Confindustria, la guerra di potere tra i vertici con le aziende in crisi

Le cariche di vertice in Confindustria ultimamente non sembrano portar bene. Lo sa Luigi Abete, lo stampatore past president dell’associazione, alle prese con la rivolta dei giornalisti della sua agenzia di stampa Askanews che ha presentato richiesta di concordato preventivo in continuità e vuol licenziare 23 giornalisti su 76. Il bolognese Gaetano Maccaferri, ex numero due di Viale dell’Astronomia deve misurarsi con il piano di rientro per le società industriali finite in concordato. Il presidente degli industriali del Lazio, Filippo Tortoriello, è stato chiamato a gestire la liquidazione del gruppo Gala da lui stesso fondato. Lisa Ferrarini, vicepresidente per l’Europa, ha la sua azienda agroalimentare in concordato preventivo in continuità.

Dal 23 dicembre lo sa anche il “quasi past” Vincenzo Boccia, amministratore delegato delle Arti Grafiche Boccia (Agb) di Salerno che ha depositato in tribunale un accordo di ristrutturazione del debito basato sull’articolo 182 bis della legge fallimentare. Agb spiega che i conti non sono a rischio perché l’accordo con i creditori, che rappresentano almeno il 60% dei debiti, è integrato da un aumento di capitale già realizzato da 1,3 milioni e da investimenti per 10 milioni previsti nel prossimo anno e mezzo, oltre all’acquisizione del cliente Msc Crociere a novembre e a un nuovo contratto di filiera che a fine gennaio porterà “un partner strategico e complementare per crescere nel segmento della GdO”. Ora il tribunale fisserà un’udienza per accertare le condizioni per l’integrale pagamento dei creditori.

Ma le tensioni finanziarie non sono una novità per l’impresa fondata nel 1961 a Salerno da Orazio Boccia, padre del presidente uscente di Confindustria. Già a giugno 2016 la società emise una cambiale finanziaria a un anno da un milione, che pagava un tasso di interesse del 5,15%. Il prospetto spiegava che “pur non ravvisandosi una stringente dipendenza da alcuna delle singole controparti, la numerosità dei principali clienti è scarsa ed eventuali defezioni e/o perdite commerciali riferite a uno o più clienti potrebbero impattare negativamente sulla situazione economico-finanziaria”. Unicasim, “sponsor” della cambiale, giudicò “scarsa” la qualità creditizia di Agb per la “capacità sufficiente di onorare i debiti a breve termine che invece non è garantita a medio-lungo”. Nel 2016 l’utile fu di meno di 18mila euro su ricavi netti scesi a 38 milioni dai 39,7 del 2015, con 35,6 milioni di debiti dei quali 11,8 verso fornitori e 21 verso banche. Per il 2017 le banche dati riportavano un fatturato in crescita a 42,4 milioni ma anche una perdita di circa 3 milioni.

Agb risponde che “le cause della crisi sono da rintracciarsi nel contesto del settore che sin dal 2011 è in contrazione”. E che “per la propria forza industriale e solidità” ha “risentito della crisi di settore solo nel 2017 per poi acuirsi nel 2018” e dunque “non è vero che versa già da anni in condizioni di insolvenza. Nel 2016 Agb presentava una posizione finanziaria netta di 22 milioni con un patrimonio netto di 15 milioni, asset materiali per 17,5 milioni e un margine operativo lordo (Ebitda) di 2 milioni, pari all’8% del fatturato, esattamente in linea con la media dei competitori”. Tuttavia, prosegue la società, “per quanto il business della società fosse solido, l’insolvenza di taluni clienti, che hanno causato significative perdite su crediti e una conseguente contrazione del fatturato, e una struttura dei costi centrali che, a seguito del calo del fatturato, è divenuta sovradimensionata rispetto alle esigenze aziendali penalizzando la redditività e la capacità dell’impresa di generare flussi di cassa, hanno contribuito alla necessità di procedere nell’interesse di tutti gli stakeholders (dipendenti e creditori in primis) al risanamento. Perciò ha predisposto e sta negoziando con i propri creditori finanziari il piano di ristrutturazione”. “Informazioni ulteriori (i bilanci 2017-2018, ndr) non possono essere comunicate senza violare la simmetria informativa”, spiega Agb che ribadisce che “Il Sole 24 Ore non è cliente” e che “non è previsto un piano di ridimensionamento dell’organico”. Ma da giugno a settembre Agb ha messo in cassa integrazione ordinaria a rotazione una ventina dei 180 dipendenti. Era stata già usata tra marzo e giugno del 2018.

