Ripulito e cosciente: Assange è tornato

Quando Julian Assange arriva alla Westminster Magistrates Court, con un furgone della polizia penitenziaria che lo ha prelevato dalla prigione di massima sicurezza di Belmarsh dove è richiuso da aprile, ad accoglierlo è una piccola folla di attivisti, che dalle prime ore di un mattino gelido manifestano per la sua liberazione. È lì per l’udienza preliminare sulla richiesta di estradizione che, se concessa, potrebbe costargli 175 anni di carcere negli Stati Uniti.

Ha capelli e barba curati, occhiali leggeri, giacca scura: appare in condizioni molto migliori della volta precedente, a ottobre, quando il suo aspetto e le sue difficoltà a rispondere alle domande più semplici avevano confermato il deteriorarsi della sua salute già denunciato dai suoi legali. Parla solo per dare le proprie generalità e chiedere chiarimenti su un aspetto del procedimento. Che verte tutto, ed è clamoroso, su una possibile violazione del suo diritto alla difesa.

Lo spiega uno dei suoi legali, Gareth Pierce: “Sono qui con i miei colleghi e abbiamo moltissimo materiale da discutere con il nostro cliente. Ma dall’ultima volta che abbiamo contattato la corte, c’è stata solo una visita in carcere. Abbiamo avuto solo due ore con Assange venerdì scorso”. È una denuncia grave e non nuova: secondo i suoi legali, ad Assange non è nemmeno consentito avere accesso a documenti e incontrare i propri difensori per il tempo e nelle modalità necessarie per preparare la propria difesa da 18 capi di accusa, fra cui quella di aver cospirato con Chelsea Manning per aver accesso a materiale classificato in un computer del Pentagono: nello specifico, per hackerare una password che dava accesso a database militare e poi averne sottratto e pubblicato su Wikipedia migliaia di documenti. Una scelta che ha pagato duramente. Prima, 7 anni di asilo politico nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove le sue condizioni hanno cominciato a deteriorarsi. Poi l’arresto: di fronte alle telecamere viene portato via con la forza dalla polizia e rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, dove sconta una condanna a 50 settimane, quasi il massimo per il tipo di reato, per aver violato le condizioni della cauzione rifugiandosi in ambasciata nel 2012. In carcere, denunciano i suoi legali, è sottoposto a un regime durissimo, con solo 45 minuti d’aria. E appunto, accesso limitatissimo alle carte, tanto che a ottobre i difensori avevano chiesto un mese di tempo in più per prepararsi. Invano: il magistrato non aveva ceduto nemmeno di fronte alla rivelazione che Assange e i suoi visitatori, durante la sua permanenza in ambasciata, sarebbero stati regolarmente spiati e registrati dalla Global S.L. una società di sicurezza a libro paga dell’intelligence Usa.

Non solo: l’udienza è stata perfino anticipata di un giorno e, alle rimostranze dei legali, ieri il giudice ha concesso solo un’ora in più di colloquio fra Assange e i suoi avvocati, da tenersi in tribunale. La prossima udienza si terrà a febbraio. Ma l’attenzione mediatica sul suo caso sembra scemare, con pochissimi giornali a seguire l’udienza. A sostenerlo, appelli di giornalisti e medici e di qualche dozzina di attivisti, come quelli che ieri, salutandolo, gli hanno gridato attraverso i vetri del blindato: “Fatti forza, noi siamo con te”.

Megxit: la regina dice sì. Ora iniziano i negoziati

“Oggi la mia famiglia ha avuto una discussione molto costruttiva sul futuro di mio nipote e della sua famiglia”. Inizia così il comunicato ufficiale con cui, alle 17 locali, la Regina Elisabetta dichiara chiuso il dossier Megxit, a soli 5 giorni da quando è esploso.

Si è concluso così, all’insegna di un saggio pragmatismo, il summit di Sandrigham, riunione di emergenza convocata da Elisabetta per disinnescare la bomba mettendo intorno a un tavolo Carlo, primogenito ed erede, William, nipote responsabile che studia da re e Harry, lo scavezzacollo che con la moglie Meghan ha deciso di squagliarsela, creare una corte alternativa fra il Regno e il Nord America e mettere i suoi di fronte al fatto compiuto.

Secondo il Times, a Elisabetta sono bastati 90 minuti di riunione per chiudere la scomoda pratica. Dio salvi la Regina. “Io e la mia famiglia sosteniamo totalmente il desiderio di Harry e Meghan di farsi una nuova vita. Anche se avremmo preferito che restassero membri a tempo pieno della famiglia reale, rispettiamo e comprendiamo che vogliano vivere una vita più indipendente, per restando componenti apprezzati della mia famiglia. È stato quindi concordato che ci sarà un periodo di transizione in cui i Sussex passeranno del tempo in Canada e nel Regno Unito”. Fino alla vigilia si era temuto il peggio, specie dopo che Tom Bradby, giornalista televisivo e intimo amico di Harry e William, aveva fatto trapelare che, se contrastati nei loro piani, Harry e Meghan sarebbero stati pronti alla guerra, nelle forme contemporanee di una intervista senza censure a un network americano sui veri motivi della rottura. Pericolo scampato. Anche se, ha aggiunto la Regina, c’è ancora del lavoro da fare.

