Le pressioni europee sull’accordo nucleare

Mentre nelle università iraniane gli studenti continuano a protestare e a chiedere le dimissioni della Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, che risponde facendo arrestare i primi colpevoli dell’abbattimento del Boeing ucraino, oltre ad altri 30 manifestanti, e annunciando che dopo 8 anni, questa settimana pronuncerà il sermone del Venerdì – un fatto raro avvenuto finora solo nei momenti di grave crisi – si alza la tensione tra il regime teocratico sciita e i Paesi europei firmatari nel 2015 dell’accordo sul nucleare da cui l’Amministrazione Trump si è sfilata nel 2018.

Francia, Germania e Regno Unito (i Paesi europei del format 5+1 con Cina e Russia) hanno dichiarato di avere attivato il meccanismo di contestazione previsto dal trattato in seguito alle violazioni da parte di Teheran degli impegni assunti 5 anni fa. L’accordo siglato tra Teheran e le potenze mondiali è dunque sempre più in bilico. Dopo il raid Usa in cui è stato ucciso il Generale dei Pasdaran, Qassem Soleimani, l’Iran aveva annunciato che non avrebbe più tenuto fede agli impegni assunti.

Il processo di contestazione potrebbe concludersi con la fine dell’implementazione dell’accordo nucleare, la reimposizione delle sanzioni a Teheran e la notifica al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Ma non è nelle intenzioni degli stati europei cancellare l’accordo, anzi. “Lo scopo dei ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito è quello di preservare il Jcpoa, nella sincera speranza di trovare il modo di andare avanti per risolvere l’impasse attraverso il dialogo diplomatico. E alla luce dell’escalation in Medio Oriente, è più importante che mai”, ha sottolineato il ministro degli Esteri Ue, Josep Borrell. L’Iran, non appena informato, ha avvertito gli europei circa le “conseguenze” della loro decisione. “Certamente, se l’Europa intende abusare di questo meccanismo deve anche essere pronta ad accettarne le conseguenze, che sono state già notificate”, ha dichiarato in una nota il ministero degli Esteri di Teheran. Intanto, sul fronte Usa, il presidente Trump potrebbe essere sottoposto a una limitazione del potere di guerra di cui dispone in quanto comandante in capo dell’Esercito grazie alla firma anche di 10 senatori Repubblicani. Nella serata di ieri, a Teheran, è stato arrestato l’autore del video che ha ripreso il missile iraniano mentre colpiva l’aereo ucraino.

Haftar fa il prezioso, Conte: “Fondamentale il ruolo Usa”

Chi pensava che il vertice a Mosca, presenti Khalifa Haftar e Fayez al Serraj sotto la tutela interessata di Russia e Turchia fosse il punto di svolta, ieri mattina, si è dovuto ricredere. Vladimir Putin non ha ancora messo le mani sul “mare nostrum”, ma ha dovuto invece prendere atto della partenza da Mosca del generale libico indisponibile a firmare l’accordo del Cremlino.

Haftar non si è tirato ancora fuori dalle trattative prendendosi due giorni per decidere se firmare la tregua e assicurando che sarà presente alla Conferenza di Berlino domenica prossima. La Germania ha reso noto ieri la lista dei presenti composta da Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina, Emirati arabi, Turchia, Repubblica del Congo, Italia, Egitto, Algeria, le Nazioni Unite, l’Unione europea, l’Unione africana e la Lega araba.

Ma anche se Haftar non ha smesso di trattare, fonti militari legate al governo di Sarraj hanno riferito ieri che veicoli militari e cannoni degli Emirati arabi uniti sono giunti nel quartier generale del generale per un possibile nuovo attacco a Tripoli. Gli Eau e l’Arabia saudita sostengono attivamente il generale, che ieri è andato ad Amman in Giordania, e la linea di frattura che vede contrapposti quegli Stati alla Turchia aiuta a cogliere il nodo principale.

Non a caso ieri il presidente turco ha dichiarato che “la Libia può apparire lontana nella mappa, ma per noi è un luogo importante. In quel Paese abbiamo fratelli che non accettano il golpista Haftar. Haftar vuole eliminarli e compiere una pulizia etnica”. Se accadrà, lui, Erdogan, è disposto “a dare una lezione” al generale.

Poi c’è l’Egitto dove ieri si è recato il presidente del Consiglio per continuare a tessere una tela di compromesso e di “facilitazione” della pace. L’idea di Conte resta quella di farsi garante per entrambi gli schieramenti e in questo gioco di contrapposizioni a cerchi concentrici – le fazioni libiche, gli alleati arabi, poi la Turchia, la Russia e, ancora, l’Unione europea – il gioco italiano può risultare velleitario. Oppure vincente, se alla fine gli scontri incrociati dovessero determinare un’impasse.

