Gli hacker russi nei server della società di Biden jr

Washington, Kiev, Mosca. Poi al contrario: Mosca, Kiev, Washington. La storia potrebbe cambiare di nuovo in pochi click e anche ora, come nel 2016, a riscriverla sarebbero gli hacker russi.

A novembre scorso sono entrati nei server della compagnia energetica legata all’impeachment di Donald Trump, la Bursima, già al vaglio degli inquirenti americani che hanno messo il presidente in stato d’accusa. I pirati digitali hanno rubato dati e password dell’azienda dove dal 2014 all’anno scorso sedeva nel consiglio d’amministrazione il figlio di Joe Biden, Hunter, coinvolto nella vicenda giudiziaria americana. Poi sono spariti senza che nessuno si accorgesse della loro presenza. Negli Usa hanno scoperto l’attacco degli hacker di Mosca solo il giorno di Capodanno.

La sirena d’allarme risuona dalla Silicon Valley con un report pubblicato ieri con gli stessi colori della bandiera ucraina. Titolo blu su sfondo giallo: “Phishing bursima holdings”, stilato dall’Area 1 Security, agenzia di sicurezza a stelle e strisce, che ha segnalato, – senza poter decifrare l’entità del danno –, l’attacco avvenuto mesi fa, mentre era in corso l’istruttoria contro Trump alla Camera. Creando pagine fasulle, ma visivamente identiche a quelle della Burisma per convincere i dipendenti a condividere le loro credenziali via mail, gli hacker sono riusciti a penetrare nei database aziendali, forse in cerca di quel kompromat, materiale compromettente, di cui chiese Trump a Zelensky nella telefonata del 25 luglio scorso, quando il presidente americano avrebbe promesso aiuti militari in cambio di informazioni sul suo ex consigliere, poi nemico, Biden.

I corsari digitali di Mosca “nonostante siano sofisticati, sono anche pigri e hanno usato quello che ha già funzionato in passato”. Oren Falkowitz, fondatore dell’agenzia Area 1, prima dipendente della Nsa, ha notato tempistiche e strategie gemelle a quelle usate durate gli attacchi ai server dei democratici durante le elezioni del 2016. E anche questa volta “gli attacchi sono stati un successo”.

Stesso sistema, stesse tattiche “che rispecchiano quelle della Gru”, servizi segreti russi, a loro volta oggetto del precedente report del procuratore Muller. Secondo l’agenzia nazionale di sicurezza Usa, a cui ha fatto eco la controparte britannica, ci sono ancora falle nei sistemi e punti vulnerabili nei database americani, e uno scenario peggiore di quello delle elezioni 2016 potrebbe verificarsi. Un bombardamento a più bersagli. Nel mirino dell’attacco digitale c’erano anche Kub-Gas, Aldea, Nadragas, aziende collegate alla Burisma, insieme ai server di Kvartal 95, il canale che ha reso Zelensky il comico più famoso d’Ucraina, il programma tv dove da saccheggiare rimangono i dati registrati di Ivan Bakanov, un ex collega del comico divenuto da giugno scorso, per volere del presidente, il capo dei servizi segreti d’Ucraina.

Usa 2020: maschi, bianchi (e ricchi) per battere Trump

Erano tanti, 25 a un certo punto, e molto diversi, neri, ispanici, asiatici, mezza dozzina di donne. Adesso, restano ancora tanti, una dozzina – tre però non sono neppure rilevati dai sondaggi –, ma sono molto meno diversi: uomini, bianchi, over 70; e miliardari – ce ne sono tre in corsa, esattamente come le donne; uno – il più giovane – è un omosessuale dichiarato. La gamma degli aspiranti alla nomination democratica per Usa 2020 non dà spazio all’entusiasmo e stempera la speranza che Donald Trump possa essere battuto nell’Election Day, il 3 novembre. Ma mancano ancora quasi 300 giorni; e il primo dibattito del 2020 fra candidati democratici quasi coincide con l’avvio del processo in Senato per l’impeachment del magnate e showman.

Il dibattito s’è svolto nella notte alla Drake University di Des Moines, la capitale dello Iowa, Stato che il 3 febbraio aprirà la stagione delle primarie: le 20 ora locale, le 3 del mattino in Italia. Con l’uscita di scena di Cory Booker, senatore del New Jersey, non ci sono praticamente più neri – Deval Patrick non ha alcuna possibilità –; e già non c’erano più ispanici; e presto non ci saranno più asiatici. Il senatore Booker, che ha sospeso la campagna lunedì, era rimasto l’unico afro-americano d’un certo peso, dopo l’abbandono della senatrice della California, Kamala Harris. Il senatore non era mai emerso come protagonista nei dibattiti (e non si era qualificato per quello di Des Moines), non brillava nei sondaggi ed era in difficoltà nella raccolta fondi. Il passo indietro di Booker, che aveva incentrato la sua campagna su un messaggio di unità, è stato commentato con ironia da Trump su Twitter: “Davvero una grande breaking news… Ora posso dormire sonni tranquilli… ero così preoccupato dal ritrovarmi un giorno testa a testa con lui”. Sul palco della Drake University, solo 6 dei 12 aspiranti alla nomination “superstiti”: Joe Biden, l’ex vicepresidente, i senatori Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Amy Klobuchar, l’ex sindaco di South Bend nell’Indiana Pete Buttigieg e il miliardario Tom Steyer. Rispetto all’ultimo dibattito 2019, resta fuori l’imprenditore di origini asiatiche, Andrew Yang. Fuori pure la deputata Tulsi Gabbard e tre comprimari di questa campagna (Deval Patrick, Michael Bennett e John Delaney).

