Addio Medvedev: adesso Putin si allunga il potere

Referendum. Dimissioni. Un nuovo premier. È successo ieri in Russia dopo un discorso alla nazione di Vladimir Putin, che tutti si aspettavano uguale a quello dell’anno scorso in una giornata che a Mosca nessuno aveva previsto. Più potere al Parlamento. Putin ha proposto ieri un referendum per le riforme costituzionali – l’ultimo risale al 1993 – che permetteranno alla Camera di designare il primo ministro e ai deputati della Duma di confermare la candidatura del premier, che poi porrà al vaglio del Parlamento i nomi del suo governo.

Chi pensava che Putin modificasse la legge dello Stato eliminando il limite dei due mandati consecutivi per poter essere eletto per un terzo quando avrà 71 anni nel 2024, si sbagliava. Il referendum per il momento “non è questione all’ordine del giorno”: con una frase che ama usare spesso alle conferenze stampa non ha concesso altri dettagli il fedele e baffuto portavoce del presidente, Dimitry Peskov, che però ribadisce quanto il presidente “ritenga necessario che il popolo venga consultato”. Potrà diventare presidente della Federazione chi “ha vissuto almeno 25 anni in Russia e non ha altre cittadinanze”.

Tre ore dopo il discorso di Putin, Medvedev decide di annunciare le sue dimissioni insieme a quelle del suo governo in diretta tv. “Quando queste modifiche costituzionali verranno adottate, ci sarà più bilanciamento dei poteri, dobbiamo dare l’opportunità al presidente di prendere le decisioni necessarie, il governo della Federazione ha fatto la mossa giusta a dimettersi”, ha motivato Medvedev alle telecamere sbalordite.

Il vecchio delfino, a volte imprevedibile ma sempre fidato, un’ombra politica mai scura ma sempre trasparente, mai minaccioso per il potere del capo, se ne va silenzioso. Il suo futuro sembra avere la sagoma della carica da vice capo del Consiglio di Sicurezza che Putin ha pensato di assegnargli. “Ne ushel, a ego ushli”: Medvedev non è andato via, l’hanno mandato via, replicano sulle chat i redattori di Mosca agli interrogativi di colleghi stranieri, chiosando che la mossa di Putin non è abbandono del potere, ma solo transizione in vista di una nuova metamorfosi e nuove cariche che creerà per sé ad hoc.

“Complimenti per i risultati raggiunti finora, non tutto è stato fatto, ma niente riesce sempre completamente”. Quando si alzano dal tavolo marrone dove tutti i ministri uscenti hanno la testa bassa e nessun sorriso, le due maggiori cariche della Federazione, con alle spalle quattro tricolori russi, si stringono velocemente la mano in giacca e cravatta. Putin ne ha una rossa, Medvedev una nera. Si guardano negli occhi solo per un attimo prima di allontanarsi in direzioni diverse. Sono questi “gli ultimi minuti del governo Medvedev” titola Vedomosti, che come tutti gli altri quotidiani moscoviti è stato colto di sorpresa dalla svolta, ma è un titolo che viene oscurato subito da un altro poche ore dopo. Mentre si azzardano ipotesi sul nuovo premierato – qualcuno era certo della nomina di Sergey Sobjanin, sindaco di Mosca, o Maksim Oreskin, ministro dell’Economia –, la proposta di Putin è ricaduta sul direttore del polveroso settore tributario federale, Michail Mishustin. Occhialuto e calvo, Mishustin, proprio come Medvedev nel 2008, è un volto sconosciuto. Assolutamente sconosciuto era anche il premier nominato da Eltsin nel 1999 che l’anno successivo divenne presidente: Vladimir Putin.

Meghan&Harry, il papà pronto a testimoniare contro la figlia

Ora è una guerra senza quartiere, senza rispetto e senza pudore. A ottobre scorso, esasperata dalla violenza con cui i tabloid britannici riportavano ogni possibile aspetto della sua vita, Meghan Markle, duchessa di Sussex, e suo marito Harry avevano avviato una causa contro il Mail on Sunday per “violazione della privacy e del copyright”. L’ultima goccia era stata la pubblicazione a febbraio, da parte del Mail, di una lettera di Meghan al padre Thomas, dai contenuti intimissimi: “Ho il cuore a pezzi per colpa tua. Mi hai ferito dicendo bugie su di me, forse perché manovrato da qualcuno. Non capirò mai perché tu lo abbia fatto”.

Ma Thomas, manipolato o no, ha passato o venduto quel testo e una serie di messaggi telefonici scambiati con la figlia alla stampa scandalistica inglese. Secondo il Telegraph, sarebbe addirittura disposto a testimoniare contro la figlia se l’Alta Corte dovesse decidere di avviare il processo.

Per il Daily Mail, la pubblicazione della lettera è completamente legittima, visto che riguarda una figura pubblica che “basa il proprio successo sulle apparizioni mediatiche”. E, se trascinato in tribunale, con la collaborazione di Thomas minaccia di rivelare ogni retroscena del rapporto irrimediabilmente compromesso fra la duchessa e il padre. Per l’orrore della Corona inglese e di buona parte dei suoi sudditi, già disgustati dalle modalità del “divorzio” dei Duchi dalla famiglia reale.