Anche per questo il premier ha aperto, in modo sempre più netto, al possibile invio di militari in Libia. Non una missione di guerra italiana, ma una chiara missione di peacekeeping possibile solo dopo la sigla di una tregua e finalizzata al mantenimento della pace. Sul modello del Libano, ma non necessariamente sotto il cappello dell’Onu bensì dell’Ue. Cosa che eviterebbe il coinvolgimento della Russia. E su questo c’è un gioco di sponda con Haftar che ha fatto sapere in ogni modo che non vuole assolutamente la presenza turca. Ma ieri Conte lo ha sottolineato con forza, “rimane fondamentale la consultazione con gli Stati Uniti”

Sulla missione c’è l’intesa con Luigi Di Maio: “Sul modello Unifil in Libano” spiega il responsabile della Farnesina che, intervenuto a #Cartabianca, chiude all’idea di Marco Minniti come “inviato della Ue”: “Semmai dovremmo avere un inviato italiano”.

Anche Conte sottolinea che se soldati saranno inviati sarà solo in condizioni “di massima sicurezza”. E ieri sera il premier ha convocato i capigruppo di maggioranza e opposizione per informare tutti dei viaggi compiuti finora. La Lega non ha inviato il suo e dal fronte delle opposizioni solo Fratelli d’Italia ha espresso qualche apprezzamento per una missione militare, mentre Forza Italia è tornata ad accusare il premier di dilettantismo. “Ho incontrato più volte Haftar – ha detto Conte – allorché mi informò della iniziativa militare, gli dissi subito che stava commettendo un grave errore”. “L’Italia ha fatto una scelta ben precisa: siamo disponibili a investire tutto il nostro capitale per indirizzare gli attori libici e la comunità internazionale verso una soluzione politica, ma non siamo disponibili a fornire armi o militari per alimentare un conflitto armato”.

Italia Viva, Pd e toghe: quelle riunioni per decidere i vertici dei magistrati

“Si vira su Viola, sì ragazzi”. È la mezzanotte del 9 maggio scorso: il trojan installato nel cellulare del pm romano Luca Palamara intercetta le parole di Luca Lotti. Il parlamentare Pd è parecchio interessato alla nomina del futuro procuratore capo di Roma. Alla conversazione partecipa anche un altro parlamentare Pd, oggi transitato in Italia Viva: Cosimo Ferri, magistrato, ex sottosegretario al ministero della Giustizia, ex membro del Csm ed ex segretario di Magistratura Indipendente.

C’è anche un consigliere del Csm in carica, Luigi Spina, con il quale Palamara discute del futuro di Giuseppe Creazzo, attuale capo della Procura di Firenze, candidato anch’egli a guidare la Procura di Roma. Piazzato Viola a Roma, Creazzo che farà? “Ma secondo te – interviene Ferri – poi Creazzo se una volta che perde Roma, ci vuole andare a Reggio Calabria?”. “Però a Torino, chi ci va?”, chiede Lotti.

Il punto è che Creazzo non ha fatto domanda per Torino e Lotti riflette: “Se quello di Reggio va a Torino, è evidente che quel posto è libero e quando lo capisce che non c’è più posto per Roma fa domanda… E che se non fa domanda non lo sposta nessuno”.

L’intercettazione del maggio scorso, intercettata dal Gico della Guardia di Finanza di Roma e depositata nel fascicolo aperto dalla Procura di Perugia, è soltanto una delle conversazioni imbarazzanti che hanno devastato il Csm la scorsa estate. Spina, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento nei confronti di Palamara, s’è dimesso.

Persino il procuratore generale della Corte di Cassazione Riccardo Fuzio lascia in anticipo il suo posto. È indagato a Perugia per rivelazione del segreto d’ufficio: secondo l’accusa avrebbe raccontato a Palamara dettagli sull’inchiesta che lo riguardavano quando al Csm, la scorsa estate, sono giunte le comunicazioni ufficiali dell’indagine in corso.

Indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento nei confronti di Palamara anche il pm romano Stefano Rocco Fava. Non risultano indagati invece Lotti e Ferri. Il nome di Lotti, peraltro, aveva qualche relazione con la Procura di Roma, dove è imputato per favoreggiamento in un filone dell’inchiesta Consip. In fondo queste (e molte altre) devastanti conversazioni nulla hanno da spartire con il reato per il quale procede la Procura di Perugia: la corruzione di Palamara, indagato in concorso con Piero Amara, Giuseppe Calafiore, Fabrizio Centofanti e Giancarlo Longo.

