La scuola divisa in classi (sociali). “Di qua i borghesi, di là i poveri”

Genitori facoltosi “indirizzati” al plesso “per ricchi” in zona Acqua Traversa; episodi di bullismo denunciati e “ignorati”; mamme “sorprese dal clamore mediatico” per una “descrizione” che è solo “coerente con la realtà”. E una preside-psicologa asserragliata nel suo ufficio, che non risponde al telefono e sbraita contro i giornalisti che chiedono una parola, una dichiarazione. Ha fatto il giro d’Italia il caso, sollevato dal freepress Leggo, dell’Istituto comprensivo statale “Via Trionfale”, raggruppamento di scuole elementari e medie del quadrante nord di Roma, che sul suo sito internet distingueva per “fasce socio culturali” i quattro edifici scolastici che lo compongono. “Il plesso di via Assarotti – si leggeva sulla presentazione online, finché il ministero dell’Istruzione ieri non ne ha ottenuto la rimozione dopo la tempesta mediatica – nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa” e conta “il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana”. La scuola di via Vallombrosa, a 3 chilometri, “accoglie prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia, assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie”, quindi, precisava il sito, “colf, badanti, autisti” e “simili”.

Quest’ultima è su una collinetta nei pressi del parco dell’Insugherata, fra decine di villette eleganti, unico baluardo statale in mezzo a scuole private americane, francesi e cattoliche di un’area molto verde tra la via Camilluccia e la via Cassia. La riforma del 2011 ha portato l’ex Vallombrosa a “fondersi” con le altre tre scuole, con il rischio di chiudere per il calo degli iscritti. “Cercano di farsi pubblicità – spiegano al Fatto fonti del Municipio XV –. Devono rassicurare i ricchi di Acqua Traversa che lì i bambini non finiranno per mescolarsi con quelli di Monte Mario”. Un papà avvocato, che dice di abitare “a metà strada” fra i diversi plessi, conferma: “Quando io e mia moglie siamo andati all’open day – racconta – volevamo portare nostro figlio in via Assarotti, perché è più di passaggio. Hanno fatto di tutto per convincerci a iscriverlo alla Vallombrosa, dicendoci che in questo modo sarebbe stato ‘più seguito’”. “Non capisco di cosa vi stupiate”, ci dice una giovane mamma: “Questo è un quartiere benestante, l’altro è più popolare. La discriminazione la fanno i prezzi delle case, non la scuola”. “Che poi, i veri ricchi, i figli li portano alle scuole private”, interviene un’altra mamma.

“La presentazione è scritta molto male – ammette Claudio Rizza, genitore e noto giornalista parlamentare – ma dal punto di vista pratico non ho mai notato discriminazioni”. Affermazione confutata dall’attrice Francesca Stajano Sasson, che al Fatto racconta la sua esperienza “da incubo” alla ex Vallombrosa: “Qui, nella scuola dei presunti ricchi, mio figlio ha subito atti di bullismo per 5 anni – rivela – e ne porta ancora i segni. La preside ha sempre minimizzato, evitando il confronto e lasciandomi in balia di insegnanti che sembravano temere l’influenza dei genitori dei bulli. Anche altri bambini avevano lo stesso problema ma le mamme non denunciavano. Ci hanno lasciato da soli. È servito un mio atto plateale per mitigare una situazione che stava degenerando. Non hanno proprio nulla di cui vantarsi”.

Il caso è arrivato fino alla scrivania del ministro all’Istruzione, Lucia Azzolina, che in una nota ha chiesto “motivate ragioni di questa scelta” che “comunque non condivido”. Critiche anche dalla sindaca di Roma, Virginia Raggi. L’affondo è arrivato dal sottosegretario Giuseppe De Cristofaro: “Sconcertato, siamo nel 2020. Sto già intervenendo per richiedere l’immediata rimozione dal sito web”, avvenuta alcune ore dopo. La dirigente scolastica Annunziata Marciano, psicologa, si è barricata nel suo ufficio: “La preside non parla, ha detto che dovete andare via”, ci dice, imbarazzato, il portiere della scuola di via Trionfale. Sul web parole pesanti: “Classismo”, “razzismo” e perfino “apartheid”. A un certo punto, dalla sede centrale, esce una cuoca, che si sfoga: “È una vergogna, uno schifo, i bambini sono tutti uguali. Scrivetelo”.

Quello del “Via Trionfale” non è un caso isolato. Le riforme che hanno reso “autonomi” gli istituti, spingono i dirigenti scolastici a proporre vere e proprie campagne di iscrizione. Molti hanno scelto di puntare sul “prestigio”, anche in termini di ceto sociale. Qualche anno fa, il liceo classico Visconti di Roma, su una brochure assicurava che “le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese” e che “nessuno studente è diversamente abile”. In un’altra scuola elementare di Roma, la “G.G. Belli” del rione Prati, la presentazione parlava di “studenti di zone limitrofe e di quartieri più lontani spesso collegati al pendolarismo” ma che comunque “la realtà socio-culturale è caratterizzata da un ceto medio-alto”.

