Signore e signori, e carissimo Coen, tenetevi forte lo stomaco perché vi sto presentando un candidato. Un giovane del Sud, un calabrese che vuole diventare onorevole alla Regione e rivoluzionare la sua terra brandendo le bandiere del sovranismo leghista e di Matteo Salvini. Si chiama Alfio Baffa ed è già una star della rete. Un video lo mostra nella sua miserabile grandezza. È appena stato a Roma ad una manifestazione con il suo Capitano. Si è emozionato, stancato, ora sa come cambiare l’Italia. Ha bisogno di relax, allora prende una stanza d’albergo e si fa un bagno. Il suo cellulare lo riprende immerso nella vasca idromassaggio con le bollicine che massaggiano il suo corpo bovino. In bocca un sigaro cubano come Scarface, su un angolo della vasca una bottiglia di rhum. Il messaggio: “Cari amici del gruppo revenge porn, un saluto dopo la manifestazione con Salvini, anzi un brindisi con voi”. E la mano corre ad agguantare un bicchiere di plastica e la bottiglia. Generosa dose di alcol, voce impastata e saluti. Basterebbe questo a riempire quella vasca del giusto vomito degli elettori. Il revenge porn, la pornovendetta, cioè la pubblicazione di foto porno senza autorizzazione, è una cosa schifosa, un reato, un atto ignobile. Ma il leghista alla ‘nduja non prova imbarazzo. Non si scusa. Fa lo spiritoso su fb. “In merito al video che mi sta rendendo famoso mi chiedo: un bagno in vasca fa notizia perché i candidati delle altre liste non sono molto puliti, o forse è una questione di buon gusto e in quel caso ci tengo a scusarmi, non si beve un rhum in un bicchiere di plastica”. Lo schifo, la bassezza, la miseria umana, si possono misurare anche da queste parole. E allora, cari calabresi, se volete sprofondare nella melma, se volete, ancora una volta, dare argomenti a chi vi considera brutti, sporchi e cattivi, votatelo. E votate pure chi l’ha candidato, il suo capitano e Jole Santelli, che con il signor Alfio Baffa vuole governare la Calabria. Senza imbarazzi né vergogna, ristorati da un idromassaggio.
I libri non sono roba da donne: il “Giornale” e le influencer
Caro Enrico, stavolta ti parlo di Carolina Capria. Vive e lavora a Milano. Scrittrice. Il suo account Instagram è @lhascrittounafemmina. Giorni fa il Giornale.it l’ha citata nell’articolo “Social, sessiste e ‘carine’. Ecco le influencer (modaiole) del libro” di Massimiliano Parente: “Questa Capria è una book influencer, una nuova meravigliosa professione del nulla, e parla solo di libri scritti da donne. Immaginatevi il contrario, se un critico, un giornalista, uno scrittore, dichiarasse di parlare solo di libri scritti da uomini. Come se quelli scritti da Virginia Woolf fossero libri scritti per le donne e quelli di Proust o Joyce per gli uomini. (Non so, vorrei far vedere questo account al mio amico Vittorio Sgarbi e solo per fargli urlare: Capria, Capria, Capria)”.
La Capria voleva sottrarsi alla provocazione. Ci ha ripensato. Spiega: l’articolo delegittima me e le mie colleghe. Un paio d’anni fa aveva deciso di portare “dei temi a me cari sui social e quindi di iniziare a parlare di parità attraverso i libri, perché i libri sono il centro della mia esistenza da sempre, sono e sarò sempre una lettrice. Non è il mio lavoro, per il semplice motivo che non ci guadagno e ho deciso che mai ci guadagnerò: lo faccio perché ci credo, perché fare attivismo per me è fondamentale”. Il problema è che lei si è sentita “professionalmente sminuita perché sono una donna, sono giovane (giovane, poi? Ho 40 anni, seriously?), sono carina. Gente che senza conoscermi mi chiama per nome e mi dà del tu (arrivando a definirmi “tizia” o “questa”), che mi tratta come una scolaretta, che mi riversa addosso condiscendenza e paternalismo. Non ho autorevolezza non perché non possiedo ciò che me la attribuirebbe, ma per quello che sono: donna, giovane, carina. Devo stare buona e zitta. Perciò non posso occuparmi di cultura, e se lo faccio la mia cifra stilistica è ovviamente la superficialità. Un modo come un altro per rinsaldare le fila di questa società patriarcale e sessista, e ribadire che gli uomini, solo loro, si occupano di cose importanti”.
