Il “gigante” Pansa: gli scoop, la politica e il revisionismo

Oggi la politica è dominata dai retroscena insufflati dai nani dei post-partiti, ma ci fu un tempo in cui a dominare era la scena vera e propria e questa veniva raccontata da un gigante della scrittura e dell’osservazione politico-antropologica come Giampaolo Pansa, morto domenica scorsa a 84 anni, ritornato sul far della sua carriera al Corriere della Sera. Pansa era un gigante anche nel fisico e i suoi articoli sulla Prima Repubblica erano maiuscoli. Compresi i nomignoli che appiccicava a partiti e personaggi. Non solo la famigerata Balena Bianca scudocrociata. Ma anche “animali” minori come il Gatto Verde alias il Pri di Giovanni Spadolini oppure la Pantera Rosa del socialista Bettino Craxi, tornato in auge in questi giorni per il film di Gianni Amelio. Pansa andava ai congressi col binocolo.

Ecco il magistrale attacco sui fischi al compagno Berlinguer, segretario del Pci, al congresso di Verona di Psi, anno 1984. Da Repubblica del 12 maggio di quell’anno: “Una fischiata storica. Sì, davvero una storica fischiata all’ex compagno Berlinguer. E poi insulti, gridati con rabb ia: ‘Venduto! Buffone!’. E poi un coro possente e beffardo: ‘Sce-mo, sce-mo’. Visto col binocolo, Berlinguer sembra impassibile, il solito viso scolpito nel legno, non un trasalimento, non un’emozione”. Lo stesso Berlinguer, né più né meno, che aveva affidato a Pansa la storica intervista sull’Italia più sicura sotto l’ombrello americano della Nato, otto anni prima, nel giugno 1976, per il Corsera.

Pansa era nato a Casale Monferrato, in Piemonte, il primo ottobre 1935. Origini di cui andava fierissimo e che sempre più spesso affioravano negli articoli del suo ultimo periodo, dal Riformista al ritorno al Corriere, passando per Libero e Verità. Si era laureato sulla guerra partigiana nel 1961 e amava ripetere – chi scrive ebbe una lunga consuetudine con lui dal 2004 al 2008, il lustro del cosiddetto ciclo revisionista dei “vinti” – che in quell’anno, a Scienze Politiche di Torino, furono solo in due a diventare dottori. Il suo primo approdo fu alla “casalinga” Stampa diretta da Giulio De Benedetti. È l’epoca del memorabile incipit dell’articolo sul disastro del Vajont che distrusse Longarone nel 1963, citatissimo in queste ore: “Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont”. Indi il Giorno, di nuovo La Stampa (dove fece scoop su piazza Fontana e caso Pinelli), il Messaggero, il Corriere (dove scoprì lo scandalo Lokheed), infine i tre lustri al gruppo Repubblica-Espresso: della prima fu vice di Scalfari, del secondo fu condirettore.

Pansa era un fuoriclasse fuori dagli schemi, dalle parrocchie e dai clan dei colleghi. Capace di clamorosi gesti profetici. Come quando anticipò l’antiberlusconismo di politici e giornalisti nel 1990, abbandonando Panorama (e chiudendo il suo famoso Bestiario) insieme con Claudio Rinaldi per l’arrivo del nuovo editore Silvio Berlusconi. Su una sponda completamente opposta, diciamo così, la sua rottura con il mondo della sinistra quasi quindici anni dopo, a causa dei libri del citato ciclo dei “vinti”. Ossia i volumi dedicati alle vendette partigiane dopo la Liberazione del 25 aprile 1945, a partire dal Sangue dei vinti, appunto, pubblicato nel 2003. Da storico dilettante, definizione cui teneva tantissimo (in tutto Pansa ha scritto oltre sessanta libri in sei decenni), ricevette circa duemila lettere. Disse al Riformista nell’ottobre del 2005, quando poi uscì Sconosciuto 1945: “Questo libro nasce dalle duemila lettere che ho ricevuto dopo il Sangue dei vinti. È stato un fenomeno che mi ha sorpreso ancora di più di quello delle vendite”. Questo per dire che secondo l’ultimo Pansa, che viveva nel Senese insieme alla moglie Adele Grisendi, l’antifascismo militante faceva ancora paura. In ogni caso il revisionismo pansiano fu accolto malissimo dalla sinistra e Giorgio Bocca lo attaccò anche perché, a suo giudizio, con questi libri si faceva un favore al berlusconismo imperante di quegli anni. Ma lui se ne fregava, da bastian contrario di un altro pianeta.

Le pile del Cerrano si spostano di 7 cm. L’allarme del Gip

Il provvedimento del Gip di Avellino, Fabrizio Ciccone, che interdice ai Tir e ai mezzi pesanti il passaggio sul viadotto di Cerrano, lungo l’autostrada Adriatica A14 tra i caselli di Pescara Nord e Pineto, perché “le stampelle con cui è stato costruito il viadotto hanno subito spostamenti tali da rendere le superfici contrapposte, in corrispondenza della mezzeria, schiacciate l’una sull’altra… mentre in corrispondenza delle pile… sono presenti degli spostamenti in profondità dell’ordine di 7 centimetri”, è nelle mani dei dirigenti e dei tecnici di Autostrade per l’Italia dal 18 dicembre. Da più di tre settimane.