Il 23 gennaio, intanto, inizierà formalmente il percorso per la successione a Boccia, con il consiglio generale di Confindustria che nominerà i “saggi” per consultare la “base”. Gli industriali di Brescia candidano il loro presidente Giuseppe Pasini, a capo di Feralpi, gruppo siderurgico con un fatturato di 1,3 miliardi. In corsa c’è anche il presidente di Assolombarda, il milanese Carlo Bonomi sostenuto da Gianfelice Rocca, patron di Techint, e dal past president Marco Tronchetti Provera. Un altro past president, Antonio D’Amato, spinge la candidatura di Andrea Illy. Dietro la corsa della piemontese Licia Mattioli ci sarebbero invece ben tre ex presidenti: Abete, Boccia ed Emma Marcegaglia. Non sono noti invece i kingmaker dietro Emanuele Orsini, presidente di Federlegno Arredo. Viste le disavventure degli ex vertici tornano in mente le parole di Vulvia – Corrado Guzzanti sugli “spingitori di cavalieri”: “Si affrontavano come leoni per niente, si battevano in estenuanti tornei… perché lo facevano?”.

Mail Box

 

Il caso Azzolina: ignoranza e disinformazione dei media

Il caso della ministra Azzolina è l’ennesimo esempio di ignoranza e malafede, valido supporto alla disinformazione. Sono stata per più di 40 anni docente presso l’Università di Pisa e ho insegnato anche alla Siss frequentata dalla Azzolina. Non entro nel merito di quanto e se sia stato copiato qualcosa. So, però, di cosa si sta parlando: di un breve elaborato finale sull’attività di tirocinio svolta per il quale non si richiedeva né originalità né valore scientifico. Capisco Salvini, la cui incompetenza, sia pure non giustificabile, è risaputa. Ma non capisco e non giustifico i giornalisti che hanno equiparato il caso Azzolina con il caso Madia. Una fake news è una menzogna: si occulta e maschera la realtà. Una tesi di dottorato, per statuto, deve essere originale, apportare un contributo scientifico alla ricerca oggetto della trattazione e deve essere il risultato finale di 3 anni di studio e di ricerca sotto la guida di tutor con step e verifiche calendarizzate. A ciò si aggiunge che il dottorando è un borsista, che per tutto il periodo del dottorato dovrebbe dedicarsi solo a studio e ricerca e, proprio per garantirgli questa possibilità, viene pagato (anche bene). I giovani che frequentavano la Ssis (per fortuna, abolita!) dovevano anche pagare, profumatamente, ed erano sottoposti a un impegno massacrante: perlopiù precari che il mattino insegnavano e il pomeriggio dovevano frequentare i corsi, anche facendo chilometri di strada. Aggiungo che la Madia, all’epoca del dottorato, era un deputato. Una posizione che richiederebbe dignità e onore.

Florida Nicolai

 

Celibato dei sacerdoti: un puntiglio anacronistico

Se tocchi dio, non puoi toccare una donna. Su questa contrapposizione arcaica tra sublime e subalterno si basa l’obbligo di celibato. Ma anche sull’esaltazione della privazione di uno dei bisogni più umani – la vita completa di coppia – che rende la castrazione clericale la prova di una resistenza alla sofferenza, tale da elevare il celibe-pastore sopra la massa-gregge.

Il tema è ritornato dirompente con la pubblicazione di un ennesimo richiamo di un porporato tradizionalista – con il coinvolgimento del Papa emerito. Da credente – sebbene inquieto – non capisco come di fronte alla povertà dilagante, alle ingiustizie smisurate, alle guerre di pura aggressione, ai crimini ambientali, la chiesa tradizionalista debba soffermarsi su un aspetto così anacronistico. Non capiscono questi porporati che sono fuori dalla storia? Che non siamo più in una cultura silvo-pastorale dove lo sciamano ha l’esclusiva della “verità” perché è l’unico che parla con dio e riferisce al popolo?

Massimo Marnetto

 

Smog, ogni inverno i sindaci applicano soluzioni tampone

Ogni inverno, quando c’è l’alta pressione atmosferica, si registra lo stesso fenomeno: le città soffocano sotto una cappa di smog. Ogni inverno, le amministrazioni locali, per far finta di fare qualcosa, limitano il traffico ai veicoli più inquinanti. Ogni inverno, appena arriva una perturbazione, che ripulisce l’aria, tutto ritorna come prima. E questo avviene da decenni. Eppure lo sappiamo tutti che servirebbero interventi strutturali per evitare il ripetersi di simili fenomeni dannosi alla salute e alla qualità della vita dei cittadini, ma nessuno fa niente. Se noi cittadini ricominciassimo a ragionare col cervello dovremmo dare la nostra fiducia (e il nostro voto) a chi si impegna a migliorare le condizioni di vita nelle città in cui abitiamo.

Mauro Chiostri

 

Aprire centri commerciali uccide il lavoro dei piccoli

Trovo poco furbo dire che non si possono bloccare le licenze per nuove aperture di centri commerciali. Solo per gli oneri di urbanizzazione? Avete mai fatto la differenza tra le assunzioni nei centri commerciali e il numero di persone che rimarranno senza lavoro con la chiusura delle piccole attività? Sicuri che il numero totale di persone occupate non diminuisca? Cosa farete con le persone over 40, considerate vecchie dal mercato del lavoro? E chi è disabile, a cui si tende a offrire part-time negando loro il diritto a una vita propria? Avete mai pensato al traffico veicolare che si sviluppa andando in questi centri?