Saipem, nessuna tangente in Algeria: assolti in appello le aziende e Scaroni

Non ci sono prove sufficienti che dimostrino passaggi di denaro a pubblici ufficiali algerini. È il senso della sentenza con cui ieri la Corte d’ Appello di Milano ha assolto gli imputati per corruzione internazionale al processo con al centro la presunta maxi tangente da 197 milioni di dollari che sarebbe stata versata da Saipem, società che realizza infrastrutture petrolifere con la complicità della controllante Eni, e dai loro vertici e manager al ministro dell’energia dell’Algeria Chekib Khelil e al suo entourage, tramite l’intermediario Farid Bedjaoui, in cambio di appalti per oltre otto miliardi di euro.

I giudici hanno modificato il verdetto di primo grado, arrivando così all’assoluzione di tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste” sulle condanne a 4 anni e 9 mesi per Pietro Tali e Pietro Varone, rispettivamente ex presidente ed ex ad della partecipata di Eni ed ex direttore operativo nel Paese africano, e 4 anni e 1 mese per l’ex direttore finanziario prima di Saipem e poi di Eni Alessandro Bernini. Cancellati, oltre alla sanzione pecuniaria di 400 mila euro disposta per Saipem, anche i 5 anni e 5 mesi per Farid Bedjaoui, segretario del ministro e ritenuto mediatore della mega stecca e i 4 anni e 1 mese inflitti sia al suo uomo di fiducia Samyr Ouraied sia a Omar Habour, ritenuto il presunto riciclatore. Confermata anche l’assoluzione di primo grado dell’ex numero uno di Eni (oggi presidente del Milan), Paolo Scaroni, e l’ex responsabile per il Nord Africa Antonio Vella. I giudici hanno anche disposto la revoca della confisca di 197 milioni di dollari, l’equivalente del prezzo del reato, a Saipem e di 165 milioni a Bedjaoui che si è visto anche annullare il mandato di cattura internazionale.

La sentenza ha fatto esultare le difese. L’ex ad di Eni, Vella e la stessa società erano già stati prosciolti nel 2015 dal gup Alessandra Clemente, ma poi erano finiti di nuovo imputati per via di un provvedimento della Cassazione che aveva accolto un ricorso dei pm. Tra 90 giorni le motivazioni e poi il giudizio in Cassazione.

“Il diesel non è green”. L’Antitrust multa Eni

Il green diesel di Eni di verde ha solo il nome, che ha utilizzato impropriamente. A sancirlo è l’Antitrust che ha bastonato il colosso italiano degli idrocarburi con una sanzione da 5 milioni di euro per pubblicità ingannevole dopo che lo scorso febbraio le associazioni Movimento Difesa del Cittadino, Legambiente e la European Federation of Transport and Environment hanno sollevato il caso, ripreso da il Fatto Quotidiano. Nel mirino dell’Authority è finita la campagna promozionale del carburante Eni Diesel+ che dal 2016 al 2019 – inondando giornali, televisione, radio, cinema, web e stazioni di servizio – ha promesso “-4% di consumi e -40% di emissioni gassose”, cercando così di convincere gli automobilisti che si trattava di un prodotto che contribuiva a tutelare l’ambiente.

Un messaggio che, invece, secondo l’Antitrust ha solo ingannato gli automobilisti facendo passare il Diesel+ quasi come miracoloso: inquinava meno, garantendo più potenza ma anche minore usura, e ovviamente consentendo dei risparmi, con minori consumi. “Questa confusione ha finito con l’attribuire al prodotto nel suo complesso qualità di tutela ambientale che – scrive l’Antitrust – non sono risultate fondate”.

Come si legge nel testo del provvedimento, in un filmato diffuso sul sito web dell’Eni, due voci recitavano: “Vuoi che la tua auto duri di più e inquini meno? C’è un carburante innovativo che si prende cura del motore e riduce l’impatto ambientale. Eni Diesel+, anche grazie al 15% di componente rinnovabile riduce i consumi, garantendo la piena potenza del motore. Già, i consumi sono ridotti fino al 4% e le emissioni gassose fino al 40%”. In realtà questi messaggi non erano legittimi e corretti, visto che si riferivano “a un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante”. Inoltre lo spot puntava sull’impatto ambientale, ma che per l’Antitrust era “difficilmente intuibile dai consumatori inondati da video e spot online che ne esaltavano le presunte qualità in termini di sostenibilità”.

L’istruttoria Antitrust ricostruisce anche la mobilitazione imponente di esperti che il gruppo guidato da Claudio Descalzi ha schierato a difesa dei propri spot, incluso il Cnr, il Consiglio nazionale della ricerca che ha prodotto a difesa di Eni i test effettuati dall’Istituto Motori su quattro modelli a gasolio: una Alfa Romeo Giulietta Euro 5, una Ford Focus Euro 5, una Opel Euro 4 e una VW Golf Euro 4. Ma nel documento l’Antitrust spiega che “la componente che Eni definisce Green Diesel è solo un carburante diesel ottenuto da olio di palma e da olii esausti lavorati da grassi vegetali attraverso un processo di idrogenazione nella propria raffineria di Venezia15, appositamente strutturata per questo tipo di trasformazione”. Si tratta di un carburante identificabile con la sigla di uso comune nel settore, “Hvo – Hydrotreated Vegetable Oil”, che le associazioni che hanno sollevato il caso hanno comunque contestato, spiegando che “usare olio di palma incentiva le piantagioni necessarie a produrlo e l’impatto ecologico complessivo è negativo”.

