Craxi & Salvini amori miei: l’inquisito Siri ad Hammamet

Ci sarà anche la Lega. Insieme ai renziani. E anche qualche pidino sparso a titolo personale. Sono 600, al momento, le personalità che hanno aderito al “comitato d’onore per il ventesimo anniversario della scomparsa di Bettino Craxi”. Poi magari non tutti ci saranno, ma molti sì. Domenica saranno venti anni dalla morte dell’ex leader socialista fuggito ad Hammamet, in Tunisia, e condannato in contumacia per finanziamento illecito e corruzione nell’ambito di Tangentopoli. Una latitanza che si è conclusa con la sua morte, per malattia, il 19 gennaio del 2000. E di cui ora si torna a discutere, per il film Hammamet di Gianni Amelio, dove un grande Pierfrancesco Favino interpreta il leader socialista proprio negli ultimi sei mesi di vita.

La celebrazione avviene ogni anno, ma domenica si batteranno tutti i record, dicono dal comitato, presieduto dalla figlia, Stefania Craxi. E fa un po’ effetto sapere della partecipazione anche di esponenti leghisti. Lega che, tra il 1992 e il 1994, fece apertamente il tifo per il pool di Mani Pulite e in Parlamento arrivò ad esibire il cappio, con il deputato Luca Leoni d’Orsenigo, il 16 marzo 1993, in piena Tangentopoli. Senza Mani Pulite, forse la Lega sarebbe finita nel giro di un paio d’anni e invece sappiamo com’è andata e ora, con Matteo Salvini veleggia oltre il 30%, primo partito d’Italia. “Da noi l’analisi storica su Craxi è in corso da tempo. Non vogliamo scendere nel merito delle inchieste giudiziarie, ma gli riconosciamo comunque il ruolo di statista nell’Italia degli anni Ottanta”, dicono dal Carroccio. Anche se forse Umberto Bossi avrebbe qualcosa da ridire.

Ma pazienza, così vanno il mondo e la politica. Ad Hammamet i leghisti saranno due: l’ex sottosegretario all’Economia, Massimo Garavaglia, e l’ex sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri. Che da giovanissimo vanta la partecipazione ai giovani socialisti. Eletto in Parlamento alle ultime Politiche e diventato sottosegretario alle Infrastrutture nel Conte 1, Siri è stato oggetto di un lungo braccio di ferro tra Lega e M5S che ne chiedeva il passo indietro perché indagato, con l’accusa di aver accettato soldi per spingere una norma sulle energie rinnovabili. Alla fine Siri si dimise (maggio 2019), per diretto intervento del premier Giuseppe Conte, dopo uno scontro micidiale tra Di Maio e Salvini.

Non ci sarà invece Giancarlo Giorgetti, come sembrava in un primo momento. “Ho troppi impegni, siamo in piena campagna elettorale”, dice il leghista. Il quale qualche tempo fa ha però inserito Craxi nel suo personale pantheon politico. Mentre da parte di Salvini sono più volte arrivate parole di elogio al leader socialista per “non aver piegato la testa di fronte agli Usa” a Sigonella. Trait d’union tra passato e presente potrebbe essere Maria Giovanna Maglie, craxiana convinta allora e salviniana oggi. Al momento, invece, non risultano presenze da parte di Fratelli d’Italia. Il Msi fu forse il partito più duro con Craxi durante Tangentopoli.

“La partecipazione leghista non mi scandalizza affatto, anzi ne sono felice. Significa che la storia alla fine si è presa la sua rivincita sulla cronaca.”, osserva Umberto Del Basso De Caro, seduto su un divanetto del Transatlantico di Montecitorio. Luogo dove l’attuale deputato pidino stava pure in quegli anni, nelle file del Psi. Fu proprio lui a parlare in Aula, il 29 aprile del 1993, prima del famoso discorso di Craxi. “Vado, come tutti gli anni, sempre con una grande amarezza nel cuore…”, dice Del Basso De Caro. Il suo partito, il Pd, ci sarà poco. Al momento solo con il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, e Gianni Pittella. Nel Pd la questione Craxi è ancora aperta. Stefania Craxi quest’anno aveva invitato Nicola Zingaretti, che ha declinato. “Dispiace, poteva essere il modo per chiudere un cerchio e uno strappo durato anche troppo. Ma nel Pd i conti con Craxi ancora non li hanno fatti e non li vogliono fare…”, dice Stefano Caldoro, socialista e più volte parlamentare tra i banchi del Psi, prima, e Forza Italia, poi.

Tutt’altro discorso per Matteo Renzi. “Rispetto ai politici di oggi Craxi era un gigante. E chi non è d’accordo si tenga Salvini e Toninelli”, ha detto ieri il leader di Italia Viva. Lui però ad Hammamet non andrà, spedendoci Davide Faraone, che ieri ha detto che “l’anima giustizialista dei grillini si è impossessata del Pd”. E non ci sarà nemmeno Silvio Berlusconi: il viaggio viene considerato troppo faticoso.

La cerimonia ad Hammamet durerà tre giorni, con il clou domenica 19. Tra i politici, una nutrita truppa forzista con Bernini, Gelmini, Baldelli, Cattaneo, Tripodi e altri. Quasi al completo, naturalmente, gli ex socialisti. E scorrendo i nomi che hanno aderito all’iniziativa si trovano Isabel Allende, Renzo Arbore, Fedele Confalonieri, l’ex calciatore Beppe Dossena, Stefano Parisi, Tarack Ben Ammar, la stilista Chiara Boni, gli storici Francesco Perfetti e Franco Cardini, e poi Giulio Tremonti, Renato Pozzetto e Massimo Boldi.