Quattro pagine inquietanti, che raccontano lo stato precario di un viadotto che si stava rovinando. E di come si sia reso “assolutamente necessario, per mitigare i rischi connessi al diffuso ammaloramento dell’opera, intervenire con un intervento di limitazione del carico verticale massimo che potrà transitare sul viadotto”. “Ciò – scrive il Gip – avuto riguardo, da un lato, alle imponenti dimensioni del viadotto, alto ben 89,7 metri e con l’interferenza della sottostante presenza di una strada, dall’altro, al mancato rilascio dell’autorizzazione sismica al progetto di risanamento presentato da Autostrade per l’Italia”.

Eccola, l’ennesima criticità della rete autostradale. Scoperchiata dalle inchieste del procuratore capo di Avellino Rosario Cantelmo e dal lavoro dell’Ufficio tecnico ispettivo (Uit) del ministero delle Infrastrutture, diretto dall’ingegnere Placido Migliorino, il ‘cane da guardia’ della sicurezza delle infrastrutture gestite dalle concessionarie autostradali. E, in particolare, di quelle in mano alla società controllata dalla famiglia Benetton, i cui dirigenti volevano “tenere a bada” coi report sui ponti che la procura di Genova considera ‘addomesticati’.

L’ingegnere Migliorino ha coordinato tre ispezioni sul Cerrano, il 19 settembre 2018, il 5 luglio 2019 e il 25 novembre 2019. Il giorno dopo l’ultima visita ispettiva si è svolta una riunione dalla quale si evidenziava come non fosse “ancora pervenuta all’Uit (Ufficio Ispettivo Territoriale)… la necessaria documentazione che dimostri il raggiungimento degli adeguati standard di sicurezza in relazione alle criticità segnalate nel corso delle visite eseguite”. Quali? Erano stati riscontrati “ammaloramenti avanzati, costituiti da ossidazione delle parti metalliche e deformazione di singole componenti delle cerniere di taglio”. Mentre “il progetto di risanamento presentato da Aspi al Genio Civile per la prescritta autorizzazione sismica – si legge nel decreto del gip – era stato ‘oggetto di osservazioni e di richieste di chiarimenti che di fatto hanno sospeso l’iter autorizzativo’”.

Uno stallo che ha reso necessario l’intervento della magistratura, che ha ‘rinforzato’ il sequestro delle barriere bordo ponte – oggetto di altre indagini di Avellino sull’insicurezza dei nuovi sistemi di ancoraggio utilizzati in mezza Italia dopo la strage dei 40 morti del viadotto Acqualonga in Irpinia – e la conseguente chiusura della corsia, aggiungendovi il divieto di transito “per i veicoli con massa superiore ai 35 quintali”.

Da allora il traffico su quel tratto di Adriatica è letteralmente impazzito: code chilometriche, automobilisti inferociti e Tir deviati a Silvi Marina, intossicata dal passaggio di quasi 4mila mezzi pesanti al giorno. Mentre il Riesame ha respinto tre istanze di dissequestro. Non ci sono le condizioni per ripristinare il transito pieno.

Nella nota dell’ingegnere Migliorino, ripresa dal gip in un passaggio chiave del sequestro, “si segnala ‘la presenza di un fenomeno di gravitazione che interessa i pendii in cui è ubicato il viadotto’, il quale sta creando ‘all’interno delle strutture e delle fondazioni uno stato di coazione per il quale sono state prodotte adeguate e circostanziate verifiche globali che dimostrino la capacità del sistema strutturale di resistere’. Pertanto – si legge – non avendo la Società Autostrade fornito ‘valutazioni documentate e rassicuranti sul raggiungimento di adeguati standard di sicurezza’, si impone necessariamente, ad avviso dell’Uit di Roma, l’applicazione di una restrizione della transitabilità dell’opera, consistente nel divieto di transito per i veicoli con massa superiore a 35 quintali in entrambe le carreggiate”.

Proprio ieri Aspi doveva consegnare al Mit una nuova relazione sulla struttura. E nel pomeriggio ha diffuso un comunicato con cui “si precisa che lo spostamento di 7 centimetri non si riferisce alle pile, ma allo spostamento massimo del terreno nei pressi della Pila 1 registrato dalla strumentazione nell’arco di 3 anni (2016-18). Tale valore non si riferisce dunque alle pile del viadotto, che non hanno mai raggiunto movimenti attenzionabili nel periodo considerato”. E le analisi di un pool di esperti dell’Università Sapienza e dall’Istituto italiano della saldatura “hanno confermato – affermano – la sicurezza statica della struttura”.

Nissan, piano segreto per mollare Renault

Nissan sta mettendo in atto il piano supremo per liberarsi di Renault. Almeno stando all’indiscrezione del Financial Times, secondo cui la dirigenza della casa giapponese preme sull’acceleratore per mettere fine all’alleanza tossica con la Losanga, vista dopo vent’anni come un freno allo sviluppo del marchio giapponese. L’operazione appare quanto mai complessa, dati i rapporti di forza all’interno del gruppo, dove a fare la voce grossa è Renault, che detiene con pieni diritti di voto il 43% della Nissan, mentre quest’ultima possiede il 15% della Régie, ma senza quei diritti.