Sarebbe il punto più basso di una vicenda già tragicamente squallida. Alle nozze non c’era, complice un provvidenziale malore. Ma già prima del matrimonio, per risentimento e probabilmente denaro, Thomas aveva rivelato a giornali e siti di gossip dettagli sul suo rapporto con Meghan, che accusa di averlo tagliato fuori dalla sua nuova vita. Non intende fermarsi, e non sarà un bello spettacolo.

Mai più con un governo. Il Belgio va come un treno

Qualche tempo fa, quando ancora si spedivano le lettere e in Italia affidarne una alla posta metteva l’ansia – arriverà?, e quando? –, in Belgio, se una cosa filava liscia, senza un intoppo, si diceva “Comme une lettre à la poste”, come una lettera in posta: le lettere partivano e arrivavano, esattamente come in Belgio continuano a fare i treni e gli aerei, che un governo ci sia o – spesso – non ci sia. Il giorno che si va a votare, la domenica, in mezza giornata si raggiungono percentuali d’affluenza altissime – il voto è obbligatorio –, senza perdere un giorno di scuola: a sera gli scrutini sono fatti e le aule sgomberate.

Eppure il Belgio non ha un popolo e neppure una lingua: i fiamminghi, che sono circa i due terzi della popolazione, al nord, sono conservatori e cattolicissimi e parlano, appunto, il fiammingo, simile all’olandese; i valloni, al Sud, socialisti e mangiapreti, parlano francese; lo Stato è la somma di tre entità fortemente autonome, le Fiandre, la Vallonia e Bruxelles, capitale bilingue.

I simboli dell’unità nazionale sono la monarchia – i Sassonia Coburgo Gotha vengono, però, dalla Germania –; la Brabanconne, l’inno che celebra l’indipendenza acquisita nel 1831; e la nazionale di calcio, specie quando, come in questo momento, è forte, anzi fortissima, in testa al ranking Fifa, davanti – che goduria, per i belgi abituati a essere oggetto di sfottò – alla Francia.

Che ci sia o meno un governo, le cose funzionano (quasi) sempre come ci si aspetta che funzionino. Ciascuno fa il suo lavoro, magari senza fantasia, ma con applicazione e concretezza. E il Paese se la cava: nel 2010, gestì senza governo un semestre di presidenza di turno del Consiglio dell’Unione; e, questa volta, senza governo, è riuscito a promuovere il suo premier in carica per gli affari correnti, Charles Michel, alla Presidenza del Consiglio europeo e a insediare al suo posto la prima donna premier nella storia belga, Sophie Wilmès – è la “custode” del potere, in attesa che qualcuno politicamente legittimato lo reclami –. E l’economia non ne soffre troppo: il debito pubblico continua a scendere – era al 101% del Pil nel 2018, calerà al 98% quest’anno –, il disavanzo s’attesta all’1,6%, le tasse scendono, la disoccupazione è intorno al 6,5%, il turismo è uscito dal tunnel nero degli attentati terroristici del 2016 e 2017.

Ci stiamo avvicinando ai 400 giorni senza un governo nella pienezza dei poteri. È dal 18 dicembre 2018, giorno in cui il partito nazionalista fiammingo N-Va pose fine alla coalizione di centrodestra del premier Michel, d’ispirazione liberale, che il governo è ridotto agli affari correnti. Siamo ancora lontani dal record mondiale – ovviamente belga – di 541 giorni, stabilito tra 2010 e 2011; e un altro lungo periodo simile si ebbe fra il 2007 e il 2008, oltre sei mesi. Oggi, le distanze fra i partiti di diversi schieramenti nelle Fiandre e in Vallonia non fanno ancora intravedere un accordo di coalizione all’orizzonte. Né se ne avverte l’urgenza, visto che le cose funzionano lo stesso: i treni, come gli aerei, partono e arrivano in orario. Nonostante la crisi fosse stata dichiarata a fine 2018, per le elezioni si attese il 26 maggio, sfruttando l’Election Day europeo. Poi, due giorni prima che Michel dovesse assumere la presidenza del Consiglio europeo, il 28 ottobre, la Wilmès, 44 anni, anch’essa d’ispirazione liberale, ne ha preso il posto. Quasi 250 giorni sono passati dalle elezioni politiche, che hanno visto una netta affermazione delle diverse sigle del nazionalismo fiammingo: da allora, diversi “formatori” – così in Belgio si chiamano coloro incaricati di formare il governo, di cui non devono necessariamente divenire premier – si sono succeduti, senza trovare la formula giusta per un accordo. Ma, sbarcando all’aeroporto di Zaventem o arrivando alla Gare du Midi, non avrete l’impressione di un Paese sull’orlo di una crisi di nervi.