Il diavolo è nei dettagli: “Harry e Meghan hanno chiarito di non volere dipendere da fondi pubblici”. Non è chiaro se questo significhi che rinunceranno ai milioni di appannaggio reale, soldi tecnicamente non pubblici ma di proprietà della Corona, o alle 600 mila sterline annuali delle misure di sicurezza, quelle sì pagate dai contribuenti. Ma, visto che il mantenimento del titolo non sembra in discussione e che i Sussex hanno già depositato il marchio collegato, le occasioni di ottenere la tanto desiderata indipendenza economica non mancano: dallo sfruttamento del merchandising, a interviste, libri, partecipazioni pagate ad eventi. Tutto, sperano i sudditi scandalizzati, a fine di beneficenza, come la prima uscita di Meghan, che già mesi fa, raccomandata da Harry direttamente al capo della Disney Bob Iger, ha ottenuto di debuttare nel doppiaggio hollywoodiano al modico cachet di 100 mila dollari, subito devoluti a una charity contro l’estinzione degli elefanti. Tuto risolto, o quasi. C’è sempre la possibilità di sorprese, e comunque restano profonde fratture nel rapporto fra Harry e il resto della famiglia, con Carlo furibondo e William, che, amareggiato dal voltafaccia del fratello, avrebbe rivelato a un amico, così fidato da riferire tutto al Times: “Ho sostenuto mio fratello per tutta la vita e non posso più farlo: siamo entità separate”. Nell’articolo si parlava di atteggiamento “da bullo” di William verso Meghan e Harry.

Ricostruzione negata dai fratelli, che in un comunicato congiunto ieri hanno definito la storia “falsa”, aggiungendo che, per fratelli così attenti a questioni di salute mentale, l’uso di linguaggio infiammatorio è offensivo e potenzialmente pericoloso.

Un labirinto di accuse e contro-accuse. Per fortuna c’è Elisabetta, che a 93 anni non perde mai di vista il compito più importante: proteggere la monarchia da se stessa. Che i Sussex vadano dove vogliono, purché abbastanza lontani da non fare altri danni.

Iran: “Proteste dirette dai terroristi americani”

Terzo giorno di proteste antigovernative in Iran, nonostante le misure di sicurezza messe in atto dalle autorità per impedirle o, almeno, circoscriverle. Le manifestazioni, che avevano già traversato il Paese a novembre, nonostante la sanguinosa repressione, sono riprese sabato scorso, dopo che Teheran ha ammesso di aver abbattuto per errore il Boeing ucraino. Ieri, a radunarsi per protestare sono stati gli studenti delle università Sharif e Alzahra di Teheran e dell’università industriale di Isfahan. “Hanno ucciso le nostre élite, hanno messo al loro posto dei religiosi”, scandivano i dimostranti, riferendosi ai numerosi accademici vittime del disastro aereo.

Il regime accusa i nemici esterni di fomentare le proteste interne e nega di avere usato violenza contro i manifestanti e di avere fatto sparare su di essi. Ebrahim Raisi, capo della magistratura, afferma: “Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e alcuni altri Paesi stranieri cercano di cavalcare l’onda e di manipolare le manifestazioni contro l’abbattimento accidentale dell’aereo ucraino”. Raisi aggiunge che le forze di sicurezza si opporranno ai tentativi di manipolazione attuati da “mercenari” di Paesi stranieri. Nello stesso senso, va la legge approvata la scorsa settimana dal Parlamento iraniano e promulgata ieri dal presidente Hassan Rohani che cataloga come “terroristi” i militari Usa e il Pentagono, dopo che Washington aveva definito “organizzazione terroristica” le Guardie della rivoluzione islamica. La mozione, che ha già superato la verifica di costituzionalità, era stata varata all’unanimità dopo l’uccisione del generale Qassem Soleimani.

La dinamica innescata dal riconoscimento dell’errore fatto abbattendo l’aereo di linea ucraino trova echi favorevoli negli Stati Uniti, dove il presidente Donald Trump rinnova il monito a non uccidere “i vostri manifestanti”, mentre palesa disinteresse per un eventuali negoziato. “Sanzioni e proteste – dice – soffocano l’Iran e lo costringeranno a negoziare. Ma non me ne potrebbe importare di meno se negoziano. Dipenderà totalmente da loro, non avranno mai l’arma nucleare”.

Commentando la disponibilità a negoziare dichiarata da Trump, fonti di Teheran notano che l’Iran non si fida di avere colloqui con Trump: “Non siamo noi ad avere lasciato l’accordo sul nucleare, ma gli americani”, ricordano.

Dopo l’abbattimento del Boeing, l’Iran continua ad apparire sulla difensiva, tranne che sul fronte della repressione delle proteste. Ali Rabiei, portavoce del governo, nega che la vicenda sia stata “insabbiata” e promette “trasparenza fino in fondo” nell’accertamento delle responsabilità.

Ma Rabiei nota: “L’abbattimento dell’aereo ucraino ha le sue radici nella vile uccisione da parte Usa di Soleimani, che ha diffuso l’ombra della guerra sull’Iran e imposto un grave stress psicologico. E ora vediamo lacrime di coccodrillo di Trump, che sostiene di essere dalla parte del popolo iraniano. Chi ha negato l’attacco missilistico non era informato dei fatti: non è che volesse mentire o nascondere intenzionalmente la verità … Ora dobbiamo recuperare la fiducia popolare”.