Amara è stato a lungo un avvocato esterno dell’Eni ed è indagato o imputato in più procure, incluse Milano e Roma, in fascicoli per corruzione in atti giudiziari. Longo è un ex pm che ha già patteggiato l’accusa d’essere stato corrotto da Amara. L’avvocato Calafiore, secondo le accuse, di Amara era una sorta di braccio destro. Centofanti è un imprenditore che per la procura di Perugia s’affiancava alla cricca.

Il terremoto arriva il 30 maggio scorso, quando Palamara viene perquisito. Amara e Centofanti sono accusati di avergli “corrisposto varie e reiterate utilità” consistenti in “viaggi e vacanze” che “appaiono direttamente collegate alla sua funzione di consigliere” del Csm. Per l’accusa avrebbe ricevuto anche 40mila euro per agevolare Longo nella nomina (mai avvenuta) di Procuratore di Gela. L’inchiesta è ancora in corso.

Ma alcune posizioni, come quelle nei confronti Spina, Fuzio e Fava, almeno teoricamente, potrebbero essere travolte da una recente sentenza della Cassazione: tranne in casi circoscritti – per esempio: accuse che prevedono una pena superiore ai 5 anni di reclusione – non sono utilizzabili intercettazioni captate indagando su altri reati. E le posizioni di Fuzio, Spina e Fava, sono emerse proprio dalle intercettazioni nell’inchiesta per la presunta corruzione di Palamara e della cricca Amara, Calafiore e Centofanti.

Il collaboratore di Nardella: “Al concerto se mi voti”

Era stato assunto nel 2009 da Matteo Renzi e riconfermato dal successore Dario Nardella nella sua segreteria. Ma adesso il funzionario comunale Jacopo Vicini è finito nei guai per un’inchiesta della Procura di Firenze sui parcheggiatori abusivi cittadini: avrebbe fatto avere a un ausiliario del traffico arrestato due biglietti per il concerto dei “Thegiornalisti” del 24 ottobre 2018 allo stadio Artemio Franchi in cambio di una promessa di votarlo alle successive elezioni comunali di maggio. Così gli contestano un reato elettorale, punito teoricamente con la reclusione da sei mesi a tre anni.

L’inchiesta è denominata “Free Parking”. Secondo i pm, Vicini avrebbe fatto avere a un altro indagato, l’ausiliare del traffico Vittorio Sergi, per mezzo del funzionario arrestato della Sas (la partecipata Servizi alla Strada) Nicola Raimondo, due biglietti del concerto in cambio di quattro voti, quello di Sergi e dei familiari. Una volta procurati i biglietti, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, “Nicola Raimondo quindi indica subito il destinatario dei biglietti nella persona di Vittorio Sergi e immediatamente Jacopo Vicini replica a Raimondo invitandolo a dire a quest’ultimo ‘di ricordarselo’ evidentemente al momento del voto”. Poi, in una conversazione telefonica tra Raimondo e Sergi, il primo dice: “Oh! So’ riuscito ad averli eh quei biglietti… ho chiamato Jacopo… e l’è bravo poverino, no… c’è da votarlo! Lui è l’unico che si dà da fare”. Poi Vicini non sarebbe mai stato candidato in una lista civica che appoggiava Nardella ed è stato riassunto dal primo cittadino nella sua segreteria: Raimondo spiega che sarebbe stato proprio il sindaco a chiedere a Vicini di rinunciare perché “rinviato a giudizio” ma avrebbe “promesso all’amico che l’avrebbe promosso ‘a capo di tutta la segreteria, di tutto l’ufficio’”.

Consip, la Procura vuole Matteo Renzi in aula come teste

La Procura di Roma, nel processo che inizierà oggi contro Luca Lotti, vuole che a testimoniare in aula si presenti anche l’ex premier Matteo Renzi. C’è infatti anche l’attuale leader di Italia Viva – al quale l’ex ministro Lotti non è più legato come un tempo – fra i 54 testimoni che i pm chiedono di sentire. Sarà poi il giudice a decidere chi ammettere. Stiamo parlando del processo che riguarda chi avrebbe spifferato alle orecchie dell’ex amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, l’esistenza di un’indagine sui vertici della stazione appaltante. È un filone di un’inchiesta più complessa in cui, in un’altra tranche, è iscritto per traffico di influenze anche Tiziano Renzi, il padre di Matteo: per lui però la Procura ha chiesto l’archiviazione e si attende la decisione del gip.