Un caso a parte è il miliardario Mike Bloomberg, che salta le primarie di febbraio e punta sul Supermartedì del 3 marzo e, inoltre, usa per fare campagna solo fondi propri, rifiutando ogni donazione: è pronto a spendere un miliardo per ottenere la nomination, ma soprattutto perché Trump non ottenga un secondo mandato, e ha messo in campo una squadra di mille agenti sul territorio. Nelle ultime ore, la campagna democratica vede incrinarsi le relazioni personali fra i protagonisti “di sinistra”: la polemica è esplosa tra Sanders, che nega d’avere mai detto che una donna non può vincere, e la Warren, che gli rimprovera calunnie sul proprio conto diffuse dai suoi volontari. “Socialista” il primo, egeria di Occupy Wall Street la seconda, si contendono in prima battuta la stessa fetta dell’elettorato democratico.

Il valzer dei sondaggi nello Iowa vede ora in testa, nel rilevamento della Monmouth University, Biden, col 24% delle preferenze, davanti a Sanders al 18%, a Buttigieg al 17% e alla Warren al 15%. Secondo il sito che fa la media dei principali sondaggi, nello Iowa, dove per settimane era stato in fuga Buttigieg, è ora testa a testa tra Biden e Sanders, dato avanti domenica da un sondaggio Des Moines Register / Mediacom / Cnn. A livello nazionale, Biden è oltre il 20%, Sanders, Buttigieg e la Warren lo seguono tra il 20 e il 15%.

Il voto di novembre sarà influenzato, se non condizionato, dal processo di impeachment a Trump, che sta per aprirsi in Senato. La speaker della Camera Usa Nancy Pelosi s’è finalmente convinta a trasmettere al Senato gli atti del rinvio a giudizio per abuso di potere e intralcio alla giustizia approvato dai deputati il 18 dicembre.

Sulle modalità del processo e, in particolare, sulla convocazione di ulteriori testimoni, restano contrasti tra i repubblicani, che al Senato sono maggioranza (53 su 100), e i democratici: perché Trump sia impeached e, quindi, rimosso, ci vogliono i due terzi dei suffragi, 67 su 100.

Il presidente intende usare i suoi poteri per bloccare l’eventuale testimonianza del suo ex consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, pronto a deporre se convocato con un mandato.

“Abusavo di 5 bimbi a settimana”

“Per vent’anni è successo tutti i fine settimana e durante i campi scout. Quattro, cinque bambini a settimana. All’epoca non mi sembrava di fare del male, le consideravo carezze, coccole. Ma mi sbagliavo. Me lo hanno fatto capire le vittime con le loro accuse”. Finalmente “padre Preynat” è comparso ieri di fronte ai giudici di Lione e a decine delle sue vittime. Queste parole sono la sua terribile confessione. Tra il 1971 e il 1991 l’ex parroco di Sainte-Foy-les-Lyons ha potuto abusare di decine di bambini tra i 7 e i 15 anni, coperto dal silenzio dei superiori che da anni sapevano e tacevano.

I casi che la giustizia ha potuto ricostruire sono 35. E solo 10 di questi non sono prescritti. Bernard Preynat, 74 anni, che ha riconosciuto la maggior parte delle accuse che gli sono rivolte, rischia 10 anni di prigione. Il processo si è aperto ieri al tribunale di Lione con un giorno di ritardo, sospeso lunedì a causa dello sciopero degli avvocati contro la riforma delle pensioni. Per le vittime era tempo di ritrovarsi faccia a faccia col prete predatore.

Lo scandalo è emerso nel giugno 2015 quando Alexandre Hezer, che subì gli abusi di Preynat negli anni 80, decise di sporgere denuncia. Hezer, oggi 45 anni, non si è però potuto presentare come parte civile al processo perché il suo caso è prescritto. “Scoprire che era ancora vivo mi è diventato insopportabile. Per mesi ho sentito dei bambini gridare nei miei incubi. Dovevo parlare”, ha raccontato di recente a Le Monde. Era convinto che come lui anche altri avrebbero trovato il coraggio. Non si è sbagliato. Nel dicembre dello stesso anno, insieme a François Devaux, che subì gli abusi di Preynat da quando aveva 11 anni, ha fondato La Parole Libérée, la prima associazione in Francia a riunire le vittime di preti pedofili. Da allora sono emerse tante verità nascoste. Nel 2014 Hezer aveva deciso di rivolgersi in un primo tempo al cardinale Philippe Barbarin, vescovo di Lione, per denunciare i comportamenti molesti di padre Preynat. Non aveva ottenuto nessun tipo di reazione. Oggi si sa anche che Devaux da bambino aveva raccontato tutto ai suoi genitori: “Penso che il parroco ha una preferenza per me, mi ha baciato sulla bocca”, aveva detto. Suo padre era corso in parrocchia per chiedere spiegazioni ai superiori di Preynat: tutti sembravano sapere, ma nessuna misura era stata presa contro il prete pedofilo.