La “sorgente” di Delrio e Orlando: cattolici e riformisti per la famiglia
Nicola Zingaretti annuncia il “partito nuovo” – obiettivo di vastissima portata che già perseguì a suo tempo Palmiro Togliatti per la costruzione della democrazia “progressiva” – e c’è già chi nel Pd si porta avanti formulando scintillanti sintesi dalla semantica roboante, per mescolare le due tradizioni dem, quella postcomunista e quella postdemocristiana.
Per la serie: ecco a voi il riformismo comunitario, che mette insieme ben tre big come Graziano Delrio, Andrea Orlando e l’ex segretario Maurizio Martina. Guai però a chiamarla corrente, ha avvertito Delrio, oggi capogruppo alla Camera, sabato scorso a Torino. Meglio “sorgente” come ha titolato con grande evidenza ieri in prima pagina il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire. “Una sorgente di stimoli”, per la precisione. Il teorico del riformismo comunitario è un parlamentare cattolicissimo del Pd, Stefano Lepri, organizzatore del convegno.
In pratica una terza via tra Stato e mercato – nella consueta forbice lib-lab che ha già tagliato ambizioni di vario genere in questo campo – e che stavolta si fonda su un progetto riformista basato sulla “intermediazione sociale”. In Italia c’è molto da ricostruire, è stato detto a Torino, e bisogna ripartire dalla famiglia, come ha ammesso da “laico” l’ex Guardasigilli Orlando nel suo intervento. Insieme quindi si trovano il popolarismo sturziano, che si differenzia dal populismo perché non assolutizza il popolo (Castagnetti), e il riformismo di matrice socialista. E questo nucleo nuovo del Pd, fatto per allargare e includere, interessa anche due tra gli intellettuali di punta del nuovo corso bergogliano nella Chiesa. A Torino infatti hanno parlato l’economista Leonardo Becchetti, editorialista di Avvenire, e il politologo gesuita della Civiltà Cattolica, padre Francesco Occhetta.
Due personalità, cioè, del futuribile “partito cattolico” che da tempo agita il dibattito politico. L’obiettivo è forte: condizionare da una posizione di centro la futura creatura politica di Zingaretti e non lasciare spazio a progetti alternativi. Però il segretario sembra voler andare soprattutto a sinistra. Ergo si riproporrà il bivio per i cattolici: che fare?
Gli anelli della vendetta: “Pochi credevano in me”
Quando nel 2018 il ginnasta Marco Lodadio vince la sua prima medaglia internazionale agli anelli, un bronzo ai Campionati del Mondo a Doha, la sua reazione fu guardarsi attorno spaesato, perdere le forze – lui che di forza ne ha così tanta –, gettarsi in ginocchio incredulo e portarsi le mani agli occhi per asciugare le lacrime del pianto. “Venivo da un periodo molto difficile,” racconta, in una mattinata passata insieme al Campidoglio a Roma. Dietro il simpatico accento romano, il volto da pischello furbo e gli occhi felini, c’è un ragazzo autentico con gli occhi lucidi del ricordo: “Soltanto un paio di anni prima, volevo lasciare la ginnastica perché non credevo di avere tutto questo talento, di poter diventare uno di quei campioni che seguivo da piccolo. Sai, quando ti dici ‘è troppo bello perché succeda proprio a me’. Poi, grazie alla mia famiglia e le persone più vicine, ho capito che la ginnastica era il mio presente ed è il mio futuro”.
