chi pensava che Putin modificasse la legge dello Stato eliminando il limite dei due mandati consecutivi per poter essere eletto per un terzo quando avrà 71 anni nel 2024, si sbagliava. Il referendum per il momento “non è questione all’ordine del giorno”: con una frase che ama usare spesso alle conferenze stampa non ha concesso altri dettagli il fedele e baffuto portavoce del presidente, Dimitry Peskov, che però ribadisce quanto il presidente “ritenga necessario che il popolo venga consultato”. Potrà diventare presidente della Federazione chi “ha vissuto almeno 25 anni in Russia e non ha altre cittadinanze”.
Tre ore dopo il discorso di Putin, Medvedev decide di annunciare le sue dimissioni insieme a quelle del suo governo in diretta tv. “Quando queste modifiche costituzionali verranno adottate, ci sarà più bilanciamento dei poteri, dobbiamo dare l’opportunità al presidente di prendere le decisioni necessarie, il governo della Federazione ha fatto la mossa giusta a dimettersi”, ha motivato Medvedev alle telecamere sbalordite.
Il vecchio delfino, a volte imprevedibile ma sempre fidato, un’ombra politica mai scura ma sempre trasparente, mai minaccioso per il potere del capo, se ne va silenzioso. Il suo futuro sembra avere la sagoma della carica da vice capo del Consiglio di Sicurezza che Putin ha pensato di assegnargli. “Ne ushel, a ego ushli”: Medvedev non è andato via, l’hanno mandato via, replicano sulle chat i redattori di Mosca agli interrogativi di colleghi stranieri, chiosando che la mossa di Putin non è abbandono del potere, ma solo transizione in vista di una nuova metamorfosi e nuove cariche che creerà per sé ad hoc.
“Complimenti per i risultati raggiunti finora, non tutto è stato fatto, ma niente riesce sempre completamente”. Quando si alzano dal tavolo marrone dove tutti i ministri uscenti hanno la testa bassa e nessun sorriso, le due maggiori cariche della Federazione, con alle spalle quattro tricolori russi, si stringono velocemente la mano in giacca e cravatta. Putin ne ha una rossa, Medvedev una nera. Si guardano negli occhi solo per un attimo prima di allontanarsi in direzioni diverse. Sono questi “gli ultimi minuti del governo Medvedev” titola Vedomosti, che come tutti gli altri quotidiani moscoviti è stato colto di sorpresa dalla svolta, ma è un titolo che viene oscurato subito da un altro poche ore dopo. Mentre si azzardano ipotesi sul nuovo premierato – qualcuno era certo della nomina di Sergey Sobjanin, sindaco di Mosca, o Maksim Oreskin, ministro dell’Economia –, la proposta di Putin è ricaduta sul direttore del polveroso settore tributario federale, Michail Mishustin. Occhialuto e calvo, Mishustin, proprio come Medvedev nel 2008, è un volto sconosciuto. Assolutamente sconosciuto era anche il premier nominato da Eltsin nel 1999 che l’anno successivo divenne presidente: Vladimir Putin.