L’inchiesta giudiziaria ha confermato che la Chiesa di Lione sapeva da quarant’anni. Eppure Preynat è stato allontanato dalla parrocchia solo nel 2015 e solo nel 2019 gli sono stati tolti i voti. Barbarin ha ammesso di essere stato messo al corrente di alcuni fatti nel 2007 e che nel 2010 ha persino convocato il prete per fargli delle domande. Lo scorso marzo il cardinale Barbarin è stato condannato in prima istanza a sei mesi di detenzione (con la condizionale) per aver coperto gli abusi sessuali di Preynat. Per fine mese è attesa la sentenza in appello. La vicenda ha anche ispirato un film a François Ozon che lo ha intitolato Grazie a Dio, da una frase pronunciata da Barbarin: “Grazie a Dio, la maggior parte dei casi sono prescritti”. “Il processo Preynat – ha scritto a ragione Libération – è in un certo senso il processo della pedofilia nella chiesa francese”. Davanti ai giudici ieri Devaux ha ricordato l’odore di tabacco che il prete aveva addosso, le sue carezze spinte che dalle gambe salivano più in alto, i baci che dalle guance si spostavano sulla bocca, di come lo stringeva forte: “Prima ero stato un bambino pieno di vita”. Poi la violenza, l’adolescenza difficile, il tentativo di suicidio. “Ero fiero che si interessasse a me – ha detto ai giudici –, di essere protetto da questo uomo così potente. Mi diceva che era il nostro segreto”.

Pare che padre Preynat fosse molto stimato nella parrocchia. Che spesso la domenica era invitato a pranzo dalle famiglie della buona società di Sainte-Foy-les-Lyons, periferia bene di Lione. Jean-François, 41 anni, ha voluto rivelare gli abusi subiti alla sua famiglia nel 2006 ma non è stato creduto. Aveva solo 8 anni, nel 1986, quando il prete lo obbligava a baciarlo. Preynat ha negato: “Non me lo ricordo, non era mia abitudine baciare sulla bocca”. In aula ieri Pierre-Emmanuel Germain-Thill portava il foulard verde degli scout. Il prete ha approfittato di lui nei locali della chiesa dal 1988 quando aveva 9 anni: “Mi diceva che ero il suo preferito”. L’avvocato Emmanuelle Haziza ha chiesto all’accusato: “All’epoca sapeva che i suoi erano atti riprovevoli. Perché non si è andato a denunciare?”. E lui: “Ci voleva un coraggio che io non avevo”.

Lavoravano in un’azienda pubblica, ma oggi in 40 diventano precari

Un giorno sei praticamente dipendente di una società pubblica, il giorno dopo ti ritrovi a essere licenziato perché il datore – intanto diventato privato – ha perso un appalto (pubblico). Il capovolgimento non è stato proprio così rapido, ma poco ci manca. A pagare il conto sono 38 lavoratori di RetItalia. Ieri, per loro, è stato l’ultimo giorno: per anni si sono occupati dei servizi informatici dell’Ice, agenzia per il commercio estero del ministero dello Sviluppo economico, ma ora la commessa è passata a un altro gruppo di imprese. I 38 addetti stanno per diventare disoccupati; al massimo, potranno essere recuperati con contratti di agenzie interinali. Ma niente a che fare con l’impiego stabile avuto finora. Ed è il motivo per cui rifiutano questa soluzione. Fino a poco più di 5 anni fa, i lavoratori appartenevano a una società statale: l’azienda in house della stessa Ice, costituita nel 1992. Nel 2013 è arrivata la spending review e l’agenzia del ministero ha deliberato la vendita della sua società.

Una scelta che già allora aveva provocato proteste, con tanto di petizione per scongiurare la dismissione. Inutilmente. In un primo momento, nel 2014, ad aggiudicarsi RetItalia è stata Gepin, che poi ha dovuto rinunciare in quanto i vertici sono stati coinvolti – a inizio 2015 – in un’inchiesta per bancarotta. Al secondo giro, è arrivata la Corvallis di Padova. RetItalia è diventata un’azienda privata ma titolare dell’appalto Ice. Così è stato fino a questa estate, quando l’agenzia ha deciso di non aprire una gara per il rinnovo della commessa (alla quale RetItalia avrebbe partecipato), ma di aderire a un contratto Consip. RetItalia ha ottenuto una proroga, scaduta ieri. Ora il servizio sarà gestito da altri fornitori, tra cui Leonardo, Ibm e Fastweb. “Una soluzione strana – dice Claudio Di Mambro della Fiom – perché le aziende che subentrano lavorano su una convenzione che si occupa di sicurezza informatica, mentre RetItalia forniva altri servizi. In questi mesi abbiamo provato ad avere incontri con il ministero, senza riuscirci”. Non c’è l’impegno delle nuove aziende a riassorbire il personale RetItalia. Due agenzie di somministrazione, in questi mesi, hanno sondato la disponibilità di alcuni tra i lavoratori ad accettare impieghi precari sempre con nuove imprese.