Solo per la fuga di notizie quindi oltre al parlamentare Pd Lotti accusato di favoreggiamento, è imputato anche l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette, accusato di rivelazione di segreto. E poi ci sono il generale Emanuele Saltalamacchia e l’ex presidente della fiorentina Publiacqua, Filippo Vannoni, entrambi imputati solo per favoreggiamento.

Nell’ambito di questo processo i pm hanno depositato una lista di persone, tutte non indagate, da sentire in udienza. Tra loro anche l’ex capogruppo Pd Ettore Rosato (cordinatore di Italia Viva) e Roberto “Billy” Bargilli, l’autista del camper di Renzi per le primarie del 2012. Non poteva mancare ovviamente il teste chiave Luigi Marroni, che a verbale ha fatto i nomi di chi lo avrebbe avvisato dell’indagine in corso.

E poi ci sono alcuni militari come Sergio De Caprio, alias Ultimo, il carabiniere che arrestò Totò Riina. O anche chi ha svolto le indagini Consip, come Gianpaolo Scafarto, finito sotto inchiesta anche per falso, per aver attribuito volontariamente in un’informativa la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato” all’imprenditore Alfredo Romeo quando in realtà era stata pronunciata dall’ex parlamentare Italo Bocchino, che comunque si riferiva a Matteo e non al padre.

Le accuse a Scafarto sono cadute ma la Procura farà ricorso contro il proscioglimento.

Ma torniamo al processo a Lotti. I pm vogliono sentire Matteo Renzi “in ordine a quanto da lui conosciuto in relazione ai fatti di cui alle imputazioni e in particolare su quanto dichiarato a sommarie informazioni rese il 5 aprile e il 20 giugno 2018”. Sono le date in cui l’ex premier è stato convocato come persona informata sui fatti. Nel primo caso, ad aprile 2018, i magistrati gli hanno chiesto della nomina di Marroni. Renzi ha spiegato che fu lui a proporla: “Preferivo che in un centro di spesa come Consip – ha detto – non ci fosse una persona direttamente riconducibile alla mia area politica”. In quell’occasione chiese il parere di Lotti: “Tale parere – ha detto a verbale – fu decisamente negativo”. Due mesi dopo, a giugno 2018, l’ex premier è tornato in Procura. I pm gli chiedono la natura dei rapporti “tra suo padre Tiziano sia con Carlo Russo che con Alfredo Romeo” (Renzi rispose in sostanza di non saperne nulla). Il riferimento comunque era alla posizione del padre, indagato nell’altro filone. Accuse per le quali i magistrati hanno chiesto l’archiviazione convinti che Russo, quando faceva accordi con l’imprenditore Romeo, offrendo in cambio influenze sui vertici Consip, millantava all’insaputa di Tiziano Renzi. Russo così è stato accusato di millantato credito: anche lui è imputato nel processo che inizia oggi.

Csm diviso sul capo di Roma. Via al risiko delle Procure

Spaccatura in tre in V commissione del Csm, con tanto di astensione senza precedenti del presidente, sul voto più atteso: quello del procuratore di Roma. Ora entrano nel vivo le trattative per una maggioranza ampia e non risicata come è adesso, su un candidato che era dato in pole position: Michele Prestipino, il reggente della Procura di Roma. Per alcuni, resta il favorito, per altri la sua vittoria è più incerta. Per diversi fattori la sua corsa è sempre più in salita, dovrà vedersela non solo con il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo, ma anche con il procuratore di Palermo, Franco Lo Voi, che ha ripreso quota. Sia Lo Voi sia Prestipino sono i candidati più vicini a Giuseppe Pignatone, che ha guidato la Procura della Capitale fino alla pensione.

L’incertezza regna a Palazzo dei Marescialli, da qui al voto definitivo del plenum ci sono almeno tre-quattro settimane in cui può succedere di tutto. Dunque, otto mesi dopo lo scandalo nomine che ha fatto precipitare il Csm sull’orlo dello scioglimento, i consiglieri non sono riusciti a trovare neppure una maggioranza ampia, se non l’unanimità, sulla nomina delle nomine, quella che ha fatto emergere rapporti indecenti tra consiglieri, ex consiglieri e politici. Non certo i primi, ma finora gli unici a essere registrati da un troyan, inoculato nel cellulare dell’ex Csm Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione.