Michele Schiavino

 

I NOSTRI ERRORI

Nel pubblicare alcuni “meme” di Lucia Borgonzoni, estrapolati da Facebook, ieri non ci siamo accorti che erano stati realizzati dal giornalista Luca Bottura il quale se n’è lamentato pubblicamente sui social (ma non con noi). Rassicuriamo il collega: non avevamo alcuna intenzione di oscurarlo né di arrecargli danno. Ci scusiamo dell’errore, la prossima volta staremo molto più attenti.

 

Nell’occhiello dell’articolo su Julian Assange pubblicato a pag. 18 del giornale di ieri, abbiamo scritto per una svista che l’hacker è di origine svedese. Assange invece è nato in Australia. La Svezia è uno dei paesi che ne chiedevano l’estradizione. Ce ne scusiamo.

FQ

Conclave Pd. Né la Leopolda né il nuovo partito: la ricerca dell’identità continua

 

Caro Fatto, a me pare che nell’algida Abbazia del San Pastore nel Reatino, dove si è svolto il cosiddetto conclave di due giorni del Pd, sia andata in scena soltanto una pallida copia dell’ultima Leopolda di Matteo Renzi con due sedute plenarie di orazioni dei big e cinque tavoli programmatici di lavoro. Non sembra anche a voi che quanto visto e udito in quel convegno sia troppo poco per parlare di una storica svolta o addirittura di un inizio di rifondazione di un partito “nuovo” che magari si limita a cambiarne solo il nome da Pd a I Democratici?

Vincenzo Covelli

 

Gentile Vincenzo, di due cose bisogna dare atto a Nicola Zingaretti. La prima è che ha cambiato totalmente lo stile comunicativo del Pd rispetto a quello di Renzi. La Leopolda è tradizionalmente fuochi d’artificio (nel senso di annunci, video, musica, ospiti a sorpresa, format da spettacolo tv piuttosto che da manifestazione di partito). Le iniziative del Pd di oggi sono molto più austere e più classiche: relazione di apertura, relazione di chiusura, interventi di parlamentari e dirigenti. I tavoli della Leopolda sono sempre stati una sorta di brainstorming, quelli messi in piedi dal segretario fin dai tempi di Piazza Grande hanno l’ambizione di essere gruppi di lavoro.

La seconda è che sta perseguendo, ormai da mesi, e in maniera sistematica, un’alleanza organica con i Cinque Stelle, che da quando è partito il governo, l’ha spinto a provarle tutte (e anche a inghiottire non pochi rifiuti): e dunque, il tentativo (per ora fallito) di presentare candidati civici in tutte le Regioni; i ripetuti incontri con Luigi Di Maio, alla ricerca di punti comuni; il corteggiamento di Giuseppe Conte, come leader in pectore di una coalizione con dentro i dem; la chiamata agli elettori M5S con la difesa di loro bandierine, tipo il Reddito di cittadinanza.

Quanto a storiche svolte verso un “partito nuovo” non ci sono e neanche si intravedono. Il conclave in Abbazia ha dimostrato ancora una volta che il Pd è un partito alla ricerca di una propria identità e di contenuti propri che non riesce a trovare. Peraltro, su molte questioni centrali, come la politica economica, il disaccordo è costante. Un’iniziativa programmatica dopo l’altra non fanno una linea politica. Va detto che da questo punto di vista, la crisi arriva da lontano. E anche che accomuna un po’ tutti i soggetti politici in questo inizio di Terzo millennio.

Wanda Marra

I presidenti di Confindustria e i loro molti buoni consigli

Noi siamo assidui lettori del Sole 24 Ore, il giornale color salmone di proprietà della Confindustria. E giustamente il quotidiano dà ampio spazio ai pareri della suddetta associazione e specie a quelli del presidente, il campano Vincenzo Boccia. Negli ultimi giorni il nostro è citato sul cuneo fiscale, sulle politiche di sviluppo che dovrebbero guidare il governo, sull’economia circolare, in quanto presidente della Luiss e come imprenditore per la sua “Arti Grafiche Boccia”. Ecco la meritoria azienda di famiglia, nata nel 1961, “farà investimenti per 10 milioni nei prossimi 18 mesi – ci dice Il Sole – che si aggiungono ai 40 milioni già investiti negli ultimi 15 anni, oltre a un aumento di capitale già realizzato pari a 1,3 milioni con annessa ristrutturazione del debito”. E che sarà questa ristrutturazione del debito neanche citata nei titoli? Ma niente, è che un po’ “la congiuntura internazionale”, un po’ gli “Npl di clienti storici” (gente che non paga) e insomma… come dire… il 2019 si è chiuso molto male, i debiti sono alti… e il cda, “preso atto della crisi finanziaria della società”, è andato in tribunale a chiedere una procedura prevista dalla legge fallimentare che impedisce ai creditori di fare pignoramenti (i particolari sono a pag. 15). Cose che capitano, per carità, e forse Arti Grafiche non ha seguito i consigli di Confindustria, ma più che altro – ricordando che prima di Boccia ci furono Marcegaglia e Montezemolo – ci viene un dubbio: non è che i presidenti degli industriali stanno lì a dar buoni consigli quando non possono più dare il cattivo esempio?

