I decreti Sicurezza accendono il ritiro dem

“Noi possiamo anche parlare di modificare i decreti Sicurezza e di provare a farlo oltre i rilievi di Sergio Mattarella. Ma se siamo minoranza nella maggioranza, non ci riusciremo”. Secondo giorno del “Conclave” del Pd, all’Abbazia di San Pastore a Contigliano.

Fa un po’ meno freddo del giorno prima e il dibattito si anima. Non ha ancora parlato Nicola Zingaretti. Ma è Cecilia D’Elia, da sempre vicina al segretario, a indicare con lucidità il nodo politico. Da Dario Franceschini per finire allo stesso Zingaretti, i vertici del Nazareno ieri si sono spinti in maniera abbastanza compatta a ribadire come la prospettiva politica irrinunciabile per il Pd in questo momento sia arrivare a un’alleanza organica con M5s. Sentire Andrea Orlando: “Noi non vogliamo nessun matrimonio, ma per governare il paese serve un’alleanza con un progetto”. Avvertimento: “Ai nostri alleati dobbiamo dire: o rinunciate all’antipolitica o la difficoltà di portare avanti questo governo crescerà”. Ma intanto la possibilità dei dem di dettare l’agenda è relativa. “Non siamo subalterni”, enuncia Zingaretti nella sua relazione. E elenca 5 punti programmatici. Rivoluzione verde, sburocratizzazione, Equity Act per parità salariale uomo-donna ed equilibrio nord-sud, aumento della spesa per l’educazione, piano per la salute. Vorrebbe essere una direzione strategica per l’esecutivo. Ma è talmente vasta da essere vaga, talmente “lunare” in quanto a scelta di tempi (il 26 si vota in Emilia-Romagna) e a concrete possibilità di arrivare a mediazioni da sembrare fuori contesto.

Resta la realtà. Tanto per cominciare, appunto, i decreti sicurezza. Denuncia Matteo Orfini (che sulla prospettiva di un matrimonio con M5S è molto critico): “Non mi convince l’idea che arriviamo in Parlamento senza un accordo di maggioranza. Se non alziamo l’asticella con il M5s non otteniamo un risultato”. La mette un po’ più morbida il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio: “Possiamo re introdurre lo Sprar perché su questo M5s sono d’accordo, ma dobbiamo pretendere che la gestione di questo passaggio vada fatta su principi non mediabili”. Conclusione del segretario: “Io mi rifiuto di chiamare quei decreti ‘decreti sicurezza’. È solo propaganda. Ma siamo figli di un compromesso che tutti abbiamo accettato il giorno del giuramento del governo. Ora dobbiamo capire dentro questa situazione come arrivare all’obiettivo più alto e ambizioso possibile”. Chiosa Orlando uscendo: “Il segretario questo lo ha spiegato bene”. Per restare sul dossier è Matteo Mauri, viceministro dell’Interno, a chiarire che la titolare del Viminale, Luciana Lamorgese, vorrebbe portare i decreti in Cdm. Quando lo farà e soprattutto se il Pd riuscirà a introdurre delle modifiche è tutto da vedere.

E poi c’è il reddito di cittadinanza. Sia Zingaretti sia Franceschini lo hanno di fatto difeso, ma c’è una parte del partito, capitanata da Lorenzo Guerini che mette l’accento sulla crescita. Mezzo Pd risponde da sinistra.

Dopo l’Emilia e la Calabria ci sono le altre Regionali. Un assaggio di quanto può accadere si è avuto ieri, con un Vincenzo De Luca che si aggirava per il monastero con una postura molto poco pacifica. Mini-vertice finale tra lui, il figlio Piero De Luca e il segretario. In Campania non ci pensa proprio a non ricandidarsi. Ma Italia Viva non lo vuole e – nell’ottica di un tentativo di alleanza col M5S – non è esattamente il candidato ideale.

Dibba aiuta Di Maio: “Ripartire dalla revoca ad Autostrade”

Il big che guarda da fuori in questi giorni vive molto lontano da Roma. Ma il capo che è ancora tale vorrebbe già riportarselo vicino: e poi si vedrà. Luigi Di Maio cerca Alessandro Di Battista, spesso. E l’ex deputato romano risponde, volentieri. “Mi sento con Luigi regolarmente”, ha spiegato Di Battista dall’Iran a chi lo ha sentito nelle ultime ore. Confermando che da Roma lo compulsano, per capire cosa pensa e cosa avrebbe voglia di fare nel Movimento in futuro. Anche se cosa sarà il M5S da qui a poche settimane non è affatto chiaro, a nessuno.