Ieri, in Quinta, Lo Voi ha avuto il voto del laico di FI, Michele Cerabona e, come da previsione, di Loredana Micciché, togata di Magistratura Indipendente, la sua corrente che l’anno scorso, invece, lo aveva scaricato, preferendo il Pg di Firenze, Marcello Viola, pure lui di Mi, il candidato suo malgrado di Palamara, Cosimo Ferri e Luca Lotti nel famoso incontro notturno di maggio con 5 togati, poi costretti alle dimissioni. Per Prestipino ha votato Piercamillo Davigo, di AeI, l’unico del suo gruppo a essere convinto di questa candidatura, gli altri quattro propendono per Creazzo, anche se un paio di loro, più incerti, alla fine potrebbero optare per Prestipino. Una variabile che pesa, e non poco, sull’esito finale di questa partita all’ultimo voto. Per Creazzo ha votato Marco Mancinetti di Unicost, come il procuratore. Si è astenuto Alberto Benedetti, laico di M5s e – come detto – il presidente Mario Suriano, che è togato di Area.

Le due preferenze per Lo Voi in Commissione, però, non fanno del procuratore di Palermo il procuratore in pectore di Roma. Per lui, i voti certi in plenum, al momento, sono 6-8 tra togati e laici del centro-destra. D’altronde, l’astensione di Area, attraverso il suo presidente e quella del laico M5S Benedetti è il segnale lampante che si tratta ancora.

Area ha provato prima del voto di ieri a trovare una maggioranza ampia a favore di Prestipino, ma senza riuscirci. Ce la farà prima del plenum o dovrà cambiare candidato in nome della convergenza? L’anno scorso, prima dell’azzeramento del voto della Commissione per lo scandalo nomine, che aveva visto vincente Viola, Area era per Lo Voi. Anche l’astensione di Benedetti è il segnale che neppure tra i 7 laici (il vicepresidente David Ermini si asterrà) c’è intesa e il loro voto potrebbe essere determinante. Benedetti, dunque, non ha voluto scoprire la sua preferenza. Secondo voci di Palazzo dei Marescialli, il suo collega di gruppo, Donati, fiorentino, vorrebbe convincere altri laici a votare Creazzo. Che si voglia evitare di nominare il procuratore di Roma con una manciata di voti, anche per non disattendere l’auspicio del Quirinale, è chiaro dal tono dei comunicati sulle astensioni. Il gruppo di Area si stringe attorno al presidente Suriano: “La delicatezza della pratica soprattutto dopo i fatti di maggio, imponevano ogni sforzo per il perseguimento di una soluzione unitaria” e Suriano, come presidente, “ha scelto di astenersi al fine di favorire una più ampia convergenza su un unico candidato”. Idem Benedetti. Ma su questa nomina incombe lo spettro ricorsi, ben chiaro ai consiglieri. Prestipino, che in diversi vorrebbero, ha “un’aggravante”: è procuratore aggiunto, ragionano alcuni consiglieri del Csm, mentre gli altri candidati sono o procuratori, Lo Voi e Creazzo o procuratore generale, Viola. A meno che al Consiglio si continui con le nomine a pacchetto e si pensi di fare tutti contenti. Per esempio, nominando almeno due degli esclusi in posti prestigiosi. Il caso vuole che sia libero il posto di Pg di Roma, lasciato da Giovanni Salvi, ora Pg della Cassazione e a breve quello di Pg di Milano, Roberto Alfonso, andrà in pensione.

La Lega pressa la Consulta sul maggioritario

Dalle parti dei 5Stelle la proposta di Matteo Salvini di tornare al Matarellum è vista più o meno così: vuole precostituirsi una exit strategy perché ha paura che la Consulta dichiari inammissibile il referendum che chiede il Carroccio per imporre una legge elettorale maggioritaria. “In un mese ha già proposto tre sistemi diversi”, commenta il pentastellato Giuseppe Brescia che è l’estensore del Germanicum, la proposta di legge elettorale proporzionale che è frutto dell’intesa della maggioranza. Incardinata proprio ieri alla Camera a poche ore dalla decisione della Corte, tanto per riaffermare che le leggi le fa il Parlamento.

Ma nel Pd, altro azionista di riferimento del governo insieme ai 5 Stelle, il pensiero corre all’eventualità che la Corte costituzionale possa ammettere il referendum in questione. E così stroncare sul nascere la discussione sul Germanicum. “La proposta di Salvini sul Mattarellum fa parte di una precisa strategia processuale in vista della decisione della Corte, ma diventa credibile solo se la richiesta viene ammessa. In caso contrario la Lega sarà costretta a trattare sul proporzionale, ma con una forza negoziale ridotta” si ragiona tra i dem. Che ovviamente sperano che vada a finire proprio così. E così nessuno è disponibile, almeno ufficialmente, a ragionare su un piano B, laddove le cose dovessero andare diversamente.