Media Usa scrivono che Trump autorizzò l’uccisione di Soleimani sette mesi fa, subordinando però l’ok al caso in cui le milizie iraniane avessero provocato la morte di un americano – cosa avvenuta il 27 dicembre, con l’uccisione di un ‘contractor’ –. Se le indiscrezioni sono accurate, la versione della Casa Bianca, secondo cui Soleimani sarebbe stato eliminato perché preparava un attacco, farebbe acqua. Anche il segretario alla Difesa Mark Esper, del resto, ha detto di non avere visto informazioni d’intelligence che avallino la tesi di un imminente attacco a quattro ambasciate.

Il governo britannico ha convocato al Foreign Office l’ambasciatore iraniano a Londra, contestando l’arresto avvenuto sabato dell’ambasciatore britannico a Teheran Rob Macaire, che si sarebbe unito ai manifestanti – circostanza che il diplomatico, rilasciato appena identificato, nega –. Il Regno Unito pensa d’assistere i familiari delle vittime del Boeing ucraino, su cui c’erano pure cittadini britannici, nel cercare di ottenere un risarcimento dei danni dalle autorità di Teheran.

Il Parlamento europeo ha ieri osservato un minuto di silenzio in memoria delle vittime. Una giornata di lutto europea è stata indetta per giovedì 16 gennaio.

Gli ostacoli di Berlino: da Macron alla Grecia

Potrebbe essere il 19 gennaio, ma una conferma ufficiale per la conferenza di Berlino sulla Libia ancora non c’è. Il portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert, in conferenza stampa ieri ha detto che “sono in corso i preparativi per la conferenza che dovrebbe avere luogo qui a Berlino entro gennaio”. Ma poi non ha smentito, né avrebbe potuto, la notizia rilanciata dalla Cnn in Turchia secondo la quale il presidente turco Recep Tayyp Erdogan sarà a Berlino domenica prossima 19 gennaio per partecipare alla conferenza sulla Libia. Fonti diplomatiche italiane a Berlino confermano “l’alta possibilità di un incontro questo fine settimana” specificando però che “ancora non è arrivato alcun invito ufficiale”. “Li stanno tutti tirando tutti per la giacchetta”, si sente dire in ambiente diplomatico. In effetti l’estremo riserbo sulla data non è altro che lo specchio di un atteggiamento di grande cautela della diplomazia tedesca sul dossier libico. La cancelliera Angela Merkel, dopo 14 anni alla guida del suo Paese, non ha certo bisogno dell’ennesima ribalta internazionale o di una photo opportunity. Vuole un risultato duraturo. E finché non ci sarà la possibilità concreta di raggiungere un accordo di compromesso, meglio tenersi le mani libere. Le difficoltà politiche maggiori sono al momento in corso di ricomposizione dopo il l’incontro di Merkel con il presidente russo Vladimir Putin sabato a Mosca, il colloquio telefonico con il premier turco Erdogan e la più recente telefonata con il presidente americano Donald Trump. I grandi attori esterni del conflitto libico sostengono la “soluzione politica” che sarà affrontata alla conferenza di Berlino. Ancora aperta resta invece la questione dell’allineamento politico tra Parigi e la capitale tedesca.

Il tentativo sembra essere quello di voler fare da ago della bilancia. A domanda diretta, se la Germania sostenga o meno la proposta di un inviato speciale Ue, questione cara all’Italia, la portavoce degli Esteri ha risposto in conferenza stampa senza prendere posizione, per non scontentare nessuno, né Francia né Italia. “Lasciateci percorrere prima questa strada” con la conferenza a guida Onu, a sostegno dell’inviato speciale Ghassam Salamé (che alcuni vorrebbero vicino all’Eliseo) poi si vedrà, ha specificato la portavoce. L’equilibrismo politico di Berlino si esercita anche nello stilare la lista dei partecipanti alla conferenza. Anche su questo punto, la diplomazia tedesca ha mantenuto finora il più assoluto riserbo. Ma sullo sfondo inizia ad emergere una “questione greca”. Atene vuole essere della partita e chiede di partecipare alla conferenza di Berlino, soprattutto alla luce dei recenti accordi sui confini delle acque territoriali nel Mediterraneo tra il governo turco e il governo di accordo nazionale libico guidato da Fayez al-Serraj. Ma questa richiesta pone a Berlino due ordini di problemi: il primo è che Erdogan non vuole i greci al tavolo delle trattative per la stessa ragione per cui loro vogliono esserci, e il secondo è l’effetto domino che la partecipazione greca potrebbe innescare. Se si aprono le porte ad Atene, come giustificare di tenerle chiuse ad altri Paesi come Tunisia e Algeria? Per la prima volta ieri il portavoce della cancelliera ha reso noto che il “processo di consultazione” avviato da Berlino coinvolge anche la Cina oltre a Usa, Gran Bretagna, Francia e Russia, insieme con Italia, Emirati Arabi, Egitto, Turchia, Onu, Ue, Lega araba e Unione africana.

