Oscar “Joker” sbanca le nomination (11) e minoranze escluse: è la solita Academy

 

Gentile redazione, sono uscite finalmente le candidature agli Oscar, che certificano – ancora una volta, mi sembra – il conformismo americano: “Joker” di Todd Phillips è un buon film, per quanto sempliciotto nell’immaginario e nella morale (ahinoi); di certo non vale le undici nomination di ieri. Altro dettaglio stupefacente, ma cronico, è l’assenza di donne registe: a Hollywood sono tutti bravi a difendere le “minoranze” sulla carta, ma poi concretamente nulla si muove.

Giada Benini

 

Gentile Giada, forse “Joker” non le vale, ma le merita il suo protagonista, Joaquin Phoenix: vincerà, con ogni probabilità, la statuetta, e le restanti dieci nomination vanno considerate “d’accompagno”. Stride su tutte quella per la regia di Todd Phillips, ma detto che candidature e palmarès (cerimonia il 9 febbraio prossimo, diretta su Sky) non sempre collimano, l’exploit va ben oltre la certificazione del conformismo stelle & strisce: l’origin story del clown assassino ha incassato più di un miliardo di dollari (1.066 milioni) nel mondo, traguardo incontrastato nel novero dei nove in lizza per Best Picture; è un comic book movie capace di prendersi libertà inusuali se non inusitate per il genere; incarna, seppure grossolanamente se non semplicisticamente, lo Zeitgeist della rivolta, sì, populista; ha, appunto, in Phoenix – bravo non da oggi, alla quarta candidatura e mai vittorioso – un interprete totalizzante. Insomma, il nobile fine, la statuetta a Joaquin, giustifica l’eccesso di mezzi. Agli annali lo strapotere di Netflix (24 nomination), probabile la vittoria per miglior film e regia di “1917” di Sam Mendes, già laureato ai Golden Globes, la griglia di partenza dei 92esimi Academy Awards accoglie l’impresa di “Parasite” (dal 6 febbraio di nuovo in sala) del sudcoreano Bong Joon-ho: sei statuette potenziali, in cui si condensa la diversity dell’edizione. Inutile cercarla tra i 20, protagonisti e non, interpreti: il bianco trionfa 19 a 1 (la londinese di genitori nigeriani Cynthia Erivo). Inutile, appunto, ravvisarla tra i cinque registi in lizza, tutti uomini: meritava di starci la Greta Gerwig di “Piccole donne” al posto di Phillips? Risposta affermativa, volendo, ma le polemiche divampate negli States et orbi sono abbastanza indifferenti ai valori in campo: succede, anche ai festival, quando alle diseguaglianze a monte (accesso alla professione) si pretende di porre rimedio a valle (parità di riconoscimenti). C’è solo una cosa peggiore delle quote rosa, le quote rosa applicate ai premi: si diceva una volta, vinca il migliore.

Federico Pontiggia

Movimento, Di Maio è un problema ma non il problema

Che si dimetta o meno da leader a ridosso dell’ennesimo disastro elettorale, ovvero quelle Regionali dove i 5 Stelle rischiano a) di superare a fatica il 5% e b) di far vincere Salvini, Luigi Di Maio pare al capolinea. Parlare di lui è difficile perché spesso lo si critica a prescindere, bastonandolo odiosamente sotto la cintura. Per esempio chiamandolo “bibitaro” (non lo è mai stato e non sarebbe comunque un’onta esserlo stato). Oppure alludendo vilmente al suo essere un “omosessuale della lobby gay grillina con la fidanzata di cartone”, accusa (?) mossa da chi pensa ancora che dare a caso del gay a un altro sia un insulto, quando è quasi sempre l’ultima mossa dei prostatici omofobi a fine corsa (ogni riferimento alle spoglie mortali di Sgarbi e Feltri non è forse casuale). Luigi Di Maio non è il colpevole unico dell’agonia grillina. E resta probabilmente il meno peggio tra i (non) leader presenti nel Movimento. Cambiare il vertice è lecito, ma rischia di sortire l’effetto che ebbe il sacrosanto esonero di Giampaolo al Milan: puoi anche mettere in panchina Giosafatte in persona, ma se la rosa è moscia esonerare l’allenatore serve a poco.