“Al momento la nostra proposta rimane questa: un proporzionale con uno sbarramento al 5 per cento e il diritto di tribuna per i piccoli che ci ha consentito di fare una sintesi all’interno di tutte le forze di maggioranza. Non stiamo valutando ipotesi alternative” mette le mani avanti Emanuele Fiano relatore per il Pd del Germanicum. Un testo che però resta aperto “al contributo di tutti i partiti anche quelli dell’opposizione. Quanto a Salvini dovrebbe pure riflettere sulla storia degli ultimi 25 anni: il maggioritario non garantisce necessariamente una maggiore governabilità”.

Ma la Lega insiste. E per rendere più appetitoso il piatto, mette nero su bianco la sua proposta: ieri Roberto Calderoli ha depositato il testo di legge per reintrodurre il Mattarellum per dimostrare che il Carroccio è disponibile ad abbandonare la strada del referendum pur di andare alle urne al più presto. Salvini suona la carica. “Usiamo il Mattarellum e andiamo a votare: poi chi vince vince”. Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti per ora gioca a carte coperte, ma qualcosa pur dice. “Il Germanicum è un buon punto di approdo ma siamo disponibili per rafforzare il bipolarismo a puntare sul rafforzamento dei poteri governativi. Non so con quale formula, forse il cancellierato”. Opzione che però potrebbe andare di traverso ai 5 Stelle perché incardinare subito una nuova riforma costituzionale potrebbe determinare il rinvio del referendum che si dovrebbe tenere tra qualche mese (sempre che non si torni a votare prima) per confermare quella sul taglio dei parlamentari.

Un sudoku di proposte, controproposte (pure Forza Italia è pronta a presentare la sua legge elettorale) e rilanci a ridosso delle elezioni in Emilia-Romagna e prima ancora della decisione della Consulta sul referendum di Salvini. Una manciata di giorni che per il capo della Lega, contando pure la decisione del Senato sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti, sono decisivi: tre colpi micidiali o tre gol formidabili. Un all in, almeno sulla carta, senza possibilità di pareggio.

I giallorosa: la data del voto su Salvini la decida la Casellati

Il presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, Maurizio Gasparri, ha intenzione di tirare dritto: nessun rinvio del voto previsto per il 20 gennaio sulla richiesta dei magistrati di Catania che chiedono di mandare a processo Matteo Salvini, accusato di sequestro aggravato di persona per la gestione dei migranti trattenuti a bordo della nave Gregoretti. Ma oggi la maggioranza alzerà il tiro formalizzando la richiesta di spostare la decisione dopo il 26 gennaio direttamente nella conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama, nonostante lo stesso Gasparri ritenga che sia solo la Giunta a poter decidere sui propri lavori.

I giallorosa – M5S, Pd, Italia Viva e LeU – vogliono invece obbligare la presidente del Senato Alberti Casellati a rompere il silenzio. Per sentire dalla sua viva voce se la sospensione dei lavori nella settimana precedente alle Regionali, che ha stabilito la scorsa settimana all’unanimità, vale anche per la Giunta, i cui lavori sono in stretta correlazione con le decisioni della capigruppo, come parrebbe dimostrare il precedente del 2013 quando si trattò di votare sulla decadenza di Silvio Berlusconi.

La maggioranza è sul piede di guerra perché la settimana scorsa Gasparri si era impegnato a chiedere lumi proprio alla presidente del Senato per sapere come regolarsi e per questo non era stato convocato l’ufficio di presidenza della Giunta per decidere il calendario. Convocato invece solo ieri, quando ormai Pietro Grasso, unico rappresentante di LeU, era ormai partito in missione con l’Antimafia facendo pendere la bilancia dei numeri verso l’opposizione. Un tiro mancino che ha mandato su tutte le furie Grasso che dagli Usa si è fatto sentire: “Gasparri avrebbe dovuto convocare immediatamente, o comunque ben prima della mia partenza di lunedì, l’ufficio di presidenza per decidere sul calendario e successivamente la Giunta nel caso di mancata unanimità. Così pure per decidere sulle numerose istanze di integrazione istruttoria avanzate da tutti i gruppi di maggioranza e una addirittura dall’opposizione”.

E invece si è atteso che passassero i giorni prima della nuova seduta in cui non ci si è limitati a dare per confermata la data del 20. Da parte sua Gasparri respinge ogni accusa, certo di aver sempre rispettato il regolamento.