Nel corso del procedimento l’Eni ha deciso l’interruzione della campagna stampa, sperando di evitare la sanzione. E si è impegnata a non utilizzare più, con riferimento a carburanti per autotrazione, la parola green. Ma la sanzione dell’Antitrust è scattata comunque. L’Eni, convinta di “aver presentato alcune decisive evidenze che confermano la correttezza metodologica e informativa della propria comunicazione commerciale”, ha fatto sapere di riservarsi “di valutare le motivazioni del provvedimento ai fini della sua impugnativa al Tar”.

L’European Green Deal. I “soldi nuovi”? 7,5 miliardi

I ludi per l’European Green Deal, il “patto” che dovrebbe fare dell’Europa un continente “verde” entro il 2050 (a cui è stato tolto il “New” che faceva troppo Franklin Delano Roosevelt con annessa spesa pubblica), sono partiti ufficialmente ieri con l’approvazione da parte del Parlamento Ue – 482 sì, 136 no, 95 astensioni – della risoluzione sul piano presentato da Ursula von der Leyen: in sostanza si tratta di azzerare a tappe forzate le emissioni di gas serra per combattere il cambiamento climatico (e, dunque, non ogni emergenza ambientale). A questo fine, abbiamo letto sul sito della Commissione europea e sui giornali, saranno fatti investimenti per mille miliardi in dieci anni, anche se ne servirebbero di più.

Ma di che parliamo? Al momento più che altro di una serie di buone intenzioni, nel senso che i dettagli (come, cosa, quanto) vanno ancora decisi. E i soldi? Anche qui va chiarito preliminarmente che i mille miliardi non esistono, quella è la cifra totale che si spera di attivare: la Ue mette qualcosa, gli Stati qualcos’altro (se possono), la Banca europea degli investimenti (Bei) fa qualche prestito e il mitico “effetto leva”, già visto all’opera col cosiddetto “Piano Juncker”, porterà il tutto – grazie allo stimolo agli investimenti privati – alla cifra tonda sbandierata in questi giorni. I precedenti non lasciano ben sperare: è assai difficile stabilire quali investimenti privati sarebbero stati fatti (o saranno fatti) senza “l’effetto leva” e/o se questi saranno sostitutivi di altri già programmati. Diciamo che se – come dice la Commissione – il Piano Juncker ha mobilitato 450 miliardi di investimenti suppletivi nell’Ue e 37 di questi in Italia, non si capisce come gli investimenti privati nel nostro Paese continuino ad essere drammaticamente sotto il picco pre-crisi.

I mille miliardi dovrebbero essere divisi così: 503 miliardi innescati dal bilancio comunitario, 143 dal Just Transition Fund (Fondo per una transizione equa), altri 114 dal co-finanziamento nazionale e infine 279 da InvestEU, che poi sarebbe l’eredità del Piano Juncker di cui sopra. Molta fuffa in cui, ad oggi, c’è un’unica cifra certa: i fondi del bilancio comunitario – sulla cui ripartizione per i prossimi anni non c’è ancora l’accordo – sono gli stessi di prima che forse saranno però destinati a nuovi scopi (e quelli vecchi?), mentre tra i “soldi nuovi”, come ha correttamente spiegato anche il commissario italiano Paolo Gentiloni, possono essere citati solo i 7,5 miliardi del Just Transition Fund (JTF), creato in sostanza per convincere la Polonia a dare il suo via libera al Green New Deal.

La beffa/1. Il fondo JTF tra il 2021 e il 2027 dovrebbe attenuare gli effetti socio-economici della transizione energetica, attivando oltre 140 miliardi di investimenti (compresi i co-finanziamenti nazionali, i prestiti della Bei e i soliti privati). In attesa di questa manna, vanno divisi questi 7 miliardi e mezzo. I particolari non sono ancora noti, ma quei soldi – quelli citati a proposito degli interventi all’Ilva di Taranto – dovrebbero finire in percentuale rilevante (2 miliardi secondo le bozze circolate ieri) proprio a Varsavia, la cui economia è fortemente dipendente dal carbone: all’Italia spetterebbero 365 milioni, cifra assai inferiore al contributo percentuale che daremo al JTF (circa 900 milioni) essendo contributori netti del- l’Unione.

La beffa/2. Se non verrà concesso di scorporare dal deficit gli investimenti “verdi” solo i Paesi che hanno spazio fiscale potranno seguire la strategia verde, gli altri (l’Italia) potrà farlo solo diminuendo in egual misura altre spese. È appena il caso di ricordare che la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen è contraria, la Germania pure.