Il problema del M5S è che, oggi, non è né carne né pesce: non ha una visione, non è né di lotta né di governo, non incarna la protesta e nemmeno la dirigenza. Si è come condannato a una lenta implosione al rallentatore, tra scazzi personali e faide bambinesche, e Di Maio è un problema ma non il problema. Ciò detto, il leader 5 Stelle ha sbagliato tanto.

– Se fino a febbraio 2018 ha indovinato ogni mossa, da giugno 2018 Di Maio è diventato un Calimero condannato all’autogol. Prima oscenamente assoggettato a Salvini, ora odiosamente malmostoso con Zingaretti. Le non poche cose buone fatte, unite al coraggio di non essere presidente del Consiglio (gli sarebbe bastato baciare la pantofola a Berlusconi o accettare le sirene di ritorno del Cazzaro Verde), sono naufragate di fronte ai troppi harakiri.

– A proposito di harakiri: l’incontro con le frange estreme dei gilet gialli. La baracconata della “santa teca” dentro la quale c’era la tessera numero 1 del reddito di cittadinanza. La scenetta surreale dal balcone. Il tragicomico “aboliremo la povertà”. Il delirante “mandato zero”. Eccetera.

– Di Maio si è sistematicamente sopravvalutato. Si è preso due dicasteri difficilissimi (Ilva, Whirlpool) e poi, dal nulla, si è inventato Churchill andando alla Farnesina. Con quale competenza?

– Andando agli Esteri, Di Maio ha lasciato sguarnito il Movimento, che – col capo lontano – ha cominciato a mugugnare e congiurare. Di Maio ha reagito tardi, con livore e tagliando teste a caso.

– Quando si è trovato in difficoltà, è ricorso troppo spesso alla mitologica “piattaforma Rousseau” per buttare la palla in tribuna. La frittata è stata completata dalla cosiddetta “base”, che prima ha salvato Salvini sulla Diciotti (il punto più basso del M5S) e poi ha varato il suicidio in Emilia-Romagna e Calabria, decidendo di correre (si fa per dire) da soli. Un leader vero si sarebbe preso la responsabilità di lasciare Salvini al suo destino (come sulla Gregoretti) e di star fermo un giro nelle due regioni ora al voto.

– Di Maio ha subito la decisione di Grillo di governare col Pd. Tra un Di Battista fermamente contrario e un Fico apertamente a favore, è stato nel mezzo. Indossando il muso lungo dei bambini bizzosi. In estrema sintesi: Di Maio è (stato) un ottimo oppositore nella precedente legislatura; un (triplo) ministro onesto e tutto sommato decente; e un leader dal fiato corto.

Serve Riformare le istituzioni, non solo le aule

C’è chi crede di aver fatto una rivoluzione epocale riducendo il numero dei parlamentari. E c’è chi ha votato obtorto collo il provvedimento, ottenendo in cambio una futura riforma elettorale non meglio definita, una futura revisione dei collegi elettorali e future modifiche ai regolamenti parlamentari. Ma sia chi ha punito la “casta” e centrato un proprio antico obiettivo, sia chi ha fatto buon viso a cattivo gioco per garantire (e garantirsi) la prosecuzione della legislatura si sono accontentati di poco. Non hanno colto l’occasione, nemmeno a parole, nemmeno propagandisticamente, per alzare il tiro, inserendo comunque il dato quantitativo della riduzione di deputati e senatori nella grande, sempre elusa questione del riassetto globale delle nostre istituzioni.

“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, afferma la Costituzione vigente. La Repubblica è una. Non puoi spostarne o modificarne o eliminarne un pezzo, senza considerare il resto. Si tratta di vasi inevitabilmente comunicanti. E quando nel 1970 si crearono le Regioni, con ventiquattro anni di ritardo rispetto al disposto costituzionale, il dibattito si imperniò in particolare sulla valorizzazione dei Comuni, ai quali sarebbero dovuti andare tutti i compiti (e le risorse) per le cose da fare sul territorio, al servizio concreto dei cittadini. Le Regioni avrebbero dovuto concentrarsi virtuosamente nel ruolo legislativo e nella programmazione e coordinamento dello sviluppo regionale. E al posto delle vecchie Province sarebbero dovute sorgere agenzie, consorzi e comunque organismi snelli a dimensione territoriale variabile, sulla base di specifiche esigenze e vocazioni sovracomunali. Sino alla fine dello scorso millennio c’è stato sempre qualcuno che ritirava fuori la mitica Repubblica delle Autonomie, con il passaggio da uno Stato verticale, centralizzato e romano-centrico, a uno orizzontale, decentrato col principio di sussidiarietà e più vicino ai cittadini. Ma, già dopo due legislature regionali, si registrava il fallimento di quel disegno e di quelle speranze, con le Regioni pigliatutto, le Province rimaste saldamente in piedi con maggiori competenze che per il passato, gli enti intermedi tentati e falliti, e i Comuni tenuti a pane e acqua (come registrava nel 1982, il Rapporto sullo stato delle autonomie curato del ministero per gli Affari regionali).