La sua terzietà, però, è messa in discussione dalla maggioranza, che ora chiede l’intervento di Casellati: “Per noi l’organo che decide il calendario è la capigruppo”, ha detto il renziano Francesco Bonifazi, mentre in Giunta i giallorosa tornavano alla carica sulla necessità, in vista della decisione su Salvini, di acquisire alcune perizie tecnico-sanitarie dei migranti a bordo della Gregoretti e sulla catena di comando di quei giorni di fine luglio finiti sotto la lente di ingrandimento dei magistrati.

Istanza, però, già bocciata due giorni fa grazie al voto determinante di Gasparri, al quale – dopo la capigruppo di oggi – verrà chiesto di convocare un altro ufficio di presidenza, ma in una data in cui tutti i membri dell’organismo, compreso Grasso, possano essere presenti.

Rai, promosse le nomine “bocciate”

I nuovi direttori delle tre reti Rai proposti da Fabrizio Salini passano, tra mille intoppi e difficoltà, in un cda lunghissimo (oltre 8 ore), che ha visto momenti di grande tensione tra alcuni consiglieri, l’amministratore delegato e il presidente Marcello Foa. “Un bagno di sangue”, dice qualcuno.

Il parere del cda non è vincolante e infatti quattro nomi sono passati in minoranza, con 3 voti su 7. Senza la fiducia del cda, infatti, passano il nuovo direttore di Raidue Ludovico Di Meo, la neo direttrice di Raitre Silvia Calandrelli, il direttore di Rai Doc Duilio Gianmaria e quella di Rai Fiction Eleonora Andreatta. Sono passati invece a maggioranza, con 4 voti su 7, il direttore di Raiuno Stefano Coletta, Franco Di Mare all’intrattenimento day time, Luca Milano a Rai Kids e Angelo Teodoli al coordinamento dei generi. Ago della bilancia è stato il consigliere dei dipendenti Riccardo Laganà, che un po’ ha votato a favore e un po’ si è astenuto.

Sempre a favore hanno votato Beatrice Coletti, Giampaolo Rossi e lo stesso Salini. Sempre contro, invece, il consigliere leghista Igor De Biasio. Mentre si sono astenuti il presidente Foa e la consigliera di area Pd Rita Borioni. Che al termine del consiglio è stata assai dura con Salini. “L’azienda continua a essere mal gestita, perde pubblico e la responsabilità è soprattutto dell’ad”, dice Borioni. Che si lamenta del fatto che Salini non abbia affrontato “il problema urgente del pluralismo nei Tg, totalmente in mano a Lega e 5 Stelle”. Il Pd, infatti, da tempo, con toni barricaderi, chiede un riequilibrio in suo favore dei telegiornali, terreno bollente che Salini per il momento non vuole toccare.

Critico è stato anche Foa, che non ha gradito la gestazione di nomine non condivise, a suo dire, col resto del consiglio, ma soprattutto si è lamentato della defenestrazione di Teresa De Santis da Raiuno “proprio alla vigilia del Festival di Sanremo, esponendo l’azienda a un grave danno d’immagine”.

Altro bubbone scoppiato ieri riguarda i doppi incarichi di Coletta, Di Meo e Calandrelli. Secondo il collegio sindacale, i tre non possono guidare le reti principali e al contempo le direzioni orizzontali. Così l’escamotage trovato in consiglio è stato che i tre avranno le direzioni di genere (Coletta il prime time, Di Meo cinema e serie tv e Calandrelli la cultura) e guideranno Raiuno, Raidue e Raitre con l’interim. Insomma, un pasticcio, che però non preoccupa Salini, secondo cui le sovrapposizioni tra direzioni di genere e reti erano previste in questa fase di transizione. L’ad alla fine si è detto “molto soddisfatto” per un voto che “non era affatto scontato” e segna “un primo e fondamentale passo per la realizzazione del piano industriale”.

Queste nomine confermano l’asse pro-Salini tra M5S e FdI. In questa fase, infatti, Rossi ha fatto il pieno, portando a casa, oltre a Di Meo, diversi manager: Ventura, Gaffuri, Zucca. Un feeling, quello tra Salini e Rossi, cementato nel corso dei mesi del Conte 1, quando l’ad era sotto l’assedio della Lega e di Foa e Rossi in più occasioni gli ha fatto da scudo, difendendolo.

