Invecchia male Arturo Parisi

Il Tempopassa, ma Arturo Parisi, quasi ottant’anni, non riesce a stemperare il suo odio per tutto quello che proviene dalla sinistra ex rossa che fa parte del Partito democratico. Al punto che, dopo aver tifato per Renzi sul catastrofico referendum del dicembre 2016, adesso spera che la Consulta dia ragione a Salvini sul maggioritario per evitare che il centrosinistra ritorni non al passato ma al trapassato del proporzionale. Diavolo d’un Parisi. Anzi di Alì il Chimico.

Queste cose il combattivo Alì il Chimico – leggenda vuole che il soprannome glielo diede Massimo D’Alema, irriducibile avversario dell’americanizzazione della sinistra con le primarie e tutto il resto – il combattivo Alì il Chimico, dicevamo, queste cose le ha dette ieri in un’intervista a Italia Oggi. Col senno di poi, si potrebbe dire che Parisi è un vero anti-politico. Contro Zingaretti e il suo partito nuovo, contro Conte populista fino all’altro giorno, contro l’eventuale alleanza tra democratici e Cinque Stelle. Per carità. Meglio far vincere Salvini. E così anche il Chimico Parisi si affilia con convinzione alla gauche salviniana di casa nostra. Per la cronaca, l’ex leader di Parisi, Romano Prodi, ha salutato con entusiasmo la svolta di Zingaretti in un’intervista a La Stampa.

Processo alla mafiosa che picchiò la Mazzola (Tg1)

A pochi giorni dalla manifestazione di 20 mila persone a Foggia contro la mafia, questa mattina Libera con altre associazioni ha organizzato, davanti al Tribunale di Bari, il sit-in di solidarietà per la giornalista del Tg1 Maria Grazia Mazzola. Era il 9 febbraio 2018 quando l’inviata della Rai fu aggredita nel capoluogo pugliese mentre realizzava l’inchiesta “Ragazzi dentro”. In via Petrelli, nel quartiere Libertà, Monica Laera, condannata in via definitiva per associazione mafiosa e moglie del capo clan Lorenzo Caldarola, le sferrò per strada un pugno sul volto: 45 giorni di prognosi.

Oggi l’udienza preliminare sulla richiesta di rinvio a giudizio. A Monica Laera la pm della Direzione distrettuale antimafia, Lidia Giorgio, contesta minacce di morte, lesioni aggravate con l’obiettivo di controllare il territorio e associazione mafiosa. La donna, scusatasi ai microfoni della Rai il giorno seguente, ha intentato tre querele contro la giornalista. Due già archiviate. “Mi aspetto giustizia, sono qui con la Costituzione in mano”, dice al Fatto Maria Grazia Mazzola. L’aggressione – dice – era volta a “impedirmi di svolgere il mio lavoro”. Indagava sul figlio di Monica Laera, Ivan Caldarola, all’epoca minorenne e rinviato a giudizio per violenza sessuale su una minore. Come suo padre e suo fratello, anche lui oggi è in carcere. È stato arrestato il 3 gennaio con altri esponenti del pericoloso clan Strisciuglio. Al processo contro sua madre, questa mattina, si costituiranno parte civile il sindaco di Bari Antonio De Caro, la Rai, l’Ordine dei giornalisti e Stampa romana. Al sit-in saranno presenti anche le associazioni antiracket, il Cnca, l’Udi, la Cgil, i Centri antiviolenza Renata Fonte e Giraffa, i Salesiani e le Sardine pugliesi.

“La legge era dalla mia, ma non valeva”

I terreni del Parco dei Nebrodi utilizzati come mezzi per impossessarsi dei finanziamenti dell’Unione europea. Per anni a spartirsi la torta – circa 10 milioni di euro – ci sarebbero state due storiche cosche locali: i Bontempo Scavo e i Batanesi. Artefici di una truffa basata su una rete di aziende agricole fantasma, che riuscivano a drenare fondi pubblici, attraverso l’affitto fittizio di terreni. Questi i particolari dell’operazione antimafia “Nebrodi”, portata a termine ieri da Gdf e Ros sotto il coordinamento della Dda di Messina: 94 misure cautelari, 151 aziende sequestrate e 194 persone indagate.

In mezzo ai boschi dei Nebrodi, tra i Comuni di Tortorici e Castell’Umberto, i clan avrebbero avuto “un potere assoluto su tutti”, facendo emergere dinamiche solo “apparentemente assurde”, dove, si legge nelle carte, “il potere della mafia e i limiti della legge” si mescolavano fino a confondersi.