Con 11,4 milioni di abitanti, una superficie pari a quella di Lombardia e Liguria insieme, il Belgio ha un’economia diversificata, forte soprattutto nei servizi. E gli indici di qualità della vita sono eccellenti su scala mondiale: libertà civili, diritti politici, persino il funzionamento dello Stato. È stata la politica a ostinarsi sull’opzione del federalismo, allentando i vincoli dell’unità nazionale; e, adesso, la gente antepone alla politica l’ordinaria amministrazione. Vivendo ugualmente bene.

Quel buco nero della Tim chiamato “errore generico”

Si chiama il 187, il numero della Tim (già Telecom) che quelli come me compongono più spesso del numero dei propri cari, per segnalare un guasto. Stavolta non è il solito balletto della linea Adsl, che tanto mi ha tenuta impegnata (vedi Fatto del 25 febbraio 2016) e che non si è mai risolto del tutto, nonostante la solerzia dell’azienda nel contattarmi post scriptum e dunque non in quanto utente, cosa che ero già prima, ma in quanto utente iscritta all’Ordine, e nonostante i ripetuti interventi di un tecnico che ha ogni volta fatto il possibile, consistendo l’impossibile nella riparazione totale delle infrastrutture e dei cavi sotterranei dentro cui viaggiano i dati che connettono il mio quartiere alla periferia di Roma al resto del mondo. Stavolta si tratta di un guaio che mi sono cercata, avendo appreso che la promozione associata al mio numero di casa non è più attiva (mastico il gergo dei promoter della compagnia, essendo la fluidificazione delle mie telecomunicazioni a tutti gli effetti un mio secondo lavoro). Succede che spesso, allettati dagli operatori dei call-center che vogliono farci risparmiare sulla bolletta, accettiamo di sottoscrivere un contratto per una qualche promozione (dobbiamo rispondere “sì” a tutte le domande, scandendo bene le lettere: questa lallazione primordiale è il sostituto di una firma) che per una sorta di sua consustanziale obsolescenza a un certo punto arbitrariamente decade, e automaticamente, senza che l’azienda ci avvisi, dà luogo a un aumento dei prezzi anche del 100%, del resto visibile in bolletta sotto voci laconiche o misteriose o addirittura accattivanti, come sigle, slogan, numeretti, giochi di parole. A questo punto il capitalismo smart dei Ceo, dei supermanager, della fibra ottica, del 5G e dell’Internet delle cose esige che sia tu utente a controllare l’essere attiva della tua promozione, ovvero a preoccuparti di comunicare all’azienda che vuoi passare ad altra. Cioè: nel flusso della propria vicenda biologica, emotiva, intellettuale, professionale e sanitaria l’essere umano connesso deve prevedere uno slot dedicato alla cura e all’aggiornamento delle tariffe che paga per i servizi erogatigli, e questo vale per il telefono fisso e il mobile, la luce e il gas, le chiavette Internet e gli abbonamenti alle Tv satellitari, la carta di credito e tutti gli altri artigli con cui la burocrazia neo-liberista ci tiene arpionati all’idea di uno stile di vita tutto sommato privilegiato.

Si dà il caso che io, presa da cose futili come sopravvivere, non mi ero accorta che l’offerta era scaduta, finché non ho interpellato esperti di geroglifici, lettori di bollette esoteriche e, da ultimo, la mia vicina di casa, e ho capito che stavo pagando il doppio di quanto pagano gli altri. Da qui: richiesta al 187 di cambiare tariffa, accettazione della richiesta, attesa. Oh, misera letizia dell’individuo la cui pace è legata alle promozioni! Specie se pochi giorni dopo si viene informati che un “errore generico” sulla linea impedisce il cambio.

Non mento se dico che la voce “errore generico” applicata allo status della mia linea mi provoca un brivido metafisico (“credo che si sia dimenticato fino a che punto il telefono sia parte della nostra vita psichica”, Giorgio Manganelli). La situazione è insanabile, non si va né avanti né indietro. Il gentile operatore spiega che ha segnalato l’intoppo e attende una risposta, si suppone dai piani alti. Immagino un decisore ultimo, un risolutore di errori generici deputato a sbloccare i casi ostici come il mio, una specie di Klamm, l’inafferrabile funzionario del Castello di Kafka, da cui dipende la mia sorte telefonica. Indagando sull’errore generico mi imbatto in spiegazioni che sfiorano la leggenda se non la teologia: forse hai un numero VoiP attivo sulla tua linea (eh?); forse non hai restituito un telefono a Telecom; forse non hai registrato il codice fiscale e dunque sei sconosciuto a Tim, che però ti manda le bollette (tra l’altro, fino a che il Consiglio di Stato non glielo ha impedito, come altri operatori furbi le mandava ogni 28 giorni invece che 30, così che in un anno erano 13 invece che 12: perciò si ha diritto a chiedere un rimborso).

In concomitanza temporale (non voglio pensare in rapporto causale) con l’ennesimo sollecito, smette di funzionare la linea telefonica. Morta, isolata. Nella cornetta si sente uno spaventoso silenzio che costringe a sua volta all’afonia; sarà crollata la centralina? Gli animali del sottosuolo avranno rosicchiato i cavi?