“Caro Zingaretti, non farti stritolare dalle lotte di potere”

Trent’anni fa cadeva il Muro di Berlino e il più grande partito comunista d’Occidente veniva congedato dopo la svolta della Bolognina. Nel suo ultimo libro La lunga eclissi (eloquente sottotitolo: Passato e presente nel dramma della sinistra) Achille Occhetto racconta che quella svolta non fu l’atto di coraggio di un uomo solo: all’ultimo segretario del Pci abbiamo chiesto un parere sull’ennesima svolta a sinistra.

Che pensa dell’annuncio di Zingaretti: “Sciolgo il Pd”?

Finalmente arriva un momento di riflessione, dopo la batosta elettorale del 2018. Per la prima volta si prende atto della necessità di un cambiamento profondo. Ma a Zingaretti dico: il cambiamento non può avvenire nel chiuso di un congresso, altrimenti verrà stritolato nella solita dinamica dello scontro di potere tra correnti. Un congresso deve essere convocato ma solo per promuovere una costituente della sinistra che chiami a raccolta tutte le forze democratiche. Non ci si può limitare all’ennesimo cambio di nome o all’ingegneria organizzativa. È necessario un coinvolgimento di tutte le energie sociali e intellettuali – penso ai giovani che si battono per l’ambiente, ai sindacati, alle Sardine – che mal sopportano la deriva di destra. Una costituente aperta che faccia incontrare tutti i democratici in un luogo del futuro in cui le radici non vengono mutilate, ma possano germogliare su un terreno bonificato dalle fusioni a freddo di centri di potere. Una sinistra sommersa cerca rappresentanza.

Lo sfondo della Bolognina fu la fine del blocco sovietico. Oggi?

Al centro c’è una crisi planetaria delle democrazie. La prima sfida è sottoporre l’economia globalizzata a un controllo democratico, altrimenti vinceranno le destre. Al falso sovranismo nazionalista va contrapposto un sovranismo sovranazionale, a cominciare da un ripensamento dell’Europa.

Parliamo alle Sardine.

Non sono un soggetto politico, è ridicolo che gli venga domandato. Sarebbe già importante capire l’importanza del loro esistere per aver gettato il germe di una nuova narrazione contrapposta a quella di Salvini. Non me l’aspettavo, m’ero rassegnato a quell’abisso culturale e politico che abbiamo visto al Papeete: non si faceva che magnificare, anche a sinistra, le doti comunicative della destra capace di parlare al popolo. Loro hanno dimostrato che non è così.

Romano Prodi ha detto: “Bisogna tornare al rapporto con la gente e finirla con il partito che diventa un club a uso esclusivo di 10 persone”. Perché non si riesce a ristabilire la benedetta connessione sentimentale?

Io non sono entrato nel Pd perché era una fusione a freddo. Poi abbiamo avuto altre scissioni a freddo. Non ho una ricetta, ma non bisogna avere paura di muoversi verso orizzonti inediti. È perfino una banalità dire che bisogna ritrovare il dialogo con la gente, purtroppo però è vero.

Perché quelli che votavano Pci oggi votano Salvini?

Succede ovunque nel mondo. Le sinistre sono state colpevolmente prigioniere delle politiche liberiste e neocapitaliste, a cui quando hanno governato sono state subalterne. Chi ne è stato penalizzato si rivolta contro le forze che non sono state argine a questa deriva. È facile dare uno sbocco al disagio con parole d’ordine ingannevoli. La globalizzazione ha portato fuori dalla povertà milioni di persone nel Terzo mondo, ma ha creato sacche di abbandono. Un altro effetto è stata la contrapposizione, falsamente posta, tra diritti sociali e civili.

Venendo alla pratica: l’articolo 18 va ripristinato?

Non si tratta semplicemente di ristabilire i principi di prima, né di accettare la situazione frammentata di oggi. Ci vuole un nuovo Statuto dei lavoratori per ribadire i valori di giustizia sociale, dignità e diritti del lavoro che hanno guidato le nostre lotte come comunisti, ma individuando strumenti nuovi.

Possibile che tentennino perfino sui decreti Sicurezza?

Non ci sarà nessuna svolta se non li aboliscono.

L’alleanza strutturale con i 5 Stelle è probabile?

Non credo, un’alleanza vera può avvenire solo nel contesto allargato di cui parlavo prima. Le due forze devono rimettersi completamente in discussione. Così come sono non vanno da nessuna parte. Ne abbiamo quotidiana dimostrazione: discutono su tutto!

Renzi dice che il Pd non deve imitare Corbyn.

Vero. Ma, caro Renzi, nemmeno Blair. Abbiamo visto che disastro ha causato il blairismo di Renzi…

Che succederà nell’Emilia laboratorio?

Non lo so. Ma spero ardentemente che vinca Bonaccini. Non sono in gioco solo le sorti del Pd, ma il benessere di tutta la democrazia.

Casellati si affida a Gasparri. Il voto su Salvini si avvicina

La presidente del Senato Elisabetta Casellati fa melina ma è pronta a confermare la decisione della Giunta per le autorizzazioni di esprimersi il 20 gennaio sul caso di Matteo Salvini, nonostante il resto dell’attività parlamentare a Palazzo Madama sarà in quel giorno sospesa in vista delle regionali. Si è infatti impegnata a far presente a Maurizio Gasparri (che dell’organismo è presidente) che la maggioranza ha protestato per la sua gestione del calendario e pure sulla bocciatura delle richieste di integrare l’istruttoria prima del voto. Ma niente di più, nonostante ieri la maggioranza si aspettasse da lei ben altro: ossia che intervenisse, regolamento alla mano, per sospendere la convocazione della Giunta in ossequio alla pausa preelettorale disposta all’unanimità la scorsa settimana dalla conferenza dei capigruppo, le cui decisioni hanno rango primario. Ma così non è stato. Dalle parti della maggioranza si è praticamente certi che Gasparri tirerà dritto, complice il laissez-faire della Casellati, consentendo a Salvini di fare di quel voto un tema di campagna elettorale in Emilia Romagna e Calabria. Ma il 20 gennaio i giallorosa potrebbero anche non presentarsi in Giunta in modo che il centrodestra si assuma la responsabilità di voler concedere l’impunità a Salvini, accusato di sequestro aggravato di persona per i migranti a bordo della nave Gregoretti. Anche perchè la parola finale se mandarlo a processo spetterà comunque alla aula del Senato a febbraio.

