Corsi on-line in 179 paesi, la maxi-frode made in Pakistan

Danny Krane ti guarda negli occhi in video mentre sorride fiera e dice di essere a capo del dipartimento di legge di una delle università più prestigiose al mondo, la Newford University. La Must University promette eccellenza professionale, qualifiche uniche, carriere brillanti. Altrettanto ripete la California Port University. Elogi si leggono sui sito della Neil Wilson University, la Presley o la Grant Town, che esibiscono centinaia di testimonianze di studenti entusiasti dell’utilità dell’istruzione ricevuta.

Tutti quelli che si sono trovati dall’altro lato dello schermo, ad ogni latitudine del mondo, hanno osservato, riflettuto, magari dubitato, ma poi si sono iscritti, pagando migliaia di dollari dopo qualche click, ai corsi on line di istituzioni che si dichiaravano americane ed inglesi, che avevano invece tutte sede solo nel mondo virtuale e nei server di computer custoditi in uno stanzino polveroso, squallido e lontanissimo, molto distante dall’America o Gran Bretagna in cui dicevano di trovarsi. Cattedratici e dottorandi in video erano attori, gli indirizzi delle università su Google maps combaciavano con quelli di depositi abbandonati o ristoranti messicani: il cuore dell’enorme impero delle università fasulle pulsava – e continua ancora a battere oggi- in Pakistan.

Dietro “la più grande operazione del genere mai vista”, come ha detto un’investigatrice dell’Fbi, c’è la Axact, compagnia digitale pakistana di Karachi da 2mila dipendenti, e dietro la Axact c’è il compulsivo affarista criminale Shoaib Ahmed Sheikh. Astro nascente e poi stella cadente del business e della politica pakistana, diventato miliardario con il potere dei software e della menzogna, ha guadagnato oltre cento milioni di dollari, secondo il dipartimento di giustizia americano, vendendo certificati fasulli di università inesistenti in tutto il mondo.

Non solo ricco, ma ossessionato dalla ricchezza: “Avevo solo un sogno, diventare il più ricco del mondo, più ricco di Bill Gates” diceva Sheikh alle conferenze pubbliche tenute in giro per il Paese e trasmesse in tv. Le telecamere gli piacevano tanto, prima che lo riprendessero in manette. Finito sotto indagine nel 2015 per aver frodato in 179 Paesi centinaia di migliaia di persone – un terzo di loro americani-, il mogul è stato accusato di cybercrimine, riciclaggio e frode, ma non ha mai smesso di proclamare la sua innocenza.

Quando gli investigatori pachistani hanno fermato l’uomo, non hanno fermato i suoi software, né impedito alla “fabbrica delle lauree” della sua società di funzionare e continuare a produrre, emettere e spedire certificati finti da un lato all’altro del pianeta, da Singapore a Londra. Scoperto lo scandalo, nella Capitale inglese la polizia britannica ha dovuto riesaminare 700 casi vagliati dall’esperto forense Gene Morrison, assunto con un certificato fabbricato negli uffici di Karachi.

Rilasciato su cauzione da un giudice che ha ammesso in seguito di essere stato corrotto, Sheikh è stato solo pochi mesi in prigione. Il processo contro il tycoon è collassato perché, dileguandosi uno dopo l’altro, minacciati, picchiati o vittime di attentati, i 79 testimoni coinvolti nel caso sono scomparsi o si sono tirati indietro. Nonostante la decifrabilità elementare delle prove rinvenute – colonne dal pavimento al soffitto di fogli bianchi con i loghi delle università immaginarie negli uffici della Axact, nomi completi e bonifici bancari delle vittime, registrazioni delle telefonate – il processo si è arenato.

Certificano i documenti trovati negli uffici del magnate digitale che in Malesia migliaia di finti dottori sono stati scelti per certificati fasulli come è accaduto a molti piloti in Medio Oriente. Dalla California al Botswana insegnati ed ingegneri passeggiano nei corridoi delle sedi di lavoro con lauree finte. A Myanmar è stato costretto a scusarsi pubblicamente, perché il suo dottorato in economia alla Brooklyn Park University era fasullo, proprio come l’università stessa, uno studente celebre: il ministro delle Finanze del Paese, Kyaw Win, non rimosso dall’incarico in seguito.