Non demordo. Cambio i filtri Adsl (sono addestrata ad anticipare ogni obiezione dell’operatore), Adsl che viaggia a 3 Megabyte dei 20 promessi (con la subdola formula del “fino a”), fenomeno che tutti i tecnici sopraggiunti negli anni imputano alla distanza dalla centralina, motivo per cui consigliano di spostare la postazione di lavoro dove il filo entra in casa, o ancora meglio accanto alla porta, e perché non sul pianerottolo, o presso la cassetta nell’atrio del palazzo? La butto lì: chiedo a Tim se mi concede una piccola nicchia dentro la centralina di zona, così, tanto per provare l’ebbrezza futuristica dei 20 MegaByte.

Ancora niente. Apro un reclamo; un Sms avvisa che il guasto sarà riparato entro 48 ore; vari Sms informano che Tim ha provato a contattarmi ma non ci è riuscita (che abbia chiamato sul telefono fisso, che non funziona?); squilletti a vuoto sul cellulare; un disco preregistrato del 187, richiamato, dice che la segnalazione è già aperta; messaggi certificano il tautologico, ossia che il principale fornitore di servizi nel Sistema Pubblico di Connettività non riesce a contattarmi (che sia colpa mia?); un Sms informa che il guasto è risolto, evviva!, e però non è vero: la linea è ancora isolata; si chiama allora un numero verde: l’operatrice dice che non può essere aperta un’altra segnalazione.

Si ipotizza che Tim non abbia voglia di investire sulla fatiscente Adsl, da cui comunque ricava un guadagno, e lasci marcire le linee del telefono. Mentre poco distante si fanno i lavori per la mitologica fibra (velocità 1 Gigabyte, 1000 MB al secondo!), e tutto il Paese che conta è in piena esaltazione da 5G (20 Gbps!) grazie al quale i chirurghi degli spot fanno operazioni a cuore aperto a distanza, e i direttori d’orchestra di prestigio internazionale testimoniano quanto Tim sia un’azienda proiettata nel futuro e insieme attenta al passato, io per massima ironia della sorte mi ritrovo addirittura senza telefono, nella condizione in cui si trovavano i miei compatrioti pre-1967, quando bisognava scendere al Posto di Telefonia Pubblica e chiedere al centralinista di inoltrare la telefonata, e però funzionava.

Sanremo, la carica delle conduttrici “fidanzate a vip”

Chissà se Rula Jebreal nel suo intervento sulle donne parlerà anche della Nazionale Rosa selezionata da Amadeus per Sanremo. Dalla formazione si possono ricavare indizi interessanti, e forse qualche prova. Basta con le vallette, viva la parità. Non ci sono più la Destra e la Sinistra, dunque non ci sono più la Bionda e la Mora, e invece dieci ragazze co-conduttrici, da non confondersi con le ragazze coccodè, a cui un’adolescente dovrà ispirarsi per poter salire sul palco dell’Ariston. Essere Vip è una precondizione necessaria, ma non sufficiente: c’è Vip e Vip. Porte dell’Ariston aperte alle co-conduttrici in proprio, non importa se co-conducono di cuochi come Antonella Clerici o di sport come Diletta Leotta (Leotta dura senza paura). Prima le italiane come la Venier, ma c’è posto anche per le co-conduttrici albanesi come Alketa Vjesu, per splendide Vip vintage come Sabrina Salerno, per le giornaliste dei tg (in ogni mezzobusto dorme un conduttore, e purtroppo qualche volta si sveglia). Ma la vera categoria emergente, in linea con lo spirito dei tempi, è quella delle fidanzate Vip. Non importa se stai con Ronaldo o con Valentino Rossi, per la proprietà transitiva diventi Vip anche tu: ed è subito Sanremo. Bella conquista, non c’è che dire. Ma allora aveva ragione quel protofemminista di Silvio quando diceva: “Cercatevi un ragazzo ricco”. Ricco e famoso. Non sappiamo cosa ne pensi Rula, ma se questi sono i magnifici modelli e progressivi della donna, be’, aridatece le vallette.

La miniera milanese. Hai un nome solo quando muori

AMilano 2020 si muore come nelle miniere del Sulcis negli anni Trenta del Novecento. Erano le 18:35 di lunedì 13 gennaio. Raffaele Ielpo – 42 anni, di Lauria, provincia di Potenza, caposquadra della Tunnel Boring Machine che scava le nuove gallerie della metropolitana milanese – stava lavorando in un cunicolo a 18 metri di profondità del “Manufatto Tirana”, il cantiere della M4 sotto piazza Tirana, al Giambellino. Gli è caduta addosso la volta, forse a causa delle infiltrazioni d’acqua della falda, che si trova sopra lo scavo del tunnel. È stato travolto da una pioggia di terra, detriti, sassi. Era cosciente all’arrivo degli infermieri del 118 e dei vigili del fuoco. All’ospedale San Carlo è arrivato senza vita, il suo cuore aveva smesso di battere.