Intanto si lavora per la cassa integrazione per cessazione. Prima di ritirare la procedura di licenziamento, l’azienda vuole essere certa di poter attivare l’ammortizzatore sociale. Resta da capire come sia stato possibile far passare tutti questi mesi senza riuscire a risolvere una situazione gestibile, perché riguardava solo 38 persone e chiamava in causa un’agenzia dello Stato.

Grandi opere, dalle promesse elettorali a nuovi piani flessibili

Un nuovo piano nazionale dei trasporti sembra essere nelle intenzioni della ministra De Micheli, come lo è stato di molti ministri precedenti. I grandi piani politicamente piacciono. In teoria, cosa c’è di meglio? Finalmente le scelte sono rese coerenti tra loro, dibattibili in pubblico in modo organico, e le risorse assicurate. Razionalità e trasparenza regneranno sovrane. In pratica la storia non funziona così, anzi proprio al contrario, e occorre capire perché. E questo non solo in Italia. Ma incominciamo da noi. Sono stati fatti due piani generali dei trasporti (Pgt) e mezzo (un Pgtl, cui si era aggiunta la logistica). Sono rimasti tutti lettera morta, e da subito. Poi nel 2001 è arrivata la lavagna di Berlusconi da Vespa, con le 19 grandi opere, che non pretendevano di essere un piano: era una lista di soldi (nostri) da spendere per far felici tutti. Una operazione a suo modo onesta: il fine era il consenso elettorale, e questo era per la prima volta dichiarato senza perifrasi. Poi dopo una pausa (di riflessione?) è arrivato un altro super elenco: i 133 miliardi delle opere strategiche di Delrio, nemmeno queste valutate in alcun modo. Anche questo elenco non osava chiamarsi “piano”, ma per le infrastrutture lo era.

Le infrastrutture di trasporto sono diventate promesse elettorali (persino il Tav, in negativo: “Non si farà mai”!). M5S tentò di cambiare logica facendo qualche analisi costi-benefici, ma si arrese subito alla forza politica del partito del cemento. Ma perché i mega-piani infrastrutturali non possono funzionare? Perché in questa fase tutto cambia velocemente, i soldi pubblici sono scarsi, e i rischi di sprechi in questo contesto sono grandissimi. Cambiano gli obiettivi, con il cambiare dei governi. L’ambiente è diventato più importante, forse anche dello sviluppo economico. Emerge un crescente problema di disparità della ricchezza e dei redditi. Si accelera l’urbanizzazione. Cambia la geopolitica (la via della Seta, i flussi degli scambi mondiali, il turismo). Cambia la popolazione che invecchia e in alcune regioni del Sud si riduce in modo rilevante. Cambiano le tecnologie, e in fretta: veicoli stradali sempre più sicuri e meno inquinanti (forse autonomi). Cambiano i mercati con l’apertura alla concorrenza già avvenuta in cielo e sull’alta velocità, e speriamo si estenda a concessioni e servizi collettivi. Cambia il mercato del lavoro, e la mobilità connessa. Cambia la disponibilità di soldi pubblici, in funzione di condizioni e situazioni interne e esterne non prevedibili. Come diceva Darwin: “Non sono le specie più grandi e forti che sopravvivono, ma quelle che meglio si adattano ai cambiamenti”.

Niente mega-piani strategici allora? Non è così semplice: le maggiori infrastrutture sono opere di lungo periodo (10 anni in media): come si fa a non programmarle per tempo? Una prima risposta è tecnica: in un contesto così variabile, i rischi di sprecare soldi pubblici aumentano, quindi, potendo scegliere, è meglio orientarsi su soluzioni più flessibili, per esempio frazionare al massimo i maggiori investimenti nel tempo, rendendoli funzionali all’eventuale crescere della domanda di trasporto. Persino i progetti dei “corridoi europei” (noti come Ten-T) son stati temporalizzati in funzione della domanda, che è risultata inferiore al previsto (per esempio, i francesi non faranno nulla fino al 2038 dall’uscita dal tunnel Tav a Lione, causa traffico insufficiente, di fatto cancellando il corridoio europeo relativo). Se flessibilità (nello spazio, cioè “dove”, e nel tempo, cioè “quando”) diventa la giusta regola degli investimenti nei trasporti, alla flessibilità giova molto che le opere siano anche redditizie in termini finanziari. Questo, oltre a far bene alle casse pubbliche, rende maggiori le possibilità di ri-indirizzare risorse fresche se le esigenze e economiche sociali cambiano. Opere che “congelino” vaste quantità di denaro pubblico rendono le scelte politiche meno flessibili.