Fregare tutti e farla franca: è stata questa l’unica lezione impartita finora da dipartimenti fantasma, professori immaginari, istituzioni inventate della vicenda pachistana, ma non te lo rivelano alla Nicholasville o Gatesville University quando le contatti per l’iscrizione. Insieme a decine di altre università fasulle, grazie ai software della Axact, continuano a funzionare.

Basta pagare: sono 5 mila i falsi atenei

Era il 2 dicembre 2013 quando l’allora ministro dell’Interno albanese, Samjr Tahiri, annunciava che “una decina di studenti italiani” erano “indagati a Tirana per aver conseguito una laurea senza aver mai seguito le lezioni nelle università private albanesi”. Tahiri aggiungeva che Renzo Bossi, figlio di Umberto fondatore della Lega Nord ed ex consigliere regionale lombardo, era “uno dei casi”. La laurea del “Trota” all’università privata Kristal di Tirana era stata scoperta a maggio 2012 nella cassaforte dell’ex tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito, durante le indagini sulle presunte distrazioni dei fondi del Carroccio. Renzo Bossi disse non sapere nulla di quel pezzo di carta.

Ma il figlio del Senatùr non è stato l’unico politico a finire sotto la lente per i soldi versati a università private. Il primo aprile 2017 un giudice Usa approvò la chiusura di una causa contro la fantomatica Trump University attiva dal 2005 al 2010. Furono pagati 25 milioni di dollari a studenti che avevano dichiarato di essere stati ingannati dall’attuale Presidente e dalla sua ormai estinta università che prometteva di svelare i “segreti del successo” nel settore immobiliare. I “seminari” erano costosi: un “apprendistato di un anno” costava 1.495 dollari, un “abbonamento” oltre 10mila e le classi “Gold Elite” 35mila.

È solo la punta dell’iceberg del fenomeno mondiale delle lauree, master e dottorati falsi, tornato alla ribalta della cronaca nei mesi scorsi con la scoperta che la società pakistana Axact ha venduto per anni lauree false e incassato 140 milioni di dollari. Lo scandalo ha portato a 22 condanne di vent’anni ciascuna. Un mercato gigantesco che si basa sulla voglia di conquistare a ogni costo – anche violando la legge – il “pezzo di carta” necessario per intraprendere una professione e che sfrutta le differenze e i vuoti normativi tra Paesi diversi, grazie all’inventiva di criminali senza scrupoli.

Un esperto in materia è Allen Ezell, ex agente dell’Fbi che nel 1980 diede il via all’Operazione Dipscam (“falsi diplomi”) venduti dalla fantomatica Southeastern University di Greenville, nella Carolina del Sud. Dopo 12 anni di inchieste da parte di numerose istituzioni Usa, furono chiuse 39 false università che avevano venduto oltre 12.500 falsi attestati e incarcerati una ventina di truffatori. Ezell indica in oltre 5mila le università ancora oggi non riconosciute in tutto il mondo, molte delle quali false, vendono lauree, master, dottorati a chiunque, oltre a 1.500 “fabbriche di accreditamento” per sviare i controlli e oltre 500 siti web che vendono lauree. Nessuna nazione è immune, le indagini vanno avanti visto che spuntano come funghi.

La maggiore tra queste “fabbriche di diplomi” era il Programma di laurea universitaria (Udp) attivo dal 1998 al 2003 con 22 false scuole in tutta Europa, gestito da due americani che utilizzavano due call center telefonici (a Bucarest e Gerusalemme) aperti 24 ore al giorno sette giorni su sette. Udp ha venduto oltre 250mila titoli e incassato almeno 435 milioni di dollari. Ezell stima che a fronte di 40-45mila dottorati autentici conseguiti ogni anno negli Usa, quelli falsi sono oltre 50mila l’anno. Un’indagine del 2003 del Gao, l’equivalente statunitense della Corte dei Conti, stimava che oltre 100mila dipendenti federali avevano comprato false lauree. Per dimostrare la facilità di comprare una laurea il Gao ne acquistò due a nome del deputato Claude Pepper e della senatrice Susan Collins, con tanto di “verifica” al numero telefonico della finta università.