Ad oggi, tuttavia, non è ancora chiaro se alla conferenza parteciperanno anche il presidente Usa Donald Trump e il capo di Stato cinese Xi Jinping. Resta il fatto che più la conferenza si avvicina, più le ambizioni politiche si ridimensionano. Nella conferenza di chiusura del G7 di Biarritz, lo scorso agosto, la cancelliera auspicava una conferenza sulla Libia che procedesse da un cessate il fuoco a una tregua, con la prospettiva di una soluzione stabile. Oggi Steffen Seibert, portavoce del governo, ha sottolineato che la conferenza di Berlino “è solo il preludio di un processo più lungo”, poco più di un calcio di inizio.

Haftar resiste anche a Putin: la tregua per ora è solo a metà

La notizia più evidente nella complessa questione libica è che non esistono soluzioni facili. Ieri a Mosca nemmeno la forza morale del Cremlino e la forte vicinanza tra la Russia e la Libia di Khalifa Haftar ha convinto il generale a mettere la firma sull’accordo di tregua che invece il rivale Fayez al Serraj, capo del governo di Tripoli, ha avallato.

Il vertice a Mosca. Non è solo l’Italia, quindi, a non essere in grado di produrre risultati apprezzabili nel conflitto, ma la sua complessità mette in difficoltà anche diplomazie più sperimentate. Nei giorni scorsi sono state scritte intere pagine per esaltare le capacità del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, il quale però ieri pomeriggio ha dovuto prendere atto di quello che i giornali di Bengasi chiamano “il fallimento” della pace. I due contendenti non hanno mai voluto incontrarsi, ognuno ha trattato solo con il proprio “tutor”: la Russia rappresentata dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov e la Turchia rappresentata dal ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu. Non è un caso che l’accordo preveda un “supporto turco-russo” al processo di pacificazione oltre al “dialogo intra-libico”.

Il testo proposto alla firma di Serraj, Haftar, del presidente della Camera dei rappresentanti Aguila Saleh, del presidente dell’Alto consiglio di Stato Khalid El-Mishri e del presidente della Camera dei rappresentanti di Tripoli Sadiq el Khaliy, prevede “l’osservanza incondizionata della cessazione delle ostilità”, di determinare “una linea del fronte” che assicuri un cessate il fuoco sostenibile, di assicurare “l’accesso sicuro, la consegna e la distribuzione di assistenza umanitaria”, di definire una commissione militare di “5+5 membri” di entrambe le parti per determinare la linea del fronte e monitorare l’attuazione del cessate il fuoco, di formare “gruppi di lavoro” per elaborare le modalità dell’accordo politico “intra-libico”, con una data del loro incontro da definire.

Le parti hanno poi espresso sostegno all’iniziativa della Federazione russa e della Repubblica turca per una cessazione delle ostilità in Libia. Nessun riferimento concreto agli aspetti economici, anche se la gestione delle riserve petrolifere e soprattutto il modo in cui vengono spese dalla Banca centrale libica, è un nodo decisivo.

Proprio pochi giorni fa, la National Oil Corporation (Noc), l’ente che ha il monopolio legale del commercio di petrolio, i cui ricavati vengono versati alla Banca centrale gestita da Tripoli, ha indicato in 20,3 miliardi di dollari le entrate fino a novembre con una produzione di petrolio e gas costanti a 1,23 milioni di barili al giorno a novembre.

Il ruolo turco. Haftar si è preso un giorno per decidere se firmare e infatti è rimasto a Mosca. Probabilmente discuterà ancora con la Russia ulteriori garanzie che quasi sicuramente arriveranno. Il generale libico sembra quello con più carte da giocare, con più alleati (la Russia, il decisivo appoggio del vicino Egitto oltre che Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti, la Francia), mentre al Serraj ha deciso di gettarsi nel rapporto privilegiato con la Turchia dopo il raffreddamento dei rapporti con Usa e Italia. E Istanbul, inviando alcune decine di militari, si è guadagnata un ruolo di primo piano che fino a poco tempo fa le era precluso.

Il ruolo italiano. Per quanto riguarda Roma, invece, la giornata ha offerto l’occasione per andare a vedere le carte di Istanbul e anche di riallacciare i rapporti con la Turchia di Erdogan. Vertice positivo, secondo Palazzo Chigi, in cui Giuseppe Conte ha però voluto ribadire l’importanza che il processo di pace “appartenga ai libici” con una posizione che scommette su un cessate il fuoco che sia duraturo e di lungo periodo. Nessuna critica ai russi o ai turchi, ma l’Italia che non ha forze militari sul campo – per una precisa scelta politica presa da tempo e che oggi per la prima volta viene ridiscussa, sia pure con molta cautela – lavora sul versante nordafricano, invitando i libici a guardarsi “da ingerenze esterne” come ripete Conte e puntando ad avere nel processo di pace “tutti i paesi limitrofi della Libia”, come sta cercando di fare Luigi Di Maio con il suo tour nordafricano (ieri è stato a Tunisi dopo essere stato in Algeria). Conte, invece, al Cairo oggi vedrà al Sisi, altro uomo-chiave della partita – il confine con l’est libico permette all’Egitto di essere una retrovia per Lna, l’esercito di Haftar.