Ex Ilva, prescritto il perito accusato di taroccare i dati

Volete sapere cos’è e cosa comporta la prescrizione? Basta leggere questa storia. Martedì mattina, infatti, la Cassazione ha depositato la prima sentenza di prescrizione sull’inchiesta “Ambiente svenduto”, quella che ha scoperchiato il disastro ambientale e sanitario causato (anche) dall’Ilva a Taranto. La tagliola del tempo ha impedito ai giudici della Suprema Corte di valutare le eventuali responsabilità penali di Roberto Primerano, l’ex consulente della procura di Taranto condannato a un anno di reclusione in appello (era il 30 novembre 2017) per aver falsificato i contenuti di una perizia sulle emissioni di diossina dell’impianto siderurgico.

Primerano era una delle 53 persone coinvolte nella maxi-inchiesta. In primo grado, nonostante l’assoluzione per il reato di concorso in disastro ambientale e avvelenamento di sostanze alimentari, era stato condannato a 3 anni e 4 mesi di reclusione per due ipotesi di falso ideologico. Tra primo grado e appello la prescrizione aveva già cancellato il primo episodio di falso, quello datato 2009: pena ridotta dunque a un anno. L’altroieri la Cassazione ha sancito l’estinzione anche del secondo falso, intervenuta tra l’appello e la Suprema Corte, per una perizia redatta nel 2010 su ordine della Procura di Taranto per accertare se la diossina emessa dall’Ilva avesse effettivamente avvelenato acque, terre e animali.

Secondo la Procura di Taranto, Primerano in concorso con il suo “mentore” Lorenzo Liberti, docente universitario e anche lui ex consulente della procura (accusato anche di aver intascato una tangente da 10mila euro per ammorbidire una perizia), avrebbe favorito i vertici di Ilva e in particolare Emilio e Fabio Riva, l’ex direttore di stabilimento Luigi Capogrosso e l’ex responsabile delle relazioni istituzionali della fabbrica Girolamo Archinà, confezionando una relazione nella quale sosteneva che la diossina ritrovata negli oltre 2mila capi di bestiame abbattuti “non era compatibile con l’attività dello stabilimento siderurgico”. Una conclusione che, se non ci fossero state le indagini parallele dei finanzieri, avrebbe scagionato la fabbrica da ogni responsabilità. Le conclusioni di Primerano e Liberti sono state invece successivamente smentite dai consulenti nominati nel 2010 dal pm Patrizia Todisco, che in due maxi perizie – che rappresentano i pilastri delle accuse al processo – hanno invece affermato che gli inquinanti ritrovati nelle carni animali sono chiaramente riconducibili all’Ilva di Taranto.

Per i giudici di secondo grado, Primerano è in “mala fede” perché a sostegno della sua tesi ci sarebbe la negazione di “un criterio predeterminato legato al fingerprint della diossina derivante dal processo di sinterizzazione”: in sostanza, Primerano avrebbe negato l’esistenza di una vera e propria impronta digitale della diossina che avrebbe permesso di inchiodare l’Ilva.

Non solo. A renderlo colpevole, per i giudici d’appello, c’era anche il contenuto di alcune conversazioni intercettate nel corso delle indagini che dimostrerebbero non solo una “una palese collusione tra il consulente Liberti e la dirigenza dell’Ilva”, ma soprattutto la consapevolezza per Primerano di “assecondare i desiderata del cattedratico e dei vertici della società”. Ecco cos’è la prescrizione: l’impossibilità di ottenere una pronuncia di merito persino sull’ambiente svenduto.

Il fantasma di Lotti: non si vede più né con l’ex amico né ai raduni del Pd

Quando gli capita di attraversare il Transatlantico, il deputato semplice Luca Lotti è sempre circondato da qualche giovane collega della sua corrente, Base Riformista. L’ex ministro dello Sport ed ex sottosegretario riceve i parlamentari nel suo ufficio di vicolo Valdina, passa buona parte del suo tempo in aula a votare, ogni tanto va a pranzo con qualcuno (tra gli ultimi in ordine di tempo, il capogruppo Pd in Senato, Andrea Marcucci): la vita di uno che si è bruciato in quanto a possibilità di incarichi di peso in politica, ma che non rinuncia a tessere le sue tele.

Nell’Abbazia di Contigliano, al ritiro del Pd, non c’era. Dopo lo scandalo Csm di quest’estate, si è autosospeso dal partito. Un’assenza annunciata, che però si notava, in mezzo alla presenza edulcorata di quel che resta del renzismo tra i dem. D’altra parte, è iniziato ieri il processo Consip nel quale anche l’ex amico fraterno di Matteo Renzi è imputato. Udienza durata pochi minuti, tutto rimandato a marzo. Ma tra i testimoni per l’accusa c’è anche l’ex premier.