Di sicuro Di Battista c’entra e c’entrerà, con i Cinque Stelle. E infatti ieri il blog delle Stelle ha reso noto che l’ex parlamentare avrà il ruolo di responsabile del portale Eventi della piattaforma web Rousseau assieme a Paola Taverna e al senatore Marco Croatti. “Un nuovo ruolo, un ritorno” il commento generale. Ma non è esattamente così, fanno notare persone a lui vicine. “Alessandro era già referente della funzione call to action (quella per organizzare iniziative sui territori tramite la piattaforma, ndr), ma poi questa funzione si è fusa con quella activism, gestita dalla Taverna. Da agosto entrambe le sezioni rientrano in quella degli Eventi, a cui ora è stato aggiunto Croatti”. E infatti in serata lo stesso senatore ha chiarito “l’equivoco”. Di sicuro Di Battista è ancora dentro Rousseau con un ruolo, cioè è ancora formalmente nel M5S. La novità rumorosa casomai è l’addio di Max Bugani all’associazione Rousseau, di cui non è più socio. Un passo di lato che riflette la sua amarezza per molte vicende, compreso il fatto che il Movimento si sia presentato alle Regionali nella sua Emilia-Romagna con una propria lista, scelta “suicida” secondo Bugani. E la sua uscita non aiuta Davide Casaleggio, che sta attraversando il suo momento più difficile: pressato dai parlamentari in rivolta contro la sua creatura (e contro i versamenti con cui viene sostenuta), alle prese con un Di Maio che nonostante le smentite non lo sta più coprendo con gli eletti.

Piuttosto il capo parla di continuo con Di Battista, nonostante lo strappo a inizio anno sull’espulsione di Gianluigi Paragone. Il sostegno dell’ex deputato a Paragone aveva amareggiato Di Maio, che però resta un pragmatico. Sa che, qualunque cosa decida di fare del suo ruolo di capo e qualunque partita vorrà giocare da qui agli stati generali di marzo, avrà comunque bisogno del sostegno di Di Battista. Per questo poche settimane fa gli aveva ventilato addirittura un incarico di governo, quello di ministro dell’Istruzione al posto del dimissionario Lorenzo Fioramonti. Ma l’ex deputato aveva declinato. Impossibile per lui entrare in un esecutivo con il Pd. Però voleva e vuole sostenere Di Maio in cambio di segnali concreti, cioè di battaglie sui temi identitari del M5S.

Anche per questo il capo non molla sulla revoca delle concessioni ad Autostrade. E Di Battista in alcuni colloqui privati gliene ha dato atto: “Sono entusiasta della revoca, è la cosa più importante che il M5S possa fare assieme al reddito di cittadinanza. Sarebbe il definitivo salto di qualità per riaccendere il Movimento”. Del resto lo aveva scritto anche nella lettera al Fatto di venerdì scorso: “Ho sempre ritenuto difficile raggiungere con il Pd – partito di sistema – la revoca delle concessioni, ma se ciò avvenisse sarei il primo a rallegrarmene”. Perché l’idea resta quella di riportare Di Maio e soprattutto i 5S lontano dai dem. Cioè ai vecchi tempi del M5S, in cui Di Battista riempiva le piazze e Di Maio non era un capo sempre in guerra.

Pd e Iv esultano troppo presto: il derby con la destra verso le elezioni emiliane

Prima le motivazioni della Cassazione che accendono Partito democratico e Italia Viva, poi gli avvisi di chiusura indagini che danno la stura al fuoco di fila di Forza Italia e Lega. Il caso Bibbiano torna a infiammare l’Emilia e la politica nazionale a meno di due settimane dalle Regionali del 26 gennaio.

“Non c’erano gli elementi per imporre l’obbligo di dimora nei confronti del sindaco Andrea Carletti”, scrivono i giudici della Suprema Corte nelle motivazioni della sentenza con cui il 3 dicembre hanno annullato la misura cautelare per il primo cittadino della cittadina della Val d’Enza, travolta dall’inchiesta “Angeli e demoni” della Procura di Reggio Emilia sugli affidi illeciti dei servizi sociali. La notizia viene battuta dalle agenzie poco prima delle 14 e subito Iv parte all’attacco: “Una persona massacrata sui media e sui social per mesi. Chi lo ripagherà mai per tutto quello che ha subito?”, domanda su Facebook Roberto Giachetti. “Ci sarà oggi qualche coraggioso grillino o leghista pronto a scusarsi per lo squallido sciacallaggio?”, gli fa eco Matteo Renzi un paio di ore dopo. Proprio negli stessi minuti in cui si diffonde la notizia degli avvisi di chiusura indagini notificati a 25 persone, per un totale di 107 capi di imputazione. “Un sistema marcio che ha pregiudicato la serena esistenza di tanti minori e di tante famiglie, strappando gli uni alle altre, senza nessun motivo valido ed accettabile”, lo definisce a deputata di Fi Benedetta Fiorini. Per Carletti cadono 2 accuse su 4 (restano l’abuso di ufficio e il falso), ma la Lega non attenua il fuoco: “Il centrodestra rimane garantista – premette Maura Catellani, candidata del Carroccio – tuttavia nell’ambito di una tale massiccia contestazione di reati neppure può il Pd trincerarsi dietro una supposta strumentalizzazione”.