I fronti si moltiplicano, le strategie si sovrappongono e nel Mediterraneo si realizza un piccolo “grande gioco” diplomatico in cui una parte è rivestita anche da Usa e Germania, che ieri hanno reso noto un colloquio tra Donald Trump e Angela Merkel sulla sicurezza in Medioriente e Libia.

Modì, il centenario rimane senza francobollo

La “maledizione di Modigliani” continua. Livorno è di nuovo teatro di beffe, come già durante il centenario della nascita, nel 1984, col caso delle finte sculture. Il 24 gennaio, fra pochi giorni, ricorrerà il centenario della morte e per celebrare il genio artistico di Amedeo Modigliani non ci sarà la festa di un francobollo delle Poste, come comunicato nelle scorse ore anche al Comune di Livorno dal Ministero dello Sviluppo economico.

D’altra parte avrebbe rischiato di essere una patacca, perché raffigurante la fotografia di una fotografia a un’opera di dubbia attribuzione presente in una collezione privata non meglio precisata. La mancata celebrazione di una probabile patacca, con cerimonia di annullo filatelico che avrebbe dovuto tenersi proprio il 24 gennaio è rinviata sine die per merito del duo Dania Mondini, giornalista Rai del Tg1 e di Claudio Loiodice, ex ispettore di polizia, autori del libro-inchiesta L’affare Modigliani edito da Chiarelettere. Sono loro, come già raccontato su queste colonne il 27 dicembre scorso, a porre il problema scrivendo una lettera al Ministero dello Sviluppo economico. “Siamo stati informati – scrissero Mondini e Loiodice – che le Poste italiane avrebbero assegnato direttamente l’incarico di realizzare un francobollo commemorativo alla cosiddetta Fondazione Modigliani di Vietri sul Mare (Salerno), nata nel marzo 2018, nonché di organizzare e partecipare alla cerimonia di annullo filatelico il 24 gennaio 2020”. Pochi giorni fa, datata 8 gennaio, la risposta ai due del capo di gabinetto Vito Cozzolini con cui il Ministero nell’incertezza si toglie da ogni impiccio: “Per questa amministrazione non esiste alcuna cerimonia di annullo filatelico”. E non manca la presa di distanza da Vietri sul Mare: “L’amministrazione – scrive Cozzolini – non ha avuto alcun rapporto con la Fondazione Modigliani di Vietri sul Mare, né consta che contatti siano intercorsi tra detta Fondazione e Istituto poligrafico e Zecca dello Stato Spa, che invero per l’ideazione e la realizzazione del bozzetto riferisce di essersi avvalsa di un primario archivio fotografico privato”.

“Il prof promuove la sua allieva”. Il caso in Procura

Il nome ricorre persino nel curriculum, lunghissimo, del docente. Alla voce “Recensioni, prefazioni e postfazioni” si legge due volte “R. Castorina”, dove la “R.” sta per Rosanna. Assegnista di ricerca dell’università di Urbino, da anni collabora con Luigi Alfieri, ordinario di Filosofia politica, e a fine 2019 ha vinto un concorso da ricercatore a tempo determinato. La commissione esaminatrice era presieduta dallo stesso Alfieri. Una vicinanza che nei corridoi di via Aurelio Saffi ha suscitato diversi dubbi, che ora si sono consolidati in un ricorso al Tar e in un esposto in Procura presentati da Paolo Ercolani, noto saggista e docente a contratto nello stesso ateneo. Entrambi hanno l’abilitazione a professore di seconda fascia di Filosofia politica, la materia del concorso; lei dal 2014, lui dal 2017 e ne ha un’altra in Filosofia morale.

Il bando dell’ultimo concorso universitario finito sulla scrivania di un pubblico ministero è del 23 maggio 2019. Quel giorno l’Università “Carlo Bo” avvia la selezione di un ricercatore cui proporre un contratto di tre anni nella facoltà di Filosofia politica. Si presentano in cinque. Siciliana, classe 1982, laureata in Sociologia, Castorina nel 2011 consegue in dottorato in “Filosofia delle scienze sociali e comunicazione simbolica” all’università dell’Insubria. A vegliare sul suo lavoro è Luigi Alfieri, definito sul sito dell’ateneo “tutor non afferente all’Università”. Quell’anno il prof firma la prefazione di un libro dell’allieva (“Governare l’in-umano. Miti e politiche della razza, biopotere, eugenetica”, Aras Edizioni) e un’altra la verga nel 2013 per il volume “Paradossi della fragilità. Critica della normalizzazione sociale tra neuroscienze e filosofia politica” (Mimesis). Alfieri apprezza i due lavori al punto che non solo li cita nella propria biografia, ma li adotta come testi nel corso di “Gestione delle Politiche, dei Servizi Sociali e della Mediazione Interculturale” a Urbino.

Dall’ottobre 2015 “ad oggi” Castorina ha fatto parte “del gruppo di ricerca ‘Potere, istituzioni e forme di controllo sociale’”, il cui responsabile è il prof. Lo stesso Alfieri, poi, per Aracne Editrice è il direttore della collana “Il cuore nero”, nel cui comitato scientifico siede l’allieva. L’ultimo numero della rivista è del maggio 2019, il mese in cui parte il concorso.