E il presente appartiene a Marco: dopo l’oro agli Europei di Minsk, a ottobre migliora il risultato del 2018 ottenendo una medaglia d’argento sempre nella disciplina degli anelli ai Mondiali di Stoccarda, valida come qualificazione per le Olimpiadi di Tokyo (dove però non sarà il solo azzurro: a tenergli compagnia il collega di nazionale Ludovico Edalli che concorrerà, invece, per il concorso generale). E di nuovo, le lacrime. Stavolta, tuttavia, solo gioia pura senza incredulità alcuna: Marco è oggi un atleta ponderato, consapevole dei propri mezzi. “Quando sono saltato giù dagli anelli e ho stoppato in equilibrio il mio esercizio, sapevo di aver fatto bene.” Quell’esercizio, Marco lo perfezionava da almeno un anno, dedicandogli ore e ore di allenamenti durante la giornata.
Sono rare le certezze sul conto della mente umana, forse il territorio più esplorato e insieme più incompreso, ma tutti, come insegna una certa tradizione cinematografica, una volta messi di fronte a un grande o piccolo successo ripensano al prezzo che quello stesso risultato ha preteso. In quelle lacrime scorrono il Marco bambino vivacissimo che a dieci anni viene scoperto da Giri Rocchini (CT della Nazionale azzurra) e inizia a fare ginnastica seriamente allenandosi con i grandi, i genitori che macinano in auto 50 km all’andata e altri 50 al ritorno per portarlo ad Acquacetosa a perfezionare il suo talento, e ancora i dolori fisici tutte le sere in cui non può uscire con gli amici e deve restare a casa perché deve mettere il ghiaccio su braccia e gambe, o perché deve gestire le ore di fatica e di riposo.
1,60 mt per 58 chili, Marco è il nuovo signore degli anelli. A vederlo da vicino, colpiscono le mani da guerriero consumate dal lavoro con i calli alle dita e sui palmi, ma soprattutto le braccia: possenti, vigorose, nervose, piene di curve, scolpite da colline e declivi di muscoli degne di un marmo classico. Gli servono per riuscire a rimanere sospeso agli anelli perfettamente immobile, così ieratico da sembrare leggero. Mentre è lì, in aria precisamente in asse – durante una “rondine” o una “croce” – si direbbe sia in volo, tanta è la precisione durante l’esercizio e tanta la levità con cui si poggia a terra.
“Da piccolo giocavo in piazzetta con gli amici a Cocciano, un quartiere di Frascati – racconta Marco – e quando ho iniziato con la ginnastica, per spiegare cosa facevo in palestra, aggiungevo ‘come Yuri Chechi’”. Eppure, il primo avversario contro cui da ragazzo deve lottare, è lo scetticismo. “Qualcuno non credeva fossi un anellista puro,” precisa il ginnasta, che si è tatuata la frase “La verità è figlia del tempo”. Umile e determinato, Marco si nutre della paura di non arrivare mai, per spingere quando le braccia gli fanno male o i polpacci tirano. Per caricarsi, gli piace ascoltare il rap, la trap, il versante hip-hop della musica: tra tutti, Salmo. Il padre giocava a calcio e la madre ha fatto parte della nazionale juniores di atletica: lo sport gli corre nelle vene. Ma non è tanto la predestinazione quanto il costante lavoro agli anelli a condurlo dritto a Tokyo. “Partecipare alle Olimpiadi è un sogno che si realizza. Una volta lì, darò il massimo!” E chissà che vedendolo a Tokyo, mentre volteggia agli anelli con lo stesso coraggio di Davide che sfida e batte Golia o mentre sale sul podio brandendo una medaglia, qualche ragazzino che si allena nella palestra del proprio paese non sogni di diventare proprio “come Marco Lodadio”.
I peones nell’oblio di “Tutto il Calcio”
Le celebrazioni del 60° anniversario di Tutto il calcio minuto per minuto, la trasmissione radiofonica più amata dagli italiani, si è risolta su tutti i media, com’era prevedibile, nella beatificazione dei suoi due primattori storici, Enrico Ameri e Sandro Ciotti. Due giganti, due monumenti.