Quasi un emblema di come è andata a finire tra i due. Il Biondo, uno dei due petali principali del Giglio Magico (l’altro era Maria Elena Boschi), era quello deputato a gestire gli affari, il potere, le pratiche a rischio. Il depositario dei segreti inconfessabili era probabilmente quello destinato a pagare per tutti. Un ruolo che lui ha sempre interpretato e che ben si adattava anche con la sua poca attitudine alla visibilità. Forse è andata peggio di quanto si aspettava. I suoi rapporti con Renzi si sono logorati negli anni, anche grazie all’intervento attivo della Boschi. Lei non ha mai perso occasione per screditarlo, non solo con il comune capo, ma anche con il mondo esterno. All’epoca della riforma costituzionale (poi bocciata dal referendum), l’allora ministra competente si costruiva il suo profilo da “statista”. E tra un pranzo con Giorgio Napolitano e uno con Sabino Cassese, prendeva le distanze dall’altro, definendolo “mazziere”. La rottura finale con Matteo, però, è arrivata dopo le intercettazioni che registravano Lotti mentre chiacchierava di nomine di importanti uffici giudiziari con l’ex consigliere del Csm Luca Palamara e l’allora deputato Pd Cosimo Ferri. Renzi si limitò a stigmatizzare l’“ipocrisia” del sistema. Pare che l’abbia scaricato, fatto sta che le distanze tra i due sono aumentate.

Conclusione di un percorso in atto da tempo. D’altra parte, mentre Renzi lavorava per il suo partito, l’altro si occupava, insieme a Lorenzo Guerini e Antonello Giacomelli, di costruire una corrente nel Pd, forte dell’aver sempre curato i rapporti con i parlamentari. Nella prima riunione pubblica di Br, a Salsomaggiore, lo scorso luglio, veniva accolto come un martire.

La storia recente racconta del divorzio politico dei due ex inseparabili: Luca non è entrato in Italia viva (Ferri sì), ma è rimasto tra i dem. Zingaretti non lo ha scaricato, ma di certo non lo ha accolto a braccia aperte. Resta un corpo estraneo, nonostante abbia messo in piedi la componente con la maggioranza di deputati e senatori (più dei zingarettiani, tanto per dare il senso dell’operazione). Non fa parte dell’Assemblea e neanche della direzione e da autosospeso si tiene lontano dalle convention pubbliche. Dei tre leader di Br, va avanti è Guerini: solido profilo democristiano ha conquistato il ministero della Difesa, si è accreditato presso Giuseppe Conte e sta lavorando insieme a Dario Franceschini per fare una cordata più forte di quella che fa capo al segretario (e poi a Andrea Orlando). Luca, come sempre, lavora nell’ombra. Fa politica sul territorio, stringe gli accordi che deve stringere. Lunedì ci sarà la presentazione ufficiale del candidato alla presidenza della Toscana: quell’Eugenio Giani che ha fortemente voluto anche Renzi. Lotti ci sarà. L’amico Matteo probabilmente no. Sarà un caso, ma vederli pubblicamente insieme è ormai quasi impossibile.

Giustizia, Renzi con FI e Lega. E corre da solo alle Regionali

Coerente alla propria scelta di guidare un partito non di lotta e di governo, ma di lotta al governo di cui fa parte, Matteo Renzi, in pieno rush finale per la battaglia vitale dell’Emilia-Romagna, fa più di uno sgambetto alla (sua) maggioranza.

Ieri, Italia viva ha votato insieme a Forza Italia la proposta di Enrico Costa per abrogare la riforma Bonafede della prescrizione. Non solo, ha annunciato ufficialmente di non sostenere alcun deputato in Calabria. Così come ha fatto sapere che sta cercando un candidato in Puglia da opporre a Michele Emiliano.

Al Nazareno, la paura della sconfitta di Stefano Bonaccini aumenta di giorno in giorno. Tanto che Nicola Zingaretti si sta spingendo a dire che comunque vada non è decisiva per le sorti del governo. Ma quel che accadrà davvero il giorno dopo, nessuno può dirlo. Il rischio che Giuseppe Conte esca da Palazzo Chigi e Zingaretti si presenti dimissionario è più che concreto.

Va detto che Renzi non se la passa benissimo: Iv non ha sfondato, i parlamentari sono preoccupati per il loro futuro. Un incentivo ad aumentare le azioni di disturbo. Perché l’ex premier quando è in difficoltà è in grado di architettare qualsiasi cosa. Come dimostra l’apertura ai Cinque Stelle di quest’estate che diede il via al Conte 2 e il dialogo mai interrotto con Matteo Salvini (magari per far cadere il governo, in cambio di garanzie sulla legge elettorale, sulla Toscana, chissà se preludio a un futuro appoggio di Iv a un governo di centrodestra). “La tenuta del governo? Lo vediamo dopo la verifica”, dice infatti ad Avvenire. Avvertimenti. Chi c’era, racconta che durante il vertice di martedì sera di Giuseppe Conte con i capigruppo di maggioranza e opposizione sulla politica estera, Maria Elena Boschi e Davide Faraone ostentavano distrazione.

Dunque ieri, in Commissione Giustizia, la maggioranza ha bocciato la proposta Costa. Ma M5S, Pd e LeU la spuntano 23 a 22 grazie al voto inusuale della presidente della Commissione, la Cinque Stelle Francesca Businarolo. I renziani giustificano la loro scelta, accusando i dem di essere ormai schiacciati su M5s. “Il Pd ha deciso di recedere su principi come quelli del diritto e del giusto processo per andare a rimorchio del M5S anche sulla giustizia”, afferma Lucia Annibali. Parla del “coraggio della coerenza” in un video Facebook Giuseppina Occhionero (deputata Iv), indagata per aver fatto entrare il suo portavoce, Antonello Nicosia, in carcere, prima ancora che ci fosse un rapporto di lavoro tra i due. “Siamo rimasti fedeli alla legge Orlando, non è possibile che ci sia un processo senza fine. Il Pd insegue il populismo”, spiega in serata Renzi.

