Irina ai pm: “Ero con Salvini la sera prima del Metropol”

Allo scadere dei primi sei mesi d’indagine, il dossier Moscopoli si arricchisce di nuovi elementi. A dare benzina al motore delle indagini è il caso di Irina Aleksandrova, la giornalista russa dell’agenzia di stampa Tass. I rendez-vous a Mosca tra lei e l’ex vicepremier della Lega aumentano. Sentita dai pm di Milano, dirà: “Il 17 ottobre ho cenato con Salvini e Savoini”. La mattina dopo ci sarà il summit all’hotel Metropol. E così dal primo incontro noto del 16 luglio 2018 saliamo almeno ad altri due confermati. Un dato di non poco conto se, come Il Fatto è in grado di raccontare, si pensa che gli ultimi sono avvenuti entrambi il 17 ottobre 2018, ovvero poche ore prima dell’incontro al Metropol del 18 mattina, dove Gianluca Savoini, assieme a un avvocato d’affari, a un consulente finanziario e a tre russi vicini all’entourage del presidente Putin, ha pianificato come triangolare sui conti della Lega il 4% di una compravendita di gasolio da 1,5 miliardi di dollari. Progetto che come è noto è stato immortalato da un audio il cui autore resta ancora oggi un decisivo omissis.

I particolari fino a oggi inediti emergono dal verbale d’interrogatorio della stessa Aleksandrova sentita come testimone giovedì in Procura a Milano dai magistrati che si occupano dell’inchiesta. La donna non è arrivata da Mosca, ma era già nel capoluogo lombardo. Come i pm l’abbiamo capito resta un interessante omissis dell’inchiesta. Il fascicolo, avviato nel febbraio 2019 ma entrato nel vivo a fine maggio, vede al momento tre persone indagate con l’accusa di corruzione internazionale: Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, l’avvocato Gianluca Meranda e l’ex politico locale del Pd Francesco Vannucci. Così nelle pagine del verbale chiuso giovedì sera e subito secretato si chiariscono i contatti tra la giornalista e il capo della Lega avvenuti il 17 ottobre. La sera di quel giorno di autunno, dirà Aleksandrova “sono stata a cena con Salvini e Savoini”. Il rapporto tra la giornalista, che non è indagata, e l’entourage del capo del Carroccio è certamente datato nel tempo e ben consolidato, se, come si legge sul profilo Fb dell’associazione Lombardia-Russia presieduta da Savoini la donna viene definita “amica giornalista”. La frase è a corredo del video di una conferenza stampa di Salvini a Mosca tenutasi il 16 luglio 2018 e moderata da Aleksandrova che pur di origini russe parla un perfetto italiano e che alla fine ringrazierà pubblicamente “Gianluca Savoini”. Questo è il primo incontro certificato.

Tre mesi dopo riecco Aleksandrova alla corte dell’allora ministro dell’Interno (non indagato in questa indagine). Quel 17 Salvini è a Mosca per presenziare a un convegno organizzato da Confindustria Russia e dal suo presidente Ernesto Ferlenghi, già manager di Eni in Russia. L’allora ministro parla in una sala dell’hotel Lotte davanti a molti imprenditori. Tra loro c’è anche la giornalista della Tass. Irina Aleksandrova, dunque, compare già qui ed è lei stessa a spiegarlo ai magistrati. Nel pomeriggio di quel giorno, poi, Salvini incontra in modo riservato il vicepremier russo all’energia Dimitry Kozak. Il vertice, mai appuntato sull’agenda ufficiale, avviene nello studio dell’avvocato Vladimir Pligin, personaggio molto vicino a Putin. Il nome di Pligin viene citato più volte nell’ormai noto audio del Metropol. Secondo la registrazione doveva essere lui a dare il semaforo verde per l’operazione. A quel tavolo due dei tre russi, Andrej Kharchenko e Ilja Andreevich Jakunin, sono vicini a Pligin e al filosofo di estrema destra Aleksander Dugin, quest’ultimo conosciuto da Salvini e amico dello stesso Savoini.

Secondo quanto scritto sabato dall’Espresso nello studio di Pligin a tradurre per Salvini c’era la stessa giornalista. Il particolare, ieri, però non è stato confermato in Procura. Di certo la presenza di Aleksandrova è plausibile visti i rapporti con Savoini. La vera domanda, però, è un’altra: all’incontro con il vicepremier russo oltre al capo della Lega c’era anche Savoini? Ieri in Procura la circostanza non è stata né smentita né confermata. Su questo si sta lavorando. Aleksandrova nel verbale non ne fa cenno. Spiega, invece, che la sera del 17 sarà a cena con i due leghisti e altre persone al ristorante Rusky all’85° piano del grattacielo Eye di Mosca. Ai magistrati Irina dirà: “Ho chiamato Savoini per dirgli che lo avrei raggiunto al ristorante”. A quel tavolo, oltre a Salvini, Savoini e la giornalista della Tass, c’erano Ferlenghi, Luca Picasso, direttore di Confindustria Russia e Claudio D’Amico, allora consulente di Salvini per le questioni strategiche. Dei commensali di quella cena nessuno, tranne Savoini, al momento risulta indagato dalla Procura di Milano.