Il caso simbolo è quello di un pensionato diventato imprenditore agricolo: nel 2017 decide di denunciare, unico e solo, tra centinaia di casi di proprietari terreni o di aziende soggette alla mafia dei Nebrosi ricostruita nell’inchiesta. Il Fatto Quotidiano lo ha raggiunto per telefono. Non sono tantissimi, in paesi da duemila anime a dir molto, i grandi possidenti di terra. E qui ci si conosce un po’ tutti. Lo chiameremo S. per tutelarne l’incolumità, pure perchè S. sui Nebrodi, i monti che si affacciano sul mar Tirreno, continua a viverci. La sua storia inizia nel 2010, con circa 15 ettari di terreno dati in affitto, con un regolare contratto, al boss Gino Bontempo. L’uomo, all’epoca scarcerato da poco, per anni non avrebbe versato un euro al signor S. (in totale, circa di centomila euro di canoni d’affitto non riscossi), beneficiando però, per quegli stessi terreni, di diverse decine di migliaia di euro di fondi comunitari.

Lei oggi denuncia, ma in passato ha dato in affitto i terreni a un personaggio come Bontempo… Non sapeva chi fosse?

Questa è una storia delicata, va affrontata di presenza.

Davanti gli inquirenti la ricostruzione è stata diversa: “Accettai l’accordo – si legge nel verbale – suggestionato da Bontempo e dal fatto che fosse stato appena scarcerato, pur essendo consapevole del rischio di non ricevere alcun compenso”. Che significa “suggestionato”?

Le ripeto, è una storia che va affrontata di presenza… Uscito dal carcere, Bontempo mi chiamò per dirmi che voleva parlarmi. Chiedeva in affitto il terreno di contrada Abbadessa, 15 ettari. Era interessato a prendere i contributi Agea. E siccome lui non poteva intestarsi il contratto, mi chiese di farlo alla figlia.

Lei lo fece…

Non dissi nulla. Non avevo mai avuto a che fare con lui, ma sapevo chi era.

Per sette anni non ha ricevuto soldi: ha aspettato però che fossero i carabinieri a farle visita prima di parlare.

Quello che posso dirle è che avevo fatto un contratto secondo legge. I carabinieri mi hanno chiesto spiegazioni proprio su quel contratto. Avevo la legge dalla mia, ma non valeva niente. Ero il padrone di quei terreni e mi ero trasformato in un garzone per quelle persone. A mali estremi, estremi rimedi.

Ha subito minacce?

I giorni passano in modo normale, qui. Glielo posso assicurare.

(La breve intervista, tra molti silenzi, si chiude. La parola “mafia” non è stata mai pronunciata)

“Soldi e sesso in cambio di sentenze aggiustate”

Prestazioni sessuali con una giovane avvocatessa e mazzette di soldi. Ma anche maglioncini “Richmond”, abbigliamento “Trussardi” e braccialetti. Il magistrato Marco Petrini non rifiutava nulla se si trattava di intascare regali per aggiustare sentenze, favorire processi. Neanche i vassoi pieni zeppi di gamberoni, merluzzetti, champagne, verdure, clementine e formaggi. Per non parlare della promessa di un soggiorno in una struttura turistica a Brusson in Valle d’Aosta, o di un appartamento a Rho, nel milanese.

Presidente di sezione della Corte d’Appello di Catanzaro, Marco Petrini è stato arrestato ieri mattina dalla Guardia di finanza su richiesta della Procura di Salerno. L’accusa è corruzione in atti giudiziari. Appena il suo nome era comparso in un’inchiesta della Dda di Catanzaro, il procuratore Nicola Gratteri ha trasmesso le carte alla Procura di Salerno competente per le inchieste sui magistrati calabresi. Nel blitz sono state arrestate altre 8 persone tra cui due avvocati, Francesco Saraco e Maria Tassone detta “Marzia”.

Quest’ultima è stata filmata e intercettata della Guardia di finanza mentre aveva rapporti sessuali con il magistrato. Momenti di piacere alternati a altri più seri in cui la Tassone riceveva suggerimenti su istanze e ricorsi che poi venivano accolti.

Tangenti sessuali e tangenti in denaro e altre utilità. Sullo sfondo c’è la massoneria. “Pino è ‘fratello’ nostro?” “Si. È dell’Opus dei. Apposta, hai capito o no?”. “Mariù, non ti preoccupare, ce la caviamo”. Pino è Giuseppe Tursi Prato, l’ex consigliere regionale. Nel 2017 ha presentato ricorso per riottenere il vitalizio che gli era stato revocato dopo la condanna per concorso esterno con la ’ndrangheta. “Mariù”, invece, è Emilio Santoro detto “Mario”. Si tratta di un medico in pensione ed ex dirigente dell’Asp, diventato il “motore” di un sistema per entrare in contatto con il magistrato. Mario Santoro, infatti, svolgeva il fondamentale ruolo di trait d’union fra i corruttori e Petrini”, con cui il medico intrattiene “relazioni di intensa frequentazione e stretta confidenzialità”.