Ken Loach per narrare il dramma di una (Reale) povera famiglia inglese

Servirebbe Ken Loach, la sua poesia, il suo rigore politico, la sua capacità di sezionare il reale, per raccontare il disagio di una famiglia inglese in gravi difficoltà, insomma il calvario di precarietà e sofferenza della famiglia Windsor. Già alle prese con i problemi che abbiamo tutti (il caro-carrozze, il costo dei palafrenieri, le pressioni della lobby dei maggiordomi), questo modesto nucleo famigliare attraversa una tempesta di fibrillazioni e sentimenti che ha mobilitato la stampa mondiale. E poi dicono che non si parla dei poveri!

La storia la conoscete tutti, perché l’argomento tocca le corde più sensibili nell’essere umano, cioè la pietà e la compassione, ma dunque ecco. Harry per campare è costretto a mettere insieme tanti lavoretti. Quando gli chiedi che lavoro fai?, non sa se dire prima consegne a domicilio, o dogsitter, o ripetizioni di araldica, ma poi si decide: Sua Altezza Reale il Principe Henry, Duca di Sussex, Conte di Dumbarton, Barone Kilkeel, Cavaliere Comandante dell’Ordine Reale Vittoriano, Personale Aiutante di Campo di S.M.”, che starebbe per Sua Maestà, cioè la novantatreenne Elisabetta, con corona, cappellino e tutto.

Harry ha sposato Megan, che è americana e del tè delle cinque se ne fotte alla grande, e anche lui, Harry è un po’ stufo della sua vita. In poche parole è di fronte a quelle scelte che i dannati della Gig economy affrontano ogni giorno: tenersi stretti quei cinque o sei lavoretti noiosi ma ormai sicuri, tipo Conte di Dumbarton il giovedì e il sabato mattina, o lanciarsi in una nuova avventura? Megan, si dice, l’ha convinto che vendere tazzine con scritto sopra Sussex Royal (marchio registrato), fare conferenze, frequentare il Jet Set è più conveniente e si può anche vestirsi normali. Quindi ecco le dimissioni da Principe (eh?), ma la necessità di mantenere qualcosa da mettere nel curriculum e da stampare sulle tazzine (Duca di Sussex).

Qui la critica si divide. C’è chi dà ragione ai fuggiaschi, perché è ora che comincino a fare una vita normale, emigrino in Canada, senza privilegi, senza pesare sul contribuente britannico. Molti sudditi sospirano pensando che almeno due se li sono levati dalle spese, un po’ quel sollievo che si prova in Italia quando si annuncia lo scioglimento degli enti inutili. Sarà dura, all’inizio, se uno non conosce la città fa fatica a consegnare pizze in bicicletta, come se la caverà Harry?

L’altra scuola di pensiero è la classica sindrome da Yoko Ono che si impossessa di tutti quanti quando c’è di mezzo una ragazza. Ecco, Megan (come Yoko) divide il gruppo, una cinica arrivista che si serve di Harry e della povera famiglia Windsor (i Beatles) per la sua arrampicata sociale, ma che ci tiene un bel po’ a rimanere Duchessa del Sussex (se no, cosa scrive sulle tazzine?). Al mega vertice tra la Regina, l’eterno Principe Carlo e i due fratelli, Harry e William per chiarire le cose si è giunti a un onorevole pareggio: Harry e Megan non prenderanno più soldi pubblici, ma la permanenza a mezzo servizio in famiglia permetterà loro di farne molti da privati. Rimane l’amarezza per una famiglia dilaniata dai rancori, dagli orari impossibili, dalle incombenze per sbarcare il lunario, ma anche lo stuporoso trip di vedere in onda dalla mattina alla sera, su ogni canale, un film in costume totalmente fuori dal tempo e dallo spazio.

Ma tale è il bisogno di questa famiglia inglese, così commoventi le loro vicende e così adatte all’immedesimazione (andiamo, chi di voi non ha mai ristrutturato un castello nello Yorkshire?), che il contribuente inglese paga di buon grado alla famiglia un reddito di cittadinanza di quasi cento milioni di euro all’anno (aggiungere 29 milioni di dollari per il personale, che come si sa “non è più quello di un tempo”). Insomma ci vorrebbe Ken Loach, sì. O monsieur Guillottin.