Parma, dove la marea leghista assedia la città ricca e indecisa

È Salvini o una rock star? Un politico o un predicatore? L’8 gennaio, nell’ennesimo comizio parmigiano, il leghista sembra Papa Francesco, però meno incazzoso. Lo cingono, lo toccano, lo spingono, lo baciano. Lui non arretra e non si stizzisce. Porta pazienza, regala un sorriso affaticato che finisce in decine e decine e decine di selfie. La scena prende forma in un piccolo comune lontano da tutto: Traversetolo è un borghetto a 20 chilometri da Parma, sulle colline della fascia pedemontana che si allungano verso l’Appennino. È stata città partigiana, medaglia di bronzo al valore militare per la guerra di Liberazione, ha conosciuto giunte democristiane, socialiste e ovviamente comuniste. Ora è nella bolla del consenso leghista: il Comune è governato dal centrodestra dal 2016 (il sindaco Simone Dall’Orto è un civico salviniano), mentre alle Europee il Carroccio ha fatto il botto definitivo, sfiorando da solo il 44%.

Lo show di Salvini conferma uno stato di grazia: da queste parti mai si era visto un politico circondato da questo genere di adorazione. La groupie più aggressiva è una signora sull’ottantina, occhi azzurri e lunghi capelli bianchi, lisci. L’accompagna il nipote, che se ne sta in disparte, comprensibilmente imbarazzato. Lei bacia Salvini sul collo, non si stacca, sembra proprio la fedele cinese che ha strattonato Bergoglio, meno disperata, più passionale. A differenza del Papa, l’altro non si sottrae. Si chiama Guglielmina, la signora. Detta Gina. Traversetolese doc. Cosa le piace di Salvini? “Tutto. Tutto me lo bacerei”. Siamo a un passo dalla psicosi erotica. Nella sua campagna parmigiana Salvini è accolto come un feticcio ovunque. Le signore quasi si commuovono, gruppetti di liceali si avvicinano incantati (“Mi ha toccato la spalla!”). È un super vip bonario da pubblicare sui social, da mostrare ai figli, di cui vantarsi con gli amici.

Cos’è successo a Parma? Sebbene meno centrale e più moderata di Bologna o Modena, anche questa terra un tempo aveva un rapporto privilegiato con il Partito (quello comunista, s’intende). È una delle province più ricche e produttive d’Italia: a Collecchio c’è la Parmalat, a Traversetolo il pomodoro della Mutti, a Felino si fa il salame, a Langhirano il prosciutto più famoso del Paese. Gli industriali e gli imprenditori erano abituati al rapporto con le amministrazioni di sinistra, sembrava una struttura di potere consolidata, inattaccabile. Non lo è più: la Lega avanza, a volte esonda. È forte in città, fortissima nei paesi periferici. Ci sono sindaci salviniani anche a Bardi, Busseto, Colorno, Fontevivo, Lesignano de’ Bagni, Tornolo. Il Carroccio alle Europee ha dominato praticamente ovunque.

Uno dei primi Comuni a cedere è stato proprio Fontevivo nel 2015, l’ha vinto un ragazzo che aveva 20 anni e ai tempi era il più giovane sindaco d’Italia. Ora Tommaso Fiazza accompagna Salvini nei suoi forsennati giri parmigiani, come la visita-show al salumificio Ferrari di Lesignano de’ Bagni, dove il “Capitano” ha baciato un rotolo di coppa e chiesto di scontare eventuali condanne giudiziarie in una cella frigorifera, circondato dagli insaccati. Fiazza, sciarpa gialloblu del Parma al collo, è poco più di un ragazzo ma ha già 5 anni di esperienza amministrativa alle spalle. Nel suo piccolo comune ha coniugato il verbo leghista della sicurezza (ha installato telecamere, investito in vigili urbani e guardie giurate, lanciato il controllo di vicinato, regalato alle donne 400 bombolette spray al peperoncino) con alcune misure “di sinistra” e di sostanza (come gli asili nido gratuiti). Salvini lo coccola, nella Lega del futuro potrebbe diventare un nome pesante. Intanto misura le parole come un politico navigato: “La Lega vince perché è presente sul territorio, è vicina alle persone, è in mezzo alla gente – dice –. Proprio come faceva il Pci una volta”. Lui non era neanche nato, gliel’avranno raccontato i genitori.

Nei paesi dell’Appennino e nella fascia pedemontana, il 26 gennaio non ci sarà partita: la Lega e Lucia Borgonzoni dovrebbero vincere a mani basse. Ma nella provincia di Parma (447 mila abitanti) buona parte della differenza la fa il capoluogo (194 mila). Qui la situazione è più complessa.

Parma è passata attraverso una crisi finanziaria devastante. La città, governata per una vita dalla sinistra, ha conosciuto anni di sviluppo impetuoso a cavallo del 2000 sotto la prima giunta (civica) di centrodestra, quella guidata di Elvio Ubaldi. Poi con il forzista Pietro Vignali quella crescita è diventata dissesto: un debito da oltre 800 milioni di euro, concentrati nelle società partecipate dal Comune. Una città abituata a considerarsi un gioiellino, un salotto, si è scoperta paralizzata. Quella crisi però è praticamente alle spalle. Le grandi aziende parmigiane hanno superato gli anni peggiori e sono tornate in eccellente salute (Barilla, Parmalat, Pizzarotti costruzioni). Il Comune ha ridotto il suo debito spaventoso senza sacrificare eccessivamente la qualità dei servizi. Quest’anno Parma sarà capitale italiana della cultura: nuovi fondi e molta visibilità. Il merito è soprattutto del sindaco Federico Pizzarotti. Tra i parmigiani circola questa battuta: “Ha imparato sulla nostra pelle, ma alla fine è diventato uno capace”. Delusa dai partiti, Parma si è affidata ai Cinque Stelle. Ma il sindaco è diventato “adulto” dopo aver rotto con il Movimento. Pizzarotti sarà una delle chiavi del voto parmigiano, con il suo sostegno attivo a Stefano Bonaccini (nel voto d’opinione delle Europee, Pizzarotti ha mosso da solo circa 7 mila voti, l’8% finito alla sua lista civica insieme ai Radicali). “Con Bonaccini – conferma – il rapporto è sempre stato eccellente. Tutti sanno che è un bravo amministratore, a differenza della sua avversaria. Io voglio guardare avanti: una sua vittoria potrebbe diventare il primo passo per ricostruire le fondamenta del centrosinistra italiano. Speriamo che il Partito democratico se ne renda conto”.