I titoli falsi rilasciati da “fabbriche di diplomi” esistono negli Usa almeno sin dal 1730. Nel 1880 il settore era fiorente. Nel 1924, il Senato di Washington tenne audizioni pubbliche sulla materia. Solo nel 2008, con la legge sull’educazione avanzata (Heao) gli Stati Uniti hanno dato una definizione di “fabbrica di titoli”, in modo da poter agire in giudizio contro queste truffe. Ma le successive proposte di leggi federali di contrasto non sono mai state approvate.

I diplomifici operano sempre più dal web e si avvantaggiano delle norme Usa sulla libertà religiosa: spesso queste attività sono schermate dietro la facciata di chiese o congregazioni. Nel 2008 il servizio segreto Usa fece saltare la truffa realizzata sin dal 2002 da criminali Usa per vendere false lauree dell’inesistente Università St. Regis. Con la creazione di un’altra falsa università, la Randolph Addison Davis Technical University, gli agenti si infiltrarono nello schema della St. Regis e delle sue 120 finte scuole, verificando il coinvolgimento di complici in Nigeria e di un alto funzionario dell’ambasciata liberiana a Washington. Si scoprì che la Radtu aveva venduto 10.815 diplomi a 9.612 clienti in 131 Paesi incassando più di 7,3 milioni di dollari. Furono arrestate e condannate otto persone.

Il business spesso finanzia altre attività criminali: Anders Breivik, il neonazista norvegese che nel luglio 2011 ha ucciso 77 persone nelle stragi di Oslo e Utøya, ha pagato le sue armi con 630mila dollari ottenuti vendendo falsi diplomi sul web. Le vittime non si contano e non solo in campo medico. Gerald Morton Shirtcliff rubò l’identità e i titoli accademici dell’ingegnere civile londinese William Anthony Fisher, suo ex collega, e grazie a questi titoli falsi diresse la costruzione dei sette piani dell’edificio Ctv a Christchurch, in Nuova Zelanda. Il 22 febbraio 2011 un terremoto colpì la città: l’edificio crollò e uccise 115 persone.

Generale ucciso: gli Usa il vero stato canaglia

Il 28 giugno 1914, l’omicidio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede dell’impero austro-ungarico, per mano di un nazionalista serbo, è stato l’evento scatenante della Prima guerra mondiale, seguita da tre decenni catastrofici per l’Europa sfociati nei massacri della Seconda guerra mondiale. Il futuro non si può prevedere e niente permette di affermare oggi che l’omicidio, il 3 gennaio scorso, a Bagdad, del generale iraniano Qassem Soleimani, per ordine del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, scatenerà lo stesso genere di conseguenze. Ma chi oserebbe escluderlo in modo categorico? Tutte le componenti esplosive alla base di una deflagrazione mondiale sono già presenti. Lo è l’ordine insensato dato da Trump: mai prima d’ora gli Stati Uniti, prima potenza militare mondiale, avevano ordinato e rivendicato pubblicamente, di fronte al mondo, l’assassinio di un leader di uno Stato sovrano membro delle Nazioni Unite. Ovviamente l’Iran non è l’Isis, uno pseudo-stato illegittimo agli occhi di tutta la comunità internazionale, e il generale Soleimani, interlocutore dei militari americani nella lotta contro l’Isis in Iraq, non è paragonabile all’autoproclamato califfo al-Baghdadi. Ma un simile crimine di Stato, illegale e irresponsabile, rischia di scatenare reazioni a catena che possono sfuggire al controllo dei vari attori coinvolti. E ciò vale ancora di più nel nostro mondo post Guerra fredda, il cui equilibrio non è più garantito dal faccia a faccia univoco di due potenze. Il nostro è un mondo multipolare e interdipendente, con alleanze incontrollabili e reversibili.