La tragedia dem tra Shakespeare e Renzo Arbore

Ricordate Giulietta? “Ciò che noi chiamiamo rosa avrebbe un altro profumo se lo chiamassimo con un nome diverso?”. Con molte scuse al Bardo – ma qui il dramma è davvero shakespeariano – ricorriamo al famoso interrogativo per introdurre una tragedia di tutt’altra fatta e che potremmo chiamare “Vengo dopo il Pd” (molte scuse anche all’amato Renzo Arbore per l’improprio accostamento). Eh già, ci risiamo: dopo il Pci, il Pds, i Ds, anche il Pd è pronto per esser congedato. “Sciolgo il Pd e lancio il nuovo partito” ha detto Nicola Zingaretti a Massimo Giannini sulle colonne di Repubblica. “Convoco il congresso, con una proposta politica e organizzativa di radicale innovazione e apertura. In questi mesi la domanda di politica è cresciuta, non diminuita. E noi dobbiamo aprirci e cambiare per raccoglierla. Non penso a un nuovo partito, ma a un partito nuovo, un partito che fa contare le persone ed è organizzato in ogni angolo del Paese”. Ovviamente non siete voi a non aver capito, è che è proprio una supercazzola. Le reazioni alla Bolognina di Zingaretti (sic) spiegano bene il disorientamento generale. Beppe Sala: “La domanda centrale è se Zingaretti stia parlando del Pd o della sinistra. Perché non è detto che tutte le anime che ha evocato siano disponibili a entrare nel Pd per come lo vedono oggi. Mentre in una realtà diversa magari lo sarebbero” (ma chi, le Sardine?). Andrea Orlando: “Ci siamo dati delle regole che consentono dei percorsi che partono dalle idee piuttosto che dalla competizione sulle persone e questo ci consente anche di ragionare sull’esigenza di mettere al centro il pensiero e insieme discutere come questo processo rifondativo si può realizzare” (al centro il pensiero debole). Matteo Orfini: “Vogliamo davvero rifare tutto? Si stracci lo Statuto del Pd, si prenda un foglio bianco e si cominci a ragionare con quel popolo su cosa scriverci sopra” (ancora: ma chi? ma dove? ma quando?). Andrea Marcucci, über alles: “Non venga messa in discussione la matrice riformista del partito, operazioni nostalgia non devono essere contemplate” (di riformismo sono morti e ancora non lo capiscono!).

Pure quando si esce dalla supercazzola organizzativa, quello che un ottimista chiamerebbe il pensiero di Zingaretti non è più chiaro: “Non è il tempo di distruggere, ma di costruire. E quella che va costruita subito è una visione e poi un’azione comune, su pochi capitoli chiari: come creare lavoro, cosa significa green new deal, come si rilancia la conoscenza, come si ricostruiscono politiche industriali credibili nell’era digitale”. Il commissario liquidatore non sa spiegare il perché del fallimento (almeno Occhetto aveva il muro di Berlino ed era un alibi di ferro) e dunque nemmeno può trovare ricette. Infatti non dice quasi nulla sui pochi “capitoli chiari”. Prendiamone uno “a caso”, il lavoro, ciò su cui si è consumato l’imperdonabile tradimento della sinistra a danno dei suoi elettori. E dunque il jobs act: lo vogliamo reintrodurre, compagno Zinga, questo articolo 18? Se non siete proprio convinti della bontà delle tutele per i lavoratori (!), fatelo almeno per dimostrare che l’èra Renzi simboleggia l’opportunismo politico del senatore di Rignano più che lo spostamento a destra del Pd. Spostamento certificato pure dalle divisioni sui decreti Sicurezza: abolirli o ritoccarli? La divisione regna così sovrana che non si capisce perché gli ex compagni stiano insieme (e soprattutto sulla base di cosa chiedano il voto). La ciliegina sulla torta? Ieri alla fine del ritiro spirituale di Contigliano, il leader “dei compagni di niente” ha aperto a un rafforzamento dei poteri del governo: ci manca solo un’altra riforma costituzionale che affondi definitivamente quel che resta del quasi fu Pd.

Fanghi tossici, i rischi restano nei campi

È passato più di un anno da quando il ministro Costa, incalzato dalle Iene, promise solennemente un intervento immediato (“ci stiamo già lavorando”) per rimediare alla vergogna dell’art. 41 del decreto Genova che, in sostanza, in contrasto con la Cassazione, autorizzava lo smaltimento sui terreni agricoli di fanghi da depurazione pesantemente contaminati da sostanze tossiche quali idrocarburi, diossine, furani, PCB, toluene, selenio, berillio, cromo e arsenico.

Ma l’art. 41 è ancora là e nel frattempo ha fatto e sta facendo danni gravissimi all’ambiente e alla salute. In questo anno, infatti, si sono moltiplicati gli interventi della magistratura per arginare l’utilizzo dei terreni agricoli, specie di Lombardia, Veneto, Toscana ed Emilia-Romagna, come discariche di rifiuti tossici mascherati da fanghi di depurazione consentiti dall’art. 41. Con illeciti profitti di milioni di euro, in cui, ovviamente, si è inserita la criminalità organizzata; e anche con il coinvolgimento di qualche esponente governativo, come nel caso della Sesa di Este (Padova).

Nel contempo, come ci informa il Fatto, stanno diventando tutti, sulla carta, innocui “gessi da defecazione” sottratti alla disciplina dei rifiuti in nome della economia circolare all’italiana.