Le bufale di Renzi sulla vicenda Madia

Il caso Azzolina risveglia i giornali e pure qualche politico. Matteo Renzi, per dire, ieri ha attaccato il Fatto parlando di “doppia morale” insieme all’atteggiamento dei parlamentari 5S. I quali attaccarono Marianna Madia per la vicenda della presunta tesi plagiata: “Un’accusa smentita da un’apposita commissione. Oggi invece di Lucia Azzolina i grillini e il Fatto Quotidiano non parlano: zitti, in silenzio, imbarazzo”, ha detto il senatore di Scandicci, evidentemente non accorgendosi che ne avevamo parlato. Ma tant’è. Conviene però ricordare la vicenda.

Nel 2016 il Fatto ha riscontrato la presenza di blocchi di frasi (circa 4mila parole) riprese da altri autori senza citazione nel testo, su 35 pagine delle 94 della tesi di dottorato dell’allora ministro della Pubblica amministrazione conseguita presso la Scuola di Alti Studi Imt di Lucca nel 2008. La fonte di quei passaggi non risulta citata laddove il ministro li riporta nella sua tesi e così non è possibile distinguere le parole originali della Madia da quelle di altri autori. L’ambito della tesi di dottorato è quello della ricerca, cioè del frutto di un risultato originale a fronte di quattro anni di studi. A questo serve un dottorato, a produrre risultati scientifici nuovi. Che invece, secondo il Fatto, non ci furono: il cuore stesso della tesi di dottorato di Madia, e cioè un esperimento scientifico condotto, secondo quanto da lei dichiarato, all’Università di Tilburg in Olanda, non sembra essere stato mai condotto. Almeno non da lei, dal momento che, come più volte ribadito dalla stessa Università, Madia non risultava essere stata lì.

Nel caso Azzolina, a un primo controllo (tuttora in corso), con gli stessi software, risultano frasi per un totale di 300 parole su 9mila non citate correttamente e neanche in bibliografia (contrariamente alla Madia che invece li riportava in bibliografia). Il testo della Azzolina riguarda la descrizione della sua esperienza di tirocinio in un liceo artistico, in qualità di studente della Scuola di specializzazione per l’Insegnamento secondario della Toscana nel 2009. L’introduzione dell’elaborato, stando a quanto appreso fino ad ora dal Fatto, non è una tesi, non ha pretesa di ricerca scientifica e non serviva a dimostrare la capacità di rielaborazione di concetti appresa dallo studio di testi di altri autori, come accade in una tesi di laurea o di dottorato, dove è imprescindibile distinguere cosa lo studente ha rielaborato a partire da ciò che ha studiato e cosa invece è frutto degli autori dei testi consultati. Nel caso Azzolina, si tratta di una presentazione delle definizioni scientifiche di uso corrente in letteratura che verranno poi utilizzate in un’esperienza pratica, il tirocinio come insegnante di sostegno. Per le 30 su 40 pagine dell’elaborato dove Azzolina descrive la sua esperienza non risulta, al momento, alcuna frase copiata senza corretta citazione.

Dopo gli articoli del Fatto, la Commissione istituita per valutare il caso dalla Imt di Lucca non si è mai interrogata se Madia – il cui caso fu sostanzialmente ignorato dai media – avesse condotto o meno l’esperimento di cui parla nella sua tesi, cuore del lavoro di ricerca. Il rapporto, contrariamente a quanto dichiara Renzi, ha confermato che tutti i comportamenti scorretti denunciati dal Fatto risultavano confermati. Ma concedeva un’attenuante singolare: in economia – l’ambito di ricerca di Madia – copiano tutti. Una dichiarazione che scatenò una levata di scudi, a partire dalla Società Italiana degli Economisti.

Caso Azzolina, cosa ha copiato nella tesi di abilitazione Siss

Il caso del presunto plagio riscontrato da Repubblica nella “tesi” del 2009 del neo ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina per la “Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario della Toscana” presso l’Università di Pisa fa discutere. Le opposizioni, per dire, ne chiedono le dimissioni. Il caso è stato sollevato domenica dal linguista Massimo Arcangeli, ex preside della facoltà di Lettere dell’Università di Cagliari (dove insegna) e presidente della commissione che ha dato l’abilitazione ad Azzolina. È assai difficile sostenere che sia un plagio, a partire dal fatto che non si tratta di una tesi. È un resoconto dell’esperienza del tirocinio della Azzolina alla scuola di specializzazione per insegnanti di sostegno (a pagamento, circa 1.600 euro per due anni), la cosiddetta Siss, che ora non esiste più. “È un resoconto di un’esperienza pratica, non un trattato scientifico. Non equiparabile, nella maniera più assoluta, a una tesi di laurea o di dottorato”, ha spiegato al Fatto Florinda Nicolai, fino al 2006 docente di linguistica generale alla facoltà di lingue e di neurolinguistica all’Università di Pisa e della Siss. Aggiunge che agli studenti veniva richiesto un elaborato che riportasse l’esperienza di tirocinio. Andava consegnato solo al docente che si occupava dell’insegnamento del sostegno per una materia specifica (come l’insegnamento dell’inglese o della matematica), per poi essere discusso e valutato dai docenti nel corso dell’esame finale orale.