A lui si è rivolto Mario Tursi Prato (arrestato) per recuperare i privilegi che gli erano stati tolti dalla Regione nel 2008 quando la sua condanna a 6 anni di carcere divenne definitiva: “Mario di’ all’amico tuo che è amico mio, che giorno 12 si fa”. Sarebbe stato questo il messaggio del magistrato portato da Santoro a Tursi Prato. “Lui la causa l’ha vinta al mille per mille”. Petrini andava pazzo per il cibo che gli veniva consegnato sia a casa che in ufficio dai due intermediari: il solito medico Santoro e un imprenditore Luigi Falzetta (arrestato) che erano stati incaricati da Pino Tursi Prato.

Era lo stesso Petrini che li pretendeva: “Verso mezzogiorno sempre… quella cosa … il vino di Ciro tuo. A Natale voglio fare un brindisi alla tua salute… senti c’è un po’ di pesce fresco venerdì? Quello che c’è, è tutto buonissimo”. Secondo i pm di Salerno, il magistrato calabrese avrebbe interferito anche in un processo di ’ndrangheta contro le cosche di Badolato. L’obiettivo era far cadere il reato di associazione mafiosa per gli imputati della famiglia Saraco.

In cambio mazzette a pezzi da 50 euro e casse di vino ricevute sempre da Santoro che, dopo la sentenza, gli aveva promesso di fargli vedere presto “i soldi seri” come un appartamento a Rho (Mi) che si sarebbe intestato lo stesso medico in pensione pur di favorire l’amico. La regola era sempre la stessa ed è racchiusa in un’intercettazione della guardia di finanza: “Mario (Santoro, ndr), ti devo parlare”. “Dimmi “. “Questo è il blocchetto, metti la cifra che vuoi”.

Il magistrato Petrini “ha fatto mercimonio delle sue funzioni giudiziarie”. Per il gip di Salerno non ci sono dubbi: il pericolo di inquinamento probatorio è alto e l’unico posto per il magistrato Petrini è il carcere per “la sua abituale inclinazione ad accedere a proposte corruttive”.

I mille volti di una terra di folla e solitudine

Napoli anarchica e ribelle, capace di contenere in sé commoventi bellezze e indescrivibili brutture. Napoli perennemente affollata ma sempre sola, rumorosa perché il rumore è un modo per farsi sentire e dire io ci sono.

Ce la racconta Maurizio Braucci, scrittore e sceneggiatore (ultimo lavoro il fortunatissimo Martin Eden di Pietro Marcello) in Campania, il sesto dei video reportage di Italia doc realizzati dai giornalisti del Fatto Quotidiano per Loft produzioni dal 17 gennaio disponibile in esclusiva su www.iloft.it.

Braucci percorre i vicoli del suo quartiere e racconta la città e i napoletani, la loro voglia di fare e di esserci. Sullo sfondo l’esperimento culturale di “Arrevuoto”, “esperienza di massa di un teatro non autoritario”, e il Damm (Diego Armando Maradona di Montesanto) di Parco Ventaglieri. Un esempio di lotta e di gestione di spazi collettivi. La Napoli del lavoro che non c’è, “principale argine contro la camorra”.

Ce ne parlano due operai della Whirlpool, una fabbrica che produce lavatrici di avanguardia e occupa più di 400 operai. Il prodotto, come si dice, tira e ha mercato, ma i vertici dell’azienda hanno deciso di spostare la lavorazione altrove, si parla di paesi dell’Est o della Turchia, dove il lavoro costa di meno. Luciano Doria racconta di quando a 18 anni entrò per la prima volta in fabbrica, per lui e per i suoi compagni, il tutto, il luogo dove costruire una vita.

L’oggi è invece drammatico, fatto di sacrifici (da anni gli operai si vedono falcidiare i salari per i contratti di solidarietà) e lotte per salvare il lavoro. “Perché la fabbrica è l’unico argine contro la camorra”, dice Vincenzo Accurso, operaio e sindacalista.

Della Napoli che inizia da Scampia parla Barbara Pierro. Il quartiere delle Vele, della lunga guerra di camorra, la piazza di spaccio più grande d’Italia, è anche (e soprattutto) luogo di resistenza. “Il Chikù” è un ristorante dove la cucina napoletana si lascia contaminare dai sapori balcanici. Qui le donne di Scampia e quelle del vicino campo rom lavorano gomito a gomito e costruiscono esperienze di solidarietà. Campania terra dei fuochi. Un’etichetta che Pietro Parisi rifiuta. È stato chef internazionale e da anni ha deciso di tornare nella sua Palma Campania. Ora lo chiamano il cuoco contadino ed è impegnato su due fronti difficilissimi: la valorizzazione dei prodotti della terra sotto il Vesuvio, e la cucina del riuso.

Franco Mazza, medico del lavoro, guida le telecamere nella Valle del Sabato, un pezzo di Campania aggredito dall’inquinamento. Quando dismette il camice bianco, indossa i panni di promotore di comitati di lotta contro le fabbriche sporche. Chi sono i “veri casalesi” ce lo racconta Renato Natale, medico e volontario, per la seconda volta sindaco di Casal di Principe. Sono le persone che in un trentennio di dittatura camorristica hanno resistito ai clan pagando un prezzo altissimo.