Ma chi, come noi, ha trascorso le domeniche della giovinezza attaccato alle radioline non può non conservare nel cuore la struggente nostalgia per ogni voce di quella magica trasmissione e non rimpiangere, senza distinzione alcuna, Bortoluzzi e De Luca, Dotto e Provenzali, Ferretti e Pasini; per non parlare dei peones, i radiocronisti diseredati come Ezio Luzzi che dai campi della B interveniva per raccontare un calcio d’angolo in Cavese–Sambenedettese mentre in serie A si decideva lo scudetto; o come Enzo Foglianese da Grumo Appula, provincia di Bari, che col suo stile stralunato, quasi naif, era un po’ il Marcello Giannini della radio; e che oggi vogliamo qui ricordare perché se è vero che per vincere una Champions oltre a Shevchenko e Kakà serve Gattuso, per fare di Tutto il Calcio una leggenda c’è stato bisogno di Ameri e Ciotti, certamente, ma anche di Enzo Foglianese. Portabandiera di tutti i peones, da Ezio Luzzi a Tonino Raffa, da Emanuele Giacoia a Rolando Nutini, da Franco Strippoli a Fedele La Sorsa, da Luigi Tripisciano a Pier Paolo Cattozzi, quelli che oggi nessuno ricorda. In loro onore, ecco il meglio delle frasi celebri del più peone di tutti, Enzo Foglianese. A suo modo, un grande. E ci scuseranno, Ciotti e Ameri.
ORA ESATTA. “Il Bari ha pareggiato su rigore con Maiellaro al 45° minuto, cioè a 30 secondi dalla fine della partita”
DUBBIO ATROCE. “Un calcio di rigore che non sappiamo a favore di chi è stato fischiato”.
CONCISIONE. “De Luca, posso concludere da Milano?” (De Luca: “Certamente”). “E allora niente, ho già detto tutto”.
CONCILIANTE. “Napoli in vantaggio esattamente al primo minuto, però siccome cominciava il secondo minuto della ripresa, decidi tu se è il primo o il secondo”.
“Il Genoa sta per sbattere un calcio d’angolo dalla destra”.
“Zaini pressato crossa tangenzialmente da fondo campo”.
ALFABETO MUTO. “Dalla bandierina di sinistra, di destro, Chierico prende accordi da lontano con i compagni”.
HARAKIRI. “Tassotti aspetta che Ancelotti si apra sulla destra”,
YOGA. “Colombo cerca di meditare sul pallone”.
POCHE PAROLE. “Zero a zero: c’è niente o poco o niente o quasi da dire”.
SCENA DEL CRIMINE. “Il Genoa sta per battere un calcio di punizione dalla fascia destra: c’è un giocatore che per ora non è possibile identificare”.
VOLTASTOMACO. “Adesso si rimette per una rimessa laterale”.
POSTE ITALIANE. “Riceve il suo sinistro Perrone”.
MARIA GORETTI. “È un Ascoli che tende a difendere la sua integrità”.
S.O.S. “Attenzione! C’è qualcuno sulla sinistra!”.
CAPE CANAVERAL. “Va su Barros la palla, ma Barros è troppo basso per raggiungere in quota il pallone”.
Rc auto in formato famiglia. Ma lo sconto diventa rincaro
L’obbligo dell’Rc auto, si sa, è croce per l’automobilista costretto a sborsare in media 410 euro nel terzo trimestre 2019, un premio più basso di circa 10 euro rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente (dati Ivass), ma comunque tra i più alti in Europa. Ma è delizia per le compagnie assicurative che possono contare su profitti ragguardevoli. Basta pensare che negli ultimi sette anni hanno conseguito 9 miliardi di utili solo nell’Rc auto con 50 miliardi di profitti complessivi. Ottimi risultati economici raggiunti grazie a un’assicurazione che dovrebbe, invece, portare a un pareggio tra le entrate (quando pagano gli assicurati) e le uscite (il costo dei sinistri, tra l’altro in leggero calo dello 0,3% nel 2018 sull’anno prima). Un mucchio di soldi che ora, però, sono messi a rischio da una delle novità previste dal dl Fisco convertito in legge: l’Rc auto familiare.