Il tirocinio era la prova pratica, serviva a dimostrare che lo studente Azzolina era stato capace di mettere in pratica i concetti studiati durante i corsi, oltre al superamento delle prove scritte relative ai corsi teorici. Le linee guida per l’elaborato prevedevano una breve introduzione dell’ambito in cui tale esperienza didattica si era svolta. Quello trattato dalla Azzolina era “un caso di ritardo mentale lieve associato a disturbi depressivi” – questo il titolo dell’elaborato – di uno studente di 4° liceo artistico con cui lei si era misurata come insegnante di sostegno, come previsto dalla Siss.

In quest’ambito, quello della descrizione di un’esperienza pratica, appare fuorviante applicare i concetti di plagio che valgono per tesi di laurea e di dottorato. “Si trattava di una relazione di tirocinio, non di una tesi – ha confermato al Fatto un portavoce dell’Università di Pisa – Erano relazioni lontane dall’idea di tesi, prevedevano l’analisi di un caso specifico e pratico con 3-4 pagine di introduzione teorica”.

È proprio nell’introduzione che due software antiplagio – gli stessi che il Fatto ha usato nel caso della tesi di dottorato dell’ex ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia – hanno trovato blocchi di frasi riprese da altri testi, non citati tra virgolette e neanche in bibliografia, per un totale di circa 300 parole su 9mila (l’analisi è ancora in corso). I software non rilevano fonti di prima mano da cui la Azzolina avrebbe attinto, ma altre fonti che, a loro volta, richiamano definizioni di “ritardo mentale” apparentemente provenienti dal Dizionario di psicologia di Umberto Galimberti, edito per la Utet nel 1992, dal Trattato italiano di Psichiatria a cura di Luigi Ravizza et all. e dal Manuale Diagnostico e Statistico dei disordini mentali : gli stessi evidenziati da Arcangeli su Repubblica. Il Fatto ha riscontrato, sempre nell’introduzione, anche un paragrafo di quattro righe che appare in una tesi di laurea in Medicina e Chirurgia del 2006 (“Il funzionamento adattivo nel ritardo mentale: confronto fra capacità intellettive e competenza adattiva”) di Massimo Marcelli. Nella 30 pagine successive, dove si descrive l’esperienza di tirocinio, non appare al momento nessun testo ripreso senza essere correttamente citato.

Nel capitolo introduttivo, la Azzolina ricorda le definizioni di “ritardo mentale” in uso corrente in letteratura per introdurre la sua esperienza di tirocinio con una studentessa del liceo artistico. Questo avviene nelle prime dieci pagine di introduzione alle definizioni, quella che secondo le linee guida dell’Università di Pisa ricadeva nella “Cornice teorica dell’argomento”. Anche laddove non cita e non virgoletta, dal testo della Azzolina appare chiaro che si stanno riportando definizioni di “ritardo mentale” nei testi di riferimento per l’ambito della pedagogia e della psichiatria: difficile possa sorgere il dubbio che tali definizioni siano frutto del suo pensiero originale. “È come se si dovesse fare un tirocinio nell’ambito delle scienze dure, e si richiamasse nell’introduzione le varie definizioni di atomo, andando via via sempre più in dettaglio – spiega la Nicolai -. Non ci si aspetta che ogni volta lo studente citi dai testi originali in cui il concetto è stato esposto la prima volta, ma che spieghi bene le definizioni e i concetti utilizzati durante il tirocinio”.

A questo serviva il capitolo introduttivo dove si riscontrano, per ora, cinque blocchi di frasi prese da altri autori e non citate correttamente.

La passione dei legali 5 Stelle per l’Albania

Ci sono i curriculum, le cariche politiche e addirittura l’elenco delle proposte di legge presentate nella passata legislatura. Il tutto per presentarsi come membri dello studio “Legale Albania” con sede a Tirana: tra questi ci sono due esponenti di spicco del Movimento 5 Stelle, il ministro della Pubblica amministrazione Fabiana Dadone e il deputato della Commissione Esteri, Andrea Colletti.

A rendere pubblica per primo la faccenda è stato ieri il sito Dagospia che ha messo online la foto della pagina dello studio legale in cui Dadone – che ha sempre dichiarato di non aver finito la pratica forense prima di diventare parlamentare – viene inserita tra gli “Of Counsel” dello studio legale, ovvero tra i collaboratori esterni che vengono contattati per determinate prestazioni di lavoro. Collaborazioni che non avrebbero nulla di illecito, sia chiaro, visto che l’attività parlamentare non è incompatibile con la libera professione. Va comunque rilevato che quando il Fatto ha chiesto chiarimenti allo studio albanese, la pagina web che fa riferimento a Dadone è stata immediatamente cancellata: sebbene il ministro della P.a. ed ex membro della commissione Affari Costituzionali venga citata come “avvocato” solo nella url del sito, sulla pagina dello studio legale a lei indirizzata, fino a ieri si potevano leggere i suoi campi di specializzazione, il telefono e l’indirizzo dell’ufficio. Come se fosse una collaboratrice stabile dello studio. Lo stesso vale per il deputato grillino Andrea Colletti che, fregiandosi del suo ruolo di membro della Commissione Giustizia nella passata legislatura, inserisce nel curriculum tutte le norme di cui è stato relatore di minoranza.