Abusi e falsi, è troppo presto per avere scuse

Con un tempismo fantozziano, proprio mentre Renzi twittava “La Cassazione spiega che l’arresto del sindaco di #Bibbiano era infondato. Ci sarà oggi qualche coraggioso grillino o leghista pronto a scusarsi per lo squallido sciacallaggio?”, ieri la Procura di Reggio Emilia notificava la conclusione delle indagini preliminari a 25 persone tra cui il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. Dunque, salvo improbabili colpi di scena, per il momento, al massimo, a Carletti deve delle scuse il magistrato che ha imposto le misure cautelari. Le accuse principali nei suoi confronti (falso e abuso d’ufficio) invece restano in piedi, ma per Renzi, che ieri ha definito Craxi “un gigante”, il 13 gennaio evidentemente doveva essere la giornata del 2×1 della riabilitazione mediatica. Comunque, non è certo il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti il nome ricorrente nelle 71 pagine che riassumono con dettagli inquietanti la chiusura delle indagini preliminari dell’inchiesta “Angeli e demoni”. Quell’inchiesta che il Dubbio

, un mese fa, ha definito “una sorta di fiction” e quel sistema che Giuliano Limonta, presidente della commissione tecnica regionale sui minori voluta dal Pd, ha definito “un raffreddore”, sembrerebbero essere invece una realtà in coma profondo. Non è solo la quantità dei capi di imputazione ad impressionare (ben 107) ma anche e soprattutto la “varietà”: si passa dalla frode processuale alla violenza, dalla minaccia a pubblico ufficiale ai maltrattamenti in famiglia, e poi falso ideologico, truffa, lesioni, tentata estorsione e così via. Solo l’ex dirigente dei servizi sociali della Val d’Enza Federica Anghinolfi è per esempio accusata di falso ideologico, violenza privata, abuso d’ufficio, falsa perizia, frode processuale (a titolo esemplificativo, una delle bambine che aveva in cura diceva che le mancava la mamma e che era triste di non stare a casa con i suoi e lei riferiva che la minore rifiutava di incontrare i genitori). I capi di imputazione a suo carico sono un numero spaventoso: 64.

Anche la psicologa Nadia Bolognini, moglie di Claudio Foti, è in una posizione molto complicata: i capi d’accusa per lei sono ventuno, tra cui la frode processuale (ad esempio, secondo l’accusa, la psicologa suggeriva con tono suggestivo e suggerente a una bambina che la madre fosse una prostituta). C’è poi chi viene accusato di maltrattamento che avveniva tramite una costante denigrazione delle figure genitoriali e chi accusava perfino una bambina “di pratiche sadiche e masturbatorie nei confronti di un gatto”. Per il direttore del centro Hansel e Gretel, Claudio Foti, la situazione si è aggravata: era indagato per concorso in abuso d’ufficio, ora è accusato anche di frode processuale e lesioni personali gravissime.

Insomma, è vero che il processo si deve ancora celebrare, ma per chiedere scusa a tutti direi che c’è tempo.

Sistema Bibbiano: “Bimba, se accusi mamma e papà ti diamo un premio”

“Ciao bimba mia, il papà non riesce ad aver risposte per portarti a mangiare il sushi fuori, spero tu stia bene, ti voglio bene”, recita il whatsApp. “Bene, questo messaggio non lo diremo alla bambina”. “Ma come giustifichiamo la sospensione degli incontri protetti?” “Relax della minore, vacanza”. È la chat degli assistenti sociali indagati per i presunti abusi nel sistema degli affidi della Val d’Enza, nel Reggiano. Si confrontano, decidono la tattica caso per caso e parlano dei giudici e delle famiglie a cui tolgono i bambini. L’ultimo capitolo dell’inchiesta “Angeli e Demoni” svela, attraverso i cellulari sequestrati, come funzionava il “sistema Bibbiano” secondo i protagonisti.

I carabinieri di Reggio Emilia hanno notificato a 25 persone l’avviso di fine indagine, che di solito preludono a una richiesta di rinvio a giudizio: 107 i capi d’imputazione. Nove i minori coinvolti, per lo più tornati alle loro famiglie prima degli arresti del 27 giugno. I reati contestati sono, a vario titolo, peculato d’uso, abuso d’ufficio, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, falsa perizia anche attraverso l’altrui inganno, frode processuale, depistaggio, rivelazioni di segreto in procedimento penale, falso ideologico in atto pubblico, maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni dolose gravissime, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

 