Il conflitto che ha mobilitato 65 milioni di soldati, spazzato via tre imperi, provocato la morte di 20 milioni di persone, civili e militari, e fatto 21 milioni di feriti, non era inevitabile. È stato possibile perché, nella concatenazione di cause ed effetti, come lo ha scritto nel 2013 lo storico britannico Christopher Clark, i suoi protagonisti “erano dei sonnambuli che guardavano senza vedere, perseguitati dai loro fantasmi ma ciechi di fronte alla realtà degli orrori che stavano per provocare nel mondo”. I sonnambuli e i ciechi di oggi sono numerosi. Sono tutti coloro che chiudono gli occhi e non ammettono che il primo degli Stati “canaglia”, per la sua forza di attacco e la sua capacità di nuocere, lo Stato la cui azione militare viola il diritto internazionale e calpesta la morale, non sono altro che gli Stati Uniti d’America. Sonnambuli e ciechi non hanno più scuse di fronte alla minaccia evidente sollevata dalle irregolarità del comportamento di Donald Trump.

L’ordine assassino di Trump è tuttavia solo l’ennesimo esempio di quanto aveva teorizzato Jacques Derrida, rigirando contro l’imperialismo americano il concetto di rogue State coniato sotto la presidenza di Ronald Reagan per designare gli Stati bersaglio degli Usa. Il filosofo scriveva sin dal 2003: “Gli Stati Uniti che dicono di essere garanti del diritto internazionale e prendono l’iniziativa della guerra, delle operazioni di polizia o del mantenimento della pace, sono loro, insieme agli Stati che si alleano in queste azioni, i primi rogue States”. È lunga la lista delle azioni che lo testimoniano, a cominciare dalle ingiustizie commesse ai danni del popolo palestinese in violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Se ci si limita al teatro geopolitico dello scontro con l’Iran – e senza ritornare sul violento rovesciamento del governo legittimo di Mohammad Mossadegh nel 1953 – è sufficiente ricordare la successione di decisioni catastrofiche prese da Washington dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, il cui focolare ideologico e finanziario era tuttavia radicato nel principale alleato degli Stati Uniti nella regione, dopo Israele, l’Arabia Saudita. Nel 2003, l’invasione dell’Iraq, che non solo non possedeva armi di distruzione di massa ma non aveva neanche legami con i terroristi di al-Qaeda, fu una spedizione di guerra senza precedenti dalle conquiste coloniali. Di sicuro la posterità interpreterà quei fatti come la fuga in avanti di una potenza in declino, accecata dal fatto di aver perso il controllo del proprio destino al punto da commettere errori da debuttanti.

Rovesciare il regime di Saddam Hussein e brutalizzare la società irachena, ha permesso paradossalmente al nemico dichiarato, l’Iran, di ampliare la sua influenza sulla regione. Il totalitarismo del sedicente Stato islamico è nato da questa avventura americana, il suo reclutamento è stato favorito dalla violenza della repressione delle popolazioni civili e la sua ideologia si è nutrita del risentimento della forte minoranza sunnita irachena. E l’incoerenza continua: una delle conseguenze immediate dell’assassinio del generale iraniano è la sospensione, da parte degli stessi Stati Uniti, della coalizione contro l’Isis in Iraq. Gli animali feriti spesso diventano pericolosi. E nel caso degli Stati Uniti le dimostrazioni di forza sono confessioni di debolezza: è indubbio che il dominio militare Usa non garantisce loro né il successo né una protezione duratura. Non si potrà raggiungere un equilibrio mondiale senza una ferma condanna dell’atteggiamento americano di avventatezza che, invece di proteggere i suoi alleati, li espone a pericoli e li fragilizza. Ci si aspetterebbe a questo punto di vedere la Francia, una Francia non allineata, libera e sovrana, consapevole dell’impasse delle logiche di potere e della fragilità di un mondo interdipendente, prendere con forza le difese del multilateralismo e, appoggiandosi sul diritto internazionale, intervenire a favore del disarmo e della pace. Questa posizione, per quanto effimera, fu tenuta nel 2003, all’interno delle Nazioni Unite, al momento dell’opposizione francese all’intervento americano in Iraq. Ahimè, è solo un lontano ricordo. Integrata alle Nazioni Unite nel 2009 sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy, promotore dell’intervento disastroso in Libia nel 2011, la Francia non è la voce indipendente che dovrebbe levarsi contro l’irresponsabilità americana. Emmanuel Macron ha certo chiamato immediatamente i leader di Russia, Iraq, Emirati arabi, Turchia e Stati Uniti, mostrando un posizionamento multilaterale, ma a contare di più nella reazione francese sono state due cose: una è silenzio, l’altra è una parola.