Facciamo chiarezza. La norma voluta da M5S consente a un nucleo familiare di assicurare auto e due ruote usufruendo della migliore classe di merito presente all’interno della famiglia. Una possibilità valida non solo per le nuove polizze, ma anche al momento del rinnovo delle polizze esistenti. L’importante è che non si siano verificati sinistri negli ultimi 5 anni. Una chance che potrebbe portare a risparmio di mille euro all’anno, secondo le simulazioni elaborata da Facile.it, per una famiglia con 4 mezzi di cui 2 auto in prima classe di merito e due moto in 14 classe. Uno sconto che, tuttavia, non è proprio andato giù all’Ania, l’associazione che racchiude le imprese assicuratrici, che per difendere i propri interessi economici già ha lanciato una minaccia a fine dicembre: “La norma, lungi dal produrre gli effetti utili attesi, finirebbe per impattare negativamente sui prezzi soprattutto a danno degli utenti più virtuosi” e “condurrebbe a conseguenze davvero distorsive per la sostenibilità del sistema assicurativo della Rc auto, a danno di tutti gli utenti”.
Parole chiarissime da decifrare che hanno colpito nel segno: la norma, salutata con toni entusiastici come nuova forma di equità sociale, è stata rinviata al 16 febbraio 2020. “Si rende necessario prevedere un tempo minimo di adeguamento tecnologico dei sistemi di tariffazione ed emissione polizze”, è stato scritto nella relazione della norma.
Ma vale comunque la pena aspettare, visto che la misura migliorerà le condizioni di risparmio garantite fino a oggi agli automobilisti dalla legge Bersani del 2007 che consente solo ai veicoli della stessa tipologia (auto e auto) appartenenti ai proprietari dello stesso nucleo familiare di poter essere assicurati accedendo alla classe di merito più favorevole sia rimanendo legati alla stessa compagnia che cambiandola. Di fatto, chi stipula un nuovo contratto solo in caso di acquisto di un veicolo aggiuntivo può utilizzare l’attestato di rischio del titolare ed ereditare, così, la stessa classe di merito. Insomma, una differenza non di così poco conto, tanto che potrebbe portare a un risparmio fra il 30% e il 40% sulle polizze Rc auto di 42 milioni di veicoli assicurati in Italia. E che sale di più nel caso in cui in famiglia c’è un motorino in 14esima classe e un’auto in prima.
Ma chi pagherà, il conto delle nuove assicurazioni? Certamente non le compagnie che giudicano “la presunta rivoluzione nella Rc auto una vittoria di Pirro”. “Se i costi rimangono inalterati e la raccolta premi diminuisce, significa che le imprese non si potrebbero sostenere”, ha spiegato l’Ania, secondo cui “per evitare che questi premi gravino su pochi, è necessario andare a redistribuirli su tutti”. E così l’estensione della possibilità di guadagnare la prima classe di merito imporrà di spalmare i costi sugli altri assicurati. Secondo i dati di Facile.it, si tratta di un possibile rincaro del 2,6% per circa 40 milioni di veicoli, dal momento che in circa 2 milioni (il 5% degli assicurati) potrebbero entrare in prima classe e ottenere circa il 50% di risparmio se l’altro veicolo si trova in quattordicesima classe. Prezzi più alti che equivarrebbero, secondo Facile.it, a un aumento di 25 euro per gli assicurati della Campania che da sempre pagano l’Rc auto più alta d’Italia.
“Bisognerà anche verificare – sottolinea Fabrizio Premuti, presidente di Konsumer – se le compagnie assicuratrici aumenteranno, ad esempio, i prezzi delle garanzie accessorie, come le polizza del guidatore, o diminuiranno lo sconto applicato a chi installa la scatola nera. Si tratta di aumenti minimali per ogni singolo automobilista che rischiano di non essere percepiti, ma che nel totale valgono milioni di euro in più per le compagnie”.