Violenze inventate per allontanare i minori

Le indagini sono state coordinate dalla pm Valentina Salvi e dal procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini, esplodono il 27 giugno. Secondo l’accusa i bambini sono stati tolti alle famiglie dopo aver raccontato violenze sessuali e psicologiche inventate. Anzi inculcate per guadagnarci sopra. Un’organizzazione che, per i pm, faceva girare centinaia di migliaia di euro, equamente spartiti a seconda del ruolo. Bastava un accesso al pronto soccorso o la chiacchiera di un bimbo a un’insegnante, qualsiasi segnalazione, anche labile, di un abuso sessuale. Allontanamento del minore dalla famiglia, relazione falsa che assume per certo la violenza e invio del minore alla struttura pubblica “La Cura” di Bibbiano, amministrata da Federica Anghinolfi e dal suo braccio destro Francesco Monopoli. Qui ai piccoli veniva inculcata “la verità” da parte di professionisti riconducibili all’associazione “Hansel & Gretel” di Moncalieri (Torino) fondata dallo psicoterapeuta Claudio Foti. È indagata anche la moglie Foti, Nadia Bolognini, altra psicoterapeuta: in un caso prometteva “benessere” e “vantaggi” a una bambina se avesse svuotato gli “scatoloni” dei suoi ricordi, cioè accusato il papà.

Molti indagati condividevano una chat. “La regola per il 2019 per salvare capre e cavoli è che diciamo ai genitori che il servizio non accetta alcun pacco da consegnare ai propri figli, siete d’accordo?”, si legge. Il riferimento è al modus operandi dei servizi sociali della Val d’Enza, che come scoperto dall’inchiesta, accumulava pacchi e lettere delle famiglie naturali senza mai farli avere ai bambini dati in affido: una pratica forse legittima ma ai piccoli veniva raccontato che i genitori li avevano dimenticati.

 

Il ghanese preso in giro: ”Come si dice vaff…?”

A una famiglia del Ghana va anche peggio. Il padre non parla né capisce l’italiano o l’inglese ma le assistenti sociali gli fanno sostenere lo stesso il colloquio per capire se abbia o meno abusato della figlia. Nella relazione finale scrivono che l’uomo ha avuto “un atteggiamento di totale chiusura”. Peccato che poi nella chat privata commentino lo stesso episodio diversamente: “Oh comunque noi parliamo anche il ghanese, come si dice ‘vaff’ in ghanese? Muoio dal ridere”. E poi i giudizi sui giudici non amici. Monopoli ritiene che l’audizione protetta in sede del primo incidente probatorio sia stato “uno schifo”, a causa del giudice che era “così ignobilmente suggestivo” al punto da impedire alla bambina di confessare gli abusi. Abusi mai subiti o accertati finora.

 

Il sindaco Carletti: “Era consapevole”

Tra gli indagati è rimasto Andrea Carletti, sindaco Pd di Bibbiano. Cadono per lui due capi di imputazione su quattro inizialmente contestati, restano un abuso di ufficio e un falso. Secondo la Procura contribuì a rendere possibile lo stabile insediamento dei terapeuti privati all’interno di una struttura pubblica pur consapevole dell’assenza di una procedura ad evidenza pubblica e dell’illiceità del sistema. Proprio ieri la Cassazione ha annullato senza rinvio l’obbligo di dimora a suo carico. Non c’erano gli elementi per imporre la misura per “l’inesistenza di concreti comportamenti” di inquinamento probatorio e la mancanza di “elementi concreti” che legittimassero la previsione di reiterazione dei reati.

 

I protagonisti e i fascicoli nascosti

Federica Anghinolfi è la responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza, il suo braccio destro è l’assistente sociale Francesco Monopoli: “Al fine di impedire e ostacolare le indagini – scrive la pm – immutavano artificiosamente lo stato dei fascicoli del servizio sociale, mediante sottrazione e successivo occultamento dei diari sui quali gli assistenti sociali avevano riportato appunti relativi agli incontri”. Secondo (almeno) sei testimoni diversi e non tutti indagati a Bibbiano il lavaggio del cervello non veniva fatto solo sui bambini ma anche sugli adulti. Anghinolfi e Monopoli avrebbero così convinto i loro collaboratori della necessità di strappare alle famiglie i piccoli, anche con perizie false. Parlavano di una “rete cannibale pedofila e satanista”. Mai esistita.

Foti risponde di frode processuale: avrebbe convinto una minore di essere stata abusata dal padre e dal suo socio. Una testimonianza indotta che ha portato la minorenne a non voler più incontrare il papà, poi decaduto dalla potestà genitoriale. Il tutto sarebbe testimoniato da un video, lo stesso che a luglio era servito a Foti per ottenere la revoca degli arresti domiciliari. Foti in quella occasione dichiarò: “Su di me fango”. Le indagini successive e l’analisi fatta da un consulente tecnico della Procura di Reggio Emilia hanno portato a una valutazione completamente antitetica, ritenendolo piuttosto una prova a sostegno delle ipotesi accusatorie.