Tra i membri “Of Counsel” dello studio legale, ironia della sorte, c’è anche l’avvocato napoletano Carlo Venditti, compagno di concorso di Giuseppe Conte nel 2002 (poi Venditti sarà assunto alla Vanvitelli di Napoli mentre il futuro premier andrà a Firenze). Il ministro Dadone, contattata dal Fatto, spiega che quella con “Legale Albania” era solo “una collaborazione a titolo gratuito”, da spiegarsi così: l’avvocato albanese proprietario dello studio Lulzim Alushaj, formatosi all’Università di Bologna, è un attivista del Movimento 5 Stelle e nel 2016-2017, anche grazie al compagno albanese della Dadone, invitò il futuro ministro a due conferenze gratuite sul tema della riforma costituzionale voluta dal governo Renzi e sulla tratta delle prostitute. “Due temi inerenti alla sua attività politica” spiegano dal suo entourage.

Dadone solo il 12 novembre scorso, due mesi dopo l’insediamento da ministro, ha chiesto all’avvocato Alushaj di rimuovere quella pagina dal sito web dello studio legale, ma questo è stato fatto soltanto ieri in fretta e furia. Il deputato Colletti invece continua a collaborare, anche se come esterno, con lo studio: “Conosco da anni l’avvocato Alushaj, abbiamo fatto l’università insieme – spiega – e ho fatto pochissimo per loro: negli ultimi due anni mi hanno affidato una pratica sola, un caso di imprese albanesi che dovevano recuperare dei crediti in Italia”. Lo sapeva che anche il ministro Dadone fosse una sua collega? “No, non ne sapevo niente”.

Niente più “avanzi” a Rousseau: Di Maio cambia già la regola

Per capire quello che sta succedendo dentro ai Cinque Stelle, è il caso di tornare a giovedì scorso. Sono le 4 del pomeriggio quando la porta della sala in cui sono riuniti i senatori del Movimento si apre per la prima volta. Esce Vito Crimi, il viceministro degli Interni, che è pure il più anziano componente del Comitato dei garanti M5S. Quello, per capirci, che subentrerebbe al capo politico in caso di dimissioni.

È Crimi a offrire alla platea le prime aperture sulle ipotesi di modifica dello Statuto M5S. Poi, tocca al capogruppo a Palazzo Madama Gianluca Perilli fare il resto: consegna ai cronisti che sono fuori dall’aula ad attendere l’esito della riunione, il più estroverso dei senatori “ribelli”, Emanuele Dessì. È Perilli, tra lo stupore dei presenti, a portarlo dai giornalisti, a dimostrazione che il documento in 5 punti di cui Dessì si è fatto portavoce, non sia più eresia per nessuno. C’è un attacco a Davide Casaleggio, là dentro, con la richiesta di trasformare la sua azienda in un semplice “fornitore di servizi telematici”. C’è l’ipotesi di cambiare il format delle restituzioni. E c’è pure il divieto di sovrapposizione tra cariche politiche e governative. Che tradotto, significa che Luigi Di Maio, se è capo politico, non può fare anche il ministro degli Esteri. “O viceversa”, precisa beffardo Dessì, pronto a portare quelle proposte agli Stati generali del Movimento che si terranno a marzo.

Ma al di là delle battaglie “di tre persone che firmano un documento”, per dirla con Di Maio, il punto è quello che stava accadendo a qualche isolato di distanza, nello studio di via Po del notaio Luca Amato. Lì, rivela l’AdnKronos, giovedì scorso sono state firmate alcune importanti modifiche allo Statuto del Movimento. Una su tutte: le eccedenze delle restituzioni, ovvero la parte non distribuita alle associazioni decise dalla base, non transiteranno più dal conto intermedio intestato a Luigi Di Maio e ai due capigruppo alle casse di Rousseau. Ma torneranno – come già nella prima legislatura – al fondo per il Microcredito gestito direttamente dallo Stato. Un cambiamento epocale, di questi tempi, che leva un grosso alibi agli “obiettori” delle restituzioni, che contro il “tesoretto” per Rousseau avevano pubblicamente fondato buona parte della loro protesta.

Una sorta di auto-assoluzione preventiva, con cui Di Maio e Casaleggio – l’asse di governo del Movimento mai osteggiata come ora – decidono di presentarsi all’appuntamento di marzo. L’intervento sul tema dei soldi, per ovvie ragioni il più delicato sul piatto, da una parte toglie ai nemici di Rousseau l’elemento di contestazione più popolare, dall’altro consente a Casaleggio di provare ad evitare ulteriori recriminazioni, come quella sul contributo obbligatorio di 300 euro al mese. Proprio ieri, una delle socie dell’associazione, Enrica Sabatini, ha ricordato come ci sia “un lavoro enorme dietro a tutto questo. Una professionalità che deve sposarsi ogni giorno con l’urgenza dei tempi e la pressione mediatica continua e costante”. E che, è il sottotesto, ha bisogno di introiti garantiti.

Nelle stesse ore, la riunione del Team del Futuro (i sei esponenti M5S scelti da Di Maio e ratificati dagli iscritti) prendeva un’altra decisione che sa di mani messe in avanti: “In caso di graduatoria rappresentativa di ogni area geografica e della presenza di attivisti e portavoce, non vi saranno interventi correttivi”. Un modo per dire che non sarà Di Maio a scegliere i facilitatori regionali, come già davano tutti per scontato dopo aver letto il regolamento delle candidature. Il capo politico, secondo la nuova formulazione decisa venerdì, interverrà solo se la rappresentanza votata dalla base dovesse risultare squilibrata. Un altro punto segnato dagli oppositori. Che certo, per come si stanno mettendo le cose, arriveranno agli Stati generali con le armi un po’ più spuntate.