Da allora la situazione è ulteriormente peggiorata. Il Parlamento messo sempre più in crisi da una logica maggioritaria che premia l’uomo solo al comando, con deputati e senatori in funzione di spingibottone. Le Regioni ridotte a campo di strategie e tattiche politiche da potenti “governatori”, mentre i consiglieri regionali non possono che occuparsi precipuamente di potere, di gettoni di presenza, di rimborsi e, scivolando scivolando, di mazzette. Le Province sono notoriamente abolite-e-non-abolite, impossibilitate a operare e addirittura rimpiante. Completano il quadro i 7.915 Comuni italiani, molti in dissesto finanziario, tutti con gravi problemi di operatività, sia per quello che riguarda le risorse finanziarie, sia il personale, sia i mezzi e le strutture a disposizione.

Che si può fare, allora? Abbastanza poco, finché il panorama di partiti e movimenti sarà così come lo vediamo, frantumato e fragile. Riforme globali possono venire solo da partiti forti e leadership solide. Intanto, potrebbe servire a qualcosa un movimento di sindaci che – anziché servirsi della carica per contare di più nei rispettivi partiti o movimenti, o per conquistare di tanto in tanto qualche titolo di giornale – lavorino per imporre nell’agenda politica il tema della centralità dei Comuni.

La chiesa si gioca tutto sul celibato

I due papi non sono più solo l’oggetto di un film. Da quando è stata resa nota la notizia dell’imminente pubblicazione di un libro firmato da Benedetto XVI (con il cardinal Sarah) contro ogni ipotesi di modifica del celibato obbligatorio del clero cattolico, il confronto tra i due papi, quello in carica e quello emerito, è divenuto improvvisamente reale e attuale. L’antefatto è noto: un paio di mesi fa, l’assemblea sinodale per la regione amazzonica si era conclusa con l’approvazione di un documento nel quale veniva richiesta, per supplire alla cronica mancanza di preti nella regione, l’ordinazione presbiteriale di diaconi sposati.

Contro quella decisione si schierò circa un quarto dei partecipanti all’assemblea. Come avviene sempre in questi casi, la decisione finale è stata comunque rimessa nelle mani del pontefice. Ora, a sorpresa, Benedetto XVI ha deciso di anticipare la decisione di Francesco per affermare che l’indirizzo assunto dalla maggioranza dei partecipanti al Sinodo è radicalmente sbagliato, che il celibato obbligatorio dei preti è un elemento strutturale fondamentale su cui poggia l’intero edificio ecclesiale. Senza celibato non c’è sacerdozio, scrivono Ratzinger e Sarah.

Io credo che il clamoroso intervento di Ratzinger suggerisca due considerazioni generali. La prima è che il terreno del celibato è il terreno decisivo, il più importante, nella battaglia per la riforma della Chiesa. Ratzinger e molti altri importanti gerarchi non hanno probabilmente applaudito nel 2016 la decisione di Bergoglio di riammettere, almeno in alcune circostanze, i divorziati risposati all’eucaristia, ma l’opposizione esplicita a quel provvedimento è stata lasciata a un gruppetto di anziani e politicamente ininfluenti cardinali e alle voci indignate dei giornali e dei siti della destra cattolica. Su altre decisioni di Francesco l’opposizione è stata ancora più timida, giacché si è probabilmente ritenuto che il papa argentino non stesse minacciando seriamente l’assetto fondamentale del cattolicesimo e il potere della sua classe dirigente. Ma sul celibato la destra interna ha pensato di non poter transigere al punto di richiedere all’anziano papa emerito un intervento diretto e frontale. E del resto è comprensibile: il celibato del clero è davvero la trave portante del sistema di autorità ecclesiale formatosi nel medioevo e rafforzatosi nella Controriforma con la nascita dei seminari. Esso prevede la rigida separazione tra i pastori celibi e la massa di fedeli coniugati e la perfetta subordinazione dei secondi ai primi, in nome del riconoscimento di una maggior prossimità dei sacerdoti a Cristo. Il segno più evidente della “diversità clericale” è per l’appunto la presunta castità del prete, la sua capacità di elevarsi al di sopra degli istinti e delle passioni comuni a tutti gli esseri umani. Un prete sposato, scrive Sarah, è un “prete di seconda classe”. La verità è che un prete sposato è un uomo normale e non un semidio che può pretendere un potere assoluto sul gregge e questo per Benedetto XVI e Sarah è assolutamente inaccettabile.