Romanzi d’evasione

La sapete l’ultima? Craxi era un “romanziere”. E pure un “poeta ermetico”. La scottante rivelazione si deve al Corriere e al Messaggero. Il primo ha avuto in anteprima un brano del “thriller inedito di Craxi, curato dalla fondazione presieduta dalla figlia Stefania” e pubblicato da Mondadori (e da chi se no?). Il secondo lo ha recensito col rilievo che merita il Simenon socialista (definito “esule”), in un’intera pagina impreziosita da due liriche (anch’esse inedite) composte dal Petrarca di Hammamet e “trovate tra le sue carte dal figlio Bobo”. Ora, se questi capolavori letterari sono rimasti inediti per vent’anni, un motivo ci sarà. E chi vuol bene alla Buonanima dovrebbe porsi una domanda semplice semplice: perché Craxi non le ha mai né diffuse né pubblicate? E darsi una risposta altrettanto elementare: perché aveva il senso del limite e del ridicolo e non voleva svilire la sua notevole carriera politico-criminale con quella sottoletteratura di quart’ordine. Va detto infatti, senza tema di smentita, che sia il “romanzo thriller” sia le “poesie ermetiche” sono delle cagate pazzesche.

La prosa di Parigi-Hammamet è di una banalità e di una sciatteria imbarazzanti, roba che neanche un impiegato del catasto. E la trama, che il Messaggero promuove a “spy story” di “Bettino il romanziere”, “plot gonfio di trame e misteri, storie d’amore e di tradimenti, vendette e paure”, “romanzo che sembra avere una sua forza”, è un improbabile frittomisto di complotti internazionali di una Spectre russo-american-tedesca contro l’immacolato “Ghino”. Cioè Ghino di Tacco, lo pseudonimo che si era scelto Craxi (ovviamente un bandito). Quanto alle poesie, basta citare quella intitolata (non stiamo scherzando) “Contabilità”: “Lasciando le mie rime e i miei racconti a mezza strada/ eccomi a chiedere i conti del genere umano /per mettere sul gran libro Il Capitale/ io mi dedico agli scritti del giornale/ io passo dalla cassa della merce/ venduta in contanti /dignità, lealtà, sincerità /vecchio, stanco, a un tanto”. Roba da controllo antidoping o da perizia psichiatrica, che spiega perché Craxi tenesse quella robaccia nascosta nei cassetti: non poteva sospettare che quei geni dei figli l’avrebbero data alle stampe, contribuendo al suo definitivo sputtanamento postumo. Ora, prima che cedano a qualche settimanale la lista della spesa vergata di suo pugno, i suoi calzini usati e i fondi dei suoi caffè come le reliquie di Padre Pio, si spera in un bell’incendio doloso che incenerisca gli effetti personali rimasti. Ma, nel manicomio in cui viviamo, è improbabile che qualcuno provveda a quel gesto pietoso.

Ieri, per dire, La Stampa lacrimava perché “il Pd sarà l’unico assente ad Hammamet” alle “celebrazioni” del pregiudicato latitante e così “consegna Craxi alla destra” (testuale). E l’altroieri il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che non sembra ma è del Pd, ha pubblicato sul Foglio una pompa funebre a Craxi. Il titolo “E adesso diamo a Craxi quel che è di Craxi” ne ricorda uno celeberrimo di Cuore su Previti: “Diamo a Cesare quel che è di Cesare: la galera”. A 16 anni, invece di pensare alle ragazze, Gori stravedeva per Craxi “innovatore coraggioso” e “fu grazie a lui che divenni – e tuttora sono – un socialista liberale”. Il terzo fratello Rosselli. Poi purtroppo nel ’92 “arrivò la bufera”, detta anche “rivoluzione dei giudici” (meglio non parlare di Tangentopoli e di tangenti) e Craxi finì “all’indice come il peggiore dei ladri” (infatti rubava). E il piccolo Gori che fece? “Vacillai”. Perbacco: “non seppi leggere la torsione della democrazia nascosta dietro lo scontro tra i poteri” (cioè i processi per le mazzette che Craxi si faceva portare sul letto o versare sui tre conti svizzeri personali Northern Holding, Constellation Financière e Arano). Ora però ha capito e vuole “restituirgli un po’ di quello che da lui ho ricevuto” (il verbo “restituire”, applicato a Craxi, è decisamente affascinante). “Se ho le idee che ho”, tipo sulla “redistribuzione della ricchezza, lo devo a Bettino”. Che purtroppo di ricchezza ne redistribuì pochina, a parte i 40 miliardi nascosti in Svizzera e redistribuiti fra il barista Raggio, la contessa Vacca, il figlio Bobo (villa a Saint Tropez), il fratello Antonio, un’amante e soprattutto sé medesimo.