L’attivismo sulle Regionali può essere al momento più dannoso. “Italia Viva non è in campo alle prossime elezioni in Calabria e, quindi ribadiamo la nostra posizione di non sostenere nessun candidato in campo”, affermano, in una nota congiunta, il senatore di Italia Viva Ernesto Magorno e l’ex parlamentare Stefania Covello. Renzi in serata afferma che lui se fosse calabrese voterebbe il candidato Pd, Callipo. Ma intanto, il sostegno ufficiale non c’è. In Emilia, l’ex premier sostiene Bonaccini. Ma con due suoi uomini dentro la lista del candidato presidente. Un’altra scelta da far eventualmente valere il giorno dopo. E poi, l’ex premier si è portato avanti con la pratica Puglia, affermando che troverà un candidato alternativo a Emiliano. Ormai l’inimicizia tra i due è massima, quindi si tratta di una scelta obbligata. Così obbligata che ieri Ettore Rosato ha incontrato Carlo Calenda (altro ex amico, oggi nemico di Matteo) per fare un punto su un nome comune (che per ora comunque i due non hanno individuato) e magari su azioni congiunte in altre Regioni.

Perché semmai il governo (e il Pd) dovessero superare indenni il voto del 26 gennaio, poi c’è una tornata elettorale che potrebbe comunque travolgere tutto, se dovesse andare male. In Toscana, Renzi ha imposto Eugenio Giani, un candidato non fortissimo. In Campania, sul nome di Vincenzo De Luca, c’è un gioco abbastanza complesso. Il governatore non ci pensa proprio a farsi indietro, Zingaretti è perplesso. Per ora, Iv è contraria: c’è un progetto parallelo di Gennaro Migliore, che vorrebbe correre a sindaco di Napoli e ha bisogno dell’appoggio di Luigi De Magistris e i Cinque Stelle. Che De Luca non lo vogliono. Come non lo vuole Andrea Orlando: pure lui in Liguria ha bisogno dell’appoggio M5S per un candidato civico. “Domani è un altro giorno”, per fare una citazione illustre. Ma il caos aumenta.

Chiamate la neuro

Immaginate se un giorno il ministro della Salute si affacciasse ai teleschermi e annunciasse: “L’aspirina non serve a combattere il cancro e la chemioterapia è inutile nella cura del raffreddore, dunque abbiamo deciso di vietarle”. Due infermieri lo porterebbero via per accompagnarlo in un repartino psichiatrico, prima che dica altre cazzate e faccia altri danni, essendo universalmente noto che l’aspirina non cura il cancro, ma il raffreddore, e la chemioterapia viceversa. Pare fantascienza, invece è il livello medio del dibattito pubblico in Italia, dove tutti parlano a vanvera, sommando le mele con le pere o scambiando le cause con gli effetti.

1. Va di gran moda prendersela col Reddito di cittadinanza perché non crea nuovi posti di lavoro. Il Giornale titola: “Anche l’Inps ammette: il reddito di cittadinanza non crea occupazione. Per il presidente Tridico impatto quasi nullo. Anche Gualtieri si è convinto: va cambiato”. Ma fosse solo la stampa umoristica, poco male. La sottosegretaria al Lavoro del Pd, Francesca Puglisi, dice al Corriere che, col Rdc, “chi non lavora è favorito”. Oh bella: sarebbe strano il contrario, visto che il Rdc è stato pensato appunto per chi non trova lavoro e non ha di che campare. Se uno lavora e – si spera – viene retribuito, per definizione non ha bisogno del sussidio. Con la stessa (il)logica, la sottosegretaria potrebbe alzare il ditino e censurare il sussidio di disoccupazione perché favorisce i disoccupati. O i permessi di maternità perché favoriscono le mamme. Che senso ha, dunque, dire che il reddito va cambiato perché non va ai lavoratori e non crea posti di lavoro, cioè fa ciò per cui è stato pensato? Se poi i navigator e i Centri per l’impiego, una volta a regime, faranno incontrare la domanda (altissima) e l’offerta (bassissima) di lavoro, tanto meglio. Ma i posti di lavoro si creano con gli investimenti pubblici e privati e, se arriveranno, avremo meno poveri assoluti che chiederanno il reddito. Ma intanto il reddito garantisce loro di non sprofondare nella miseria più nera, facili prede della criminalità e altre tragedie sociali. Purché un lavoro lo cerchino e non lo rifiutino se viene loro offerto. Ma, per valutare il successo o l’insuccesso del Rdc, i dati da esaminare sono altri: non il numero dei posti di lavoro, ma quello dei poveri assoluti col reddito. Che, dopo 8 mesi, è altissimo: 2,5 milioni su 5 censiti (di cui 1 milione sono finti perché lavorano in nero) ricevono ogni mese in media 520 euro. Così in pochi mesi (stime Inps) il tasso di povertà si è ridotto dell’8%, l’indice di diseguaglianza dell’1,2% e il numero dei poveri assoluti di circa il 60%.