Il ritiro nel convento che pare più un resort

Il navigatore collettivo indirizza tutti – giornalisti, politici e partecipanti a vario titolo – verso la porta chiusa dell’agriturismo San Pastore a Contigliano, nel reatino. Fortuna che ci sono le pattuglie della volante che chiariscono che la strada giusta è subito dopo. Spiazzo tra i monti della Sabina, navetta in attesa. Arrivare all’Abbazia (che si chiama sempre di San Pastore e sta sempre nelle vicinanze di Contigliano) significa arrampicarsi per le colline. Su, verso un posto fuori dal mondo, in un momento piuttosto incandescente per il mondo tutto. Quelli che arrivano sono tra lo stravolto e lo straniato. “Avevo una serie di parlamentari al seguito. Abbiamo sbagliato strada”, dice Beatrice Lorenzin a una delle sue prime partecipazioni alla densissima vita di iniziative programmatiche del Pd.

Sono quasi le 11 e 30 e fa un freddo cane che allenta i riflessi. Vista sulla campagna, facciata da monastero. Dentro, però, l’aspetto è più quello di un resort che di un convento. Alla faccia del ritiro per ministri, sottosegretari e parlamentari annunciato da Nicola Zingaretti. A pochi chilometri c’è Greccio, dove nacque il presepe. Ma la suggestione cristologica si ferma all’architettura, tutta arcate e colonne, dell’Abbazia.

Ampia scelta di torte, insieme al caffè. La sala della plenaria assomiglia a una sorta di Chiesa sconsacrata. La voce di Deborah Serracchiani, che introduce i lavori, è quasi troppo squillante per la location. Franceschini, con maglioncino d’ordinanza che fa la relazione d’apertura, si immedesima in don Dario. In sala nessuno si toglie piumini, cappelli e sciarpe. Tutti stretti l’uno all’altro, non in un cammino politico comune, ma in una mutua difesa dalle intemperie. Ma almeno c’è il sole. Alessia Morani ticchetta sui tacchi, Marianna Madia arriva spaesata trascinando il suo portatile, Graziano Delrio alterna uno starnuto e uno sbadiglio. Il chiodo sfoggiato da Laura Boldrini ricorda le mise di Maria Elena Boschi, che ormai non c’è più. Relazione d’onore affidata a Ilvo Diamanti, sociologo e sondaggista. D’altra parte, il consenso è tutto. Cosa fare per ottenerlo, meno. Meglio affidarsi a un professionista.

Alle 13, ecco che arriva la pausa pranzo. Due sale, una a sinistra, una a destra. Si va dal cappuccino di zucca alla forma di parmigiano, dalla spianata di salumi ai ravioli con tartufo e porcini, dalle tartine al salmone, all’arrosto, alla mozzarella, passando per cannoli e semifreddi. Vino a volontà. Qualche sorriso si affaccia. Peppe Provenzano fa l’equilibrista con più bicchieri in mano. “Sto portando l’acqua alla Boldrini”, spiega.

Per i giornalisti, buffet in versione ridotta in sala stampa. A quel punto, diventa un gioco collettivo saltare la sorveglianza. “Ma non doveva essere un incontro a porte chiuse?”, rimbalza la domanda. In effetti, doveva. Forse, una scelta troppo radicale? “E se non era a porte chiuse, perché farci arrivare fino a qui?”. Altro quesito senza risposta.

Qualche sguardo perplesso, davanti all’opulenza si intravede. “L’iniziativa è costata 50mila euro. Ma i partecipanti hanno pagato. E hanno contribuito i gruppi del Senato, della Camera e del Parlamento europeo”, chiarisce il tesoriere Luigi Zanda. La quota per i parlamentari è 150 euro a testa. In tutto, un investimento non piccolo per una verifica sufficientemente preventiva rispetto alle sorti del governo, da apparire piuttosto superflua. E poi il Pd non naviga nell’oro, con varie campagne elettorali alle porte e un congresso annunciato che qualche spesa se la porta dietro. “Il nostro terreno è la protezione sociale”, dice il capo delegazione dem. Vagamente stridente, dato il contesto. Zingaretti stringe mani, da perfetto padrone di casa. Franceschini e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, fanno un mini-vertice all’aperto, accanto a un muretto che va giù sulla valle. Sotto c’è il precipizio, sopra il Paradiso. Chissà.

Zinga solo, i big dem stanno con Conte: l’Emilia non conta

“Non ho capito perché se si perdono le elezioni in Emilia-Romagna, il disastro deve essere del Pd. Non è al nostro partito che succede qualcosa con una sconfitta. Perché i nostri colleghi di governo lì o non si presentano o si presentano contro (M5S, ndr)”. Nicola Zingaretti, parlando con il Fatto , mentre il Pd si riunisce nell’Abbazia di San Pastore a Contigliano, la mette così. Proprio ieri Giuseppe Conte ha detto al Corsera che l’Emilia non influirà sul futuro del governo. Assomiglia tanto a un mettere le mani avanti collettivo. Il segretario prova a rovesciare la questione: “Se Bonaccini vince, quello che si dimostrerà è che Matteo Salvini frana”. Il corollario di questa affermazione sarebbe la tentazione del segretario di andare al voto, per capitalizzare quella vittoria. Posizione, questa, però, tutta da ponderare. E sulla quale sarebbe comunque solitario. Meglio lavorare al “partito nuovo”.