L’elenco delle vittime di chi ha combattuto è impressionante. “È stata un guerra – dice il sindaco – la nostra Resistenza, ora c’è bisogno di ricostruire. Ci vogliono investimenti e lavoro, un moderno Piano Marshall per ridare vita e speranza alle nostre comunità”.

Il doc Campania è stato realizzato da Matteo Billi ed Enrico Fierro, con la collaborazione di Daniele Sanzone e Vincenzo Iurillo.

I piani casalesi su Parmalat: “Il latte profuma di camorra”

“Il latte profuma di… camorra, sta scritto là sopra”. Il manager territory della Parmalat, Antonio Santoro, sta leggendo al telefono un articolo ad Adolfo Greco, grosso imprenditore del settore, uffici a Castellammare di Stabia (Napoli) e una consolidata fama di ‘amico di Raffaele Cutolo’ – Greco fu uno dei mediatori della liberazione dell’assessore campano Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate Rosse nel 1981 – che lui stesso ricorda in conversazioni intercettate in auto.

Quei tempi sono lontani, la condanna per favoreggiamento del boss di Ottaviano è cancellata dalla riabilitazione. È il 2013 e ora Greco è solo un rinomato uomo d’affari con ottime frequentazioni in politica e in magistratura, una smisurata ricchezza (cinque anni dopo i poliziotti troveranno quasi 3 milioni di euro nascosti in una intercapedine di casa), un figlio consigliere comunale. Greco è il concessionario Parmalat tra Castellammare, Sorrento e Capri e sta lavorando per aiutare altri “amici”, i fratelli Nicola e Filippo Capaldo, a risolvere un problema: sono i nipoti del boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria e sono i titolari di fatto dell’azienda Euromilk, con la quale distribuivano i prodotti Parmalat nel Casertano. Personaggi “di alto livello… gente di serie A… non munnezzaglia (spazzatura, ndr)”, come dice Greco in un’intercettazione ambientale. Sa chi sono. Eppure si adopera per loro. Forse proprio per questo.

Il problema da risolvere non è semplice: Euromilk è confiscata per le condanne di Filippo Capaldo, con debiti da 2 milioni di euro, l’amministrazione giudiziaria ha consentito ai Capaldo di continuare a coltivare il business (“non gli aveva fatto perdere nulla”, dicono i fratelli), ma ora siamo vicini al game over. Parmalat infatti sta per revocare la concessione. I Capaldo vanno da Greco a chiedere aiuto. “Per cose buone” commenta lui sorridendo con un amico. Da quel momento, Greco diventa per i nipoti di Zagaria un consulente a tutto tondo. Suggerisce di creare una coop con gli ex dipendenti dell’azienda in crisi, cosa ottima per l’immagine dell’operazione, e intestarla a prestanomi. Poi grazie ai suoi contatti con i funzionari campani di Parmalat organizza con loro appuntamenti nei suoi uffici – infarciti di cimici messe lì per un’altra inchiesta di camorra – che producono il risultato sperato: il contratto di concessione Parmalat passa alla nuova coop, la Santa Maria acrl. In pratica, il clan Zagaria rimesso in pista.

Per qualche mese, Greco fornisce ai Capaldo anche il latte grezzo a prezzo di costo. Poi smette, preoccupato dopo un paio di mancati pagamenti da quasi 200 mila euro.

L’operazione va a buon fine grazie alla complicità di tre funzionari di Parmalat. Che sanno bene chi stanno imbarcando. E vanno avanti lo stesso. Per due di loro, Santoro e il manager normal trade Campania Lorenzo Vanore, il Gip di Napoli ha ordinato i domiciliari per concorso esterno in associazione camorristica, il terzo è indagato a piede libero. Invece per Greco, come per i fratelli Capaldo, il giudice aveva deciso il carcere. Era già in prigione dal dicembre 2018 con accuse di estorsione aggravata, per le sue diffuse “mediazioni” tra clan stabiesi e imprenditori locali taglieggiati, nell’ambito di un’inchiesta del pm della Dda di Napoli Giuseppe Cimmarotta, lo stesso degli arresti di ieri. Proprio ieri Greco aveva ottenuto i domiciliari per motivi di salute. La nuova ordinanza è stata una doccia fredda.

Le indagini sono state condotte da Polizia e Finanza. La Procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo ha deciso di sentire come testi la dirigenza della sede centrale di Parmalat per fare chiarezza sulle informazioni che arrivavano dai loro referenti in Campania. Le audizioni sono iniziate ieri. Serviranno anche a stabilire la qualità degli strumenti che l’azienda di Parma usa per proteggersi dal rischio di infiltrazioni criminali come quelle scoperchiate ieri.