Colpa dell’equivalente di quei 5 miliardi di euro sborsati dai francesi nel 1999 per salvare l’azienda giapponese, che finanziariamente navigava in pessime acque. E che, per tale motivo, in questo ventennio si è dovuta accontentare di una posizione di sudditanza, psicologica e non, con la rabbia che covava comunque sotto la cenere. Solo la diplomazia del latitante Carlos Ghosn (ripudiato dai giapponesi, sta litigando pure coi francesi citando in giudizio Renault per ottenere il pagamento dell’indennità di pensionamento, quasi 250.000 euro, che non è gli stata pagata dopo il suo arresto) aveva impedito deflagrasse. Sotto accusa per illeciti finanziari e latitante lui, stanno volando gli stracci.

Ma come farà Nissan a disimpegnarsi? In questa fase, come sottolinea il Financial Times, il divorzio passa per la separazione netta dei due settori di ingegneria e produzione, che sono per certi versi il cuore di un’azienda automobilistica. Successivamente, saranno necessarie modifiche al consiglio di amministrazione, che restituiscano la piena sovranità a Nissan. Non uno strappo che possa consumarsi in breve tempo, a occhio e croce. Non dimentichiamo però che una delle virtù migliori dei giapponesi è la pazienza, anche se ora qualche segno d’insofferenza c’è. Comunque sia, la strategia potrebbe essere quella di accumulare risorse per poi ricomprarsi la libertà con una complessa operazione di buy-back delle proprie azioni, e in tale direzione pare si stia muovendo l’azienda giapponese. A quel punto, bisognerà capire quale sarà la reazione di Renault, che difficilmente vorrà privarsi dell’apporto soprattutto tecnologico di un partner che ha nella ricerca e sviluppo uno dei suoi punti forti.

C’è poi un’altra questione. In un contesto automotive in cui ci si aggrega sempre più (vedi la fusione Fca-Psa, ma anche la partnership pesante tra Ford e Volkswagen), chi invece si separa è certamente più debole. E ha bisogno di nuovi alleati, perché da soli non si può far fronte agli investimenti su elettrificazione e guida autonoma, temi su cui si gioca il futuro dell’auto.

A condire ulteriormente il quadro, c’è pure una potenziale presenza italiana. È quella di Luca De Meo, l’ex numero uno di Seat, che ha lasciato dopo averla riportata ai profitti, e che proprio dai vertici di Renault è stato contattato per ricoprire quel ruolo da condottiero che un tempo fu di Ghosn. Se accetterà le lusinghe (e il maxi stipendio) di Boulogne-Billancourt, toccherà a lui gestire la patata più bollente di questo inizio d’anno per l’auto.

Atlantia ora s’appella alla Ue per salvare il bancomat Aspi

Sulla strada della revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia, ormai condivisa anche dal Pd come abbiamo scritto ieri, l’ostacolo più grosso per il governo non è affatto l’eventuale risarcimento da riconoscere alla società (semmai ci si aspetta che siano i Benetton a pagarne uno allo Stato), ma i famigerati “mercati” internazionali: il tentativo di difendere il bancomat dei caselli, però, non arriva dagli azionisti diretti di Aspi (i cinesi di Silk Road e la tedesca Allianz con un 12% totale), ma da quelli della controllante Atlantia, il cui pacchetto di controllo (30,2%) è com’è noto in mano alla famiglia Benetton (che ieri ha incassato la nomina di Carlo Bertazzo, loro uomo di fiducia, a nuovo ad).

Sempre ieri – a confermare una volta di più che Luciano Benetton e il manager Gianni Mion non vogliono concedere alcunché al governo – è comparsa sulle agenzie questa notizia: a breve gli investitori internazionali di Atlantia scriveranno alla Commissione Ue per chiederle di intervenire contro la norma in materia di autostrade contenuta nel decreto Milleproroghe. In soldoni, quel testo cambia i meccanismi di risarcimento per revoca della concessione applicando a tutte le società quanto previsto dal codice degli appalti: niente più mega-indennizzi grazie alle clausole regalo del 2007-08, peraltro giudicate nulle anche dalla Corte dei conti (non bastasse il codice civile).

Questa norma è un’inaccettabile modifica unilaterale del contratto, scriveranno a Bruxelles gli azionisti, citando un precedente del 2006, quando la Commissione avviò una procedura di infrazione per il tentativo del governo Prodi di modificare il sistema concessorio in modo che fosse un po’ meno scandalosamente a vantaggio dei privati: ci pensò Berlusconi a chiudere il dibattito nel 2008, quando – appena insediato – fece approvare il regalo addirittura per decreto.

In realtà, le modifiche attuali paiono meno estese di quelle del 2006 e non è chiaro come reagirà stavolta la Commissione, che comunque è storicamente assai sensibile alle sollecitazioni delle lobby finanziarie. I rumors, peraltro, non chiariscono chi tra gli azionisti firmerà la lettera, ma Atlantia è largamente partecipata da investitori esteri: tra i più grandi ci sono il fondo sovrano di Singapore Gic Pte Ltd con l’8,1%, la banca d’affari americana Lazard (5%) e la londinese Hsbc (5%). Anche il 45,7% di flottante, però, è detenuto soprattutto all’estero.

Gli azionisti (e le banche creditrici) hanno comunque buone ragioni per preoccuparsi: senza il bancomat dei caselli autostradali la costruzione finanziaria messa in piedi dai Benetton varrebbe – a voler essere gentili – molto meno di oggi. È sulla base di questo pericolo che ieri anche Standard & Poor’s, dopo Moody’s, ha abbassato il rating di Atlantia a livello “junk”, spazzatura. E di sicuro non è un bel segnale neanche che l’8 gennaio Ugo de Carolis – ad di Aeroporti di Roma (sempre parte di Atlantia) – abbia venduto 27 mila azioni della holding dal valore di circa 570 mila euro.