La beffa/3. In attesa dei particolari, c’è un altro pericolo nel Green Deal: che finisca per finanziare soprattutto le zone più ricche del continente, che sono poi quelle che producono più gas serra, e questo anche usando gli attuali Fondi di coesione, dedicati alle aree più povere dell’Unione (come, ad esempio, il nostro Mezzogiorno). Prendiamo ad esempio le linee guida fissate per dividere i miliardi del Just Transition Fund: l’intensità di emissioni nocive, l’occupazione nei settori del carbone e della lignite, la produzione di torba o di scisti bituminosi. Se applicassimo questi criteri all’Italia tra i territori in cui spendere i soldi troveremmo di certo la Sardegna (carbone) o la Puglia (Ilva), ma anche il ricco Nordovest (Lombardia e Piemonte), zona tra le più inquinate d’Europa. Se invece volessimo applicare una rozza divisione tra Paesi si potrebbe ricordare che i maggiori produttori di torba in Europa sono, nell’ordine, Germania, Lettonia, Olanda e Irlanda. Anche per quanto riguarda il carbone in testa c’è la Germania sia come produttore che come utilizzatore. Il rischio, insomma, è che l’Unione finisca per pagare la transizione energetica delle economie più avanzate.

L’ultimo “miracolo” diplomatico di Merkel

Sia come sia, Angela Merkel ce l’ha fatta. La conferenza internazionale a Berlino sulla Libia si farà. E non solo alla presenza di tutti gli attori internazionali coinvolti nel conflitto, ma anche con il sostegno politico riconosciuto da tutti i partecipanti. Non è poco. Che sia il canto del cigno prima dell’addio alla politica a fine mandato nel 2021 o l’ultimo acuto nella sua brillante carriera di mediatrice, non ha importanza. Merkel è riuscita dove altri anno fallito, il pragmatismo nel trovare “una soluzione condivisa”, una specie di motto del merkelismo, ha funzionato. Sulla Libia “è venuto il momento di vedere se riusciamo a trovare una decisione ai più alti livelli politici”, avrebbe detto la cancelliera nella riunione del martedì con il gruppo parlamentare della Cdu a Berlino, riferiscono dei partecipanti all’incontro.

La situazione libica sta a cuore alla cancelliera perché rischia di trasformarsi in una nuova Siria, con un nuovo e inarrestabile flusso di profughi e perché potrebbe diventare una nuova autostrada non solo per i migranti in fuga ma anche per i terroristi che dilagano nell’area del Sahel. Nonostante il lavoro della diplomazia tedesca da settembre a oggi, in ambienti governativi si punta ad abbassare le aspettative sull’incontro: “la soluzione di tutti i problemi in Libia non può avvenire in un giorno solo” ha ribadito ieri la vice-portavoce del governo, Ulrike Demmer. Secondo fonti diplomatiche circola già una prima bozza di “dichiarazione di Berlino” su cui si dovrà ancora lavorare insieme fino alla fine, riferisce Der Spiegel. Rispetto a quelle di Palermo del 2018 e di Roma del 2015, il governo tedesco vuole cercare di aggirare gli errori del passato, proponendo un procedimento a step: al cessate il fuoco deve seguire l’obbligo, per gli Stati che sostengono le parti libiche sul terreno, di astenersi dal fornire aiuti militari e rispettare l’embargo Onu sulle armi. L’idea originaria della cancelliera era, infatti, di tenere una conferenza soltanto con gli attori internazionali e non con le parti in causa. “L’obiettivo della Conferenza di Berlino non è il dialogo fra le parti interne al Paese, ma il dialogo fra gli attori internazionali” ha ricordato ancora una volta il portavoce del ministero degli Esteri tedesco ieri. Questa soluzione ha però incontrato le resistenze della Russia che ha chiesto la partecipazione di tutti, belligeranti compresi. A tuttora non è ancora chiaro se e in che modo presenzieranno alla conferenza i due maggiori protagonisti del conflitto libico, Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar.

Libia, a Berlino per la tregua. Di Maio: “Sì alla missione Ue”

Far sì che il futuro di Tripoli passi da Berlino. L’obiettivo della maggior parte delle cancellerie europee (ieri sera Macron non aveva ancora confermato la sua presenza) si è materializzato nella notte tra lunedì e martedì, quando la frettolosa ripartenza di Khalifa Haftar, volato via da Mosca senza firmare la pace preparata dal suo protettore Vladimir Putin, ha consegnato alla Germania l’ occasione di riportare l’Ue al centro della discussione sulla Libia.

È un’Unione più consapevole che nel recente passato, quella che si avvicina alla conferenza convocata per domenica 19 nella capitale tedesca. Nella Libia formato Siria in cui Sarraj e Haftar si fronteggiano rispettivamente spalleggiati da Turchia e Russia “le cose ci sfuggono”, è stata l’amara constatazione consegnata alla plenaria dell’Eurocamera da Joseph Borrell. Ankara e Mosca “hanno cambiato l’equilibrio nel Mediterraneo orientale”, ha insistito l’Alto rappresentante Ue per la politica estera aggiungendo che l’Europa “non può accettare che la stessa situazione si riproduca in Libia” e accusando Mosca e Ankara di aver inviato in Libia “flussi di armi e mercenari”. In particolare “siriani e combattenti del Medio Oriente”, sul fronte turco i circa 2 mila i mercenari mobilitati da Ankara (tra cui decine di miliziani islamisti utilizzati contro i curdi) a sostegno del governo Sarraj di cui parla il Guardian.