“Benedetto XVI usato per un testo falso e arcaico”

Questa è la storia di un grande scoop finito in grande buffonata. Di un complotto contro papa Francesco ordito dal cardinale Sarah e della manipolazione di un uomo anziano quasi cieco, Benedetto XVI, trasformatasi in farsa. In principio c’è un libro-evento: Des profondeurs de nos coeurs uscito ieri in Francia, in esclusiva mondiale, pubblicato da Fayard. Sulla copertina i nomi degli autori Benedetto XVI e il cardinale Robert Sarah. Ma sin dall’introduzione lo scopo è evidente: un attacco sferzante contro il progetto di papa Francesco di accettare l’ordinazione degli uomini sposati, i famosi “viri probati”.

In Francia è stato il quotidiano di destra Le Figaro a rivelare lunedì scorso i contenuti del volume, sollevando un vasto dibattito. Un Papa che attacca un altro Papa: una storia così non si sentiva dal XIV secolo e dal grande scisma con i papi di Avignone. Ma lunedì sera, la manipolazione è venuta a galla. Il libro è un “fake”: il Papa emerito Benedetto XVI non ha mai dato il suo accordo alla pubblicazione. Avrebbe solo consegnato un breve testo, un articolo di una ventina di pagine, al cardinale Sarah. Martedì, si è appreso anche che altri l’introduzione e la conclusione, cofirmati da Benedetto XVI, in realtà non sono stati scritti dal Papa emerito. Li avrebbe solo “riletti”. Questa tripla manipolazione senza precedenti ha scatenato uno scandalo mondiale, nato sui media spagnoli.

Martedì stesso, Benedetto XVI ha chiesto di cancellare il suo nome dalla copertina, dall’introduzione e dalla conclusione. Il che conferma che non è stato lui a scriverle. Il libro sarà dunque ristampato con il solo nome di Sarah. Il contributo del Papa sarà appena menzionato. C’è da chiedersi se le edizioni Fayard abbiano firmato un contratto con Benedetto XVI o con la Libreria Editrice Vaticana (LEV), l’unica che può autorizzare la pubblicazione dei libri dei papi. Cosa pensare di questa truffa editoriale? In primo luogo, siamo di fronte a un nuovo episodio della guerra dichiarata dai “ratzingeriani” contro papa Francesco. Al timone c’è il cardinale di estrema destra Robert Sarah, prefetto caduto in disgrazia in Vaticano. Sarah difende posizioni ultra-conservatrici, spesso misogine, ostili ai migranti e omofobe (in un famoso discorso ha persino paragonato gli omosessuali a Daesh!). Si sa che le vendite dei suoi precedenti libri sono state gonfiate dagli acquisti all’ingrosso da parte di fondazioni conservatrici Usa. In secondo luogo, si tratta di uno scandalo editoriale. Fayard ha pubblicato con leggerezza un vero-finto libro di papa Benedetto XVI strumentalizzandone il nome a scopi politici o commerciali. Già alcuni mesi fa Fayard è stato denunciato per aver pubblicato il libro di un politico di estrema destra, accusato dalla stampa di complottismo e plagio.

La controversia sollevata da questo testo contraffatto conferma infine che il dibattito sul celibato dei sacerdoti è aperto. Se il cardinale Sarah ha lanciato una battaglia così violenta, con la complicità reale o immaginaria di papa Benedetto XVI, è perché sa che la fine del celibato sacerdotale è vicina.

Il suo testo di 91 pagine è arcaico e falso (il celibato è un’invenzione tardiva, un dogma che non figura né nella Bibbia né nei Vangeli). A parte l’estrema destra identitaria, tutti hanno capito che è giunto il momento di accettare il matrimonio dei sacerdoti, l’ordinazione delle donne e il riconoscimento dell’omosessualità, molto presente tra i sacerdoti. È solo questione di tempo. Non si tratta più di un dibattito morale o teologico. È una questione demografica: la fine delle vocazioni. In Francia, 800 sacerdoti muoiono ogni anno; ne sono ordinati solo una cinquantina; molti sacerdoti eterosessuali si dimettono. Tra una decina di anni non ci saranno quasi più preti in Europa: e un prete, anche sposato, è meglio di niente. Tanto più che diversi preti cattolici sono già sposati, tra gli anglicani che hanno raggiunto il cattolicesimo sotto Benedetto XVI e tra i cristiani d’Oriente, collegati a Roma, che incoraggiano l’ordinazione dei preti sposati (e di cui circa il 70% lo è). In realtà a seppellire la Chiesa sono i prelati che, come il cardinale Sarah, restano attaccati a un’idea di celibato che appartiene al passato.