La seconda considerazione che l’uscita del libro suggerisce riguarda la strategia che la destra conservatrice ha concepito su questo decisivo terreno di scontro. Da questo punto di vista, il volume di Ratzinger e Sarah assomiglia a una dichiarazione di guerra. I due alti gerarchi cattolici (e probabilmente tutto il loro entourage) devono essersi convinti che non ci siano più margini di mediazione con il nemico e che l’unica via possibile sia quella del conflitto esplicito e dell’appello al popolo perché insorga contro le eventuali decisioni sbagliate del papa argentino. Erano possibili altre strade, più legate a una strategia diplomatica: ad esempio, la destra poteva accettare che Bergoglio consentisse l’ordinazione di diaconi sposati in Amazzonia, ma lavorare dietro le quinte affinché la decisione fosse rigorosamente limitata a quella zona del mondo. Si è preferito tentare il tutto per tutto, mettere Francesco nell’angolo e intimargli la resa incondizionata minacciando lo scatenamento di un conflitto senza precedenti nella storia recente della Chiesa. L’unico personaggio che poteva tentare questa mossa era Benedetto XVI, colui che per otto anni ha occupato il trono di Pietro, l’insigne teologo, il leader ancora amato da una buona parte del “popolo di Dio”. Gli altri generali dell’esercito conservatore sono figure che non godono di un’oncia del suo prestigio e della sua autorevolezza. Adesso tocca a Francesco rispondere. Le sue formidabili capacità di mediazione sono qui messe alla prova. Ci vorrebbe un miracolo perché il papa argentino fosse in grado di disinnescare il conflitto. Il suo predecessore lo ha messo con le spalle al muro: qualsiasi apertura, anche la più prudente, all’ordinazione di uomini sposati apparirà ai suoi avversari interni come un gesto eretico. Per un altro verso, cedere e assecondare Ratzinger significherebbe di fatto abdicare, rinunciare all’esercizio del potere papale. Stiamo a vedere. La partita è appena iniziata e il finale è tutto da scrivere.

La renziana e l’amico Alfredo

Per chi avesseancora dei dubbi sulla consolidata saldatura di interessi tra il grande inquisito di Consip e finanziatore di Open Alfredo Romeo e l’inner circle di Matteo Renzi, il post di ieri dell’ex senatrice Pd Graziella Pagano dovrebbe averli dissolti definitivamente.

Pagano è tra le fondatrici di Italia Viva a Napoli e ci ha comunicato con grande entusiasmo di aver partecipato alla presentazione del dorso napoletano del Riformista, in edicola da oggi con il coordinamento dell’ex direttore del Corriere del Mezzogiorno Marco Demarco. “È una testata alla quale sono storicamente legata… Voglio ringraziare, e lo faccio con grande schiettezza, Alfredo Romeo, col quale abbiamo condiviso un percorso antico (quale? ndr) e che con coraggio ha dato vita a un giornale prestigioso di cui noi riformisti sentivamo bisogno”.

Tra i quali forse intendeva annoverare anche alcuni degli illustri spettatori dell’evento che l’ex senatrice ed ex assessore di Rosa Russo Iervolino elenca nel post. Tra loro ci sono: Clemente Mastella, il candidato governatore azzurro Stefano Caldoro e la candidata sindaco in pectore di DemA, Alessandra Clemente. Chissà se si sentono riformisti anche loro.