Va ricordato il grande esempio dell’Inghilterra all’inizio dell’800, quando fu costruito un grande numero di canali navigabili che fu rapidamente abbandonato all’avvento delle più flessibili ed economiche ferrovie: uno spreco terribile (anche metà delle linee ferroviarie subirono la stessa sorte con l’avvento del trasporto stradale, un secolo dopo). Le soluzioni tecnologiche sono più flessibili di quelle infrastrutturali, oltre che creare più occupazione e di tipo più stabile. Ma il “partito del cemento” è ancora ben radicato: a questo sembra essersi attaccato anche il partito di Renzi con un piano da 130 miliardi. E dell’alta velocità al Sud ha parlato, sembra, anche il primo ministro (quelle linee rimarrebbero sicuramente deserte, basta il retro della busta per fare i conti). Un approccio di pianificazione che punti di più su soluzioni tecnologiche, sulla manutenzione e sul potenziamento graduale dell’esistente, sarebbe più flessibile, probabilmente meno impattante sull’ambiente, e certo più aperto alla concorrenza (le gare per le soluzioni tecnologiche e per le piccole opere funzionano). Ma proprio quest’ultimo aspetto potrebbe essere non gradito a molti.

Fondi pensione, prendi i soldi e scappa. Meglio versare all’Inps

Alcuni giorni fa Massimo Mucchetti, giornalista e già senatore del Partito democratico, ha pubblicato su Il Foglio un intervento intitolato “La svolta dei fondi pensione”, dove propone versamenti volontari all’Inps anziché nella previdenza integrativa e passa in rassegna gli aspetti negativi di quest’ultima.

Cominciamo col secondo punto. Nella sostanza non aggiunge nulla di nuovo rispetto a quanto apparso negli anni su Fatto Quotidiano. E, anzi, molte storture le rilevai già nel 2007 col mio libro “La pensione tradita”. Altrove non è però mai apparsa una requisitoria contro la previdenza integrativa, tanto meno su testate a larga diffusione. Certo che pubblicata da il Foglio non dà molto fastidio all’industria parassitaria del risparmio gestito, di cui i prodotti cosiddetti previdenziali sono un ramo di azienda. Per altro Mucchetti in circa 15.500 battute non ha trovato lo spazio per denunciare una delle loro peggiori magagne, ovvero la pressoché totale assenza di trasparenza.

La proposta in sé è appunto permettere, sia ai lavoratori dipendenti che agli autonomi, versamenti aggiuntivi all’Inps per ottenere un’integrazione della propria pensione. Si tratterebbe di versamenti liberi, mentre quelli in particolare ai fondi chiusi a volte lo sono, ma altre volte sono coatti. L’idea non è affatto da bocciare. Essa andrebbe incontro anche a un desiderio diffuso, sistematicamente ignorato e anzi censurato, per non dispiacere ai tantissimi soggetti che traggono vantaggi dalla situazione attuale. E li perderebbero, se andasse in porto la proposta in questione. Che Mucchetti definisce bipartisan, esplicitamente rivolta “al centrosinistra e al centrodestra, per non parlare del M5S”. Ma questo è al massimo un suo auspicio. Essa non va certo contro le posizioni dei grillini, ma non si vede proprio come possa andare bene a quasi tutte le altre forze politiche, molto attente agli interessi dell’establishment bancario e assicurativo, dei sindacati e delle associazioni padronali. Cioè dei beneficiari strutturali della previdenza integrativa.

Caos commissari, al Mise non c’è più la direzione

È come se in città fosse scoppiata un’epidemia e invece di potenziare l’ospedale avessero deciso di chiuderlo. L’epidemia che ha investito l’Italia è quella delle crisi aziendali e per tentare di arginarla affrontando almeno i casi più gravi per dimensione e importanza, al Mise (Ministero dello sviluppo economico) avevano messo su una struttura apposita. Era la Direzione a cui i ministri negli ultimi anni avevano affidato il compito di seguire le complicate vicende delle amministrazioni straordinarie e che aveva se non altro affinato competenze e accumulato esperienza, soprattutto nel campo della vigilanza e del controllo delle scelte dei commissari. Visto l’aggravarsi della situazione, con l’incedere di crisi sempre più devastanti e complesse, dall’Ilva di Taranto all’Alitalia, sarebbe stato logico che quella struttura ministeriale fosse stata potenziata. E invece l’hanno praticamente soffocata togliendole autonomia e facendola dipendere dalla Direzione che si occupa delle politiche industriali con cui ha scarse affinità.

È in questo contesto che sono maturati gli ultimi scivoloni del ministero guidato da Stefano Patuanelli (M5S) a proposito della scelta dei commissari, compreso quello dell’Alitalia, Giuseppe Leogrande, nominato a dicembre e su cui grava il sospetto di nullità. Patuanelli ha proceduto alla nomina ignorando le regole che lo stesso ministero si era dato alcuni mesi prima quando alla guida c’era Luigi Di Maio. L’anomalia è stata evidenziata dal Tar del Lazio con una sentenza che mette in mora i criteri seguiti per la scelta dei commissari della società Condotte, ma che per proprietà transitiva riguarda anche Alitalia. Il sindacato Cub Trasporti guidato da Antonio Amoroso sta valutando di ricorrere contro la nomina Alitalia.