Tesla sbarca in Germania, grazie ai soldi di Fca
Pagare pegno per abbattere virtualmente l’anidride carbonica prodotta dai propri veicoli. È quanto farà Fca, che cederà a Tesla 1,8 miliardi di euro fino al 2023: in cambio, nel conteggio delle emissioni medie generate allo scarico dai modelli Fca rientreranno anche quelle, pari a zero, delle vetture 100% elettriche di Elon Musk. È il meccanismo dei “crediti di carbonio”: chi inquina di più va incontro a sanzioni, chi produce meno CO2, invece, può vendere la sua virtù ecologica, aiutando i costruttori meno eco-compatibili a ottemperare ai paletti di legge imposti dall’UE. Va da sé che Tesla, con un’offerta di sole auto elettriche (367 mila nel 2019) ha montagne di crediti da vendere e tanto da guadagnare. Denari che si intrecciano col programma di espansione dell’azienda californiana: la sua quarta Gigafactory – così si chiamano le mega fabbriche di Musk – sorgerà nella periferia est di Berlino, in Germania. “I soldi derivanti dai crediti di carbonio finanzieranno efficacemente il nuovo impianto europeo della Tesla”, sostiene Ben Kallo, analista della Robert W. Baird & Co, banca di investimento americana. Il complesso occuperà una superficie di circa 300 ettari e Tesla. Oltre alle batterie, verranno assemblate le Model 3 e Model Y a partire dal 2021. La capacità complessiva dell’impianto, che costerà 4 miliardi di euro, è stimata in 500 mila vetture l’anno. Saranno impiegati, inizialmente, 3.000 addetti, ma a regime la forza lavoro potrebbe arrivare a 8.000 persone. Tutto grazie al gentile contributo di FCA.
La mossa del divino Elon: risiko in arrivo?
C’erano un sudafricano, un italoamericano e un tedesco. Sembra l’inizio di una barzelletta, ma se si pensa a Elon Musk, a Fca e alla Germania, non lo è poi così tanto. Perché se a prima vista può far sorridere che il “divino Elon” realizzi nei dintorni di Berlino la sua Gigafactory coi soldi (due miliardi di dollari) che Fca ha guadagnato negli Usa e ha poi “girato” a Tesla in crediti verdi per evitare multe future in Europa, si torna seri nel riflettere sul perché lo abbia fatto. Sul perché, cioè, un costruttore con bilanci in sofferenza decida di andare a produrre auto elettriche e batterie (ovvero roba che ad oggi non si vende granché) nel cuore dell’Europa a motore termico, quando gli altri, semmai, cercano posti con tassazioni e costo del lavoro più basso, verso l’est ad esempio. Per di più, anticipando gli stessi padroni locali del vapore. Ora, non v’è dubbio che Musk sia un tipo pittoresco, ma di certo stupido non è. Quale può essere il suo tornaconto? Primo: farsi trovare pronto quando il mercato delle elettriche porterà volumi degni di questo nome anche nel Vecchio Continente. Il che, a occhio e croce, non succederà prima di qualche anno, giusto il tempo di far girare a regime la “fabbrichetta” nuova. Secondo: vendere batterie a chi ne avrà bisogno, o costruire per conto terzi (l’esempio Magna Steyr in Europa, è illuminante). Ma c’è una terza opzione: dopo Usa e Cina, avere un impianto produttivo anche in un terzo continente significa essere più appetibile anche per eventuali, futuri compratori. E non è detto che non ce ne sarà bisogno.
La stangata del 2020. Multe fino a 34 miliardi di euro
Avranno modo di giudicare la Brexit come una bega nazionalista da pianerottolo, tra qualche mese. Proveranno tenerezza per le schermaglie al vetriolo su dazi e politica fiscale tra Cina e Usa. Tutte polemiche che a fine 2020 le case automobilistiche in Europa rimpiangeranno, alle prese come saranno con un incubo: contabilizzare i danni delle nuove norme sulle emissioni di anidride carbonica, cioè fuggire dalle multe.