Quel che viene fuori dalla giornata di ieri è il governo su tutto, prima di tutto e nonostante tutto. Il tentativo di fare un accordo preventivo col M5S per evitare le urne, comunque vada il 26 gennaio. Basta sentire la relazione di apertura di Dario Franceschini, capo delegazione: “Il Pd deve sentire suo il governo. Va avanti solo così, come incubatore di un’alleanza politica”. E ancora, la rivendicazione chiave: “Vorrei che la smettessimo con questa idiozia sulla mancata discontinuità” rispetto al Conte 1. Poi, però, a proposito di disponibilità: “Sui decreti Sicurezza partiremo dalle osservazioni di Mattarella e poi il Parlamento potrà intervenire”. Esplicito col M5S: “Va tenuta aperta una prospettiva politica con i 5Stelle perché dobbiamo fare in modo che vengano di qua”. E allora, “il reddito di cittadinanza forse si può correggere e migliorare, ma una nostra battaglia contro sarebbe difficile da capire”. Non manca la chicca finale: “Con la nuova legge elettorale, proporzionale con il 5% di sbarramento c’è spazio per una nuova vocazione maggioritaria del Pd. Il 5% ci spinge a costruire un partito più largo e si pone la questione delle alleanze”. Salto mortale quadruplo: il bipolarismo che parte dal massimo della proporzionalità. Ma è coerente con l’idea di prosciugare i Cinque Stelle, o almeno renderli sostanzialmente organici al Pd, allearsi con Conte, che guiderebbe una lista di centro, costruire le condizioni per farsi sostenere dai movimenti civici, dalle Sardine in giù. Sarà un caso, ma nel dibattito sul merito in questa abbazia nel Reatino è tutto assolutamente vago. Sui decreti Sicurezza si rimanda al Parlamento. Si annuncia l’estensione del cuneo fiscale. Come, però, non è chiaro.

Dopo la plenaria della mattina, si passa ai tavoli del pomeriggio. Gli ultimi erano stati solo due mesi fa a Bologna. “Tutta un’altra storia” era il titolo di quella tre giorni. Che voleva ripartire dalla sinistra-sinistra (con tanto di Maurizio Landini come ospite d’onore sul palco e Zingaretti che si era spinto a rinverdire lo Ius soli). Sono bastate queste poche settimane per fare un ulteriore cambio di direzione. Anzi, semplicemente, per evitare una direzione troppo netta. D’altra parte, lo slogan principale è “Oggi per un domani”. Che significa tutto e niente. Dice Franceschini: “Dobbiamo offrire una prospettiva di protezione alla gente sul terreno sociale”. Una battaglia generica che Lorenzo Guerini, ormai il capo corrente di Base Riformista (Luca Lotti resta autosospeso), respinge: “Non basta la protezione, serve la crescita”. E poi: “Dobbiamo fare un partito che guarda al futuro, non che sia la prosecuzione di uno dei due che gli hanno dato vita”. Qualche distinguo negli interventi che seguono. Ma la ciliegina sulla torta per Guerini è chiara: “La vicenda del governo e la vicenda del partito sono intimamente connesse”. Come volevasi dimostrare.

Era un cronista di razza: maniaco del dettaglio, da vero professionista

Per la nostra generazione, che segue da vicino la sua, Giampaolo Pansa, insieme ad Andrea Barbato (“i due cavalli di razza”) è stato un maestro. Di professionalità innanzitutto. Un esempio per la fatica e la diligenza che metteva nel suo lavoro e l’impegno, così difficile quando non si è dei talenti naturali come Montanelli, a dare ai suoi articoli una adeguata qualità di scrittura. Fra i tanti mi ricordo un ritratto, splendido, dell’armatore Costa che iniziava così: “C’è un Dio che invecchia in cima a un grattacielo”.

Se un qualche fatto era avvenuto, poniamo, alle sette del mattino, il giorno dopo per raccontarlo lui si recava alla stessa ora sul posto per vedere come batteva il sole su una certa casa e la luce in cui si era svolto. Era un maniaco del dettaglio come deve essere ogni vero professionista. Da buon piemontese era ligio al servizio, un soldatino di piombo, un doverista. Mi sento di dire che al mestiere, soprattutto nei suoi anni migliori, ha sacrificato tutto o quasi. Una volta mi raccontò che quando suo figlio divenne grande chiedeva a sua moglie “ma come era Alessandro da piccolo?”. In pratica non lo aveva visto mai travolto dalle esigenze del mestiere, da quei servizi scritti uno dopo l’altro seguendo l’inesorabile martellamento della cronaca. Del resto, fra di noi si dice che “il giornalista nasce orfano e muore vedovo” (ma parliamo naturalmente di un altro giornalismo, di un giornalismo di altri tempi, che ha poco o nulla a che fare con quello pressappochista di oggi). Il suo mondo, almeno nella prima parte della carriera, appartiene alla cronaca, alla grande cronaca. Non era un opinionista, era un giornalista. E infatti il Corriere della Sera, quando esistevano ancora certe regole, con suo grande disappunto non gli ha mai concesso il “fondo”, l’editoriale di prima pagina.

La sua prosa era nitida, limpida, direi quasi semplice, lontana dall’espressionismo di un altro notevole giornalista che per età lo segue da vicino, Paolo Guzzanti, ma altrettanto efficace.

Poiché gli mancava qualsiasi esperienza internazionale – ed è questo uno dei suoi grandi limiti – finì per dedicarsi invece che ai fatti e alle tragedie della vita al mondo della politica. È questa la fase, a mio avviso, meno convincente della sua carriera. Ha creduto di nobilitare il modestissimo materiale con cui aveva a che fare con i soprannomi e le maiuscole: “la Balena Bianca, l’Elefante Rosso, il Bisciobalena”. Insomma si era chiuso in un mondo dall’orizzonte ristrettissimo e a furia di fissare per anni il mostro ne aveva preso il linguaggio, i tic, l’opportunismo. Detestava Giorgio Bocca intuendo probabilmente che era di un’altra categoria e quando morì non fu né elegante né generoso affermando: “Non ci mancherà”.