L’operazione di ridimensionamento della Direzione ministeriale per i commissari straordinari è recente, risale alla fine d’autunno e oltre a quella del ministro Patuanelli porta la firma del segretario generale, Salvatore Barca. Al posto delle due vecchie direzioni che si occupavano separatamente di gestioni commissariali e di politiche industriali, è stata creata un’unica struttura affidata a Mario Fiorentino. Per anni il pilastro della Direzione per le amministrazioni straordinarie era stata Simonetta Moleti, costretta a lasciare il suo incarico per una serie di problemi di salute. Al suo posto era subentrata Cristina Reali che ha diretto la struttura con una sorta di interim al termine del quale sembrava scontato che la guida dell’ufficio sarebbe stata affidata proprio a lei. Così non è stato, anzi, la Reali n si è ritrovata perfino con uno stipendio più basso di quelli precedenti. A quel punto ha preferito salutare il Mise per andare al ministero della Salute di Roberto Speranza. Nel frattempo la Direzione delle amministrazioni straordinarie era stata lasciata anche da Giampiero Castano che aveva il compito di tenere i rapporti con i sindacati. Per sostituirlo, Di Maio era andato a pescare tra i suoi amici di Movimento: la scelta è caduta su Giorgio Sorial, ingegnere di Brescia, ex deputato 5 Stelle non rieletto.

Benetton, il vizio del debito: perché Atlantia rischia il crac

Ora è il momento del redde rationem per i Benetton. L’eventuale revoca della concessione delle autostrade italiane gestite da Aspi, non potrà che riverberarsi a cascata a monte dell’intera filiera societaria: da Autostrade per l’Italia su verso Atlantia, che di Aspi possiede l’88%, fino a Sintonia ed Edizione, la holding di Ponzano che di Atlantia ha il 30% del capitale. Comunque andrà, sarà un sommovimento tellurico per l’intero impero della potente famiglia, costruito più di 20 anni fa su un enorme castello di debito.

Cosa c’è di meglio che gestire business monopolistici, che vivono di rendita su tariffe garantite e con hanno (apparentemente) rischi operativi? Anziché fare maglioni (che infatti sono in profonda crisi da anni con il marchio di casa) meglio sfruttare le grandi privatizzazioni per assicurarsi quelle mucche da mungere che sono le concessioni pubbliche: dalle autostrade fino agli aeroporti. In fondo da imprenditore metti il minor capitale possibile, sai che avrai flussi di cassa così imponenti da attirare banche e investitori disposti a prestarti denaro perché a garanzia ci sono flussi di reddito che valgono, nel caso di Autostrade, incassi. Un vero Bengodi, senza precedenti in altri settori. L’unica avvertenza è che quelle concessioni così ricche te le devi meritare, garantendo efficienza e sicurezza della rete. Proprio quello che i Benetton hanno dimostrato di non saper gestire e tutelare con il disastro del ponte Morandi, che ha scoperchiato il vaso di Pandora fatto di manutenzioni al minimo, report falsati e investimenti tenuti al lumicino.

E ora i conti non tornano più. Se Autostrade perdesse la concessione svanirebbero quei flussi di cassa che hanno consentito di indebitarsi oltre misura e il castello da Autostrade in su crollerebbe di schianto. Aspi con i suoi oltre 3 miliardi di fatturato è il gioiello della Corona per Atlantia. Valeva prima della conquista della spagnola Abertis (anch’essa a debito) il 60% dell’intero fatturato annuo. Aspi apporta anche una forte dose di redditività industriale: 2 miliardi sui circa 5,6 di margine operativo lordo della controllante quotata. E nei primi nove mesi del 2019 c’è l’apporto di Abertis di cui Atlantia possiede il 50% più un’azione. Nel 2018 il peso della redditività industriale di Aspi era ancora più pronunciato: 2 miliardi su 3,76. Ancora più imponenti i flussi di cassa operativi: da Aspi arrivavano ad Atlantia pre Abertis ben 1,7 miliardi sui 2,9 totali della holding.

Tagliare quel contributo così importante avrebbe l’effetto di dimezzare ricavi e margini, ma non il debito, che diverrebbe ingestibile prima per Aspi e subito dopo per Atlantia. Ed è proprio su questa considerazione che le tre agenzie di rating in rapida successione hanno portato il rating di Atlantia a livello spazzatura. I flussi di cassa mancanti di Autostrade spingerebbero il rapporto debito/margini a livelli non sostenibili.

Del resto già oggi sia Aspi che Atlantia viaggiano con debiti molto elevati. La prima ha un debito netto di 8,8 miliardi, di cui oltre 2 con la Banca europea degli investimenti e con la Casa depositi e prestiti, che in virtù del downgrading del rating potrebbero chiederne il rimborso anticipato. Oltre 7 miliardi sono prestiti obbligazionari. Il peso del debito vale già oggi oltre 4 volte il margine lordo. Significa che ci vogliono 4 anni interi di margini cumulati per rimborsare l’intero ammontare, senza però fare investimenti, ammortizzare più nulla, pagare gli interessi e i dividendi.