Al punto che anche chi in un primo momento aveva difeso l’art. 41 ora onestamente ne prende le distanze. Come Alberto Zolezzi, medico e parlamentare 5stelle, il quale, il 28 marzo 2019, aveva criticato “l’allarmismo” delle Iene sostenendo che con l’art. 41 “l’Italia ha introdotto limiti che finora non c’erano, tra i più restrittivi d’Europa” ; e quindi “in attesa che gli amici delle Iene ammettano l’errore e tranquillizzino i loro spettatori vi diciamo anche noi come stanno le cose: siamo e saremo sempre dalla parte dei cittadini e della difesa della salute e dell’ambiente!”. Mentre oggi non tranquillizza più nessuno e dichiara al Fatto che “i campi di molte regioni italiane sono inquinati da metalli pesanti e azoto in eccesso” e che “gli spandimenti in Lombardia hanno un impatto cumulativo insostenibile”.

Del resto, l’on. Alessandro Bratti, ex presidente della Commissione parlamentare ecomafia e attualmente direttore generale dell’Ispra (il nostro massimo organo tecnico governativo di consulenza per l’ambiente), già il 17 maggio 2019, in una intervista a La Stampa, parlando dell’art. 41, aveva affermato: “Sui fanghi di depurazione in agricoltura è il momento di fare una scelta. Io sono molto critico sul loro utilizzo. Soprattutto nel momento in cui parliamo di fanghi di origine mista, prodotti da impianti di depurazione in cui confluiscono reflui urbani e industriali. Per quanto trattati, c’è il rischio che finiscano nel terreno sostanze non idonee… Il punto è che questo rischia di non essere più un modo per apportare benefici in agricoltura, ma un sistema di smaltimento dei fanghi”. Il fatto più grave è che, nonostante le promesse di Costa, pare che questo governo voglia ancora prendere tempo prima di fermare questa vergogna nazionale.

Infatti, un anno dopo l’art. 41, nella legge “europea” del 4 ottobre 2019, è stato inserito, in un articolo che riguarda l’adeguamento delle discariche di rifiuti alle nuove direttive, un comma con cui si delega il governo ad adottare “una nuova disciplina organica in materia di utilizzazione dei fanghi”. E così si rinvia tutto a data da destinarsi attraverso un collegamento (con lo smaltimento in discarica) del tutto improprio. Come quando nel 2018 si inserì l’art. 41 sui fanghi nel decreto legge per i terremotati di Genova. Insomma, per consentire l’uso di fanghi tossici, certamente non di provenienza civile, va bene un decreto legge che riguarda tutt’altro. Per eliminare questa vergogna ci vorrà, invece, un decreto legislativo, con tutti i suoi tempi di elaborazione, collegato con una materia che ben poco ha a che vedere con i fanghi.

In altri termini, certamente è opportuna una riforma organica che parta dagli scarichi e dalla efficienza degli impianti di depurazione da cui originano i fanghi, ma, se la si voleva fare, un anno di tempo era più che sufficiente. E, se proprio ci si vuole rifare all’Europa, meglio sarebbe andare a leggersi una recente sentenza, in cui la Corte europea di giustizia afferma che “il recupero dei fanghi di depurazione comporta taluni rischi per l’ambiente e la salute umana, in particolare quelli connessi con la presenza di sostanze pericolose” (quelle dell’art. 41); e pertanto “uno Stato membro può decidere che un fango da depurazione resti per sempre un rifiuto anche se ha subito operazioni di recupero. In tal modo, infatti, esso sarà per sempre soggetto alla disciplina cautelativa stabilita per i rifiuti “dalla culla alla tomba”. Strada già seguita da alcuni Stati europei fra cui la Svizzera, la Germania e l’Austria, che hanno eliminato o grandemente limitato l’uso di questi fanghi in agricoltura.

Il cellulare può accorciarti la vita. “Nesso col tumore”

Esiste un nesso causale tra l’uso prolungato del cellulare e il tumore. L’ha ribadito ieri la Corte d’appello di Torino sul caso Romeo contro Inail, confermando la sentenza di primo grado di Ivrea del 2017 e una più antica sentenza del 2012, pronunciata dalla Corte di Cassazione di Brescia su un caso simile, legato a danni sul lavoro. E così i giudici torinesi piantano un altro tassello nella giurisprudenza italiana sulle onde elettromagnetiche. Nel dubbio se il cellulare faccia male o meno, “esiste una legge scientifica di copertura – dice la Corte a Torino – che supporta l’affermazione del nesso causale secondo i criteri probabilistici: ‘più probabile che non’”.

La storia è quella di Roberto Romeo, un impiegato di 57 anni di Telecom Italia che dal 1995 al 2010 trascorreva almeno due ore e mezza al giorno al telefono per coordinare la sua squadra di circa 15 persone, usando il cellulare perché in continuo movimento. Un giorno Romeo si accorge di essere diventato sordo all’orecchio destro, dopo vari esami gli viene diagnosticato un tumore di tipo Schwannoma al nervo acustico destro, proprio quello più esposto al cellulare. Decide allora di fare causa all’Inail per ottenere il riconoscimento dell’invalidità. I giudici di Ivrea gliela riconoscono al 23% invece del 37% come richiesto dal suo avvocato Stefano Bertone dello studio Ambrosio e Commodo. Ma l’Inail fa appello alla prima sentenza. E lo perde.