2. Il martellamento quotidiano contro la blocca-prescrizione che “allunga i processi” fino a renderli “eterni”. Anche questa è una panzana (i processi sono già eterni, anche perché molti avvocati li allungano per arrivare alla prescrizione) e una scemenza in sé (i primi effetti del blocco si avranno fra 7-8 anni, visto che vale per i reati perpetrati dal 1° gennaio 2020, che devono ancora essere scoperti o addirittura commessi, e si prescriveranno quasi tutti fra 5 o 7 anni e mezzo, dando al Parlamento tutto il tempo per abbreviare – volendo – i tempi dei processi). Ma soprattutto è una polemica insensata, perché nessuno ha mai chiesto di bloccare la prescrizione per accorciare i processi (quello è un effetto collaterale, non il movente della legge Bonafede). La riforma serve a evitare che ogni anno centinaia di migliaia di imputati colpevoli – di solito ricchi e potenti, i più pericolosi – restino impuniti facendosi beffe dello Stato, della Giustizia e delle vittime. E, fra 7-8 anni, nei primi processi con la prescrizione bloccata dopo il primo grado, nessun colpevole la farà più franca perché è scaduto il tempo.

3. Ieri Repubblica apriva così: “Cancellare Salvini”. Vasto programma. Per carità, è confortante che il giornale che per due anni ha gonfiato Salvini come un tacchino, il padrone dell’Italia, il vero premier, il ministro unico che fa il bello e il cattivo tempo (anche se non faceva una mazza), “chiude i porti” (ovviamente sempre aperti), pilotava masse sterminate di discepoli a suon di fake news della formidabile Bestia e del retrostante Putin, il campione del Sovranismo, il nuovo Mussolini, il genio del male responsabile di qualunque disgrazia sull’orbe terracqueo, abbia deciso un bel mattino di “cancellarlo”. Poi però uno gira pagina e rimane deluso: il titolo tonitruante, abolite inspiegabilmente le virgolette, riassume un’intervista al capogruppo Pd Graziano Delrio. Il quale, come i geni di Repubblica, non vuol cancellare Salvini, ma i suoi decreti Sicurezza, in barba al programma di governo che parla solo di correggerlo sulle critiche di Mattarella alle multe eccessive alle navi delle Ong che entrano nei porti italiani senz’autorizzazione (condotta vietata e sanzionata in qualunque Paese civile). Il guaio è che questo è proprio quello che sogna ogni notte Salvini, per poter dire che il Conte2 ha riaperto i porti che lui finge di avere chiuso (con la collaborazione straordinaria di Repubblica) e riguadagnare i consensi perduti. Chi volesse davvero “cancellare Salvini”, o almeno sgonfiarlo un po’, dovrebbe lasciar lavorare l’ottima ministra Lamorgese e pensarci non una, ma mille volte prima di abolire le sanzioni (certamente eccessive, ma per principio sacrosante) per chi entra senza permesso in casa nostra e moltiplicare gli sbarchi che non Salvini, ma Minniti prima di lui aveva ridotto al minimo possibile.
Ma questo è il discorso pubblico nell’Italia del 2020: il sussidio ai disoccupati non va bene perché va ai disoccupati. La blocca-prescrizione non va bene perché sfavorisce i colpevoli. Salvini si cancella rianimando Salvini. E gli infermieri non arrivano mai.

Melbourne, atleti carne da macello: crollano a terra per l’aria inquinata

Mettiamola così: fu una fortuna che nell’aprile del 1986, nei pressi di Chernobyl (Ucraina) non fosse in corso alcun evento sportivo tipo meeting di atletica, corsa ciclistica, Mondiale di calcio giovanile, torneo di tennis Ukranian Open. Fu una fortuna perché, in caso contrario, i parrucconi dello sport mondiale non avrebbero avuto dubbi sulla decisione più giusta da prendere: the show must go on, lo spettacolo deve continuare, e che sarà mai una nuvola di materiale radioattivo fuoruscita da un reattore dopo un incidente nucleare per fermare la manifestazione in atto? Se poi qualche atleta ci avesse lasciato le penne, pazienza: dopotutto, non si uccidono così anche i cavalli?, per dirla alla Sydney Pollack. Il nome Sydney ci rimanda, guarda caso, all’Australia; e mai rimando fu più appropriato se è vero che ieri nella città australiana di Melbourne è andata in onda una delle giornate più nere della storia dello sport; con i tennisti iscritti all’Australian Open costretti a sfidarsi respirando l’aria fortemente inquinata a causa dei giganteschi incendi che hanno messo a fuoco il continente, con conseguenze drammatiche: la slovena Dalila Jakupovic, dopo un serrato scambio con la svizzera Voegele, è stramazzata al suolo in preda a un violento attacco di tosse e non è più stata in grado di continuare. Anche la canadese Eugenie Bouchard si è sentita male e ha dovuto ricorrere all’assistenza medica; il tutto mentre un raccattapalle, assistendo alla partita tra Kavcic e Clarke, è collassato a bordo campo soccorso dagli stessi giocatori. Meglio è andata a Maria Sharapova, ex numero 1 Atp: il suo match contro Laura Siegemund è stato interrotto al secondo set. Come si dice in questi casi: Ave Maria, il Signore è con te.

“Quello che è successo oggi è terribile – ha detto la Jakupovic, 28 anni, professionista dal 2008 –. Gli organizzatori ci hanno obbligato a giocare, noi atleti non abbiamo avuto alcuna possibilità di scelta. Io non avevo mai avuto problemi di respirazione, anzi, mi piace il caldo; e dopo l’intervento del fisioterapista pensavo di farcela a proseguire, ma poi gli scambi si sono prolungati e a un certo punto non sono più riuscita a respirare, mi sono sentita svenire e sono crollata”.