Castorina presenta la candidatura il 4 luglio e il 24 ottobre la commissione presieduta da Alfieri la dichiara vincitrice con 42 punti contro i 32,5 di Ercolani, secondo, e i 27,5 del terzo classificato. Dieci punti di distacco sul filosofo romano, che a Urbino ha insegnato per 15 anni consecutivi, collabora con diverse testate ed è autore di saggi pubblicati da case editrici nazionali come Marsilio, con cui ha pubblicato “Contro le donne. Storia e critica del più antico pregiudizio” (2016) e “Figli di un io minore. Dalla società aperta alla società ottusa” (2019).

La decisione è presa, nonostante il prof e la ricercatrice collaborino da tempo. Nel curriculum, ad esempio, Castorina si definisce “cultore della materia presso la cattedra di Filosofia politica” di Urbino e annovera tra il 5 maggio e il 4 giugno 2014 e tra il 1° e il 31 marzo 2015 un “incarico di supporto alla didattica” nel corso di Alfieri. Quella che una volta si chiamava assistente.

“La figura dell’assistente non esiste più da decenni – replica Alfieri al Fatto –. La Castorina è stata titolare di un contratto integrativo con me per due volte. Punto. Significa che ha tenuto alcune ore di lezione”. Non è un lavoro? “Io non sono il suo datore di lavoro – prosegue il docente –. Si chiama collaborazione didattica. C’è stata con lei come con decine di altre persone in 40 anni”. Il problema è che l’allieva si è candidata e il prof era presidente della commissione che poi l’ha scelta: “Non c’è una legge che lo vieta”.

Non c’è solo questo. Secondo l’autore dell’esposto, tra le 12 pubblicazioni sottoposte alla commissione Castorina ne avrebbe presentata una dal titolo “Il paradigma biopolitico e le prospettive ermeneutiche” (Argalia Editore), che non ancora andata in stampa ed era priva del codice Isbn e di deposito legale, adempimenti previsti dalla legge perché un lavoro editoriale possa essere accettato in un concorso pubblico.

Mani Pulite un complotto degli Usa? Ho partecipato

Confesso. Anch’io ho fatto parte del Grande Complotto degli Stati Uniti, dunque della Cia, per sovvertire l’ordine costituzionale, uccidere la Prima Repubblica, punire ed esiliare Bettino Craxi. Ho dato anch’io il mio contributo al Complotto, nel 1992, presentandomi più volte al consolato Usa di Milano. A vent’anni dalla morte del leader socialista, devo raccontare la verità. È tornato di moda spiegare Mani Pulite come complotto americano. Ha (ri)cominciato Bobo Craxi, dichiarando a Repubblica: “Alla fine della Guerra fredda bisognava ristabilire un nuovo ordine, in economia e in politica. E siccome non erano più tempi di golpismo militare, si scelse l’arma del golpismo giudiziario. L’ordine, se così si può dire, venne da chi aveva vinto la Guerra fredda, dagli americani”. Aggiunge Marcello Sorgi, nel suo ultimo libro, Presunto colpevole: “Che qualcosa ci sia stato, e il lavoro dei pm di Mani Pulite abbia potuto essere monitorato dall’occhio attento degli osservatori Usa, questo è sicuro”. Ma monitorato o teleguidato? La seconda, rispondono i craxisti ortodossi, che indicano come pupari il console generale Usa a Milano Peter Semler e l’ambasciatore a Roma Peter Secchia.

Lo suggerisce anche una scena del film di Gianni Amelio, Hammamet: quella in cui il nipotino di Craxi gioca sulla spiaggia e ricostruisce la scena di Sigonella con i soldatini americani che circondano un aeroplanino e i carabinieri italiani che circondano gli americani. Mani Pulite come punizione degli Usa per lo sgarbo di Sigonella. Ebbene, perdonerete il cronista che parla in prima persona, ma le confessioni si possono fare solo così. Io, dunque, nel 1992 in cui Mani Pulite iniziò, fui chiamato al consolato americano di Milano e “intervistato” dai funzionari Usa. Allora ero un giovane giornalista appena assunto al settimanale della Rizzoli Il Mondo e avevo da poco pubblicato, nel 1991, il mio primo libro, Milano degli scandali, scritto con Elio Veltri, edito da Laterza e con prefazione di Stefano Rodotà. In quelle pagine erano raccontate storie di corruzione della “Milano da bere” e delineato il sistema che sarà da lì a poco chiamato Tangentopoli. Negli anni precedenti avevo contribuito a fondare il mensile Società civile, voce dell’omonimo circolo milanese fondato nel 1985 da Nando dalla Chiesa, che quel sistema raccontava da anni. Proprio su questi temi – la corruzione, il sistema dei partiti, il circolo Società civile, la nascita di Mani pulite – fui “intervistato” dal console, dopo essere stato contattato da Giuseppe Borgioli, che lavorava per il consolato e che mi spiegò che quello delle “interviste” era un metodo normalmente usato dalla diplomazia Usa per raccogliere opinioni sulla vita politica e culturale del Paese. In maniera trasparente, senza le buste gonfie di dollari che Giuliano Ferrara racconta di aver ricevuto dalla Cia. Poi mi fu proposto di partecipare ai viaggi di studio negli Stati Uniti organizzati dall’Usis (United States Information Office). Nulla di segreto: partì, nell’ottobre 1992, un gruppo di persone tra cui il sociologo Nando dalla Chiesa, il magistrato Antonio Di Pietro e il suo più stretto collaboratore, il capitano dei carabinieri Roberto Zuliani. Visite e incontri istituzionali tra Washington e New York, Miami e Los Angeles. Per me la proposta del viaggio cadde, forse perché il mio secondo libro, Il grande vecchio, raccontava le stragi italiane sottolineando il ruolo degli Usa nella strategia della tensione.