Sono gli effetti sui mercati il motivo per cui, oltre ai soliti renziani, anche il ministero del Tesoro (seppur guidato dal dem Roberto Gualtieri) è ancora molto cauto sulla revoca: la sola Autostrade per l’Italia ha quasi 11 miliardi di euro di debiti e l’intervento del governo dovrà ovviamente tener conto anche dei rapporti finanziari dell’azienda.

La strada di Conte e soci è però quasi obbligata dalla chiusura dei Benetton a qualunque forma di ripensamento della concessione e questo nonostante i morti di Genova (e Avellino), le mancate manutenzioni, gli allarmi non ascoltati, persino il recente crollo in galleria del 31 dicembre. Il premier, ieri su Twitter, l’ha messa così: “La decisione arriverà presto e poggerà su solide basi tecnico-giuridiche. Ormai è evidente che sono emerse gravissime inadempienze nella gestione. La vocazione di questo governo è di tutelare l’interesse pubblico, non di assicurare un futuro vantaggioso ai concessionari privati. Non faremo sconti a nessuno”. Quanto agli investitori stranieri, “sanno che anche nei loro Paesi vi sono sistemi legali che prevedono rimedi molto severi in caso di inadempimenti così gravi”. Nicola Zingaretti invece, nonostante sia schierato per la revoca, non vuole esporsi: “Il governo approfondisca l’argomento e poi decida sulla base del merito. In uno Stato di diritto si fa così”. E così sarà: l’unico dubbio è se farlo la prossima settimana o dopo le Regionali.

Il Bastiancontrario

Il miglior modo di ricordare Giampaolo Pansa è leggerlo. Apro a caso uno dei suoi libri che preferisco, Carte false del 1986. Pagina 180, “Toro Silente”: è il ritratto di Ettore Bernabei, il boiardo fanfaniano della Rai, dell’Iri e di tante altre cose. Una delizia. “Era il braccio armato di Fanfani, il von Moltke del Bismark di Pieve Santo Stefano. Imponente, l’aria cogitabonda, si collocava sempre alle spalle del suo signore, un po’ per proteggerlo e un po’ per essere pronto a raccogliere gli ordini d’attacco. Per cui la formazione di battaglia risultava la seguente. Davanti, come ‘Pippo il ricognitore’, avanzava saltellando il ben noto Cresci. Poi, scattante, nervoso, arcigno, saettante, veniva Fanfani. Infine lui, Ettore Bernabei, da Firenze, classe 1921, il militare, lo stratega delle guerre di potere fanfaniane e, insieme, il fulmine nelle mani del dio aretino. Mentre Cresci parlava, parlava, parlava come un disco rotto, Bernabei era famoso per i suoi mutismi in pubblico. Pur avendolo avvistato mille volte nei dintorni della Balena Bianca… non ricordo una sua risposta più lunga di due sillabe. S’aggirava nel patio di Palazzo Sturzo, che è le Botteghe Chiare della Dc, come un toro silente, il capoccione proteso in avanti quasi a dar cornate, gli oblò ben aperti e la bocca cucita…”. Questo era Pansa: uno splendido cronista da marciapiede e pittore di strada, attentissimo ai dettagli (girava sempre col binocolo), cattivo come pochi, come solo un bastiancontrario piemontese di provincia sa essere. Abbondava in aggettivi, mai uno superfluo. Inventava soprannomi per rendere meglio l’idea, e sempre la rendeva. Polemizzava coi colleghi leccaculo e venduti, benedettamente immune da quell’ipocrisia mafiosa per cui cane non morde cane e giornalista non attacca giornalista. Capiva poco di politica, ma tutto dei politici: li radiografava fino a spolparli e scarnificarli, leggendo dentro di loro nel profondo con i suoi aguzzi occhi azzurri. E scriveva da dio, aveva sempre scritto da dio. Fin da uno dei suoi primi reportage per La Stampa da Longarone, il paese sepolto nel 1963 dalla frana del Vajont. Attaccava così: “Scrivo da un paese che non esiste più”.

L’avevo conosciuto nella primavera del 1997 nella sede dell’Espresso, in via Po a Roma. Mi aveva chiamato una segretaria del settimanale: “Posso passarle il condirettore Pansa?”. Al mio sì, sobbalzai per la prima volta al telefono per l’esclamazione militaresca, stentorea, cavernosa con cui lui iniziava tutte le conversazioni a distanza: “Pansa!”. Era in viva voce insieme al direttore Claudio Rinaldi: i due avevano letto della mia strana partecipazione al raduno fiorentino degli pseudogarantisti berlusconiani.