In questa crisi in cui finora l’Europa “si è mossa in maniera scoordinata”, ha detto ieri Luigi Di Maio in un’informativa al Senato, “l’Italia non intende intervenire militarmente e continua ad aderire con rigore all’embargo sulle armi” ma l’Unione “ha avviato una riflessione per una missione europea di monitoraggio del cessate il fuoco”. “Un passo importante per fermare le interferenze esterne”, ha proseguito il ministro degli Esteri, che ha ribadito la linea tracciata dal governo: tentare di creare un fronte comunitario su un tema di fronte al quale – Francia a parte – i partner continentali si sono tradizionalmente lavati le mani, demandando a Roma il compito di governare i flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Una missione patrocinata da Bruxelles, ha proseguito il capo della Farnesina, “sarebbe un passo importante” anche perché “gli europei sono quelli che più hanno da perdere da una Libia instabile”. Per Lorenzo Guerini l’Italia è pronta ad assumersi una “responsabilità importante”. I recenti avvenimenti nel Paese, ha detto il ministro della Difesa alle commissioni Difesa di Senato e Camera, “ci impongono una riflessione su una possibile rimodulazione del nostro sforzo militare. Si potrebbe ipotizzare un intervento internazionale per dare solidità alla cornice di sicurezza”.

Ora l’obiettivo è il cessate il fuoco, lo si cerca a Berlino. Nella capitale tedesca sono attesi i rappresentanti di Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Italia, Cina, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Repubblica del Congo, Egitto, Algeria, Onu, Unione Africana, Lega Araba e Bruxelles. Non c’è la Grecia, che apre un caso con l’Ue. L’invito è stato invece esteso a Sarraj e Haftar, inizialmente non previsti. Portare entrambi al vertice sarebbe già un risultato tangibile, anche se sono tecnicamente inesistenti le possibilità di vedere il capo del governo di Tripoli e il generale della Cirenaica partecipare ai tavoli principali.

Il governo tedesco frena gli entusiasmi: “La conferenza è un tassello verso una soluzione politica”, ha detto la portavoce Ulrike Demmer. Ma Bruxelles non nasconde le attese: “L’aspettativa è che il summit faccia progredire il processo in termini di un possibile cessate il fuoco”, ha detto Peter Stano, portavoce del Servizio Ue per l’azione esterna. Anche Giuseppe Conte professa ottimismo e auspica “una soluzione politica sotto la bandiera dell’Onu che potremo ottenere già a Berlino”, ha detto il premier al termine dell’incontro avuto a Palazzo Chigi con l’omologo dei Paesi Bassi, Mark Rutte, che sul tema ha concordato: “No a soluzioni a metà”.

E mentre oltreconfine si gioca la partita diplomatica e geopolitica (Washington invierà il Segretario di Stato Pompeo e il Consigliere per la Sicurezza nazionale O’Brien per contrastare l’accresciuta influenza della Turchia sul Mare nostrum), al di qua delle Alpi Matteo Renzi apre un nuovo fronte nella maggioranza: “Dobbiamo lavorare perché l’Italia torni a giocare un ruolo strategico” in Libia, ha detto il leader di Iv a Porta a Porta. “Che avvenga con l’invio di truppe è una delle ipotesi in campo – ha detto l’ex premier – se verrà fuori l’Italia farà la sua parte, indipendentemente da quello che pensano i 5S”.

“Da Leu a Salvini per amore: il mio e quello del popolo”

Èuna questione di amore e di ardore. Una coppia di giovani si conosce in una fredda sezione della cintura milanese, uno dei pochi circoli che può vantare Leu, la formazione di sinistra che declinerà nel giro di poco tempo. Eleonora e Giuseppe sono militanti entusiasti e però il turbamento politico per le scelte del loro sfortunato partito li porterà avvinghiati e felici nelle braccia di Matteo Salvini. Da un estremo all’altro, dunque. Eleonora Cimbro, già deputata del Pd nella scorsa legislatura, da Bollate, è la compagna di Giuseppe Femia, ora capogruppo leghista a Cermenate. Eleonora è una mamma di 42 anni e l’ultimo bebè, il quinto, nasce quindici giorni fa a suggellare questa meravigliosa storia politica troppo trascurata dalla stampa.

Il vostro progetto politico sembra uno di quei viaggi di Avventure nel mondo.

Scherza? Il mio tragitto è limpido. Qui a Bollate ho lavorato sempre per presidiare i bisogni dei ceti popolari.

Infatti il Pd l’ha mandata in Parlamento a presidiare i bisogni popolari.

Alt. Ho vinto le primarie, ero senza paracadute. E appena eletta mi sono accorta che avevo sbagliato partito.

Eletta con Bersani segretario, ma deputata con Matteo Renzi al comando.

Non mi trovavo d’accordo su nulla. No al Job act, no al referendum, no all’ubriacatura dei diritti civili, questa legittimazione del mondo gender, dell’utero in provetta.

Sceglie il popolo e i suoi bisogni.