Era un capo operaio esperto, Raffaele. Aveva lavorato anche per la grande impresa spagnola Acciona, era stato a lungo in cantieri all’estero, in Norvegia. Ora era una “tuta arancione” del consorzio Metro Blu, che scava la linea 4 per conto del Comune di Milano e dei suoi soci di minoranza, Salini-Impregilo, Astaldi, Ansaldo, Atm.

Meno di tre mesi fa, il 28 ottobre 2019, in un altro cantiere della M4, in via Foppa, era rimasto ferito Gianfranco Persia, detto Gorbaciov, 61 anni, di Capistrello, provincia de L’Aquila. È crollata l’impalcatura su cui lavorava, facendolo precipitare per sei metri. Otto costole rotte, una clavicola in frantumi, un polmone distrutto. Per tre giorni è restato in bilico tra la vita e la morte, ora è fuori pericolo, anche se fatica a riconoscere e a ricordare.

Raffaele e Gianfranco sono due personaggi di una Milano sconosciuta, quella dell’esercito di operai che lavorano a turni, 24 ore su 24, nelle viscere della città. La metropoli “di sopra”, quella dei grattacieli e dei locali glam, quasi non la vedono. Stanno sottoterra e, alla fine del loro turno, vanno a fare la doccia, a mangiare in mensa e a dormire nel “campo base” di Buccinasco, dove da due anni e mezzo vivono centinaia di lavoratori che provengono dal Sud dell’Italia o dall’Est dell’Europa o dal Nord dell’Africa.

Li ha raccontati su Repubblica Milano Matteo Pucciarelli, che ricorda come i sindacalisti degli edili milanesi oggi si chiamino Khalid Bouzian (Cgil) e Alem Gracic (Cisl) – e già i nomi dicono com’è cambiato il mondo e il lavoro e la città. Al cronista dicono che i ritmi di lavoro sono implacabili e che nessuno si accorge di loro se non quando qualcuno muore. Vivono sottoterra, respirando l’aria pompata dalle macchine, si muovono alla luce delle fotocellule, lavorano anche per dieci giorni di seguito, senza pause, per guadagnare di più e per accumulare più giorni di riposo possibile, per tornare a casa – chi può e quando può. Sopra, la città non si accorge di loro.

A che cosa serve fare polemiche, ora, sull’utilità della M4, sui suoi costi, sul peso finanziario che graverà sulla città nei decenni futuri? Le linee metropolitane sotterranee costruite fin dagli anni Sessanta hanno reso Milano una città in cui è facile muoversi. I trasporti funzionano bene e la linea blu renderà più fluidi i collegamenti. Non vale ricordare, ora, che la più invasiva e costosa delle opere pubbliche in corso a Milano è stata analizzata dal Comitato per la legalità del Comune presieduto da Gherardo Colombo con seguito di dure bacchettate per l’amministrazione, a causa dei ritardi, degli extra-costi, degli errori di progettazione e di gestione. Ora conviene soltanto tacere e ringraziare l’esercito invisibile di chi lavora, e a volte muore, nelle viscere della città.