Il grande successo lo ottenne con la pubblicazione de Il sangue dei vinti che dava conto delle violenze a opera dei vincitori comunisti sui fascisti o presunti tali (le nefandezze del famoso “triangolo rosso”). Un atto di coraggio perché Pansa veniva comunque dal mondo di sinistra anche se non era mai stato un ottuso estremista (mi ricordo che quando seguivamo le “piste nere”, in una sorta di pool che si era specializzato in quest’ambito, cercava di tamponarne gli eccessi antifascisti). Ma anche questo suo ripensamento sulla Resistenza ha dei limiti. Pansa ha preso a piene mani dalla documentatissima e ineccepibile Storia della guerra civile in Italia di Giorgio Pisanò.

Ma siccome Pisanò era un fascista, o direi piuttosto, avendolo conosciuto molto bene, un ‘mussoliniano’ che a questa sua passione romantica ha sacrificato quella che poteva essere una grande carriera, nessuno, Pansa compreso, a quel tempo gli diede alcun credito. Inoltre, com’è ovvio, era molto più facile scrivere quelle cose in un’Italia che si era spostata a destra, che in un’Italia in cui dominava l’egemonia di sinistra, cioè nei tempi in cui le scriveva Pisanò.

A Pansa è sempre mancato qualcosa. Per fare un paragone calcistico, Lukaku, il centravanti dell’Inter, non diverrà mai Robert Lewandowski. A Gianpaolo Pansa è mancato quell’x factor per diventare Montanelli o Bocca. Però ci mancherà. È un’altra parte della nostra vita che se ne va.

Le provocazioni beffarde e l’istinto dinamitardo: con lui non finiva mai 0-0

Mi hanno sempre colpito i furori di Giampaolo Pansa, l’impeto con cui investiva la vittima di turno, il politico mellifluo, il collega infingardo, l’asprezza delle sue profezie catastrofiche sull’Italia popolata da troppi italiani per potersi salvare. L’ultima volta che gli parlai fu giusto un anno fa negli studi di Piazza Pulita, quando da uno schermo lontano (così come lunare appariva il suo distacco dalle cose di questo mondo dopo la scomparsa improvvisa del figlio Alessandro) ebbe a definire il Salvimaio “un governo di terroristi”, annunciò la “guerra civile”, a cui unico rimedio, disse, sarebbe stato “un governo di tecnici sostenuto dai militari”. Non provai neppure a replicare: ne conoscevo abbastanza l’istinto dinamitardo, la provocazione anche beffarda mirata a sorprendere comunque il pubblico, perché il giornalista Pansa non faceva mai zero a zero. Non so se in questo giorno gli farebbe piacere il paragone con certi virtuosi del pallone, geniali nell’illuminare l’azione ma troppo innamorati di se stessi, e scostanti, per partecipare al gioco di squadra.

Per una vita ho invidiato il suo strepitoso stile pop nel senso del miglior giornalismo popolare: descrizioni accurate, dialoghi sfolgoranti ma soprattutto metafore passate alla storia come la Balena Bianca con cui immortalò la vecchia Dc. Per un apprendista della carta stampata (mi consideravo tale anche se lavoravo al Corriere della Sera) quelle paginate erano materia di studio da scomporre e ricomporre per cercare di carpirne il segreto. Mi ripeto: quegli articoli erano come la formula della Coca Cola di cui sono noti gli ingredienti ma non la chimica da cui scaturisce il sapore inimitabile. Con Giampaolo ci trovammo all’inizio degli anni 90 all’Espresso dove aveva seguito il grande Claudio Rinaldi come condirettore. Me lo ricordo come il paladino di una sinistra intransigente, preceduto da una medaglia al valore: la tesi di laurea sulla guerra partigiana tra Genova e il Po, un testo che ebbe l’onore della pubblicazione con Laterza. Nelle riunioni di redazione saliva in cattedra con il piglio del docente rassegnato alla mediocrità degli allievi. Da grande affabulatore gli piaceva raccontare un episodio sulla leggenda luciferina di Giulio De Benedetti, suo direttore alla Stampa a cui ebbe la disavventura di sottoporre una recensione non richiesta sul film Il giorno più lungo. Giulio il terribile convocò l’autore e sotto il suo sguardo sgomento prese lo scritto e lo ridusse in mille pezzetti. A questo punto, Giampaolo, con la mano a imbuto, mostrava come il frutto del suo lavoro si fosse trasformato in una nevicata di coriandoli che De Benedetti lasciava cadere con le fatidiche parole: “Ecco, Pansa, cosa faccio del suo articolo”. Sottotesto: care fighette, allora questo mestiere era lacrime e sangue. La vita successiva di Giampaolo è segnata dall’enorme successo de Il sangue dei vinti, sulle efferatezze occultate della guerra partigiana. Con le polemiche incandescenti che ne seguirono e che seppe alimentare con decine di altri titoli. Uno dei quali: La destra siamo noi sembrò dare ragione a quanti sostenevano la sua resa al nemico “fascista”. Altri si chiesero quando è che Pansa avesse smesso di essere di sinistra. Ho sempre ritenuto che avessero torto entrambi: lui pensava di essere rimasto sempre lo stesso, ma non sopportava più l’opportunismo trasformista della sinistra, le falsificazioni faziose dei cantori progressisti, la perdita di contatto con il popolo, la svendita dei propri valori. Oggi possiamo dire che aveva visto lungo. Quando dirigevo l’Unità e molti lettori criticarono il suo parteggiare per i “vinti”, scrisse cose che mi fecero male. Oggi vorrei tanto tornare indietro, alle sue lezioni di giornalismo duro e puro, a quelle passioni che lo accendevano per chiedergli: dai Giampaolo, raccontaci di quella volta che.