“La nostra riforma dell’Irpef non si mette in discussione”

In questi giorni Laura Castelli incontra molta gente: “Ho sentito i sindacati e ho incontrato Manisha Singh, assistant secretary per gli Affari economici del Segretario di Stato americano, Mike Pompeo”. Soprattutto, ieri pomeriggio la viceministra all’Economia per i Cinque Stelle ha visto il suo ministro Roberto Gualtieri dopo avergli recapitato giovedì un avviso sulle agenzie: “Prima di discutere con i sindacati del taglio del cuneo fiscale deve parlare con noi”. Ieri hanno parlato, e Castelli pare soddisfatta: “Il taglio del cuneo fiscale deve essere coordinato con la riforma del Fisco, di cui ha parlato anche il presidente del Consiglio Conte. E su questo ho riscontrato un’apertura interessante da parte di Gualtieri”.

Giovedì avete litigato pubblicamente con il Pd. Gualtieri è scappato avanti sul decreto per ripartire il “bonus” ai lavoratori dipendenti per cui la manovra ha stanziato 3 miliardi.

Nessun litigio. Ci tenevo a esprimere, come ha fatto Conte, che il taglio del cuneo deve essere organico rispetto a una riforma dell’Irpef. Oggi con il ministro abbiamo lavorato su soluzioni condivise in vista dell’incontro di venerdì con i sindacati.

Per il Pd è prioritario il taglio del cuneo, lei invece vuole che sia unito alla riforma dell’Irpef. È una visione diversa, no?

Il premier ha parlato della necessità di una profonda riforma dell’Irpef, e io e il M5S siamo d’accordo. Serve una riforma strutturale perché oggi così com’è l’Irpef non funziona, è troppo complicata. Anche il Pd è d’accordo.

Bisogna scendere da cinque a tre scaglioni?

La base di lavoro è quella, contenuta anche nel programma del Movimento. Ne parleremo assieme.

Se avete dovuto precisarlo pubblicamente, temevate che il Pd tagliasse le tasse sul lavoro da un lato e le alzasse dall’altro.

Il punto è questo. Inutile tagliare il cuneo fiscale e poi fare una riforma che penalizzi qualcuno. Il taglio non deve rimettere in discussione la riforma dell’imposta sulle persone fisiche. Dobbiamo semplificare.

Tagliando il cuneo si conferma e magari amplia il bonus degli 80 euro.

Si, ma ci auguriamo che siano nella forma di detrazioni.

Come procederete?

Oggi il segretario della Cgil Maurizio Landini ci ha invitato a non fare promesse che non possiamo mantenere. E io sono molto d’accordo con lui. Dobbiamo calcolare esattamente il costo della riforma dell’Irpef. Abbiamo lavorato assieme per trovare le risorse per ridurre le tasse: ora non facciamo i gattini ciechi per troppa fretta. Non ci servono interventi spot. Ma il ministro oggi ha dato ottimi segnali.

Ci dica tempi, modi e costi.

Per le cifre è presto. Però per luglio deve essere varata una legge delega sul Fisco che abbia i necessari paletti.

Per capirci chi prende oggi gli 80 euro…

Non perderà nulla.

Nel tavolo sul cronoprogramma con il Pd dovrete discutere molto, per esempio del reddito di cittadinanza. Quanto si può cambiare?

La priorità deve essere la riduzione delle tasse, e sono concentrata su questo.

Oggi in audizione in Parlamento il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, da voi indicato, lo ha detto dritto: “Il reddito di cittadinanza non crea lavoro”.

Ha detto che aiuta la ricerca di posti di lavoro ma non li crea. Voleva intendere che il reddito reintroduce nel mondo del lavoro persone che ne erano uscite.

Ma con il Pd come va? Molti dem vorrebbero un’alleanza strutturale con voi. E la auspica anche Beppe Grillo.

Lavoriamo bene assieme, ma non capisco questo insistere su un’alleanza a lungo termine. Il Movimento è alternativo alle vecchie ideologie. Credo che queste pressioni vadano ridotte.

Quindi niente accordi nelle Regioni?

Non mi occupo di questo, penso a realizzare il programma di governo.

Gli stati generali del M5S a marzo dovranno essere un vero congresso?

Dovranno servire per proiettarci nel futuro, rimanendo sempre post-ideologici. Non è facile, ma va fatto.

E invece la piattaforma web Rousseau cos’è, un problema e una risorsa?

È una grande risorsa per la democrazia diretta. È uno strumento importante, ma non è il Movimento.

Di Maio invece è un capo sotto attacco?

Subisce attacchi ingiusti, perché ha sempre ascoltato tutti. E spesso questi attacchi non sono alla luce del sole.