Nei 12 mesi precedenti, ogni marchio avrà dovuto esibire una media pari a 95 g/km di CO2 sul 95% della propria gamma, percentuale destinata a toccare il 100% nel 2021. La penale è di 95 euro per grammo oltre il limite, moltiplicato per il numero di auto vendute. E gli esperti del settore non sono certo ottimisti: Il monte delle multe ipotizzabili oscilla tra i 14 miliardi di euro pronosticati dagli analisti di IHS Markit fino ai 34 miliardi di euro stimati da Jato. Sarà impossibile scaricare sui clienti queste cifre, di cui oltre il 75% graverà sulle aziende, riducendone drasticamente la capacità di investire in ricerca e sviluppo per rispondere agli ulteriori limiti alla CO2 già previsti per il 2025.
Già oggi gli specialisti di ISI Evercore sottolineano come “molti marchi potevano gestire meglio la transizione, e invece si ritrovano colti di sorpresa”. Incredibile che con limiti approvati nel 2014 oggi non riescano a costruirsi la giusta media. Hanno pensato tardi alle emissioni zero dell’elettrico, arrivate ora sul mercato senza aver strutturato costi e reti di distribuzione energetica, e soprattutto trovato clienti.
Sappiamo che Toyota ne uscirà indenne, per aver popolato i suoi listini negli anni con le emissioni ridotte del’’auto ibrida. Su questa direzione ora accelerano il gruppo Volkswagen e quello Psa. I favoriti secondo gli analisti di Kepler–Chevreux, o almeno quelli messi meglio rispetto a Renault e Mercedes, indietro nelle vendite delle proprie auto ibride come Bmw, Ford e Mazda.
La sorpresa nei pronostici è quella del gruppo coreano Hyundai e Kia, pronto ad una svolta a doppia motorizzazione, così come Honda, battitore libero verso le posizioni più alte della classifica dei sopravvissuti. Fca, aspettando la fusione, dipende dai crediti verdi che compensano le sue emissioni, pagati a Tesla. Tutti, cercando soluzioni, avranno ripreso a guardare le analisi di Acea, l’organizzazione dei costruttori automobilistici in Europa. C’è l’evidenza scientifica che i motori a gasolio più moderni aiutano la media, cioè emettono meno C02 di quelli a benzina equivalenti per potenza, spinti in alto nelle vendite proprio dagli scandali in salsa Dieselgate. Le case automobilistiche hanno già cominciato a pensarci. Piuttosto che multe da incubo, per un paio d’anni meglio un revival.
L’Italia può sostenere il debito. Ma forse non vuole più farlo
C’è un problema politico con il debito pubblico, ma è più profondo della semplice incertezza sulla sopravvivenza del governo alle elezioni regionali in Emilia Romagna e alla crisi interna al Movimento Cinque Stelle. I sintomi del problema sono evidenti, anche se la politica non ama parlarne: lo spread, cioè, la differenza tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani a 10 anni e quelli tedeschi di pari durata, è alto, sopra i 130 punti base. Per dare un’idea, il Portogallo – non esattamente la più dinamica delle economie europee – ha uno spread di 39. E la forbice tra i due Paesi continua ad allargarsi. Bloomberg Opinion ha pubblicato un’analisi di Marc Ashworth, responsabile delle strategie di mercato per una società finanziaria cinese, dal titolo allarmistico: “Ci sono quaranta miliardi di ragioni per evitare l’Italia”. Si tratta dei 40 miliardi di debito pubblico che il Tesoro deve vendere a gennaio, due terzi delle emissioni nette del 2020.
Intendiamoci: non c’è alcun rischio che le aste del Tesoro vadano deserte e, nel decennio della crisi, il dipartimento che al ministero si occupa del debito è riuscito a sfruttare le condizioni di mercato favorevoli per ridurre la spesa annuale dell’Italia mentre il debito aumentava. Ma è chiaro che un problema c’è, se il mercato continua a dare un prezzo così elevato al rischio del debito pubblico italiano rispetto ad altri Paesi con economie più piccole e in teoria meno solide.