Il silenzio si è tradotto nell’assenza di una condanna esplicita dell’assassinio del generale iraniano, la cui illegalità è stata sin dall’inizio segnalata dalla relatrice delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali. Peggio ancora, il comunicato che ha riportato la conversazione tra Macron e Trump ha evocato “la totale solidarietà” della Francia “nei confronti degli alleati, di fronte agli attacchi perpetrati nelle ultime settimane contro la coalizione in Iraq e la preoccupazione per le attività destabilizzanti della forza di Al-Quds sotto l’autorità del generale Qassem”. Nel linguaggio diplomatico, ciò equivale a assecondare l’esecuzione del generale iraniano.

Per quanto riguarda la parola, si tratta di “moderazione”, molto usata nei comunicati ufficiali: essa suggerisce che il vero pericolo per il mondo non è la testardaggine degli americani ma la risposta iraniana. La stessa parola, “moderazione”, si legge anche nei comunicati ufficiali dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, i principali manovratori anti-Iran nella regione, insieme a Israele. Non è casuale, visto come la Francia, negli ultimi anni, si è lasciata intrappolare in un vicolo cieco che potrebbe rivelarsi fatale, proprio come era successo negli anni ’80 quando aveva sostenuto (e armato) la dittatura irachena spingendo Saddam Hussein a fare la guerra contro la giovane repubblica nata dalla rivoluzione iraniana del 1979. La Francia non è forse l’alleata militare e la fornitrice di armi degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita? Non è a suo modo coinvolta, in virtù delle armi, nella sporca guerra che questi due Paesi stanno conducendo nello Yemen? Non è forse stata compiacente verso il regime saudita, mostrandosi codarda di fronte all’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, un “crimine di Stato” secondo gli esperti delle Nazioni Unite? Di fronte al prevedibile scacco di Emmanuel Macron, che ha preteso invano di poter risolvere da solo il conflitto Iran-Usa durante il G7 di Biarritz, possiamo solo ricordare ciò che era scritto in un documento ufficiale del 2017: “L’emergere del multipolarismo e di nuove opposizioni produce la messa in discussione delle regole e delle istituzioni internazionali che garantiscono un inquadramento giuridico e una regolamentazione dell’uso della forza dalla fine della Seconda guerra mondiale. Alcune grandi potenze hanno scelto un posizionamento che favorisce apertamente i rapporti di forza. Le Nazioni Unite e le sue agenzie restano tuttavia essenziali per organizzare un mondo basato su regole adottate collettivamente. E restano fondamentali per prevenire i conflitti, anche di nuova generazione, per rispondere alle crisi umanitarie, legittimare le operazioni esterne e intraprendere un processo di stabilizzazione dopo gli interventi militari”.

La sola Bibbia su cui ci si può basare per andare avanti in questo mondo incerto e instabile è il multilateralismo rispettoso degli impegni presi, dei trattati, delle risoluzioni e, soprattutto, dei popoli. Sarebbe stato all’onore della Francia di Emmanuel Macron se, invece di restare circospetta, come se i torti commessi fossero condivisi, avesse fermamente condannato la violazione unilaterale, da parte degli Stati Uniti, dell’accordo nucleare iraniano, di cui la Francia era uno dei principali garanti, poiché aveva chiesto l’inasprimento delle condizioni sotto la presidenza di François Hollande.

(traduzione Luana De Micco)

“Trump è un caso umano, noi troppo docili con gli Usa”

“Il Mediterraneo non è mai stato il mare nostrum e, benchè li invochiamo anche nel sonno, neanche Andreotti e Craxi avrebbero saputo dove sbattere la testa davanti a quel che resta della Libia”.

Sergio Romano, ambasciatore e letterato, non ha solo il curriculum dalla sua parte ma anche la personalità e il carattere per illustrare, poco diplomaticamente, le disgrazie di questo nostro tempo.

Donald Trump prima che un problema politico è un caso umano.

E qui entriamo nella psicopatologia.