Bunga bunga: “Le ragazze cavalcavano Berlusconi”

Arcore, villa San Martino, notte di bunga bunga, una stanza buia dove Silvio Berlusconi consumava presunti rapporti erotici con le olgettine che hanno partecipato alle “serate eleganti”. Questo l’elemento emerso ieri durante il processo Ruby ter dove l’ex premier è imputato per corruzione in atti giudiziari assieme ad altre 28 persone. A parlare, sentito ieri dai pm, è stato Francesco Chiesa Soprani, agente dello spettacolo che ha spiegato di “una stanza buia” dove “a turno le ragazze ‘cavalcavano’ il presidente”. Alcune frasi dell’interrogatorio di Soprani sono state definite dal giudice “con possibili ricadute di reato” e quindi il teste è stato assistito da un avvocato. Soprani, infatti, ha spiegato: “Dissi a un legale di Mediaset che mi sarebbe piaciuto collaborare con loro come autore dopo avergli detto che sapevo che alcune ragazze venivano pagate per stare zitte”. Richiesta che non ebbe seguito. Soprani ha riferito di vicende sentite da terze persone, soprattutto, ha spiegato, da Barbara Guerra, ma anche da altre ragazze, aggiungendo che queste ultime, aveva saputo, venivano “remunerate per mentire nei processi”.

Secondo la testimonianza di Soprani, anche Ruby gli disse che aveva avuto rapporti con l’allora premier e che “voleva investire soldi a Dubai”. Guerra, ha raccontato il testimone, “mi disse di aver partecipato a queste cene, mi ha parlato di rapporti sessuali con Berlusconi e di essere stata pagata per non dire la verità sul sesso e poi di rapporti a turno in una stanza buia, perché lui forse non voleva farsi vedere”. E ancora: “Mi disse ‘la Trevaini (anche lei imputata) ha preso 1,8 milioni, la Minetti 5 milioni’ e quindi lei voleva più soldi di quei 2.500 euro al mese che riceveva e avrebbe chiesto tramite un avvocato 500 mila euro più una casa e c’era stata la disponibilità di Berlusconi, ma poi non so se li abbia ricevuti”. Il teste, che fu anche arrestato e poi prosciolto nel caso Vallettopoli nel 2007, ha spiegato: “Non mi fu mai detto di orge o minorenni, ma di rapporti sessuali”. Soprani ha detto di aver parlato, anche dopo la morte di Imane Fadil, con Marysthell Polanco (imputata): “Mi ha detto: ‘Dirò la verità sui rapporti sessuali nelle cene e che venivamo pagate per mentire con soldi e case’”. Soprani ha spiegato di aver incontrato due volte Ruby quando era ancora minorenne, non lontano dall’ufficio di Mora. “Anche lei mi disse di avere fatto sesso ‘col Presidente’”. E dei rapporti tra Ruby e il leader di FI avrebbe avuto conferma “anche da Corona”. Trevaini, infine, stando sempre alla versione di Chiesa Soprani, gli disse che “sapeva che in quelle cene c’erano rapporti sessuali e che proprio di conseguenza faceva la giornalista, ossia per questo aveva avuto un contratto”.

“Vado nella Lega a fare la quinta colonna di FI”

La decisione è ormai presa: anche Francesco Giro, big di Forza Italia nel Lazio, è pronto a lasciare il partito dell’ex Cavaliere per la Lega. “Un partito a vocazione maggioritaria e nazionale e un leader interessantissimo non solo alla corsa per sfrattare Virginia Raggi in Campidoglio. Ma pure per prendersi la regione governata da Nicola Zingaretti. Sto ancora riflettendo, ma penso che a breve deciderò” dice al Fatto Giro. Quel che è certo che il suo abbandono rafforzerebbe enormemente il Carroccio nel Lazio. Ma pure al Senato, dove se molla Giro (che è pure segretario d’aula), FI smetterebbe di essere il secondo gruppo per consistenza numerica.

Come è maturata questa scelta?

Durante le feste c’è stato un episodio che mi ha convinto che qualcosa andava fatta: Marco Bestetti, il coordinatore dei giovani di Forza Italia, quindi una persona che è tra le più vicine a Silvio Berlusconi, essendo parte dell’ufficio di presidenza, mi ha aggredito con un linguaggio che definirei tribale.

Bestetti la caccerebbe a pedate e le ha detto di cambiare mestiere o spacciatore…

Sono disgustato. Affermazioni di questa gravità per aver detto di essere pronto a prendere la tessera della Lega in segno di solidarietà a Salvini che rischia il processo per il caso della nave Gregoretti. Faccio notare che avevo fatto la stessa cosa quando si trattò dell’inchiesta sui rubli russi alla Lega. Bestetti, non smentito da nessuno, mi ha attaccato in maniera brutale. E, ripeto, si è trattato di un attacco tollerato. Mi domando: c’è un mandante per tutto questo o FI è solo allo sbando?