Atleti carne da macello. Non sono servite a nulla, evidentemente, la tragedie sfiorate ai mondiali di atletica criminalmente svoltisi al caldo torrido di Doha, capitale del Qatar, a ottobre 2019: con le immagini di Jonathan Busby, di Aruba, colpito da malore nel finale dei 5 mila metri che compie gli ultimi duecento metri sorretto di peso da Braima Suncar Dabo, della Guinea Bissau; immagini che hanno fatto il giro del mondo come quelle della maratoneta azzurra Sara Dossena svenuta al km 13 (“Mi è esploso il fisico: quella non era una maratona, era una corsa alla sopravvivenza”), per non parlare delle decine di atleti collassati e portati via in sedie a rotelle, con la borsa del ghiaccio sulla testa, prosciugati dai 37 gradi e dal 73% di umidità. Per capirci, allo stadio Khalifa, modernissima cattedrale a cielo aperto, 3000 bocchettoni pompavano aria all’impazzata per tenere la gente a 25-26°, unico modo per non farli arrostire. E per la cronaca: allo stadio Khalifa e in altri stadi simili si giocheranno, nel novembre-dicembre 2022, i Mondiali di calcio assegnati al Qatar dai corrottissimi alti papaveri della Fifa. Per costruirli sono morti nel silenzio centinaia di operai. Ora ci manca solo il calciatore morto sul campo. Che il buon Dio ce la mandi buona.

“Ho inventato la fantastoria, ma le Voci furono censurate”

Un originale televisivo in cinque puntate, trasmesso per la prima volta nel 1995: sceneggiatura di Pupi Avati, regia di Fabrizio Laurenti, protagonisti Massimo Bonetti e Lorenzo Flaherty. Esoterico, inquietante, disgraziato e censurato, ma con le stimmate del cult: venticinque anni dopo, l’eco di Voci notturne non si è spenta.

Pupi Avati, parliamo del Twin Peaks italiano?

Twin Peaks non è un paragone peregrino, ma Voci notturne ha anticipato quel genere che Il codice da Vinci avrebbe portato al successo planetario: la fantastoria.

Come c’è arrivato?

Partendo da Il mattino dei maghi, un testo fondamentale di Louis Pauwels e Jacques Bergier del 1960: dotati di una cultura sterminata, hanno inventato quella letteratura, quel realismo fantastico di cui Dan Brown può essere considerato il peggio che esista.

Lei invece?

Ho ipotizzato che dentro la storia politica, sociale, artistica ci siano contenuti densi e segreti, misteri alchemici, per dirla con il Fulcanelli dei Misteri delle cattedrali, che ho studiato per vent’anni.

Veniamo al Ponte Sublicio.

Lo scrittore latino Varrone sostiene che Roma nasca da un ponte sul Tevere, aggregatore di attività commerciali e insediamenti abitativi: un centro di scambi. Un ponte di solo legno, senza chiodi, fatto di incastri e legature, un ponte sacro, da cui il titolo di pontefici o facitori del ponte: vi si sarebbero compiuti sacrifici umani, giovani buttati nel fiume dentro sacchi, ed ecco la suggestione.

Il critico Aldo Grasso non gradì e bersagliò la subliquità del ponte, ovvero quelle “travi oblique e sublique” del cartello iniziale.

Grasso ha dedicato gran parte della propria vita a denigrarmi: non ha mai avvertito un minimo di interesse per il mio lavoro, e quando è accaduto l’ha fatto per denigrarmi, come Paolo Mereghetti. Ma è un loro problema, non mio. Si sopravvive, tanto è vero che Voci notturne, da me scritto e prodotto, è misteriosamente sopravvissuto.

Merito dell’idea?

Be’, la sceneggiatura è prodigiosa. Il progetto narrativo parte da un cadavere rinvenuto sotto il Ponte Sublicio: un uomo espressione dei poteri forti romani lo riconosce come proprio figlio, ma lo stesso giovane telefona dall’America per tranquillizzare i genitori. Ho pensato anche di rifarlo.

Sui forum, in verità, chiedono il sequel.

Sì, lo so, noi avevamo pensato al remake, ma c’è un problema, come ci hanno spiegato i consulenti scientifici della questura: la storia oggi non starebbe in piedi, l’esame del Dna accerterebbe subito l’identità della vittima. La bellezza dell’intrigo, non sapere se quell’uomo avesse riconosciuto davvero il figlio, spazzata via: il Dna è la discriminante, Voci notturne non avrà un remake.

Piove sul bagnato?

Be’, la Rai lo trattò in modo indecente, lo mandò in onda in concomitanza con il campionato, poi a un certo punto per dare spazio a una partita importante programmò due puntate insieme senza dire niente: una specie di massacro. Noi con gli ascolti televisivi siamo sempre andati bene, con le Voci no.

Nondimeno…

Ha un suo mondo di affezionati, che mi scrivono, che continuano a insistere per un sequel, un remake o per rimetterlo in vita.

Allora qualche soddisfazione non se la prese?

Mi divertii. All’epoca non c’era Wikipedia, si andava ancora in biblioteca: i ragazzi mi portavano una mole di fotocopie, io scrivevo a Todi e mandavo le puntate. Mi sono fatto una bibliografia straordinaria, di cui Aldo Grasso non ha la minima cognizione.

Nelle successive, sporadiche programmazioni a notte fonda, Voci notturne subì la censura.

La presidente della Rai Letizia Moratti ricevette una diffida: io avevo responsabilizzato delle malefatte la Società Teosofica, che immaginavo non esistesse più dai primi del Novecento, invece ancora c’era… Abbiamo provveduto a tagliare le sequenze in cui veniva citata: l’intelligibilità ne risente, qualcosa si è perso, di certo Voci notturne non si è avvantaggiato.

Progetto maledetto?

No, rivendico la primogenitura nella storia del cinema: non esiste prima di questo il genere fantastoria, una mistura di eventi storici accertati con intreccio thriller, giallo. È un tipo di scrittura per cui provo grande nostalgia, ma Dan Brown mi ha così avvilito che basta, ho già dato.

E ora?