I giudici torinesi hanno tenuto conto anche dei recenti studi indipendenti sugli animali, quello dell’americano Ntp (National Toxicology Program) durato dieci anni (finanziato con fondi pubblici) e il secondo dell’Istituto Ramazzini di Bologna, arrivati alle stesse conclusioni nel 2018, non lavorando insieme. I topi da laboratorio sottoposti a radiazioni costanti – con potenza pari al 2 e 3G – hanno prodotto dei tumori al cervello e al cuore con un’incidenza “statisticamente rilevante”, rispetto ai topi non sottoposti alle stesse radiazioni, che non li hanno prodotti. Questi studi sono stati criticati da quella parte del mondo scientifico che riconosce solo effetti termici per il contatto con i campi elettromagnetici, ma non modifiche dannose per il Dna. Però finora non sono stati pubblicati nuovi studi che li smentiscano. Inoltre la Corte d’appello di Torino ha anche dichiarato che bisognava dare minore importanza agli studi presentati dall’Inail nella sua difesa, perché scritti da esponenti di organi internazionali che ricevono fondi anche dall’industria, in un palese conflitto d’interessi. L’organo più discusso è l’Icnirp, basato a Monaco, un club privato di 13 membri che da vent’anni detta legge sulle onde elettromagnetiche, riconoscendo solo gli effetti termici dell’uso prolungato di onde e telefonini. Ma anche l’agenzia sui tumori dell’Organizzazione mondiale della sanità, la Iarc, ha collegamenti con l’industria, come rivelato da un’inchiesta di Investigate-Europe, pubblicata sul Fatto nel gennaio 2019. Secondo una sentenza della Corte costituzionale italiana del 2010 “l’autorevolezza degli studi prodotti in un dibattito, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, gli scopi per i quali si muove, sono di primaria importanza per i giudici”. I conflitti d’interessi di cui è pieno il mondo delle onde elettromagnetiche, hanno giocato questa volta a favore di Roberto Romeo.

“Tante persone che hanno perso un parente o hanno sviluppato un tumore vorrebbero fare un processo, chiedere un indennizzo”, spiega l’avvocato Bertone. Ma è difficile trovare vittime che abbiano le risorse per fare causa a un produttore di telefonia o anche solo a un’agenzia del lavoro. Bisogna creare una rete di associazioni e un fondo per le vittime delle radiazioni elettromagnetiche”. Lo studio Ambrosio e Commodo ha aperto un sito d’informazione, neurinomi.info, dove informare gli utenti sull’uso corretto del telefonino.

L’app per gli incontri gay passa i suoi dati ad altri

L’app per appuntamenti più utilizzata dagli omosessuali viola la privacy dei suoi utenti: la denuncia arriva da una organizzazione non profit norvegese (ma finanziata dal governo), Norwegian Consumer Council, che ha presentato le sue accuse di violazione del regolamento sulla privacy europeo (Gdpr) al garante dei dati norvegese. Ma la storia è molto più vasta. Secondo la ricerca condotta dall’associazione, 93 pagine di dettagli tecnici dal titolo “Fuori controllo: come i consumatori vengono sfruttati dall’industria della pubblicità online”, la app per Android di Grindr invierebbe i dati dei propri utenti, come appunto l’orientamento sessuale e la posizione, a migliaia di partner pubblicitari.

L’iter è il solito: l’uso della applicazione genera un identificatore unico che registra tutte le attività svolte dall’utente online e con queste informazioni si creano profili dettagliatissimi ceduti alle aziende che piazzano le pubblicità conoscendo nel dettaglio abitudini e gusti del destinatario. I mediatori, poi, cedono le loro informazioni anche ad altre aziende pubblicitarie.

“L’app Grindr – si legge nel rapporto – condivide dati utente dettagliati con un numero molto elevato di terze parti, tra cui indirizzo Ip (un’etichetta numerica che identifica univocamente un dispositivo collegato a una rete), posizione, età e sesso. Usando MoPub come mediatore, la condivisione dei dati è altamente opaca in quanto né le terze parti né le informazioni trasmessi sono noti in anticipo”. È stato fatto un controllo anche sulla app “Perfect365” che permette di modificare i selfie e inserire filtri bellezza. “Condivide i dati degli utenti con un numero molto elevato di terze parti, inclusi Id pubblicità (ovvero l’identificativo univoco utilizzato per fornire annunci pubblicitari mirati, ndr), indirizzo Ip e posizione Gps. L’app sembra costruita per raccoglierne e condividerne quanti più possibili”.