E volevano sapere com’era andata. Giuliano Ferrara aveva appena fondato Il Foglio e, per arraffare i miliardi (c’erano ancora le lire) pubblici, s’era inventato una fantomatica “Convenzione per la Giustizia” fra un senatore di destra e un deputato di sinistra: il forzista Marcello Pera e il “verde” ex lottatore continuo Marco Boato. Siccome tutti sapevano che era una finzione, l’allegra brigata organizzò un convegno a Firenze, finanziato da Denis Verdini, che infatti la sera ospitò tutti i relatori a un banchetto sardanapalesco nella sua villa sulla collina di Fiesole. Problema: i relatori (berlusconiani di destra, di centro e di sinistra) erano tutti d’accordo e avevano bisogno di una stecca nel coro. Chiesero a Paolo Flores d’Arcais, che mandò me. Parlai per mezz’ora dicendo tutto quel che pensavo di loro, nel gelo rabbioso dell’uditorio: qualcuno tratteneva a stento le mani e si vedeva che mi avrebbe volentieri strangolato. Pansa e Rinaldi volevano che raccontassi loro com’era andata e mi invitarono in redazione per avere tutti i particolari. Claudio, già piegato dalla sclerosi, era sdraiato sul suo divano, mentre Giampaolo passeggiava su e giù per l’ufficio. Il mio racconto della tragicomica zingarata li divertì e mi chiesero di scriverlo per l’Espresso, ovviamente sotto pseudonimo perché dovevo parlare di me in terza persona. Ci inventammo “Anonimo Fiorentino” e per anni Ferrara tempestò Rinaldi per sapere chi fosse la spia, invano. Mi presentarono i due vicedirettori, Antonio Padellaro e Bruno Manfellotto. E cominciai a collaborare con l’Espresso e a frequentare quei due meravigliosi rompicoglioni. Ogni volta che passavo da Via Po, Pansa mi spingeva nel suo ufficio per spettegolare di questo e quello, annotando il poco che non sapeva su foglietti che poi infilava nelle cartelline del suo archivio, tutto cartaceo, molto simile al mio, ma molto più fornito perché aveva 30 anni di vantaggio.
Naturalmente litigammo infinite volte: era impossibile non litigare con lui, anche perché cambiava continuamente idea. O forse cambiava semplicemente umore (il che, secondo me, spiega il suo accanimento sui delitti partigiani: la sinistra li negava e lo attaccava, lui esagerava all’opposto, per tigna). Quando passò a Libero e io all’Unità e poi al Fatto, ci sentivamo poco. Ma poi ricominciò a chiamarmi quando migrò alla Verità. All’inizio ci si divertiva molto, poi cominciò a lamentarsi. Ogni tanto, dopo il rituale “Pansa!”, buttava lì che, anche se andavamo d’accordo su poche cose, il suo giornale preferito era il Fatto: “Siete il primo quotidiano che leggo, so che non avete padroni né pregiudizi, quindi siete gli unici che non censurano nessuno”. Due volte ruppe con Belpietro e mi propose di portare il Bestiario sulle nostre pagine. E due volte accettai con gioia. “L’hai fatto felice, l’ho rivisto entusiasta”, mi scrisse l’ultima volta la sua compagna Adele Grisendi. Arrivavamo sempre a un passo dalla firma del contratto, poi lui trovava un pretesto per far saltare tutto. Forse fu meglio così, magari avremmo litigato dopo un paio di giorni. Mi mancherà, Pansa. Anzi, Pansa!

Berlusconi presidente? Fantapolitica

La Prima Repubblica, a quanto dice Repubblica, è passata, e io non me ne sono accorta! Ci sono cose che mi sfuggono, come il nuovo “Cantagiro” che tenta un recupero dopo anni di dimenticanza e io non lo sapevo. Mi torna in mente una vecchia battuta: “Il Papa in Uganda era andato a fare Lugandagiro”. L’avete capita? Non importa, in effetti è un po’ facile come gioco di parole. A parte gli scherzi, quando si cominciano a numerare le repubbliche e gli altri eventi, anche così per vezzo giornalistico, l’impressione è quella di uscire dalla cronaca ed entrare nella storia. 3 le guerre puniche e le guerre d’indipendenza, 2 le guerre mondiali, 7 i Re di Roma, 21 i concili vaticani, 43 edizioni del festival di Sanremo, 320 Giochi senza frontiere, 264 i papi, papesse una sola, ma pare sia solo una leggenda, francamente la vedo un po’ dura per una donna fare il Papa. A parte il cambio dei nomi di alcuni grandi partiti politici e il fenomeno di Mani Pulite, la Seconda Repubblica pare somigli molto alla prima. Il fatto storico, ancora un po’ folcloristico a dirla tutta, è la discesa in campo di un notissimo imprenditore, Silvio Berlusconi che, pare, stravincerà le elezioni come ha stravinto sugli ascolti tv. Come si può pensare che un ex intrattenitore e cantante da crociera possa aspirare a entrare in politica? Mah, secondo me non ce la farà mai. Vedremo. Quello che mi chiedo è quanto durerà la Seconda Repubblica e chissà quando ci sarà la terza. Profetessa non sono, ma visto l’andazzo è possibile che i protagonisti saranno magari, che so, dei cabarettisti o delle soubrette… No! Troppo. Sto viaggiando con la fantasia, non è possibile. A questo punto si potrebbe pensare che nasca un nuovo partito fondato da un comico. Siamo in piena fantascienza! Non ci fate caso notoriamente io di politica non capisco niente.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Vita e opere di Bruno Zevi, architetto di un mondo libero

Il libro di Francesco Bello (a cura di) appena pubblicato da Viella (Bruno Zevi intellettuale di confine) offre al lettore molto materiale sulla vita e le opere di Bruno Zevi, personaggio grande e importante della cultura italiana e della cultura del mondo. Ma la vera missione di questo libro è completare un lavoro che, intorno alla vita straordinaria di Zevi, non era mai stato portato a termine: mostrare e spiegare la dedizione totale e totalmente originale a due impegni che sono stati la sua vita, l’architettura e la politica.