Insomma “Berlinguer aveva torto e Craxi aveva ragione” (Berlinguer, colpevolmente, non rubava). Che ideone “l’elezione diretta del presidente della Repubblica” (da un’idea di Licio Gelli), “la battaglia per salvare Moro” (trattando sottobanco con le Br), “quella della scala mobile” (abolita per scendere l’inflazione a spese dei lavoratori), “il no agli Usa sulla consegna dei terroristi dell’Achille Lauro a Sigonella” (con l’impunità al capo del commando Abu Abbas, mandante dell’omicidio di un ebreo paralitico, sottratto alla giustizia e spedito in omaggio a Saddam). E soprattutto “l’apertura alle tv private”: così Gori chiama pudico i due “decreti Berlusconi” per legalizzare l’illegalità delle tv Fininvest contro i sequestri dei pretori e la legge Mammì, tagliata su misura del monopolio berlusconiano e imposta da Craxi mentre B. gli sganciava 23 miliardi sui conti svizzeri di cui sopra. Ma Gori non ne parla, forse perché di quelle tv illegali fu per 17 anni dirigente e poi amministratore, con lauti stipendi pagati dal noto corruttore. Delle condanne di Craxi, invece, non s’è accorto: parla di “inchieste”, peraltro “strabiche” perché – tenetevi forte – “tutti sapevano, ma solo alcuni sono stati colpiti”, ergo Mani Pulite “fu un’operazione di giustizia politica”. Non male, come alibi: è come se un rapinatore di banche colto in flagrante pretendesse di non essere processato perché in giro è pieno di rapinatori a piede libero. Una minchiata che nessun rapinatore serio userebbe mai a sua discolpa: infatti la usa il compagno Giorgio Gori.

Noi contro loro, il rock politico degli Algiers

“Don’t forget, it’s us against them”. Volendo sintetizzare in un payoff il fervore ribelle racchiuso in There Is No Year, il nuovo disco degli Algiers in uscita questo venerdì, l’eterno “noi contro di loro” gridato nel refrain del brano Repeating Night funziona benissimo. Ma anche l’attacco del singolo Dispossession (“run around run away from your America/ while it burns in the streets /’ll be here standing on top of the mountain shouting down what I see”) sarebbe una perfetta introduzione all’apocalisse incombente. Ascoltando la voce e le parole del cantante Franklin James Fisher vengono in mente tanto il Curtis Mayfield che invitava a tenersi pronti per la salvezza in People Get Ready quanto i Public Enemy, il Gil Scott-Heron di The Revolution Will Not Be Televised quanto Kendrick Lamar. Il terzo lavoro della band di Atlanta è il primo disco importante di questo nuovo decennio perché dimostra che la musica rock (intesa qui in senso lato: il suono mescola industrial e gospel, Prince e Depeche Mode, suoni sintetici e chitarre, soul e hardcore) può ancora rivendicare una dimensione politica. E che essere “politici” nel 2020 non significa scagliare slogan ormai estenuati, e neppure fare nomi e cognomi. Nei brani non viene mai nominato nessuno dei “loro” (che si tratti di Trump o del neocapitalismo spietato, sappiamo tutti come si chiamano). Molto più decisiva, tra immagini ricorrenti di “piogge di fuoco” sulle strade e di punti di rottura incipienti, è l’esortazione a rialzarsi, fare pace con le proprie umane debolezze e unirsi (“in a siren made of terror/ in a fate made of glass/ we are the blade and the groove that come together” si proclama sempre in Dispossession, così come in Hours of the Furnace, che cita un film rivoluzionario terzomondista, brilla una immagine icastica come “we all dance into the fire”). Perché non è più tempo di crogiolarsi nei dubbi, nel dolore e nel catastrofismo impotente: “If you see it coming get out/ and it’s coming around/It’s opportunity”. Abbiamo una occasione per reagire. Ma solo se riusciamo a ritrovare un “noi” in grado di contrapporsi a “loro”.