Non c’è l’ombra nei suoi atti di un perseguimento di una linea politica, ma di una assoluta esigenza elettorale. Togliersi dall’ombra dell’impeachment.

Manda a fuoco il Medio Oriente però.

Credo che non proseguirà nella sfida. Anche l’Iran non ha ragioni per tenere alto il conflitto. L’establishment militare e diplomatico americano, il potere egemone a cui Trump è costretto a rispondere, lo avrà invitato a finirla qui.

Sperando che sia davvero finita qui.

Paghiamo la eccessiva docilità verso gli Usa, un sentimento storico che non fa i conti con la realtà. E la realtà, anche i nostri stessi interessi, ci avrebbero dovuto indurre ad essere molto più cauti nell’allinearci alla politica delle sanzioni contro l’Iran. Non dobbiamo dimenticare che sono esistite due Americhe. Quella di Barack Obama e questa nuova, questa di Trump. L’una differente dall’altra, l’una avversa all’altra. Fare i nostri interessi significa anche riconoscere l’uno e il suo opposto.

Trump ce lo terremo per un po’ di tempo, mi sa.

Dobbiamo aspettare che passi la nottata, non si può fare altro.

Mentre tutto intorno arde?

La Libia, dice? Beh, andiamo per ordine. Anzitutto la Libia non è più uno Stato. Dopo Gheddafi ogni soluzione statuale è messa in discussione. Nel rompicapo libico, dove le leadership sono giunchi al vento, figure secondarie, poco si può fare. Sarebbe stato necessario l’intervento in armi.

La spedizione militare? L’Italia sarebbe bruciata nelle polemiche.

L’Italia da sola naturalmente non avrebbe avuto la capacità di assumersi una responsabilità così grande. Ma l’Europa sì.

L’Europa infragilita dalla Brexit, dalla fuga degli inglesi?

A mio avviso è una fortuna la loro decisione. Sono sempre stato persuaso che l’adesione britannica fosse alimentata più dal bisogno di ostruire il cammino unitario che di costruirlo. E infatti oggi sono convinto che la Brexit sia una buona occasione per l’Europa, se ne ha voglia, di avanzare con più speditezza verso l’unione.

Lei è ottimista.

No. Vedo che la crisi della democrazia rappresentativa non risparmia nessuno, francesi, tedeschi, italiani, e infragilisce i governi, fa perdere loro autorevolezza e capacità di decisione.

Si dice: ah se qui ci fosse quella vecchia volpe di Andreotti, o fossimo capaci di trovare qualcuno col fiuto di Craxi.

Senta, in tutta franchezza: i due che ha nominato e persino altri autorevoli predecessori, persino De Gasperi, erano politici normali che si facevano aiutare dal buon senso, dalla logica nelle loro azioni. Nessun superman da ricordare. Sono certo che davanti al caos libico anche loro non avrebbero saputo dove sbattere la testa.

Però è tutto un incedere contro i neofiti al governo, il gaffeur Conte, il gaffeur Di Maio.

Oddio, siamo in presenza di un periodo di apprendistato di questi nuovi governanti che non tende a concludersi. Detto questo, io penso che le condizioni di ingaggio siano mutate notevolmente. Quando non hai un interlocutore ma dieci, quando le tue forze militari ed economiche sono ridotte, quando la tua condizione di agibilità democratica è sempre messa in discussione, beh risulta difficile scovare l’uomo forte.

Ogni vuoto si riempie. Ecco dunque l’impero ottomano alle porte.

Fa sorridere questa esemplificazione. Quando quindici anni fa abbiamo detto no alla Turchia nell’Unione europea dovevamo aspettarci che quel governo trovasse un’alternativa per una ricollocazione regionale. Era del tutto naturale, logico, conseguente. Ed Erdogan, forte della sua autorità, di una opinione pubblica afflitta, di una democrazia ingracilita e svuotata, abbia capacità di decisione e movimento più rapide. Possa scegliere e decidere se spedire o meno una forza militare.

Le democrazie autoritarie hanno un vantaggio competitivo?

In un certo senso sì. E la retorica dell’impero ottomano certo può servire ad Erdogan per risollevare il sentimento patriottico e rendere più agevole la sua strategia, ma resta vento propagandistico e poco altro.