Sospetta di intelligenza col nemico. Perché Salvini si mangerà Forza Italia?

A Salvini un partito che lo copra al centro servirebbe. Il problema è che FI è ferma: doveva rinnovarsi, come si era impegnata a fare ancora a giugno, è invece non l’ha fatto. Mi pare che le prospettive siano pessime. Io mi definisco un berlusconiano di rito salviniano. Non ho mai nascosto le mie simpatie per la Lega che sta facendo un lavoro grandioso anche nel Lazio con il mio amico Claudio Durigon.

Abbandona la nave che affonda?

Voglio molto bene ad Anna Maria Bernini e ad Antonio Tajani che mi sono stati vicini anche in questa circostanza. E a Berlusconi devo tutto: per dieci anni mi ha voluto a Palazzo Grazioli, coordinatore del Lazio, in Parlamento e addirittura sottosegretario. Mi sono impegnato sempre, ho dato tutto. Di questi anni ho fatto un docufilm e ne sto montando un altro sempre su Berlusconi e Forza Italia. Ma ora anche il lessico dell’insulto sembra rivelatorio: ci si esprime così quando i partiti sono a fine corsa. E quando il capo non governa più nulla.

Quindi è deciso, se ne va.

Devo capire come farlo. Con eleganza e senza rancori. Anche perché io sono amico di tutti. Non voglio creare problemi: mettiamola così, sarò la quinta colonna azzurra nella Lega.

Poteva scegliere di andare con Toti o unirsi alla Carfagna. Non è che sceglie Salvini perché le ha promesso qualcosa, tra Roma e Lazio?

Guardi, io voglio dare una mano per vincere il Campidoglio e pure la Regione. Ma sono troppo vecchio per fare il candidato e soprattutto sarò l’ultimo arrivato quando c’è gente che lavora sodo nella Lega da tempo. Darò il mio contributo, tutto qui.

Ma Salvini le ha chiesto o no di passare con La Lega?

Intanto mi ha ringraziato per la solidarietà che gli ho espresso. Abbiamo parlato e ci siamo confrontati. È persona intelligente e ha desiderio di aprirsi al mondo moderato e cattolico. Ha incontrato il cardinale Zuppi, santegidiano doc, amico mio e di mio fratello Mario.

(Mario Giro è il maggiore dei due, già viceministro degli Esteri per Letta, Renzi e Gentiloni)

Rai, il Pd fa fuori la De Santis e ora vuole la testa di Salini

Non era mai successo, ma oggi accadrà. Alla conferenza stampa del Festival di Sanremo non ci sarà il direttore di Rai1: Teresa De Santis è stata silurata da Fabrizio Salini alla vigilia del programma più importante della tv di Stato e ora minaccia di far causa all’azienda. Al suo posto arriverà l’attuale direttore di Rai3 Stefano Coletta, gradito a Pd e 5Stelle.

Salta, dunque, la persona che insieme al direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, più ha rappresentato la Rai sovranista che guarda a Matteo Salvini, con polemiche a non finire sulle sue scelte, sia quelle andate in porto (affidare Unomattina a Roberto Poletti), sia quelle evaporate (dare una striscia quotidiana a Maria Giovanna Maglie). De Santis ha provato a resistere ma, complici anche gli ascolti in calo e forse un rapporto ultimamente incrinato anche con Matteo Salvini, alla fine non ce l’ha fatta. Pur tra qualche perplessità, arriverà Coletta, che prenderà anche la direzione dell’intrattenimento prime time (una delle nuove nove direzioni orizzontali o di genere).

Gli altri nomi che questa mattina Salini sottoporrà al cda sono: Ludovico Di Meo (quota FdI) alla direzione di Rai2 più Cinema e serie tv; Silvia Calandrelli (piace a 5Stelle, Pd e Quirinale) alla guida di Rai3 più Rai Cultura (dove già sta da tempo); Franco Di Mare (quota 5Stelle) all’intrattenimento day time; Duilio Gianmaria (5Stelle) a Rai Doc; mentre sono confermati a Rai Fiction e a Rai Kids Eleonora Andreatta e Luca Milano. Per la direzione New Format si procederà al job posting, mentre alla distribuzione andrà (ma non subito) l’attuale direttore dei palinsesti, Marcello Ciannamea (quota Lega).