Complotto, dunque? Piuttosto, legittimo monitoraggio di un fenomeno che stava cambiando la società italiana. Per aver visto da vicino com’è nata, so che Mani Pulite è stata un’indagine giudiziaria avviata dopo innumerevoli tentativi dei magistrati italiani di perseguire, com’è loro dovere, la corruzione politica. Ci avevano provato più volte negli anni precedenti, ma erano sempre stati fermati, perché il sistema politico era forte e riusciva a controllare anche pezzi del sistema giudiziario. Nel mondo diviso in blocchi, il sistema dei partiti organizzato attorno alla Dc era improcessabile per motivi geopolitici. Nel 1992 saltano i tappi. La Guerra fredda è finita, il blocco sovietico è imploso e gli Stati Uniti, che dal dopoguerra avevano sempre controllato, in nome dell’anticomunismo, il nostro Paese, osservano ciò che succede, forse cercano anche di condizionarlo, ma lasciano sostanzialmente l’Italia al suo destino. A determinare la fine di Craxi e degli altri leader della Prima Repubblica non è stata, dunque, la Cia, ma la loro voracità. La linea 3 della metropolitana milanese costa 192 miliardi di lire al chilometro, contro i 45 della metropolitana di Amburgo. Il passante ferroviario di Milano costa 100 miliardi a chilometro, quello di Zurigo 50. L’ampliamento dello stadio di San Siro costa oltre 180 miliardi, quello di Barcellona 45. Complotto della Cia?

Alcune personalità Usa, semmai, sembrano remare contro Mani Pulite, usando gli stessi argomenti dei craxisti. “I magistrati di Milano hanno violato sistematicamente i diritti di difesa degli imputati”, dichiarò a Maurizio Molinari della Stampa l’ambasciatore Reginald Bartholomew, successore di Peter Secchia. Gli rispose l’ex procuratore Francesco Saverio Borrelli: “Se ci sono prassi poliziesche o carcerarie contrarie ai diritti dell’uomo sono proprio certe prassi seguite negli Usa”. Prima, nella primavera 1992, un avvocato, Franco Sotgiu, e un imprenditore già arrestato per tangenti negli anni Ottanta, Bruno De Mico, avevano tentato di avviare una nebulosa trattativa con il pool Mani pulite, evocando ombre americane e promettendo la consegna di uno dei cassieri di Craxi, il latitante Silvano Larini. Piercamillo Davigo e Borrelli sentono odor di bruciato, rifiutano l’offerta e informano il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro. Fine della storia. Ma tutto torna buono, vent’anni dopo, nel tentativo di riabilitare, anzi santificare, il latitante di Hammamet.

Don Matteo, Maria e il miracolo degli ascolti

Chi non crede ai miracoli accenda la Tv. Da una parte c’è The New Pope, il Papa beaujolais di Sorrentino, che di pontefici ne fa fuori due o tre a serie; dall’altra c’è il Don Matteo di Terence Hill; a ottant’anni suonati se ne va tranquillo in bicicletta, acchiappa al volo i colpevoli e se avanza un po’ di tempo li redime. Prodotto di dichiarata medietà nella concezione e nella confezione, commedia all’italiana in modalità oratorio, ma appunto per questo capace alla ventesima stagione di moltiplicare i pani e gli ascoltatori (più di sette milioni di record assoluto, chissà tra altri vent’anni).

Da una parte c’è Don Matteo, dall’altra c’è Maria De Filippi, anche lei fa la grazia, basta scriverle una lettera come a Babbo Natale, grazie a un altro programma dagli ascolti portentosi, nato vent’anni fa come Don Matteo. C’è posta per te, Amici, Uomini e donne: l’Italia di Maria è un welfare perfetto, un reddito di cittadinanza televisiva aperto a tutti. Maurizio Costanzo ha tracciato il solco, lei lo ha trasformato in un Campo dei Miracoli. Prima gli sconosciuti aspiravano a diventare famosi, e ogni sera il Teatro Parioli ha funzionato meglio della teca del sangue di San Gennaro; ora la gente comune spera nell’apparizione del Vip, e Maria celebra l’unione mistica. Il re magio Johnny Depp non è lì per sé, né per Maria. È lì per fare un regalo ai miracolati di turno: oro, incenso e share. Medjugorje è per Brosio e per Tiziano Renzi; per tutti gli altri c’è la posta di Maria.