Zevi è stato studioso appassionato e innovativo dell’architettura come pratica, come conoscenza, come insegnamento, come critica, come visione, come storia e, in tempi e livelli successivi, come interpretazione della vita collettiva e strumento dell’organizzazione sociale. Ma la vocazione politica di Bruno Zevi ha una sua autonoma e profonda radice nella sua opposizione al fascismo. Ciò che stupisce (in questo e libro e dunque nella vita di Zevi) è l’analogia del tutto unica fra il suo dedicarsi all’architettura, dove gli spazi, i compiti, le visioni rapidamente si allargano, portando, per esempio, allo straordinario dilatarsi del suo impegno dalla ricerca di perfezione di un disegno al rapporto fra cittadino e città, e dunque al divenire maestro di urbanistica; e la sua vocazione politica che lo ha legato subito al mondo dei grandi resistenti italiani emigrati in America e dell’intelligence americana, che ha potuto servirsi di un grande intellettuale italiano in momento cruciale.

Il libro è la narrazione delle vicende italiane ed europee che hanno portato Zevi, ebreo, ad abbandonare l’Italia e l’Europa. Ma proprio queste vicende, comuni a tanti esuli del disastrato mondo fascista, segnano il modo unico in cui Bruno Zevi ha vissuto il distacco forzato. Zevi, giovane studioso, diventa studente di Harvard, allievo di Gropius e si lega prestissimo ai personaggi chiave dell’architettura europea negli anni ’40 e ai grandi intellettuali italiani (Carlo Ludovico Ragghianti) che stavano vivendo la stessa esperienza.

Nello stesso tempo Bruno Zevi diventa, in pochi mesi, parte del folto gruppo di italiani che sono negli Stati Uniti per combattere il fascismo. Ne diventa un protagonista di primo piano e un anello di congiunzione con la parte di intelligence americana incline ad ascoltare le voci e le ragioni della cultura europea.

Nel decennio successivo (anni cinquanta) ho conosciuto uno di loro, Max Ascoli, che è stato a lungo un amico e che mi ha raccontato gli “anni di Zevi”. Poiché ero stato mandato negli Usa da Adriano Olivetti, mi sono trovato all’interno di un cerchio magico che diventerà forte e continuo nell’amicizia con Bruno Zevi e, tanti anni dopo, nella richiesta dei figli Luca e Adachiara di dirigere la rivista Architettura Cronache e Storia, uno straordinario deposito della vita professionale, intellettuale, creativa, politica di Bruno Zevi, che era ancora (ed è tuttora) un grande maestro italiano senza frontiere. Per questo il libro curato da Francesco Bello mi sembra importante e chiede attenzione. Perché, raccontando una vita che importa conoscere, svela il rapporto fra ideali e militanza, fra cultura e progetto, fra professione e politica.

Hammamet: il diario del crepuscolo craxiano, nella vampa di una sigaretta

A Luca Josi gli cerco sempre un punto, una bruciatura, uno sbrego sulla pelle. Precisamente sul dorso della mano destra. Dovrà avercela ancora, chissà. Quando capiterà di rincontrarsi controllerò. Ne sono ipnotizzato di quel punto perché mi sveglia un senso di colpa, la vergogna e poi quel disturbante ingresso della storia nella vita di ogni giorno. Gli è accaduto un fatto: quelli che urlano ragioni che sono state mie – “siete circondati!”, gridano davanti al Parlamento – gli hanno spento una sigaretta sulla carne viva. Sul dorso della mano.

Accade davanti all’Hotel Raphael, a Roma. Bettino Craxi – leader del Psi, protagonista di una stagione che va a concludersi con Tangetopoli – è braccato all’uscita di quella che è stata la sua dimora. Piovono su di lui le monetine e Luca Josi – e pochissimi altri con lui – lo difendono da una muta rabbiosa che ulula rabbia o, quel che oggi si direbbe “odio”. Con lo sprezzo proprio del suo antenato Marc’Antonio Bragadin all’assedio di Famagosta, Josi, leader dei giovani socialisti – promosso sul campo quando ormai tutti abbandonano Craxi – li affronta tutti e uno di loro, uno della mia storia, gli va a spremere la cicca sulla mano. Lo fa per sfregio o, peggio, per sovrappiù di sicumera: ormai è fatta, la gente ha messo fine al Palazzo. L’ha infine circondato, il Cinghialone.