Ho già mostrato nel mio libro Sodoma come, in realtà, a rifiutare con più violenza il matrimonio dei preti e l’ordinazione delle donne, sono spesso proprio sacerdoti omosessuali o omofili, misogini per natura e omofobi per strategia. Vogliono restarsene da soli tra uomini celibi! Ma i giorni del celibato sacerdotale sono ormai contati e il grido isolato di Sarah non cambierà nulla. Per quanto riguarda Benedetto XVI, forse, a sua insaputa, tramite questa sterile polemica su un libro falso, l’anziano papa ha appena fatto un vero “coming out”!

*Scrittore, autore di “Sodoma”, best-seller mondiale pubblicato da Feltrinelli
(Traduzione di Luana De Micco)

“Violato l’obbligo di castità, c’è la prova”. La Curia padovana contro don Marino

Elena, la barricadera: “Il casino deve continuare per giorni, mesi, fino al suo ritorno”. Marco, tifoso juventino: “Fino alla fine. Forza don Marino. Non mollare mai”. Alessandra: “Aveva portato il sorriso e i colori dell’arcobaleno, ora è tutto nuvoloso e noi faremo buferaaaa!”. Ancora Elena, melanconica: “Sento gelo quando passo davanti alla chiesa. Un faro spento, una guida che manca. Non un prete qualunque”. Don Marino Ruggero traccia un solco nella parrocchia di San Lorenzo in Roncon di Albignasego (Pd). Divide i fedeli in tifoserie. Getta lo scompiglio nella diocesi di Padova. Ma soprattutto fa tornare nella città del Santo i fantasmi di antichi scandali, quando le orge si consumarono nei locali della parrocchia di San Lazzaro.

Il vescovo Claudio Cipolla lo ha trasferito e ha aperto nei confronti di questo sacerdote un po’ eccentrico, ma capace di accalorare le sue pecorelle, un processo canonico per “comportamenti non consoni allo stato clericale, inerenti agli impegni derivanti dall’obbligo del celibato per i preti”. Così cita un comunicato della Curia. Fuor di metafora, avrebbe fatto sesso con qualche donna. Dicerie? No, “precise accuse avvalorate da prove”. Inutile la raccomandazione del presule: “Chiedo a ciascuno la disponibilità a vivere questo difficile momento con discrezione”.

I parrocchiani hanno scatenato un pandemonio. Hanno affisso striscioni. Lo aspettano. Lo reclamano. In mille hanno firmato una petizione. E lui, anzichè chiudersi nella penitenza, ha lanciato una roboante guerra del sospetto a colpi di interviste. “Se la Curia si comporta in modo così scorretto nei miei confronti, allora io sono vendicativo…”. Nient’affatto evangelica come premessa. Le conseguenze sono luciferine. “Questa è una delle tante accuse che mi vengono fatte, dall’essere leghista in poi. Ci sono stati i provini al Grande Fratello, le mie posizioni sui Rom, le comunioni a separati e divorziati. Sono considerato un prete scomodo e i preti scomodi vogliono eliminarli. Prima il leghista, ora il sesso”. Minaccia di parlare. “Allora io inizio a fare l’elenco, con prove, di preti pedofili, gay o che hanno la donna che ha abortito, capo di grandi parrocchie della Diocesi di Padova. So chi sono e dove sono”.

Il riferimento alla Lega nasce dalle posizioni assunte da don Marino. Dei Rom aveva detto: “Rappresentano un problema che non si risolve con belle prediche, ma con soluzioni concrete”. Sulla legittima difesa era apparso eterodosso, scrivendo sul bollettino parrocchiale: “Caro ladro, io mi difendo”.

Convergenze politiche? “Sull’immigrazione ho le mie idee. Se coincidono con quelle di un partito come la Lega non so cosa farci”. E il sesso? “Sono limpido, trasparente e coerente. Cosa significa rapporti? Se parliamo di un abbraccio, un aperitivo o un bacio di auguri, allora sì. Sono sempre stato fatto così. Ma se parliamo di altro, allora devono dimostrarlo con prove”.

Siamo solo all’inizio di una frana di parole e sospetti. L’ultima di don Marino punta ai soldi. “Sono arrivato in parrocchia nel 2017 e poco dopo sono scomparsi i registri che riguardavano 10 anni di gestione economica. L’anno successivo è sparita anche la chiavetta che permetteva i pagamenti digitali. Ho presentato denuncia contro ignoti…”. E addita, senza fare nomi, “un gruppo di persone che comandava tutto e decideva ogni spesa, dalle sagre ai contributi per le associazioni. Ho voluto vedere con i miei occhi. Quando ho chiesto di verificare i registri, non c’erano più”.

Don Marino della discordia. A Montegrotto aveva allestito un presepe con la Madonna raffigurata da una ragazza dell’Est incinta e abbandonata. Al momento del commiato in chiesa, a Villa di Teolo, si era presentato con in braccio Naomi, un meticcio nero, perché anche lui si sentiva un randagio per colpa della Curia. Si faceva fotografare con la bandana del Venezuela. Con la maglia bianconera. Assieme a un’ex modella di Playboy. Ballava con i ragazzi in versione rock. E aveva aperto il Pub del Don, dove il sacerdote faceva l’oste. Ma alla fine il conto lo ha presentato la Curia.