Mail Box

 

Libia, lo scontro religioso per il potere sull’Islam sunnita

Gentile redazione, la guerra civile in Libia è una lotta di potere per chi controlla Tripoli e cura i propri interessi sulle rotte dei profughi e del terrorismo che solcano la nostra penisola. L’accordo di Istanbul sul cessate il fuoco tra Putin ed Erdogan ha evidenziato l’interesse di Mosca e Ankara di insediarsi da protagonisti nel Mediterraneo: strategie geopolitiche tra Europa e Africa. Sarraj può contare sulle armi militari della Turchia; sul fronte opposto, i contributi bellici vengono dagli Emirati Arabi e dall’Egitto. Questo a spiegare come l’arrivo di soldati turchi in Tripolitania, insieme ai contingenti egiziani in Cirenaica, trasformi la Libia nel primo fronte di scontro fra i due schieramenti in lotta per detenere il potere dell’Islam sunnita: da una parte, Turchia-Qatar; dall’altra, Emirati-Egitto-Arabia Saudita. Lo scontro quindi non è solo di potere, ma anche di religione. Ci si chiede cosa succederà se i tre leader sunniti alleati di Abdel Fattah al Sisi, Sheik Moammed e Mohammed bin Salman non decidessero di accettare alcun compromesso con Erdogan né in Libia né altrove.

Ines Di Gregorio

 

L’amore per la giustizia non c’entra con le manette

Caro direttore, il suo editoriale su Craxi “Riposi in pace, amen” mi ha fatto inspirare un soffio di aria fresca e pulita. Ho qualche anno in più per ricordare i tragicomici personaggi che gravitavano nell’area craxiana e che facevano il bello e soprattutto il cattivo tempo. Voi li avete ricordati in modo inappuntabile, dimostrando una volta di più di essere dei fuoriclasse del giornalismo. E a quelli che vi chiamano “manettari giustizialisti” io più semplicemente direi che si tratta di amore per la giustizia.

Filippo Garofalo

 

La vera ecologia è la famiglia: prima difendiamo l’Uomo

Gentile direttore, in un’intervista al sito cattolico online La Nuova Bussola Quotidiana, il presidente Istat Giancarlo Blanciardo ha detto che, per combattere la piaga della denatalità in Italia, non basta un bonus del governo, ma un fisco amico per le famiglie. Ha anche aggiunto: “Per l’ambiente tutti sono disposti a fare sacrifici, ma per la famiglia?”. Parliamo tanto di ecologia e difesa dell’ambiente. Tuttavia è lecito chiederci: qual è il primo fondamento del Creato? L’Uomo. Perciò ha senso preservare il mondo e il Creato da agenti inquinanti che mettono a repentaglio la specie, ma il primo e vero grande pericolo è quello della denatalità. Ecco perché è urgente invertire la rotta e favorire al più presto un’ecologia integrale dell’uomo che sappia rivalutare la sacralità della vita umana. In poche parole non ha significato compiuto lanciare campagne a protezione del Creato, se non proteggiamo chi ne è il vero destinatario: l’Uomo. Tuttavia, tutta la politica, nessuno escluso, negli ultimi anni, ha dedicato poca attenzione alla famiglia e soprattutto alla promozione della vita. Non servono interventi a pioggia od occasionali, bensì riforme strutturali come un fisco amico in base al quoziente e numero di persone, reddito per le mamme, maggior accessibilità agli asili nido. E naturalmente favorire lavoro e occupazione, specie al Sud. È uno scandalo che un evento lieto come la gravidanza spesso sia visto con preoccupazione, perché non si hanno mezzi economici o un lavoro degno e stabile.

Sen. Domenico Scilipoti Isgrò

 

Gare d’appalto telematiche: poca trasparenza e controllo

Gentile dottor Travaglio, vorrei sottoporle un aspetto della norma del codice degli appalti con cui il legislatore pensava di risolvere problemi di trasparenza e corruzione, obbligando la Pubblica amministrazione a utilizzare le piattaforme telematiche per le gare d’appalto. A mio avviso, seguendo alcune procedure di gara, mi sembra che le cose siano peggiorate, nel senso che le imprese, anche se abilitate ad accedere alla piattaforma, non possono verificare la correttezza e la validità dei file inseriti dalle altre imprese partecipanti. Per quanto concerne il cittadino – contribuente e finanziatore unico dei lavori pubblici – viene totalmente escluso dalla procedura telematica di verifica. Le stazioni appaltanti hanno interpretato la norma attuale annullando la sdeduta pubblica della gara a cui il cittadino poteva partecipare e quindi esercitare un minimo di controllo.

Giuliana Di Veroli

 

Razzismo, la peggio gioventù cresciuta a slogan salviniani

Ho visto una replica di Report e ho avuto la conferma che siamo un popolino allo sbando. Mentre noi facciamo vivere gli immigrati da clandestini – in mano a mafie e imprenditori che basano il loro lavoro sullo sfruttamento di questi disgraziati, facendoli lavorare in nero e sottopagandoli –, in Canada vengono accolti e aiutati in tutti i modi per inserirli nella società, insegnando loro la lingua, ad aprire un conto in banca e tutto quello di cui hanno bisogno. In trasmissione hanno anche invitato una coppia mista: lei italiana e lui creolo, che vive in Italia da quando aveva 9 anni, ha l’accento romagnolo più accentuato della Borgonzoni e, sono sicuro, non confonde Ferrara con Bologna. I figli di questi signori stanno subendo offese razziste a scuola dai loro coetanei… Questa è la nostra meglio gioventù che cresce grazie a Salvini e alle sue politiche “Prima gli italiani”.

Mario Biagi