Con la revoca della concessione quel debito dovrebbe essere ripagato chiamando in causa Atlantia che ne garantisce buona parte. Ma il vizietto di tirare a più non posso l’indebitamento affligge tutti i business del gruppo. Atlantia prima di Abertis aveva debiti netti per 12,4 miliardi su un margine lordo di 3,5 miliardi. Dopo l’acquisizione del gruppo spagnolo il debito è schizzato a 38 miliardi su un Mol che dovrebbe raddoppiare a quota 7 miliardi ma che tiene la forchetta debito/mol a livelli elevatissimi. Ora molti osservatori mettono in guardia dagli effetti domino sugli obbligazionisti e azionisti della galassia, come la lettera inviata dagli investitori istituzionali di Atlantia a Bruxelles per mettere in mora il governo. Sapevano però quale livello elevato del loro stesso debito era caricato sulla società. E quando la leva debitoria è così elevata, il rischio non è remoto. Nessuno poteva prevedere il disastro di Genova, ma più che prendersela con il governo dovrebbero chiedere conto ai Benetton e ai loro manager della manutenzione così carente. Anche quella dai bilanci si poteva vedere. Da anni.

Smonti l’iPhone e scopri il boom cinese e i guai degli Usa di Trump

La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è sospesa, il presidente Donald Trump ha promesso di annunciare oggi la firma alla Casa Bianca della “fase uno di un accordo” con Pechino. Trump aveva lanciato il suo messaggio di pace a dicembre con la scelta di non far scattare le sanzioni previste su 156 miliardi di dollari di prodotti importati dalla Cina. C’è un calcolo elettorale: nell’anno delle Presidenziali, Trump si presenta ai suoi sostenitori come il presidente che ha costretto la Cina a trattare, ma evita che la linea bellicosa mandi gli Stati Uniti in recessione a pochi mesi dal voto. Soltanto propaganda, ma efficace.

Ma a Trump conviene sospendere le ostilità anche perché non può vincere: sta combattendo il problema sbagliato. Ad allarmare la destra americana e la Casa Bianca è il deficit commerciale tra Stati Uniti e Cina: 420 miliardi di dollari nel 2018. Tradotto: in un anno gli Usa importano molti più beni dalla Cina di quanti ne esportano, per sostenere questo squilibrio serve indebitarsi, alla lunga l’economia americana diventa sempre più dipendente da quella cinese. Pechino presta miliardi di dollari al Tesoro americano e i nuovi posti di lavoro si creano nelle campagne cinesi invece che in Ohio o Michigan. Ma queste statistiche ingannano, perché considerano i ricavi lordi, non il valore aggiunto. Se l’impresa A produce una t-shirt e la vende a 15 dollari all’impresa B, poi l’impresa B la vende a 20 dollari al consumatore finale, i ricavi lordi sono di 35 dollari. Ma il valore aggiunto, cioè quanto ogni passaggio contribuisce al prezzo finale, è soltanto di 20 (15 dall’impresa A e 5 dall’impresa B). I ricavi di un’impresa sono i costi di un’altra. Quello che resta è il valore aggiunto.

Il modo giusto per guardare agli squilibri della globalizzazione è considerare quindi il valore aggiunto, che però è molto più difficile da stimare. Yuqing Xing, un economista del National Graduate Institute for Policy Studies, da dieci anni studia la catena produttiva dell’iPhone Apple per capire come cambiano i rapporti tra Cina e Stati Uniti. Fin dal 2007 gli iPhone vengono assemblati in Cina, nelle famigerate fabbriche Foxconn. Nel 2009 il valore aggiunto dalle imprese cinesi a un iPhone 3G era soltanto di 6,5 dollari a fronte di un prezzo di vendita di 179 dollari. In pratica, compensando i ricavi che Foxconn riceveva per il lavoro di assemblaggio con i costi che doveva sostenere, per ogni iPhone 3G in Cina restavano soltanto 6,5 dollari, tutto il resto era per imprese occidentali o giapponesi e coreane. Dieci anni dopo, Yuquing Xing ha studiato la produzione dell’iPhone X (prezzo finale: 1.000 dollari). Le cose sono molto cambiate, il valore aggiunto cinese è passato dal 3,6 per cento al 25,4, cioè da 6,5 dollari per ogni telefono a 104.

Dieci anni fa c’era soltanto la Foxconn, nel 2014 le aziende cinesi nella catena di fornitura della Apple erano passate a 14 su 198, nell’iPhone X ne sono coinvolte 10. La batteria è della cinese Sunwada, Kersen Technology fornisce la cornice di metallo che protegge la cassa, Lens Technology il vetro posteriore: 53 dollari di valore aggiunto, cioè 11 volte quanto viene pagato da Apple per il mero assemblaggio. Ma sono cinesi anche Anjie Technology e Lushare Precision, le società che per Apple producono rispettivamente il touch screen e i sensori 3D. Dongshan Precision, sempre cinese, ha acquisito la società americana M-Flex e così ora anche una parte dei circuiti è Made in China. Goertech, Shenzen Sunway, Crystal-Optech e O-film si occupano di microfoni, antenne integrate, filtri e componenti della videocamera.