Non riconoscere papa francesco. È solo un’eresia

La pubblicazione del libro dedicato al celibato ecclesiastico, del quale l’ex pontefice è indicato come coautore (con firma ritirata), è forse l’occasione per un chiarimento complessivo non già sul tema dibattuto in quel volume, plausibile solo all’interno dell’ordinamento canonico, bensì sulla situazione venutasi a creare con le dimissioni di Benedetto XVI. In proposito è opportuno segnalare che, in un’intervista a Repubblica del 14 u.s., il vescovo Agostino Marchetto ha fornito utili indicazioni su come muoversi in una questione così delicata, da affrontare alla luce delle univoche prescrizioni del codice di diritto canonico. L’alto prelato ha chiarito che lo status attuale del papa dimissionario è di vescovo emerito. Non potrebbe essere altrimenti. Il papato implica l’unione intima ed indefettibile del vescovo di Roma con l’intera Chiesa. Con la rinuncia quel legame si spezza e le due entità (vescovo e intera Chiesa) si relazionano alla stregua di qualsiasi chierico o fedele con la Chiesa stessa. Il vescovo, alla pari di qualsiasi altro diocesano alla fine del suo incarico, riceve il titolo di emerito. La specialità del caso è che, essendo il rinunciante vescovo di Roma, il titolo conforme è quello relativo alla diocesi di riferimento, nella quale l’ordinario è, proprio per questa sua specifica qualità, sommo pontefice. Quindi a pieno titolo e in perfetta coerenza con il canone 402 del codice di diritto canonico, il grande teologo Ratzinger è papa emerito e può continuare ad abitare nella stessa diocesi. La qualifica di emerito contempla lo status raggiunto in un ufficio, del quale permane solo il profilo onorario, associato a qualche modesta prerogativa (la più comune per i vescovi è di poter essere invitati a concili particolari nello specifico territorio già di loro competenza). Questi aspetti, di certo tenuti presenti dal rinunciante alla conclusione del suo ufficio, non possono essere stravolti per finalità non proprio evangeliche, come intendono certi autoproclamati cattolici i quali continuano ad affermare la loro obbedienza a Benedetto XVI per negarla a papa Francesco: ciò non è possibile dal 28 febbraio 2013, data delle dimissioni del precedente pontefice perché da allora quel legame assoluto e indefettibile tra il vescovo Ratzinger e la Chiesa universale è venuto meno. Un primo punto va sottolineato: non ci sono né ci possono essere due papi investiti dell’ufficio e ai quali prestare (o scegliere di prestare) obbedienza perché il codice di diritto canonico respinge in modo risoluto questa ipotesi, come statuito dai precetti dei canoni 331 a 335 che sanciscono la natura monocratica e unitaria dell’ufficio e della figura del Romano Pontefice. All’origine non ci sono stati due San Pietro, ma uno solo e di quello è legittimo successore papa Francesco. È perciò impossibile immaginare qualsiasi forma di contitolarità, come per i consoli dell’antica Roma. La coesistenza di massimi titolari di una Chiesa è stata respinta da secoli, come dimostrano la storia degli antipapi medievali, lo scisma d’oriente e quello anglicano. Scaturiscono da queste notazioni non lievi conseguenze. S’intende, cioè, rilevare che chi sostiene di riconoscere Benedetto XVI come vera guida della Chiesa affonda, in realtà, in una pesante eresia. Il papa non lo scelgono i fedeli ma il conclave legittimamente costituito e la sua posizione è immutabile fino a morte o rinuncia. Non riconoscere a papa Francesco “la funzione che il Signore concesse personalmente a San Pietro” (can. 331) implica negare “una verità che bisogna credere con fede divina e cattolica” (can. 751) cioè incorrere in un’eresia. Va ribadito: sconfinano apertamente nell’eresia le scritte “il mio papa è Benedetto” o peggio le dichiarazioni di obbedienza per il papa emerito da parte di singoli, associazioni e gruppi oltre che di giornalisti che, per folgorazione cosmica, si ritengono primi esegeti dei testi divini.

L’Europa per evitare il nucleare Iraniano

Ed eccola qui la vera risposta dell’Iran all’attacco delinquenziale appena subito: l’inizio di una ritirata dall’accordo nucleare del 2015, logica conseguenza del ritiro trumpiano del 2018 e dell’inadempienza europea dei termini dell’accordo stesso.

È cominciata così una grande partita, dove disinformazione e crassa ignoranza regneranno sovrane, e dove l’attore cruciale sarà, nell’immediato, l’Unione europea.

Ma prima di arrivare a questo punto del discorso, è bene sfatare alcuni miti molto radicati nel circuito politico e mediatico.

A) Le bombe atomiche non sono illegali. Il tabù nucleare le ha condannate senza appello, ma è un tabù etico-politico, mai trasformatosi in un dettato giuridico vincolante. I pilastri della pace nucleare globale restano il cosiddetto equilibrio del terrore, cioè la certezza della distruzione reciproca dei contendenti della eventuale guerra atomica, e il Trattato di non proliferazione del 1970. Accordo tra i più deboli, perchè ogni suo contraente lo può abbandonare con breve preavviso e senza penali. E fabbricarsi poi tutti gli ordigni che vuole nel pieno rispetto della legalità internazionale. È ciò che ha fatto di recente la Corea del Nord, ed è ciò che l’Iran potrebbe fare se le prossime elezioni (mancano pochi mesi) consegneranno ai conservatori la prevedibile vittoria sui riformisti attualmente al governo.

Non si è riusciti finora a proibire formalmente – ripeto – le armi nucleari. Solo le armi chimiche e batteriologiche sono bandite da apposite convenzioni fatte rispettare da appositi enti di controllo.

B) l’Iran è in posizione di vantaggio. Il Trattato del 2015 stabiliva che le potenze firmatarie si impegnavano a togliere tutte le sanzioni e reintegrare l’Iran nell’economia globale, soprattutto europea, in cambio della rinuncia a sviluppare il nucleare bellico fino al 2030. Impegno rispettato dall’Iran, ma non dall’Europa e dagli Usa. Trump ha stracciato l’accordo appena eletto, e ciò non sarebbe stato male se l’intero capitale finanziario occidentale non si fosse poi piegato all’imposizione americana di escludere l’Iran da ogni rapporto finanziario con il resto del mondo. Le imprese europee, italiane in testa, avevano iniziato a investire in un mercato tra più promettenti, ma hanno finito col cedere al ricatto dello Zio Sam per paura di vedersi tagliate fuori dal mercato Usa. L’Ue, a dire il vero, si è ribellata. Ha rifiutato con forza la pretesa di extraterritorialità delle sanzioni americane e ha reso illegale per le imprese europee il rispetto delle stesse. Ma sul piano delle proposte alternative l’Unione non è andata oltre la creazione di un quasi ridicolo meccanismo di baratto con l’Iran, chiamato Instex. La sua inadempienza dell’accordo è rimasta perciò intatta.