Lei mi parla ancora, un film intimista che si ispira al papà di Elisabetta e Vittorio, Giuseppe Sgarbi. La dialettica tra un vecchio reticente, cui muore la moglie dopo sessantacinque anni di matrimonio, e un ghostwriter – sarà Fabrizio Gifuni – mandato a Ro Ferrarese a raccoglierne le memorie con la promessa di pubblicargli poi il romanzo: due idee di famiglia agli antipodi, due generazioni diverse a confronto, bellissimo. E poi stiamo lavorando su Dante, tra un anno sono settecento che è morto: è ora che si racconti chi fosse, la vita pazzesca di questo essere umano.

Sanremo, si fa prima a dire chi mancherà

Dovesse trovarsi a corto di slogan, Amadeus potrebbe riciclare quello di Morandi. “Stiamo uniti!”, esortava Gianni, capitano in due Festival. Sì, perché il nuovo direttore artistico di Sanremo sembra vittima di un horror vacui da palco, quasi a palesare una fobica insicurezza nei propri mezzi. Non sarà mai un perfettino simil-Conti, né uno che se ne infischia come Baglioni, che faceva un altro mestiere e gli bastava buttar dentro il repertorio per fare boom. Il buon Ama è alla vigilia di un sogno coltivato sin da bambino (lo sottolineano pure gli spot-teaser), e hai voglia a dirgli che la sua spontaneità da uomo dannatamente medio sarà premiata dagli ascolti.

A tre settimane dall’evento della vita, lo vedi ancora confuso sulle cose da dire ai giornalisti, che gli ringhiano addosso per la gaffe dei nomi dei cantanti usciti anzitempo. Eccolo lì nel vernissage a salmodiare che Sanremo non è suo, “ma di tutti”, a inzeppare la lista degli ospiti, come se dovesse organizzare un festone in villa e preferisse far imbucare chiunque pur di non restar solo. Ma le chiavi dell’Ariston non gliele hanno ancora consegnate: il sindaco Biancheri più volte lo chiama “Amedeus”, si rischia di sbagliare nome pure sul citofono. Per il Nostro la salvezza sta nel sovraffollamento in scena: dieci signore? Macchè, undici. Tre amici, di cui due “fratelli”. E qualche grande vecchio cantore fuori competizione. Delle donzelle, Ama chiarisce subito che le trova “bellissime”, poi spiega il senso delle convocazioni. Rula Jebreal (“Divisiva? Non avrei mai immaginato tutto questo, parlerà della violenza sulle donne, un tema che non ha colore politico”, e dimentichiamoci Michelle Obama, era un pour-parler da un milione di euro); Diletta Leotta, le due anchorwomen del Tg1 Laura Chimenti ed Emma D’Aquino, la modella Francesca Sofia Novello (fidanzata di Vale Rossi), Georgina Rodriguez (Lady Ronaldo), Monica Bellucci, Sabrina Salerno, Antonella Clerici, la co-conduttrice della finale Mara Venier, più Alketa Vejsiu, che in Albania è un mix (molto più bombastico) tra la Carlucci e la De Filippi, visto che conduce le edizioni locali di “C’è posta” e “Ballando”: sconosciuta in Italia, si affretta a ringraziare Lucio Presta. Gli amici-fratelli? Amadeus invoca a più riprese Fiorello, ma grande è il rischio che il convenuto oscuri il padrone di casa; Tiziano Ferro, impegnatosi a essere lì tutte le sere, non solo per cantare (di sicuro duetterà con Massimo Ranieri); infine Benigni, che non rientrerà a cavallo in teatro, ma quel giovedì “farà qualcosa che resterà nella storia del Festival”, assicura il direttore artistico. Non mancheranno gli attori in promozione: Favino, Rossi Stuart, Santamaria ed Emma per il film di Muccino, De Sica e mezzo cast per Brizzi, e occhio pure a un divo hollywoodiano. Quanto ai decani festivalieri arriverà Johnny Dorelli, non mancheranno Al Bano e Romina, riuniti da un brano di Malgioglio; si tace su Celentano, di cui qualcuno intravede l’ombra in lontananza. A questo punto non si capisce perché Rita Pavone sia in gara e non tra gli omaggiati, ma Ama ne difende la collocazione: “Non sapevo fosse sovranista, per lei parlano la carriera e questa canzone”.

Chissà se sarà radiofonica come le altre 23, preferite su oltre duecento. Nega di essersi basato sui nomi, Amadeus: “Alcuni cantanti li ho incontrati solo la sera dell’Epifania in tv”. Di certo, questo Sanremo N.70 non copierà se stesso, puntando dritto verso il futuro (si scommette forte sul guest Salmo per la prima serata, e su Dua Lipa, Mika, Lewis Capaldi, offrendo Zucchero a un pubblico più agée, fino a celebrare i fasti di Ultimo nella finale), occupando militarmente la città rivierasca per un Festival imperiale con mostre, red carpet e un imponente palco in piazza Colombo dove si materializzeranno le star, in un legame urbanistico-editoriale con l’interno dell’Ariston. Mentre la sala macchine della Rai pomperà senza soluzione di continuità il suo progetto ripiana-bilanci, tra programmi tv, radio, web e social. Anche nel momento della clamorosa defenestrazione della direttora De Santis e prima dell’intronizzazione del nuovo comandante dell’ammiraglia, il valido Coletta, gli ufficiali accorsi sulla tolda di Sanremo (il vice Fasulo e Marano) garantiscono che nessuno potrà fermare la navigazione solenne della corazzata di Viale Mazzini. Tutti a bordo: anche Amadeus ricorda che nessuno potrà cacciarlo, prima dell’8 febbraio. Dopo, chissà.