In un decennio le imprese cinesi sono passate dalla manovalanza sottopagata a componenti a maggiore valore aggiunto che richiedono competenze tecnologiche elevate. Il cuore del prodotto, cioè circuiti e processori, resta, almeno per ora, in mano a imprese non cinesi, che riescono a tenersi il grosso del valore aggiunto (e quindi del prezzo di vendita) di ogni iPhone: Apple, Qualcomm, Broadcom, Samsung, Toshiba, Sony. Nel 2018 la Apple ha venduto 217,2 milioni di iPhone nel mondo. Secondo le stime di Yuqing Xing, questo ha comportato per la Cina 22,6 miliardi di dollari di valore aggiunto, l’equivalente di una legge di Bilancio annuale per l’Italia.

I dazi minacciati da Trump avrebbero avuto come effetto di colpire soprattutto la Apple, perché il 75 per cento del valore aggiunto nei telefoni, che per le statistiche commerciali risultano importati dalla Cina negli Usa, è in realtà prodotto da Paesi diversi dalla Cina, inclusi gli Stati Uniti. “Tutte le parti fabbricate negli Usa, in Giappone, in Corea e in altri Paesi e poi assemblate in Cina verrebbero colpite dalle tariffe quando un iPhone pronto per la vendita venisse esportato verso il mercato americano”, ricorda Yuqing Xing.

La Casa Bianca ha classificato ufficialmente la Cina come “manipolatore valutario”, con l’accusa di indebolire lo yuan verso il dollaro per favorire le proprie imprese: i dazi, nella logica trumpiana, sono giustificati perché compensano questo sussidio indebito di Pechino alle proprie aziende. Tra marzo 2018 e ottobre 2019 lo yuan si è svalutato del 14,5 per cento rispetto al dollaro. Ma secondo i calcoli di Yuqing Xing, tenendo conto del vero valore aggiunto prodotto in Cina, la catena di fornitura della Apple non potrebbe sopravvivere a tariffe intorno al 25 per cento: Pechino dovrebbe impegnarsi in svalutazioni dello yuan insostenibili, oltre il 30 per cento, la Apple non avrebbe altra scelta che dover cercare nuovi e più costosi fornitori fuori dalla Cina o alzare il prezzo dei suoi iPhone.

La guerra commerciale, quindi, per ora, è congelata. Ma resta il vero problema che Trump finora non ha saputo affrontare: il fatto che la Cina non si limita più ad assemblare tecnologie occidentali, ma sta rapidamente imparando a produrre parti ad alto valore aggiunto che meno di un decennio fa erano esclusiva di imprese americane, coreane, giapponesi o europee.

Sono incapaci o sta finendo il capitalismo?

Alla vigilia del drammatico processo per i conti truccati del Sole 24 Ore, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia inanella le sue supercazzole come uno Zingaretti qualsiasi. Sulle infrastrutture ha sparato a zero: “Apprezziamo molto quanto sta facendo la ministra De Micheli, ma occorre fare di più”. Sul cuneo fiscale non le ha mandate a dire: “È una parte, come dire, importante, necessaria, ma non sufficiente”. Poi ha messo alla frusta il governo: “Occorre quello che si chiama un intervento organico di politica economica”, specificando che “l’obiettivo è perseguire un nuovo umanesimo economico”. È stato il premier Giuseppe Conte a lanciare l’idea del nuovo umanesimo economico, Boccia non ha capito che cosa intendesse però, prudentemente, ripete. Abbiamo un serio problema. L’articolo di Nicola Borzi qui a fianco illustra come i pezzi da 90 della Confindustria, impegnati in una guerra di successione a Boccia, che ormai interessa solo a loro, o sono imprenditori per modo di dire oppure hanno aziende che zoppicano vistosamente. Nel caso di Boccia ci dicono che la ristrutturazione del debito è imposta da una crisi di mercato iniziata otto anni fa. Come sanno milioni di disoccupati e cassintegrati, la storiella è sempre la stessa: abbiamo imprenditori talmente bravi da insegnare ogni giorno come si vive a politici e lavoratori, ma se le loro aziende saltano la colpa è del destino cinico e baro. Ora però, dopo dieci anni di disastri, ci si aspetterebbe un’operazione verità, e la campagna elettorale è una buona occasione: ci dicano gli infondatamente presuntuosi papaveri confindustriali se sono loro un po’ incapaci o se è il capitalismo che si è infilato in una crisi epocale irreversibile. Giusto per sapere e regolarci. Perché in entrambi i casi non saranno certo questi piccoli uomini attenti solo ai loro miserabili intrighi di potere a indicare al Paese la via per risalire dal baratro in cui l’hanno cacciato.