Neneh Cherry, inventare tutto trent’anni prima

Ci voleva una donna per catturare lo Zeitgeist degli anni d’oro del movimento underground a Londra. Dalle ceneri del punk la musica iniziava a essere autoprodotta con qualche synth e una batteria elettronica: Afrika Bambaataa aveva portato l’aria di Detroit e Chicago, i ritmi techno, c’era la drum’n’bass, l’acid house e i primi Dj con la tecnica scratch. Neneh è figlia d’arte: suo padre è un percussionista della Sierra Leone mentre il padre adottivo è il trombettista Don Cherry. Don la porta a New York, a Los Angeles, a Londra e Neneh respira tutto il nuovo sound cosmopolita e lo assorbe, emulando i nuovi protagonisti della scena inglese: da Bomb The Bass con Beat Dis dedicato ai graffitari e agli skaters, a S Xpress (Theme From S-Express) – una presa in giro alla ‘Disco anni settanta – e a Pump Up The Volume dei Marrs, una delle prime hit underground arrivate al numero uno della classifica inglese. Politica, diritti civili, nuovi linguaggi: Raw Like Sushi porta alla ribalta tutto ciò che transitava nella penombra o in qualche club anonimo della metropoli londinese includendo le profonde riflessioni derivate dell’indie contemporaneo rappresentato da Matt Johnson in arte The The e le contaminazioni del rap. Buffalo Stance è un proiettile sparato a velocità supersonica, capace di diventare mainstream in ogni angolo del Pianeta in un periodo nel quale non esistevano le hit globali. La canzone ha quasi un canovaccio teatrale, è la summa di quello che la strada raccontava in quegli anni con un pizzico di ironia. Neneh beneficia più di tutti dello sbarco in Europa di Mtv: Buffalo Stance finisce immediatamente nella heavy rotation della tv americana facendo conoscere al grande pubblico il linguaggio del breakbeat e getta i semi dell’odierno hip hop. Non è un caso il campionamento di Buffalo Gals dell’istrionico Malcom McLaren, l’uomo che ha lanciato i Sex Pistols. Riascoltare oggi l’intero disco significa trovare i binari del pop attuale tale è la ricchezza dei contenuti così differenti tra loro. L’album è stato rimasterizzato interamente agli studi di Abbey Road ed è pubblicato in un box e nella versione singola e contiene i remix con i produttori del tempo, in primis Arthur Baker. L’altra perla del disco è Manchild, prodotta da Robert Del Naja dei Massive Attack, con un altro video popolarissimo, portatore di uno stile innovativo. Manchild sembra profetizzare l’arrivo degli Mc e l’esplosione dell’hip hop quale fenomeno di massa e di costume (“l’aria che respiro in un pubblico che aspetta in estasi di ricevere un’altra rima”).

Nella sua carriera Neneh ha realizzato poche altre cose ma significative: la versione di I’ve Got You Under My Skin nell’album di rivisitazione di Cole Porter Red Hot + Blue e, nel 1994 – insieme al musicista senegalese Youssou N’Dour –, un altro successo planetario con 7 Seconds a cui sono seguite intriganti collaborazioni con i Gorillaz, Peter Gabriel e Four Tet.

La maschera di Federico. Così Montalbán ricordava Fellini

Dal 16 gennaio in libreria “Fellini inedito” di Jonathan Giustini: 65 foto mai pubblicate della lavorazione de “Le notti di Cabiria” e un intervento di Manuel Vázquez Montalbán. Ne pubblichiamo alcuni stralci.

Il primo film di Fellini che ho visto è stato La strada. Ricordo di aver avvertito in me una certa dualità: da una parte un distanziamento ideologico, nel senso che mi sono subito reso conto di quanto Fellini rappresentasse l’arresto del neorealismo italiano, ma nello stesso momento ho provato una forte commozione. La stessa commozione che provai più tardi, assistendo a Le notti di Cabiria. Al contrario, il simbolismo barocco de La dolce vita mi ha molto meno colpito, mi è arrivato meno potrei dire. Non è un film che amo. Per me comunque, il grande film di Fellini, il capolavoro senza filtro alcuno, rimane Otto e mezzo. Amarcord lo considero invece un po’ come il testamento di tutta la sua mitologia e simbologia. […]