Non solo preti sposati, Francesco apre alle donne

Nel momento in cui si parla a sproposito di celibato ai sacerdoti, come se papa Francesco avesse intenzione di rimuovere il vincolo e il cardinale Robert Sarah il compito di tutelare la Chiesa con il libro prima a doppia firma e poi corretto in “libro con un contributo di Joseph Ratzinger”, lo stesso Jorge Mario Bergoglio nomina una donna officiale in Segreteria di Stato, la palermitana Francesca Di Giovanni, con l’incarico di sottosegretario ai rapporti con i Paesi stranieri per il settore multilaterale.

Il governo vaticano è sempre più aperto ai laici, per esempio Paolo Ruffini è prefetto cioè ministro per le Comunicazioni, e adesso alle donne: “È la prima volta che una donna assume una posizione dirigenziale in Segreteria di Stato. Il Santo Padre ha preso una decisione innovativa, che rappresenta un segno di attenzione nei confronti delle donne”, ha dichiarato Di Giovanni in una intervista ai media ufficiali del Vaticano. Il libro di Sarah, che con le fatiche editoriali di incerto successo e di evidente indirizzo politico non stupisce Francesco, certifica due punti critici del pontificato: l’azione di contrasto dei cattolici di destra legati con organizzazioni europee e americane di matrice conservatrice; la difficile coabitazione con Ratzinger e soprattutto i collaboratori che assistono l’anziano papa emerito.

Bergoglio ha l’occasione di chiarire gli equivoci sui preti con un messaggio, pare non più un’esortazione e dunque con un documento di minore valore, per recepire le indicazioni del sinodo per l’Amazzonia dell’ottobre scorso, che non ha liberato i sacerdoti dal celibato, ma ha avallato l’ordinazione sacerdotale agli sposati – “viri probati”, uomini di provata fede e con famiglie stabili – come soluzione eccezionale in contesti eccezionali. Una facoltà che il pontefice può esercitare, come peraltro accaduto a Benedetto XVI.

Le riflessioni di Ratzinger contenute nel volume di Sarah, annunciate come un appello del cardinale africano e del pontefice emerito a non tacere dinanzi allo sfregio del sacerdozio, rendono Ratzinger feticcio degli oppositori di Bergoglio. Chi ha il dovere di impedire che venga usato è monsignor Georg Ganswein, il segretario particolare. Gli incontri nel monastero e lo scambio epistolare di Ratzinger e Sarah di sicuro avranno ricevuto l’intermediazione di Ganswein e nessuno ha fermato Sarah, finché Ganswein non è intervenuto con un comunicato per dire che Ratzinger voleva ritirare la firma dal libro. Un po’ tardi per non scatenare un putiferio. Ieri padre Antonio Spadaro, direttore della rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica e amico di Francesco, ha lasciato una frase sibillina su Twitter: “Il diavolo fa belle pentole. Ma i coperchi non gli vengono mai bene”. Il significato: le trame per ostacolare Francesco sono opera di dilettanti e finiscono per causare danni a chi le fa. Altro che Netflix.

Bibbiano: le nuove storie horror dei bambini rubati

Mentre Matteo Salvini usa Bibbiano come la Nutella, il rosario e il parmigiano, e la sinistra (ieri anche Giachetti) si occupa solo di rimarcare il dramma che vive il sindaco Carletti senza mai spendere un tweet o una parola sul dramma vissuto dalle famiglie, la solita sensazione è che di quello che raccontano le carte, non freghi niente a nessuno. E che nessuno abbia idea della montagna di dolore che questa vicenda si porta dietro, al di là degli esiti del processo.

Perché, ricordiamolo, se gli indagati sono stati travolti dalla gogna, le persone coinvolte hanno vissuto lo strazio infame di essere accusate di pedofilia, di aver subito l’allontanamento dai figli, i processi, le mortificazioni pubbliche e private, di essere annientate nel loro ruolo di genitori e cittadini perbene.

Bisogna leggere le 71 pagine relative alle conclusioni delle indagini per capire di cosa si sta parlando. Riuscendo, se possibile, a non farsi venire il magone, perché ci sono passaggi angoscianti, talvolta surreali, con intercettazioni che svelano dinamiche folli.

C’è una bambina che viene convinta di aver subito abusi dal padre, ma a lei quel padre manca. Le manca sua mamma. È stata affidata a una coppia di donne, amiche della responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza, Federica Anghinolfi (64 i capi di imputazione a suo carico). Quest’ultima suggerisce a un suo collaboratore, Monopoli, di “spostare l’attenzione per spostare l’emozione”, ovvero di aiutare la bambina a dimenticare i genitori e di interrompere gli incontri di questi con la figlia.