Dopo tre cda a vuoto, Salini dunque batte un colpo, rimandando però le restanti caselle, non si sa se comprensive di Tg o meno, all’indomani del voto regionale del 26 gennaio. Decisione, quella dell’ad, che arriva dopo il forte disappunto del Pd, che da quando è in maggioranza ha fame di posti e spinge per piazzare le sue pedine, come Mario Orfeo alla direzione del Tg3. Disappunto che ha fatto arrivare Andrea Orlando e Lorenza Bonaccorsi a dargli un avviso di sfratto: se non è in grado, se ne vada. Corredato dalla voce su una sua possibile convocazione da parte del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Le nomine di oggi, però, se scontentano la Lega, non accontentano del tutto il Pd, e infatti la consigliera Rita Borioni voterà no o si asterrà. Al momento nel cda di oggi Salini può contare sul voto di Beatrice Coletti e Giampaolo Rossi, mentre contro avrà il consigliere leghista Igor De Biasio. “Il Pd torna a occupare militarmente la Rai. Salini si dimostra una banderuola nelle mani dei dem”, attacca il leghista Alessandro Morelli. Punto interrogativo sul voto del consigliere Riccardo Laganà, che ha chiesto di votare nome per nome e non l’intero pacchetto. E su quello del presidente Marcello Foa, determinante perché, in caso di parità (3 a 3), il suo voto vale doppio. Voto del cda che però non è vincolante: in caso di sconfitta, i nomi di Salini passeranno.

“Battere un colpo oggi era importante. E il Pd non può certo lamentarsi…”, dice una fonte accreditata. Anche se – in questa fase confusa con un vertice eletto da una maggioranza politica che nel frattempo è mutata – Salini può contare su uno strano asse tra 5S e FdI. Giampaolo Rossi era entusiasta e ha promosso le nomine: Rai2 è solo l’ultimo dei risultati ottenuti e Giorgia Meloni può sorridere.

La tesoriera di “Maroni presidente” interrogata sui 49 milioni “riciclati”

Dopo le feste di Natale, il fronte giudiziario sulla Lega torna caldo. E se la Procura di Milano tiene dritta la barra sul caso Moscopoli, la Procura di Genova rilancia l’inchiesta sui 49 milioni di euro di rimborsi al Carroccio spariti. Da circa un mese, il fascicolo ha il suo primo indagato. Si tratta dell’assessore della Regione Lombardia Stefano Bruno Galli accusato di riciclaggio per il ruolo di presidente avuto nell’Associazione Maroni Presidente e per 450 mila euro ricevuti dalla Lega nel 2013, passando per la Banca Aletti di Genova e poi restituiti in modo non chiaro.

Per questo ieri in Procura a Genova è stata interrogata come testimone Federica Moro ultima tesoriera dell’associazione. A dicembre era stato sentito il primo tesoriere, il leghista Luca Lepore, colui che, in teoria, ha visto arrivare i 450 mila euro. Per l’accusa, la Lega avrebbe dato quel denaro all’associazione Maroni presidente nel 2013 con la causale “contributo ad associazione”. La somma sarebbe rientrata al Carroccio sotto forma di erogazione liberale da parte della stessa associazione. In mezzo sarebbero stati versati alle società Nembo (che ha cessato l’attività a luglio) e Boniardi Grafiche, di cui è socio il deputato leghista Fabio Massimo Boniardi (non indagato), per l’acquisto di materiale elettorale. Gli inquirenti sospettano che le fatture fossero gonfiate.

Il caso nasce dopo un esposto del 2018 fatto dall’ex capogruppo della Lista Maroni presidente Marco Tizzoni. Quell’atto aveva aperto un’inchiesta a Milano con Galli indagato per appropriazione indebita e poi archiviato. Tizzoni era stato sentito dalla procura di Genova che ha proseguito gli accertamenti. Davanti ai magistrati, il primo tesoriere Lepore aveva detto: “Eseguivo gli ordini di Calderoli, Galli e Candiani”. Tra i fondatori dell’associazione, infatti, non c’è solo Galli. Oltre a Calderoli, c’è l’ex sottosegretario all’Interno Stefano Candiani, l’ex direttrice della Padania Aurora Lussana e Andrea Cassani, sindaco di Gallarate indagato per turbativa d’asta nell’inchiesta milanese sulle tangenti “Mensa dei poveri”. Per Lepore le decisioni dell’associazione venivano prese da loro. Spiegherà ai pm: “Facevo cosa dicevano i responsabili del comitato. Non avevo voce in capitolo. Tutto era deciso da Stefano Galli e dai senatori Roberto Calderoli e Stefano Candiani”. Al momento l’unico indagato resta l’assessore lombardo Galli.