A una recente conferenza a San Diego, Larry Summers ha offerto una chiave di lettura. Summers, già preside di Harvard e segretario al Tesoro degli Usa, è uno degli economisti più influenti nel dibattito su quella che lui ha definito la “stagnazione secolare” (bassi tassi di interesse e bassa crescita permanenti). Sul debito la “regola di Summers” è la seguente: i mercati prezzano il rischio dei titoli pubblici non sulla base della “capacità” di uno Stato di far fronte ai suoi impegni, ma sulla “volontà” di farlo. La differenza tra Stati Uniti e Argentina sta tutta qui. Immaginiamo che gli Stati Uniti debbano far fronte a uno shock improvviso che implica un aumento di spesa pubblica paragonabile a quello della Guerra Fredda, 3 per cento del Pil all’anno, per fermare un asteroide che sta precipitando sulla terra o per affrontare la crisi climatica. “Sono abbastanza sicuro che nessuno penserebbe a una bancarotta imminente degli Stati Uniti”, dice Summers. I mercati sanno fare i conti: un aumento del 3 per cento della spesa pubblica sarebbe gestibile, con un po’ di aumenti di tasse, qualche taglio ad altre voci, un aumento del debito pubblico. Se lo stesso shock arrivasse in Argentina, i mercati si aspetterebbero la reazione abituale dei politici di Buenos Aires: una bancarotta che scarica il peso della crisi sui creditori internazionali.
Se applichiamo la regola di Summers all’Italia, non c’è dubbio alcuno che il Paese abbia la capacità di far fronte ad aumenti di spesa (o a improvvisi picchi dei tassi di interesse sul debito, oggi improbabili). Ma c’è la volontà politica di farlo? Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, la legge finanziaria appena approvata dal Parlamento prevede nel prossimo triennio una riduzione di entrate (dai 7,5 miliardi del 2020 ai 3,9 miliardi del 2022) a fronte però di un aumento di spese considerevole (da 0,7 miliardi quest’anno a 11,3 miliardi del 2022). E questo al netto delle clausole di salvaguardia, cioè quegli aumenti di tasse automatici già previsti (21 miliardi nel 2020) che i governi poi cercano di evitare, di solito facendo deficit.
La reazione quasi isterica di tutti i partiti di maggioranza all’ipotesi di introdurre nuove tasse o di rimuovere bonus elettorali ormai permanenti (80 euro, quota 100) ha dato il chiaro messaggio che non ci sono condizioni politiche in Italia per usare la leva fiscale per aumentare le entrate, se necessario. Anche il programma di privatizzazioni da 18 miliardi all’anno è scomparso, sostituito da vaghi piani di passaggi di quote azionarie dal ministero del Tesoro a una controllata del ministero del Tesoro (la Cassa depositi e prestiti), in ogni caso compensati da nazionalizzazioni striscianti di aziende in crisi, dal Monte Paschi ad Alitalia a Ilva a PopBari.
Dal lato della spesa, le cose non vanno meglio, ogni progetto di revisione metodica e mirata è stato abbandonato, perfino sulle tanto contestate concessioni c’è stato un intervento orizzontale, senza valutazioni di merito. Possono arrivare risorse dalla crescita, che spinge il Pil e dunque le entrate? No. L’economia è piatta e nessuno sa bene come farla ripartire. Per citare ancora Summers, “l’Ocse dovrebbe vergognarsi, propone le stesse riforme strutturali in situazioni di troppa inflazione e in momenti in cui il problema è l’opposto, l’inflazione troppo bassa.” L’opposizione trasversale a condivisione di risorse e di rischi a livello europeo – vedi la polemica sul fondo Salva Stati Mes – ha dato il segnale che neppure da Bruxelles possono arrivare sostegni all’economia italiana.
Anche senza prendere sul serio i ricorrenti progetti di mini-Bot o uscite notturne dall’euro, insomma, i mercati stanno ricevendo dai partiti italiani il messaggio che l’Italia ha la capacità di far fronte agli impegni che il suo alto debito pubblico comporta, ma forse non ha più la volontà politica (e il necessario consenso popolare) per farlo.