MyDays, che monitora fertilità e ovulazione delle donne, condivide la posizione Gps dell’utente con più parti mentre quella di incontri OkCupid condivide domande e le risposte personali con la piattaforma di marketing Braze. L’analisi è stata effettuata su oltre 88 mila richieste effettuate dalle app, corrispondenti a 216 domini unici e almeno 135 terze parti all’interno dello spazio pubblicitario. In pratica, ogni volta che si apre un’app collegata alle stesse reti pubblicitarie di Grindr, si comunicano posizione Gps, identificatori dei dispositivi e persino il fatto che si utilizzi un’app di incontri gay. “È una folle violazione dei diritti alla privacy dell’Ue degli utenti” ha commentato Max Schrems, fondatore della non profit Noyb.

Il Norwegian Consumer Council ha presentato tre formali denunce contro l’app di incontri Grindr e contro cinque società adtech che stavano ricevendo dati personali tramite l’app: MoPub, utilizzata da Twitter, AppNexus di AT&T, OpenX, AdColony e Smaato.

Ratzinger usato dagli anti-Francesco e il ruolo di Georg

Il Vaticano ha tentato di ridurre a malinteso in buonafede il caso del libro a doppia firma del cardinale africano Robert Sarah e del pontefice emerito Joseph Ratzinger con cui chiedono a papa Francesco di impedire il sacerdozio agli sposati, dopo che il recente sinodo dei vescovi ha affrontato l’argomento per l’Amazzonia. Sarah aveva ottenuto una serie di appunti di Ratzinger, Ratzinger li ha forniti ignaro di scrivere un volume intero assieme a Sarah. Così Ratzinger, per il tramite di monsignor Ganswein, ha ritirato il nome dalla copertina con doppia firma e pure con doppio volto. Sarah ha comunque sventolato sdegnato le lettere siglate ‘Benedetto’ per dimostrare di aver coinvolto Ratzinger e poi ha concesso una correzione al suo libro Dal profondo del nostro cuore, non più definito a quattro mani, ma con un contributo di Ratzinger.

Un giochino di sfumature che va considerato necessario seppur vano. Perché la vicenda, limpidissima nella sua oscurità, ha per protagonisti i due papi, di per sé una straordinaria eccezione alla rigidità strutturale della Chiesa; un cardinale con un robusto seguito (o sostegno) tra i cattolici di destra, che per semplificare definiamo conservatore e monsignor Georg Ganswein, il vescovo tedesco che da sempre è il segretario particolare di Ratzinger e ancora non ha una collocazione ben definita fra servitore del pontefice in carica e assistente del pontefice che ha rinunciato. Il sinodo ispirato da Francesco non ha rimosso il vincolo del celibato per i sacerdoti, ma ha previsto soluzioni speciali in situazioni speciali come l’Amazzonia: “Proponiamo di stabilire criteri e disposizioni da parte dell’autorità competente per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti della comunità, che abbiano un diaconato potendo avere una famiglia legittimamente costituita e stabile”. Il tema può dividere e le “mozioni spirituali” nutrono il confronto, però la distanza teologica e politica di Robert Sarah e Jorge Mario Bergoglio è rimarcata con una impressionante costanza nella multitudine di interventi pubblici e fatiche editoriali del cardinale che ricopre l’incarico di prefetto della Congregazione per il culto divino. Ratzinger ha collaborato già a un libro di Sarah con una introduzione e il cardinale, con un dettagliato comunicato, ieri ha svelato i contatti tra settembre e novembre con il pontefice emerito che vive nel monastero vaticano. “Grazie per la sua preghiera per il sacerdozio in questi tempi difficili”, dice Ratzinger con una lettera del 20 settembre. Il 12 ottobre Ratzinger recapita a Sarah “i miei pensieri sul sacerdozio”, il 25 novembre ringrazia il cardinale per “l’elaborazione che ha fatto” e lo autorizza a divulgare il testo “nella forma da lei prevista”. Il periodo coincide con i lavori di preparazione, l’apertura e la chiusura con Francesco proprio del sinodo. Non c’era bisogno di un artificiere religioso per valutare l’esplosività del materiale di Ratzinger.

Il pontefice emerito, che da sette anni si muove in un contesto non disciplinato dal punto di vista canonico, è un anziano di 92 anni che parla a fatica, che trascorre il tempo in sedia a rotelle, che non ha smesso di leggere e studiare, neppure quand’era al palazzo apostolico l’ha fatto. Per la sua umana fragilità, la stessa che l’ha spinto al gesto coraggioso e rivoluzionario delle dimissioni, Ratzinger va protetto per non diventare un feticcio degli oppositori di Bergoglio. Monsignor Ganswein ha il dovere di proteggere Ratzinger, il libro di Sarah non è certo un esempio di protezione efficace. Ratzinger non era consapevole delle intenzioni di Sarah, ma la voce di Ratzinger col mondo è di Ganswein. Che la produzione editoriale di Sarah non sia utile soltanto ad arginare quella che il cardinale africano chiama “apostasia silenziosa” l’ha spiegato lo scrittore francese Frédéric Martel. I libri di Sarah sono “spinti” da organizzazioni cattoliche di estrema destra, soprattutto americane, acquistati in blocco per distribuirli in Africa, come accaduto cinque anni fa con le 10.000 copie comprate dai Cavalieri di Colombo. La realtà è senz’altro la serie tv più appassionante sul Vaticano.