Sulla Gregoretti Gasparri vuole il voto con assenti

È guerra in Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato. Perché Maurizio Gasparri, presidente dell’organismo chiamato a decidere se mandare o meno a processo Matteo Salvini, per la gestione dei migranti a bordo della nave Gregoretti, ha stabilito che nelle prossime ore si stabilirà la data in cui votare su questa pratica. Nonostante l’assenza di Pietro Grasso, già da ieri impegnato in missione istituzionale (con la commissione Antimafia di cui è membro anche Mario Giarrusso) e unico e insostituibile rappresentante di Leu.

In Giunta anche una sola assenza può incidere sul risultato. Per questo la maggioranza, che ora si trova in una condizione di minorità, ha deciso di abbandonare per protesta i lavori. A mandare su tutte le furie M5S, Pd, Italia Viva anche il no a votare la richiesta di acquisire nuova documentazione utile a decidere se dare semaforo verde ai magistrati di Catania, che contestano all’ex ministro dell’Interno leghista il reato di sequestro aggravato di persona. Una bocciatura che secondo il pentastellato Mattia Crucioli “è un colpo di mano” da parte di Gasparri che Iv e gli altri partiti di maggioranza accusano di parzialità: “Il presidente della Giunta da arbitro è diventato giocatore, prendendo parte in modo del tutto irrituale alla votazione”.

Accuse rimandate al mittente dalla Lega: “Siete in fuga dalle responsabilità: abbiate il coraggio di votare il 20 gennaio su Salvini”, dicono i senatori del Carroccio convinti che, se i partiti che sostengono il governo decidessero di mandarlo a processo, saranno giudicati da “calabresi ed emiliano-romagnoli” che il 26 andranno alle urne per le Regionali.

Assenze o meno, il calendario potrebbe essere stabilito già oggi. E nelle prossime ore ai membri della Giunta di Palazzo Madama, verrà fatto pervenire almeno il contributo di “Italiastatodidiritto”, l’associazione costituita per diffondere e tutelare i principi costituzionali. Secondo cui l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini andrebbe concessa, eccome. Perché il rifiuto di Salvini di far sbarcare tempestivamente i migranti della nave Gregoretti non era giustificata da alcun pericolo reale e concreto per la sicurezza nazionale: la decisione dell’ex ministro “non aveva alcuna copertura costituzionale perché non perseguiva un fine degno di tutela da parte dell’ordinamento”. Se dunque il Senato dovesse negare l’autorizzazione – scrivono i giuristi Eugenio Bruti Liberati, Fabrizio Cassella, Dino Rinoldi, Aldo Travi e Simona Viola – “si tratterebbe a tutti gli effetti di una decisione incompatibile con i principi di uno Stato di diritto.”

La natura politica di una decisione, del resto, non basta per comprimere la libertà delle persone a bordo dell’imbarcazione. “In occasione delle leggi razziali, la tesi del ministero dell’Interno secondo cui i provvedimenti che affermavano o negavano l’appartenenza alla razza ebraica, avessero natura di atti politici e fossero perciò insindacabili in sede giurisdizionale, fu respinta senza incertezze dal Consiglio di Stato” fanno notare nel loro contributo i giuristi di “Italiastatodidiritto”. Secondo i quali vi sarebbe una sostanziale differenza tra il caso della nave Gregoretti e il precedente della Diciotti per cui è stata respinta la richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini lo scorso anno, sempre dal Senato: a luglio, ossia all’epoca della nave Gregoretti, era infatti già in vigore il decreto Sicurezza in base al quale “le prerogative primarie in tema di ingresso nel nostro Paese di navi recanti persone provenienti da altri Paesi fanno capo in modo specifico e diretto al ministro dell’Interno”. Quanto al coinvolgimento o meno del resto del governo (che Salvini chiama in causa) “la responsabilità personale del ministro per fatti di rilievo penale rimane comunque ferma”.