Mi trasferisco a Roma con tutto ormai finito, con Craxi ad Hammamet, in Tunisia, accolto dalla solidarietà “palestinese” e con la gens nova – i beneficiati da Tangentopoli – al governo. Ora il racconto dell’Italia volge verso la Seconda Repubblica. Ognuno ha il suo blues da piangere. Ma quel che tutti vogliono cancellare – la Milano da bere, i congressi del Psi a Bari – perdura tra i rivoli di una diaspora dove c’è qualcuno che fa il pesce in barile, si arrende ai carnefici, e qualcun altro, invece, magari aspetta ma non molla. E chiama al telefono in Tunisia. E neppure sa che tutto questo, giusto oggi, diventa un film: Hammamet di Gianni Amelio. Tolti di mezzo i socialisti, arrivano gli onesti al Governo – così si dichiarano i nuovi: onesti – solo che i craxiani si attardano nei locali notturni, sorridono ai neoparlamentari e ai ministri di fresca nomina e chiacchierano con loro col gusto di bere l’amaro calice della disfatta. E però anche metterli un po’ in imbarazzo. Come la sanno lunga i socialisti, nessuno. A Milano si passa sotto casa di Ornella Vanoni col brivido di sfiorare lo sfolgorante pneuma del carisma, quel che di smagliante aleggia su Roma è nello sguardo di Gino De Dominicis, l’artista che si vede sfilare da sotto il baffo – altro che la Grande Bellezza – il brulicare del fine festa. Un posto dove ci si ferma è il Rubirosa, dalle parti di piazza Navona. Si beve la pina colada, che è il mojito al termine del craxismo e si favoleggia l’arrivo – dopo mezzanotte – di Gianni De Michelis. Si materializzano, infatti, le ragazze. E poi – affascinanti, dalla falcata mozzafiato – ci sono le signore come Elide Melli, la moglie di Massimo Pini. E a Pini tocca dare ripetizioni di segno, significato e linguaggio ai tapini per far transitare la protesta alla proposta. Quindi ci si fa carico di quel che torna a scintillare della sulfurea stagione del dibattito culturale. E dunque Pagina, la magnifica rivista di Aldo Canale con Ernesto Galli della Loggia, Pierluigi Battista, Paolo Mieli e Massimo Fini, soprattutto, il più interpellato per le incursioni eretiche adesso che c’è da trovare contenuti e procedere all’innesto tricolore sul tronco della modernità. Quello che spegne la sigaretta sulla mano neppure lo sa di averlo fatto, e sempre per sovrappiù di sicumera. Quel che oggi perdura nello sbrego di una vampa.

La grande incognita dei rischi bancari: un nuovo crollo alle porte?

Iriti divinatori e i buoni (s) propositi d’inizio anno ci stimolano di analizzare le prospettive macroeconomiche lungo 3 direttrici.

Cosa sappiamo. Con la tregua nella guerra dei dazi tra Usa e Cina (i cui termini sono ancora sapientemente offuscati), la montante pressione recessiva globale ha trovato un punto di sfogo. Gli investimenti delle imprese, sospesi per 20 mesi, riprenderanno cum judicio. L’Europa (specie Germania e Italia) riceverà una boccata d’ossigeno dopo la debilitante crisi del manifatturiero originata dal rallentamento cinese e dall’incertezza nel commercio mondiale. L’inflazione resta soggetta a poche spinte propulsive, quindi le banche centrali non normalizzeranno la loro politica. Gli stimoli fiscali sono efficaci quanto i missili iraniani: in Giappone sono andati a vuoto, in Europa sono fonte di distorsioni e sprechi, in Usa dopo una fiammata iniziale hanno lasciato un bilancio disastrato.

Cosa ignoriamo. I gangli del sistema finanziario evocano viadotti e gallerie italiane: nessuno è in grado di stabilire quando cederanno. Diverse istituzioni finanziarie hanno accumulato rischi che neanche sono in grado di valutare e s’ignora quali siano le interconnessioni profonde tra i vari settori. In sintesi, il grado di fragilità del sistema finanziario internazionale e l’esposizione al contagio costituiscono un’incognita. Se lo scoppio di una bolla dovesse coinvolgere le azioni di blue chip o di aspiranti unicorn (tipo WeWork), le perdite ancorché ingenti sarebbero circoscritte agli azionisti incauti, ma non infliggerebbero danni irreparabili. Sarebbe un deja vu delle dotcom nel 2000–01. Se invece la bolla si abbattesse sui debiti pubblici e privati, la reazione a catena diverrebbe devastante come nella crisi del 2008-09. Con un’aggravante: i bilanci degli stati e delle banche centrali sono già stati saccheggiati per tappare i buchi di dieci anni fa. Solo due governi dispongono di ampie risorse per nuovi salvataggi: quello Usa (finché la gente accetta i dollari) e quello tedesco che si è attenuto ad una prudente disciplina fiscale.

Cosa dovremmo capire. Bisognerebbe dissipare la nebbia che avvolge la trasmissione della politica monetaria ai prezzi e all’economia reale. Le autorità monetarie si ostinano ad adottare misure dettate da modelli obsoleti ed irrealistici, trascurando le mutazioni epocali nella microstruttura delle imprese e del settore bancario. Inoltre l’Innovazione è un fiume in piena: energie rinnovabili, intelligenza artificiale, 5G, genetica, nanotecnologie ecc. Ma il flusso della piena è bloccato da dighe poderose: governi dalla mentalità cavernicola e regolamentazioni concepite per gli anni ’70 e ’80. Se non le si riesamina adeguandole al XXI secolo, la crescita rimarrà angosciosamente anemica.

Corso Francia, l’alcol c’è: “Il rischio di bere ‘ogni tanto’: il goccetto è in ogni tragedia”

Gentile Selvaggia, so di scriverti con un po’ di ritardo rispetto ai fatti. Vorrei parlarti del dramma di Corso Francia e dell’alcol. Sì, l’alcol. Il vino, rosso, bianco, il prosecco, lo spumante delle feste, la birra, lo spritz, i cocktail, gli amari, etc. Lo dico perché a volte mi sembra che quando si parla di alcol non sia chiaro che si stia parlando di questo, non di altro. Siamo troppo abituati a parlare di una bevanda familiare quando si tratta di promuoverla (feste della birra, Vinitaly…) e a parlare di anonimo alcol quando dobbiamo condannarlo (“guidava sotto l’effetto di alcol”), dimenticando che sono la stessa cosa. Sono una psicologa psicoterapeuta, lavoro da più di quindici anni anche (e soprattutto) con persone con problemi legati all’uso delle sostanze, legali e illegali.