Passo a Leu. Lo immagino più vicino al popolo, all’esigenza di avanzare con i diritti sociali. E mi impegno. Frequento le assemblee.

Lì conosce Giuseppe.

Anch’egli con le medesime istanze.

Passa il tempo e cresce l’amore.

Ci conosciamo, ci apprezziamo, ci confrontiamo.

C’è un momento in cui capisce di aver sbagliato tutto.

Mi fa riflettere la lettura di un libro di Diego Fusaro.

Diego Fusaro?

Guardi che poi Fusaro, dopo la stagione di Gianfranco Miglio (il teorico della secessione, ndr) diviene il filosofo di riferimento della Lega. Lo dirà Salvini. È un pensatore di grande profondità.

Fusaro.

Quando approfondisce il tema della destrutturazione dell’amore, dello spazio inviolabile del sacro.

La destrutturazione dell’amore.

E dell’economia globalizzata.

Lei capisce che la strada da percorrere è tutta un’altra.

Capiamo che c’è un solco netto. Non più destra e sinistra ma elite contro popolo.

E lei sta col popolo.

Sempre col popolo.

E ora con Salvini.

E lui è lì.

Salvini scatena una guerra tra poveri, lei disse al tempo in cui era del Pd.

Una sola frase contro di lui e ci hanno fatto un romanzo.

Sempre lei chiedeva i corridoi umanitari per i migranti, quando era di là.

Salvini li vuole padroni a casa loro.

Coi barconi, ma a casa loro.

Ma di cosa parla?

Salvini ha un amore recente per il sud del mondo. Anche per gli italiani del Sud.

Io non ho abbracciato la Lega nella fase secessionista, ma in quella unitaria.

Lei è di sinistra.

Non è appropriato.

Scusi: lei è col popolo.

Assolutamente.

Perciò ha deciso di trapassare alla Lega.

Sembro schizofrenica, pazza. Invece sono savia. Ho preso la tessera perchè ci credo.

Il suo compagno, dismesso Leu, è divenuto capogruppo leghista al municipio.

Percorso comune. Come si spiega allora che migliaia e migliaia di italiani abbiano deciso di cambiare casacca?

Fusaro.

Guardi che io quando ero in Parlamento mi facevo spiegare da Giorgetti il significato delle loro azioni, che a volte mi erano oscure. E devo dire che apprezzavo. Capivo il senso delle loro battaglie.

Oggi è felicissima.

Ma ho dovuto sopportare parolacce, offese di ogni tipo.

Purtroppo è il tempo dell’odio.

Ho preso la tessera della Lega.

Fa strano, ma è così.

Non è strano, cavolo!

Era andata con Leu.

Con Grasso e la Boldrini. Li ha visti? Mi sono accorta subito di aver fatto la scelta sbagliata.

Seconda scelta sbagliata.

La seconda.

Chissà che la terza non dia altri dispiaceri.

Le assicuro: no e no. Certa al cento per cento.

In famiglia cosa dicono?

Cosa vuole, i miei genitori hanno sempre votato Pd. Non capiscono.

E i suoceri?

Pure loro democratici e progressisti.

La famiglia è sempre il luogo dell’incomprensione.

Non li schiodo. Spero si comprenda che il mio è un percorso di coerenza.

Sembrerebbe il contrario, però l’affetto leghista non mancherà.

Mi ritrovo in ogni cosa. Anche il senso della nostra vita, dell’educazione dei figli, di come tutelare la nostra identità.

Leghista al cento per cento.

Cento per cento.

E non fascista.

Ma scherziamo?

E con quelli di destra che militano nel movimento?

La destra non esiste più, lo vuole capire? Per esempio: sono sempre concorde con Giorgia Meloni.

Ho capito. Tornerà in Parlamento con Salvini, che ha conosciuto e l’apprezza.

C’è un cursus honorum per essere candidata. Ci sono regole da rispettare. Per esempio avere la tessera da almeno cinque anni.

Fra cinque anni l’onorevole Cimbro torna a Roma.

Fra cinque anni non si vota.

Fra sei anni.

Avessi voluto far carriera, caruccia come sono, con Renzi l’avrei fatta. Voleva sempre volti femminili in tv, di bella presenza.

È mamma felice e compagna adorata.

Innamoratissima.

Cinque Stelle, la frana continua. Arrivano altri addii in Senato

Il capo è una sfinge, invece il suo Movimento è una piramide che si sfarina. Luigi Di Maio cammina veloce per i corridoi della Camera, dove deve riferire sulla Libia, da ministro degli Esteri. Ma è anche altro, è ancora capo politico dei Cinque Stelle che perde parlamentari, a ritmo continuo.