C) La palla è ora nel campo dell’Europa. Cosa può accadere? Il corso Usa e quello iraniano sono prevedibili perché largamente obbligati. Trump non può far altro che proseguire con la guerra ibrida in corso. E gli ayatollah con pieni poteri proseguiranno, come annunciato, lungo la strada del disimpegno dai patti nucleari. Con il probabile, per noi disastroso, esito di obbligare i paesi della regione, sauditi ed egiziani in primo luogo, a dotarsi anche loro della bomba.

Dopotutto, l’unica scelta razionale per proteggersi dall’attacco da parte di una potenza nucleare, è quella di farsi proteggere da una potenza analoga oppure di costruirsi il proprio ordigno. La fine di Gheddafi e di Saddam Hussein, attaccati e distrutti proprio perché non possedevano le armi nucleari e non facevano parte di alcuna Nato alternativa, continua ad ammonire tutti i governanti della regione.

Ma l’Europa potrebbe stoppare la corsa verso l’abisso decidendo di rendere effettivo l’impegno contratto con l’Iran nel 2015. Basterebbe creare un fondo speciale per il finanziamento degli investimenti in Iran dotato di capitalizzazione e procedure adeguate, sulla scia di quanto abbozzato dall’Italia nel 2017, per rassicurare gli iraniani sulla volontà di rispettare l’accordo, dimostrare di non aver timore degli Stati Uniti e riprendere il processo di pacificazione commerciale e politica interrotto da Trump.

Può sembrare troppo riduttivo, ma è così. Riarmo atomico e pace globale si trovano a essere appesi a una decisione di secondo ordine, perfettamente fattibile, da parte di soggetti su cui noi tutti dovremmo esercitare qualche influenza.

Mail box

 

Celibato, la Chiesa ferma ai tempi del Medioevo

Marco Marzano ha ragione da vendere nel dire che la Chiesa gioca la propria sopravvivenza sul celibato. Ratzinger, Sarah e la maggioranza dell’assemblea sinodale amazzonica, nell’affermare l’imprescindibile castità dei preti come maggior, se non unica, prossimità a Dio, danno l’impressione di voler richiamare (ingiustificate) reminiscenze medievali (basti ricordare che verosimilmente tra i profeti e apostoli molti avevano moglie). Lo stesso Benedetto XVI rappresenta un ossimoro almeno pari a ciò che egli stesso aberra nell’ipotetica abolizione del celibato. Cioè, un Papa che ha abdicato alla sua funzione, ma che, contemporaneamente, sembra ergersi da supremo teologo, a guida della Chiesa. Un contesto controverso, entro il quale Ratzinger sembra esercitare un’autorevolezza sovrastante quella papale. Che, oltre a tradursi in mancanza di rispetto umano verso il suo successore, potrebbe davvero rappresentare (questa sì) una vera e propria eresia ecclesiale. Forse, per la Chiesa, non è nemmeno più una scelta tra la teologia di nostalgici inquisitori o di illuminati progressisti, ma un bivio che, per sopravvivere ad un mondo diverso, prevede un’unica strada obbligata. Forse è davvero il momento storico di riconoscere principi più vicini all’uomo, scevri da dogmi desueti. Riconoscendo, alla fine, che un prete possa essere vicino a Dio quanto da sposato che da celibe e che, la donna, creatura di Dio quanto l’uomo, possa avere nel Clero gli stessi diritti gerarchici. Ecco, il giorno che una messa verrà officiata da una donna, oppure da un prete con una sua bella famiglia, forse, tutti quanti, saremo più prossimi a Dio.

Anna Lanciotti

 

Ma il matrimonio dei preti sarebbe un errore dottrinale

Sulla questione del celibato sacerdotale è intervenuto in maniera decisa il Papa emerito Benedetto XVI. Silere non possum, dice citando Sant’Agostino, e riafferma la sua ferma posizione contro la possibilità di ordinare uomini sposati. É indispensabile e irrinunciabile, eliminarlo sarebbe un grave errore storico e dottrinale.

Gabriele Salini

 

Pd, non è cambiando nome che cambia pure un partito

Partito nuovo o nuovo partito? Questo è il dilemma. L’attuale Pd non è altro che una bad company dalla quale, chi ha potuto, prima o poi è scappato: i vecchi saggi autorottamatisi a sinistra (D’Alema, Bersani, Grasso…), i sedicenti innovatori condannatisi all’autodistruzione al centro (Righetti, Calenda, ecc.). Su Renzi stendiamo un velo pietoso. Cosa è rimasto? Di tutto e di più: gli inossidabili capi bastone che sognano di perpetuare sine die o riprendere prima possibile il potere di vita o di morte nei loro potentati regionali, gli impresentabili “sodali” di Renzi che, pur non avendo ancora né avviato né completato il periodo di espiazione delle colpe, osano ancora aprire bocca e pontificare, ecc. Dunque di norma una ridotta fatta di fantasmi che pensano a come cambiare colore al lenzuolo che indossano illudendosi di poter ritornare in vita. Illusi. Non è mutando l’ordine tra aggettivo (nuovo) e sostantivo (partito) che si può riportare in salute il moribondo. Ci vogliono uomini nuovi, idee nuove, politiche nuove, risposte coerenti alle attese di un popolo di sinistra, l’unico a essere sempre vivo e vegeto e che preferisce scendere in piazza con le sardine, piuttosto che farsi vedere in una sezione del Pd.