Per 7 anni ho lavorato presso un servizio pubblico, occupandomi anche di interventi nelle scuole, nelle autoscuole, in contesti professionali “adulti”, e delle valutazioni specialistiche alcologiche ai fini dell’idoneità alla guida in seguito alla violazione dell’art. 186 del Codice della Strada (guida in stato di ebbrezza). Non leggere questa esperienza come troppo centrata sulla problematicità. Stiamo parlando di vino, spritz, prosecco e mojito. Il confine tra la cosiddetta “moderazione” e la problematicità è molto più sottile di quanto si potrebbe immaginare. Per esempio, quando leggi di un tasso alcolemico di 1,5 gr/l e di un conducente (di qualunque età) che guidava perché si sentiva in grado di farlo, ricorda che ci sono solo due possibilità: o era in realtà in uno stato che non permetteva minimamente di guidare oppure il suo rapporto con l’alcol, visto il livello di tolleranza individuale, andrebbe quantomeno approfondito. Vorrei parlare del dramma di Corso Francia ma solo come pretesto. Molte notizie di cronaca, non solo quelle che raccontano di incidenti stradali, parlano dello stato di alterazione da alcol dei protagonisti. Le reazioni a questo lato delle storie sono sempre le stesse. Delle “non-reazioni”. Lo si sorvola proprio, non ci si sofferma. Viene citato e in un attimo si sta già dibattendo di semafori, di illuminazione stradale, di pioggia e visibilità. Credimi, in merito alla vicenda di Corso Francia non voglio fare la scaletta di chi ha agito meglio o peggio. È stata, questa come tante altre, una disgrazia, un incrocio di destini che avrebbe potuto essere evitato solo con mille irrealizzabili “se”.

Quello che voglio dire è che ho paura che anche questo fatto non servirà ad accendere veramente le coscienze, che nemmeno dopo questo, o la strage dell’Alto Adige, o quelle che ancora verranno, si comincerà a parlare davvero anche di alcol. Non per fare le ramanzine (che al massimo ognuno dovrebbe fare a se stesso), non per chiedere l’inasprimento delle sanzioni o le quasi totalmente inutili campagne shock o informative (chi non sa che è rischioso?), ma introducendo nuovi elementi culturali, in primis attraverso la comunicazione mediatica.

L’alcol c’è. In ogni statistica da lacrime, lui è presente: dagli incidenti stradali a quelli sul lavoro, dagli omicidi o crimini violenti alla violenza famigliare. Nelle sue diverse forme di consumo, cronico e problematico o “solo” occasionale e moderato, quello più subdolo perché fa sentire tutti al sicuro e con la coscienza pulita, anche quando si guida in stato di ebbrezza. Siamo d’accordo, non è quasi mai la causa prima di un fattaccio, molte persone bevono quantità più o meno consistenti di alcol e l’esperienza dice che quasi sempre non accade nulla (o almeno, appunto, nulla di tragico). Ma è innegabile che in certe circostanze, per lo più impreviste, inattese o esacerbate, dove sono necessari riflessi pronti, lucidità emotiva, capacità di ponderazione, aver bevuto o non aver bevuto faccia una differenza enorme sulla gestione di quel singolo istante e sull’esito di una situazione. Certo gli imprevisti esulano dal nostro controllo ma sarebbe bello pensare di non doverne subire sempre gli effetti. Ma con l’alcol funziona sempre un po’ così. Quasi nessuno attraversa la strada se le condizioni del traffico lo rendono un gesto rischioso, quasi tutti guidano dopo aver bevuto.

E allora, che si fa con questa coda di paglia? Ci si autodenuncia? Si consegna la propria patente dopo averlo fatto perché venga buttata, come suggeriscono molti commenti social a fatti di questo genere? Sono mille i fattori di rischio, alla guida e nella vita. Possono essere anche molto diversi da persona a persona. Ma l’alcol da sempre accomuna (quasi) tutti, troppo presente, troppo (volutamente?) sottovalutato e per questo tacitamente accettato, su di lui dovrebbe gravare anche una responsabilità da parte della politica, completamente schiacciata tra etica e (astronomici) interessi economici.

Cosa ti sto chiedendo? Non lo so, niente credo. Ma sarebbe importante che le persone con la posizione giusta (e il “potere”) per stimolare il pensiero iniziassero a riflettere essi stessi e a far riflettere sul ruolo sociale dell’alcol, sulla suggestione a cui siamo costantemente sottoposti e che ci porta a considerarlo scontato. Non ho la soluzione. Ma sarà che queste notizie non cessano di arrivare, sarà che da 3 anni sono diventata mamma e continuo a mantenere la fiducia nell’intelligenza e nella sensibilità umana, ho pensato di condividere con te questi pensieri.
Loredana

 

Cara Loredana, c’è un incrocio prezioso, in chi parla dei pericoli dell’alcol, che è quello tra la strada della demonizzazione e quella del buon senso. Per imboccare la via giusta bisogna essere lucidi, e non è detto che lo si riesca ad essere sempre, anche da astemi. Grazie per le tue parole. Severe, ma “sobrie”.

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