Amo il Fellini del ricordo, anche se credo che il suo ricordare sia nato da una fatalità dell’età: quando un uomo arriva a cinquant’anni comincia sempre un viaggio stranissimo verso la fontana della sua vita, tanto che per spiegare a se stesso molte cose deve costruire come una collana di tutti i suoi miti, di tutti i suoi simboli. Da Otto e mezzo ad Amarcord per Fellini è stato come un processo di depurazione, ma anche una lenta riconciliazione. Otto e mezzo è un film durissimo, amaro, mentre Amarcord lo considero come l’accettazione di se stesso. […] Poi voglio accennare al Fellini dell’ultimo periodo. Ho trovato patetico Ginger e Fred. Terribile. Mi sarei sparato fossi stato lui. Ho trovato invece molto interessante L’intervista per il modo, evidente, di come un pretesto minore è stato convertito in un film. […] Ginger e Fred è come un testamento della sensibilità e della paura di morire, della possibilità di perdere la capacità di creare, in questo lo collocherei alla stessa stregua di The Dead di John Huston. Un film molto triste. La dolce vita arrivò in Spagna qualche tempo più tardi della sua uscita in Italia, dopo il caso Wilma Montesi, in cui era restato coinvolto Piero Piccioni. Noi già sapevamo troppe cose su quella storia. […] Da La dolce vita mi aspettavo una certa sincerità, un di più di sincerità; penso che sia, almeno inizialmente, un film troppo barocco, teatrale per così dire. Le sue donne enormi, eccessive, abbondanti, credo che siano una fissazione del modello di puttana degli anni ’30; sono convinto che la sua immaginazione erotica risalga proprio a quel periodo. Ne sono sicuro. La puttana è stata il simbolo dell’abbondanza per quei bambini che hanno visto la Saraghina, e questa fissazione del tipo di puttana abbondante è rimasta come un’ossessione in Fellini. Poi però succede una cosa curiosa: la figura della puttana abbondante diventa Giulietta Masina, che è invece come una piccola bimba. Ma esiste anche un terzo personaggio di donna che riscontro di frequente nei film di Fellini: la donna sentimentale ma stupida, come, per esempio, Sandra Milo in Otto e mezzo, oppure Dorian Gray ne Le notti di Cabiria. Io credo che questo tipo di personaggio sia una piccola vendetta di Fellini verso un certo tipo di donna che si incontra nel mondo del cinema. Da una parte la donna innocente, fragile, che è Cabiria, Giulietta degli spiriti, e dall’altra parte il mito della donna abbondante. In mezzo a questi estremi, l’oggetto di piacere bello ma stupido, consolatrice, se vogliamo, che è il tipo di Sandra Milo e di Dorian Gray per l’appunto. La logica interna di Fellini: il suo è un linguaggio iniziale, condizionato dai suoi miti personali, ma arriva un momento in cui comincia a indagare sui miti reali che l’hanno reso quello che è. A questo punto inizia il Fellini interessante. È una scoperta di se stesso attraverso i miti che non sono soltanto di se stesso, ma della sentimentalità di un’intera epoca. Fellini è un uomo che possiede una maniera di pensare, una logica di pensiero equivalente al collage: lui pensa attraverso un collage, attraverso un ricordo, un’impressione, una frase, una parola, un sapere concreto, e compone il suo film ad un ritmo di collage. Tutto si basa su una logica segreta. Fellini possiede un certo automatismo, ma è un automatismo controllato da una memoria, da un substrato personale insomma. Apparentemente è un fatto automatico, come per il cinema surrealista, ma non è vero nel profondo. Emerge sempre la logica interna che controlla tutto il suo mondo sotterraneo: i ricordi, la memoria, le ossessioni. La costruzione di un film, la sua stessa materializzazione, le sequenze concrete: tutto questo gli suggerisce altre storie che non sono ancora state scritte, ma che fanno parte sempre della logica interna del film. […]

Ancora un mito di Fellini, il circo. L’aspetto dell’esaltazione festiva, della partecipazione innocente con lo spettacolo, ma anche l’ambiguità terribile dei volti della gente, questo ruolo attribuito, dove tutto il mondo è sempre lo stesso, la maschera è sempre la stessa; non è come un attore che può diventare un giorno Amleto, un altro Macbeth. L’artista nel circo avrà sempre una maschera soltanto, eppure questa maschera diventerà la sua identità più chiara. Io credo che tutto ciò abbia sempre affascinato Fellini. La sua maschera è stata diventare Fellini. E così è capitato a tutti coloro che lo circondavano.

McDonalds free: l’ultima contea rimasta vergine oggi (forse) cede

Gennaio 2020, contea di Rutland, East Midlands. La più piccola d’Inghilterra, nemmeno 40 mila abitanti, e una delle più ricche. Un castello, gloria locale, e solo due cittadine. Ma oggi nel capoluogo Oakham si combatte una battaglia per l’anima della contea. A settembre, la richiesta di costruire un McDonald’s drive in, aperto 24 ore, all’ingresso della cittadina. Da allora, mesi di bufera. Perché Rutland finora ha resistito, l’unica contea rimasta in tutta l’Inghilterra senza un McDonald’s. Per la verità, malgrado l’opposizione di chi non voleva catene in nessun angolo del pittoresco villaggio di Oakham, da qualche anno sono arrivati supermercati, pub e pizzerie low cost. Ma quella contro McDonalds è la linea di resistenza estrema per un posto che va fiero dell’Hambleton Hall, ristorante con una stella Michelin dal 1982, e dei suoi gastropub, localini e negozi di delicatessen. Perché oggi il governo locale mette la scelta ai voti e lo scontro infuria. I tradizionalisti sono scandalizzati: temono che la “grande M” intacchi l’unicità dei luoghi, crei caos e sporcizia e, tragico effetto collaterale, abbassi i prezzi delle case. Altri non vedono l’ora: sono soprattutto i più giovani e i meno abbienti, che una cena ad Hambleton Hall non se la possono permettere, e invece con un McDonald’s potrebbero almeno portare fuori i bambini. È la divisione dell’Inghilterra contemporanea, uguale a quella di sempre: chi ha i soldi e può permettersi di restare nel passato contro chi, giovani e famiglie finite nei nuovi appartamenti ai margini del ridente villaggio, cerca un diversivo a poco prezzo e magari un posto di lavoro. Finora, vincono i primi: all’arrivo di McDonald’s si sono opposti in 55 su 78, nella consultazione popolare che in Gran Bretagna accompagna ogni variazione urbanistica. Si può sempre sconfinare.