Già, perché dopo i tre senatori passati dal Movimento alla Lega a dicembre, e la mini-fuga a Montecitorio di questi giorni, con quattro deputati traslocati al gruppo Misto, sembrano ormai prossimi altri addii in Senato, proprio dove la maggioranza è più fragile. Pare infatti diretto al Misto il senatore molisano Luigi Di Marzio, già fermato all’ultimo minuto a metà dicembre, proprio nel giorno in cui dissero addio i senatori Lucidi, Grassi e Urraro. Di Marzio invece non si mosse, grazie all’intervento decisivo di Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo economico e soprattutto ex capogruppo in Senato. Nel frattempo però il senatore è finito nel mirino dei probiviri del M5S, essendo tra gli eletti che non hanno mai versato per le restituzioni in tutto il 2019. In questi giorni si è adoperato per mettersi in regola. Ma andrà via ugualmente, dicono. Mentre si sta tentando di recuperare la senatrice latinese Marinella Pacifico, data in trasferimento verso la Lega (ma lei ieri sera negava). Però di esodi, forzati e non, ne arriveranno sicuramente altri. Il pugliese Alfonso Ciampolillo, anche lui senza versamenti per le restituzioni nel 2019,verrà espulso. Per altri parlamentari ritardatari arriveranno sospensioni. Ergo, in diversi finiranno nel Misto. E il M5S sarà ancora più fragile.

Intanto alla Camera ieri sera si è tenuta una riunione convocata (anche) dai senatori Emanuele Dessì e Mattia Crucioli, firmatari del documento presentato la settimana scorsa a Palazzo Madama, in cui si chiede di separare le figure del capo politico e del ministro. “È solo un incontro per parlare di politica, non una prova di dissidenza” spiegava Dessì. Alla fine si sono presentati poco più di dieci eletti, tra cui Luigi Gallo, vicino a Roberto Fico.

A Reggio la dea Atena combatte contro i trasformisti di Lega e FdI

I sondaggi? In Calabria non contano. Ci sono, certo, ma servono a poco. A leggerne alcuni diresti che il centrodestra ha già vinto, che Jole Santelli, un ventennio in Parlamento, ex vicesindaco della disastrata Cosenza, può prepararsi a vestire il tailleur di primo governatore donna della regione. A sfogliarne altri cambieresti repentinamente idea. Jole è sempre avanti, ma di poco. Pippo, nel senso dell’imprenditore Callipo, il candidato civico del centrosinistra, la segue a ruota, e la partita è tutta aperta. Sbaglieresti in entrambi i casi, soprattutto a Reggio Calabria, “’u paisi i m’incrisciu e mi ndi futtu e ogni cosa est fissarìa” (tradotto: “Il paese del mi annoio e me ne fotto e ogni cosa è fesseria”).

L’ex governatore in semilibertà

I versi sferzanti del poeta Nicola Giunta spiegano molto dello spirito della città, ma non tutto. Per capire chi vince e chi perde devi rincorrere gli spostamenti dei grandi portatori di voti, il cambio di campo da centrosinistra a centrodestra, le folgorazioni interessate, le scelte degli ex potenti. Giuseppe Scopelliti, ad esempio. Ora entra ed esce dal carcere, è un detenuto che gode della semilibertà, ma una volta fu uomo politico potentissimo. Sindaco negli anni della Reggio da bere, quando sul corso Garibaldi sfilava Valeria Marini e le serate estive in riva allo Stretto erano allietate dalla disco dance, sbaragliò tutti e diventò presidente della Regione.

La sua era una invincibile armata che non ha mai rotto le righe, neppure dopo l’arresto e la condanna a quattro anni del suo comandante in capo. Alcuni si sono scoperti fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni, altri sovranisti e salviniani. Ma “prima gli italiani”, qui “si traduce in prima Tilde”. Nel senso di Minasi, già consigliere regionale, ex assessore comunale e alle scorse Politiche candidata al Senato per la Lega. Una macchina macinavoti che portò le liste del Capitano appena sotto il 10%. “Un risultato boom – esultarono i suoi – neppure a Foggia, a Lecce e a Battipaglia è andata così”. Tutto si muove sotto l’ombra della dea Atena combattente, che volge lo sguardo severo e anche un po’ schifato verso la classe politica della sua città.

Il lungo elenco dei “gattopardi”

Uomini e donne che non hanno mai ammainato la bandiera del trasformismo. L’elenco è lungo e deprimente. Ecco Peppe Neri che nel 2014 correva col Pd di Mario Oliverio, il governatore uscente non ricandidato da Zingaretti, e venne eletto. Oggi è stato fulminato dal verbo di Giorgia Meloni. Correrà insieme al sindaco di Sant’Eufemia, Domenico Creazzo, che il centrosinistra ha sostenuto come vicepresidente del Parco nazionale d’Aspromonte e come consigliere della Città Metropolitana. Anche Demetrio Marino abbraccia Giorgia. È consigliere comunale a Reggio Calabria eletto con la maggioranza di centrosinistra del sindaco Giuseppe Falcomatà. Nicola Paris fu consigliere comunale della destra ai tempi del sindaco sciolto per mafia, Demetrio Arena, poi passò col giovane Falcomatà in cambio di generose deleghe, oggi torna alla destra, quella moderata dell’Udc.