Giuseppe Alfonso Cassino

 

Pansa, ha ragione Fini: Montanelli e Bocca erano altro

Pur non avendo conosciuto personalmente Giampaolo Pansa, e avendo letto ricordi di chi invece l’aveva frequentato, oltre a qualche suo libro, mi sento – per quanto riguarda Il Fatto – di condividere soprattutto quanto scritto da Massimo Fini. Montanelli e Bocca, peraltro anch’essi talvolta da prendere con le pinze, erano tutt’altra cosa. E tutt’altro scrivere. Questo a parte il cordoglio, naturalmente.

Claudio Fantuzzi

 

Bravo, bravissimo Giampaolo però non mi mancherà

È morto Giampaolo Pansa, un bravo, anzi bravissimo e a volte feroce giornalista che si è dato interamente a questa importante e difficile professione. Ebbene, per quanto mi riguarda, uso le stesse parole di Pansa alla morte di Giorgio Bocca: non mi mancherà.

Ileana Padovani

 

Il diesel è il demonio? Allora bloccate le vendite

Secondo alcuni sindaci, chi ha un diesel non deve viaggiare. Se il motore diesel è il demonio bloccatene le vendite. Se il gasolio è veleno lasciate il petrolio dove è e scaldatevi col bue e l’asinello ma lasciate in pace chi l’auto ce l’ha già. Possibile che non vogliate fare un controllo dei costi/benefici di tutte le decisioni che prendete?

Vareno Boreatti

 

Basta parlare dei Sussex: è voyeurismo pettegolo

Un appello a tutti i mezzi d’informazione: per favore, non ingozzateci più di notizie su Harry, Meghan e altri personaggi più o meno nobili; lasciate questi argomenti ai professionisti del “voyeurismo pettegolo” e ai loro fans…

Gianfranco Fago-Lodi

Pensioni. Meno soldi a gennaio, tutta colpa del conguaglio fiscale di fine anno

Sono un vostro lettore quotidiano e volevo chiedervi come mai, o mi è sfuggito, non avete parlato delle pensioni Inps erogate a gennaio che hanno avuto una decurtazione che va da 40 a 80 euro e passa (nel mio caso 45 euro). Tale trattenuta è riportata come voce: conguaglio pensione da rinnovo gennaio 2020.
Mario Parlanti

Gentile Parlanti, con l’arrivo del primo rateo di pensione, in molti hanno avuto un’amara sorpresa: è stato trattenuto un importo variabile a debito “da rinnovo”. Ma altro non è che il solito conguaglio fiscale di fine anno che l’Inps, come sostituto d’imposta, ha sempre applicato tra febbraio e marzo, ma che quest’anno ha fatto scattare a gennaio. La “colpa” delle trattenute dipende, quindi, dall’addebito delle prime rate delle addizionali regionali e comunali calcolate in sede di conguaglio e dalle altre imposte collegate all’Irpef. Per questo, nonostante l’annunciato aumento della pensione da inizio anno (+0,4% per le pensioni di importo fino a 1.539,03 euro lordi mensili; poi, salendo di valore, la rivalutazione può scendere fino allo 0,16%), il pensionato si è ritrovato in alcuni casi con una pensione più bassa. Ma c’è dell’altro che è accaduto in questi giorni: si è verificata un’anomalia che ha riguardato circa 100.000 pensioni il cui importo è compreso tra 3 e 6 volte il trattamento minimo e che è stato oggetto della rivalutazione prevista dalla sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015. In pratica, per queste pensioni l’importo mensile di dicembre 2019 è risultato inferiore a quello effettivamente spettante per circa 10 euro lordi mensili; la rivalutazione da attribuire per l’anno 2020 è risultata inferiore al dovuto: e si è generato così un debito per l’anno 2019, il cui recupero è stato impostato in due rate con trattenute sulle mensilità di gennaio e febbraio 2020. L’anomalia ha riguardato alcune decine di migliaia di pensioni che sono state già individuate e per le quali l’Inps sta provvedendo al dovuto ricalcolo con una apposita lavorazione centrale. Dal mese di febbraio 2020 sarà, quindi, ripristinato il pagamento dell’importo corretto e verrà restituito quanto già recuperato sulla mensilità di gennaio 2020. L’Inps, dopo che la notizia si è diffusa nei primissimi giorni del nuovo anno, ci ha messo un paio di giorni per informare le varie sedi, comunicando poi ufficialmente che sta già procedendo autonomamente al ricalcolo delle pensioni.
Patrizia De Rubertis