Il papà è disperato, invia messaggi a un’educatrice contando sul fatto che li farà leggere alla figlia: “Ciao, il papà non riesce ad avere risposte per portarti fuori a mangiare il sushi. Spero che stai bene e ti voglio un mondo di bene”. La Anghinolfi scrive all’educatrice: “Bene, questo messaggio non lo diremo alla bimba”.

Sempre la stessa bambina ha atteggiamenti sessualizzati, ma viene omesso il fatto che in passato avesse avuto accesso a materiale pornografico. Le due affidatarie raccontano che masturba il gatto domestico, ma non è vero. Dicono che la bambina va in bagno ed emette gemiti di piacere, ma omettono che la bambina aveva spiegato di avere difficoltà di defecazione. Non confessa gli abusi subiti dal padre e allora la moglie di Claudio Foti, Nadia Bolognini, sua terapeuta, le spiega che deve svuotare gli scatoloni “sesso” e “papà”, le suggerisce che sua madre sia una prostituta, che il sadismo nei confronti del gatto sia conseguenza degli abusi subiti. Le due affidatarie le urlano con parolacce che se non svuota gli scatoloni loro ne soffriranno.

“Stanotte ho pianto tanto perché mi mancavano i miei genitori”, scrive invece la bambina in uno dei bigliettini trovati a casa delle due affidatarie.

Nel caso di un’altra bambina, la Anghinolfi convince un’assistente sociale a redigere una relazione falsa su genitori e nonni della minore. Convince la collega raccontandole che esiste una setta satanica dalla quale deve difendere i bambini e anche se stessa perché gli operatori sociali vengono pedinati (!).

C’è chi modifica i disegni della bambina, chi accusa i suoi nonni di averle comprato un cagnolino col bieco scopo di rendere più doloroso l’allontanamento da loro, mentre l’acquisto del cane era stato suggerito dalla psicologa.

Un altro bambino viene allontanato dalla famiglia perché tre degli indagati depositano, secondo l’accusa, una relazione falsa. Descrivono il bambino come denutrito (smentiti dal pediatra), omettono che le macchie trovate sulle mutandine del minore, a seguito di accertamenti, sono risultate essere solo feci, “lasciando però residuare sospetti di abuso sessuale del bambino”. Dicono che suo padre è alcolizzato, protagonista di risse in paese, con la patente ritirata, che non paga le rette scolastiche. Non è vero nulla.

C’è un altro bambino la cui storia trasmette un profondo senso di angoscia: viene allontanato dal nucleo familiare e, in un contesto già così doloroso, Gibertini e la Anghinolfi convincono sua madre a rivelare al figlio allontanato che quello che ritiene sia suo padre, non è il padre biologico. Ovviamente, la loro convinzione è che l’uomo abbia abusato di lui. Il bambino si dispera, piange, supplica di riportarlo dalla madre e da colui che riteneva suo padre. La Bolognini poi si traveste da lupo e da altri personaggi cattivi “inseguendolo nel suo studio, urlandogli contro col dichiarato fine di punirlo e sottometterlo associando la figura del lupo cattivo al padre”. A volte lo interroga nascondendosi dietro un lenzuolo.

C’è poi un padre che è stato scagionato dall’accusa di aver molestato il figlio, ma a cui la Anghinolfi e Gibertini precludono comunque la possibilità di incontrare i suoi due bambini. Dicono alla bambina che il padre ha fatto cose brutte al fratellino. La Anghinolfi riferisce al padre che può incontrare i figli solo se consentirà a Claudio Foti di effettuare della psicoterapia sul bambino.

C’è un padre a cui è stata tolta la figlia e scrive che per lui vivere senza di lei “è come morire”. La figlia dice di voler scappare dal centro per tornare da lui.

C’è, infine, la storia di un’altra ragazzina. Nadia Bolognini, al fine di sviare le indagini per il reato di maltrattamento da parte del padre, ne altera lo stato emotivo tramite quello che l’accusa definisce un sorta di atto esorcistico: “Convinceva e ribadiva alla bambina che all’interno del suo corpo a seguito degli abusi subiti, si era creata una doppia personalità malvagia che riusciva a prendere il sopravvento sulla parte buona inducendola a compiere atti aggressivi e ingiuriosi nei confronti dei coetanei. Effettuava anche una sorta di atto esorcistico in cui tentava di interloquire con tale entità malvagia presente nella bambina, chiedendo che quest’ultima autorizzasse fisicamente la bambina a rispondere alle sue domande muovendo una parte del corpo”.

Come se non bastasse, la Bolognini riteneva prove degli abusi subiti della bambina i (presunti) racconti di quest’ultima alla madre affidataria: la notte di Halloween, quando lei aveva 4 anni, il papà l’aveva coinvolta in omicidi, riti sessuali da parte del padre e dei suoi amici mascherati su bambini. Questi ultimi, col sangue delle vittime sul volto, erano andati a fare dolcetto e scherzetto.