La partita decisiva per il Comune

A Reggio si gioca una partita doppia. Perché dopo le Regionali arriveranno le Comunali e qui il giovane avvocato Giuseppe Falcomatà, figlio di Italo, il sindaco dell’unica “primavera” vissuta dalla città, si gioca tutto. La destra, stando alle ultime Politiche, viaggia intorno al 33%, il Pd è umiliato a poco più del 14, e i voti dei 5stelle, più del 38%, sono considerati un patrimonio da spolpare. “La destra punta, lo dico in termini calcistici, al double (la doppietta): prima la vittoria alla Regione, poi quella al Comune”. Falcomatà lamenta la brevità della campagna elettorale, giura sul suo sostegno a Callipo e ricorda ai reggini cos’era la città cinque anni fa. “Il Comune sciolto per mafia e con un piano di riequilibrio di 240 milioni. Abbiamo abbassato questo indebitamento a soli 50 milioni con una cura dimagrante che ha tagliato le spese eccessive, ma senza dichiarare il dissesto”.

Un camerata cristiano vuole fare il sindaco

Lacrime e sangue a parte, Giorgia Meloni vuole la guida del Comune. Ha già un suo uomo pronto. Un sant’uomo, anzi, di più, un santone. È Massimo Ripepi, consigliere comunale e coordinatore di Fratelli d’ Italia, ma soprattutto capo di una comunità cristiana di cui è pastore e guida spirituale. I suoi adepti lo chiamano “papà” e odiano la stampa. A farne le spese Caterina Tripodi, cronista del Quotidiano del Sud. Ha scritto articoli non graditi e subito è stata investita da scomuniche, fulmini, saette, e medievali, per la serie vade retro Satana.

I cittadini antimafia sfiduciati e rassegnati

Il programma del “santone” Ripepi e dei suoi ha i toni di una crociata: “Dio lo vuole sindaco per cambiare Reggio, una città gestita dai figli di Satana”. Lega e destra sfonderanno in riva allo Stretto? Salvo Miceli, attivista di “Reggio non tace”, un movimento civico che in città è noto per le sue battaglie antimafia, è sfiduciato. “Se urli basta con i migranti che ci rubano il posto, raccogli applausi e consenso. Se vai in giro a parlare di uguaglianza dei diritti, accoglienza, confronto con la diversità, hai mille difficoltà a farti ascoltare, movimenti e partiti dovevano unirsi per arginare questa destra pericolosa”. La dea Atena osserva i reggini, ma questa volta lo sguardo è di pietà.

Lady Marta per i forzisti di Morta Italia: un letto ad Arcore per resuscitare B.

In pochissime righe, Francesca Pascale ha fulminato il nuovo cerchio magico del Fidanzato pluriottantenne, e anche qualcosa di più di un cerchio magico: “Dico solo che è stata messa al fianco del mio Presidente da Licia Ronzulli. La Ronzulli ha come assistente proprio Marta Fascina e ha deciso di metterla al fianco di Berlusconi ed è per questo che lei vive e dorme ad Arcore”.

Bum, bum, bum.

Lei, il soggetto dell’uscita pascaliana (Francesca ovviamente, non il filosofo buonanima), è appunto lady Marta Fascina da Portici (lo stesso paesone di Noemi Letizia, nel Napoletano) ed è stata fatta eleggere da Silvio Berlusconi deputata alle ultime elezioni politiche.

Il Satiro di Arcore ha sempre il suo stile, benché viva la sua fase più crepuscolare, in senso politico.

Più di un anno fa, fu proprio il Fatto a scoprire, tra febbraio e il luglio successivo, il nuovo sodalizio del cuore dell’ex Cavaliere. I due andarono da soli a Merano, da Chenot, e il Giornale di Sallusti, per coprire l’idillio, pubblicò una foto di Silvio e Francesca alla Certosa sarda, spacciandola per la località bolzanina.

Così adesso la fidanzata Francesca ammette l’esistenza notturna ad Arcore di lady Marta. Lo ha fatto in un’intervista a Novella 2000, rinverdendo i bei tempi di quando per seguire B. era obbligatorio compulsare i pink magazine del nostro Paese. Era la golden age sessual-politica dell’allora premier, inseguito da Noemi, Patrizia, Ruby, Nicole e tantissime altre.

E ora c’è Marta. Chi frequenta Arcore racconta che lei è una “ragazza dolcissima, rotonda di carattere”. Ha festeggiato trent’anni lo scorso 9 gennaio. Bionda e occhi chiari, ricorda molto Veronica Lario. Il suo nuovo status non prevede più pensosi editoriali sul citato Giornale. Ormai non ne ha più bisogno, per affermare il suo primato intellettuale. In uno degli ultimi manoscritti , nel 2018, attaccava il parlamentare Andrea Ruggieri, nipote di Bruno Vespa e compagno di Anna Falchi, colpevole di aver criticato Forza Italia.

I due, Silvio&Marta, hanno affrontato anche le ultime trasferte elettorali, quelle per le Regionali in Umbria . Un vero privilegio da first lady, concesso fino a poco fa a Pascale, che oggi vive da sola, è noto, a Rogoredo di Casatenovo, nella Brianza lecchese.

Lady Marta per “Morta Italia”, come già scrivemmo nel luglio del 2018. In ogni caso, la fidanzata ufficiale non ci pensa neanche a lasciare l’amato Silvio e fa finta di nulla: “Se scoprissi che in questa storia c’è qualcosa di vero, tra me e il Presidente finirebbe tutto”.

Come no!