Putin, l’espressione di una democrazia autoritaria, è l’altro forte contraente.

Non trovo nulla di strano che la Russia voglia riconquistare un ruolo che la sepoltura dell’Unione sovietica aveva messo in crisi. È nelle cose, è la misura di una forza, economica e militare, che merita di essere considerata per quella che è. Come la Turchia ha la necessità di ritagliarsi un ruolo nel Mediterrano, così la Russia sviluppa coerentemente una politica di influenza nel Medio Oriente grazie anche alla sua religione. L’ortodossia fa da collante: connette sentimenti e interessi.

E noi occidentali? L’America di Trump pensa a sé stessa, e se può farci male non si tira indietro.

La questione ridiventa politica. Il potere di rappresentanza è rimesso in discussione perchè le democrazie annaspano.

Perciò la Turchia è un passo più avanti.

Per queste ragioni l’Europa è un passo indietro, riduce le sue stesse possibilità. Una spedizione militare europea in Libia sarebbe stata accettata dall’opinione pubblica ma avrebbe avuto bisogno di leadership più forti.

E qui si ritorna al punto di partenza.

Siamo partiti da Trump.

Il caso umano.

Ecco.

Dalle sigarette nasce un fiore: in Toscana l’esperimento green

Ogni anno, secondo un rapporti di Nbc News, vengono prodotte 6 mila miliardi di sigarette. È una cifra che si fa fatica ad immaginare, ma che diventa motivo d’allarme se si pensa che due terzi di quei mozziconi vengono gettati in maniera irresponsabile, inquinando mari, spiagge e natura. Il problema è globale, certo, ma forse è da un paesino italiano che potrà arrivare un pezzo della soluzione. A Capannori, in provincia di Lucca, è infatti partito in questi giorni un progetto sperimentale che mira proprio a trasformare i mozziconi in una risorsa, utilizzabili sia per alcuni tipi di coltivazioni sia come elemento di biocarburanti.

L’iniziativa si chiama Focus (Filter of Cigarettes reUse Safely) e per i prossimi tre anni oltre al Comune toscano, guidato dal sindaco Luca Menesini, se ne occuperanno il Centro Interdipartimentale Enrico Avanzi dell’Università di Pisa, l’Istituto sugli ecosistemi terrestri del Crn, il Dipartimento di Scienze Agrarie di Pisa e Ascit, l’azienda che gestisce i servizi di igiene ambientale nel lucchese.

L’obiettivo a cui lavorano gli esperti, coordinati da Lorenzo Guglielminetti, è quello di riutilizzare i residui delle sigarette come substrato inerte per la crescita di piante ornamentali attraverso tecniche di coltura idroponica. Si tratta di un diffusissimo modello “fuori suolo” in cui la terra è sostituita da materiale inerte, appunto, – possono essere l’argilla o vari minerali – e la pianta viene irrigata con una soluzione nutritiva per mezzo di uno specifico impianto. Gli utilizzi di questo tipo di coltura sono infiniti, persino nell’uso domestico di alcune piante da verdura.

Per prima cosa, i residui di sigaretta dovranno essere separati dalle componenti biodegradabili – la carta e il tabacco, per esempio – e poi saranno trattati per poter funzionare come substrato. Il team di lavoro prevede di tentare la geminazione di diverse specie vegetali, così da individuare quale sia la più adatta al materiale derivato dai mozziconi. Ma non è tutto. Alcune specie di micro–alghe saranno infatti testate sul prodotto residuo da questo primo processo cercando di creare un sistema che abbatta quel che resta del mozzicone, producendo biomassa algale che potrà essere poi utilizzata per produrre biocarburanti.

I passaggi sono inevitabilmente tecnici, ma se i test andassero a buon fine si potrebbe davvero riutilizzare uno dei rifiuti più dannosi per il nostro ambiente, dato che i tempi di decomposizione possono raggiungere i dodici anni e, stando a uno studio pubblicato dal “Tobacco Control Journal”, le sigarette gettate per terra rappresentano circa un terzo di tutti i rifiuti visibili. Il Comune di Capannori, che conta sull’aiuto della Cassa di Risparmio di Lucca, accompagnerà il progetto prevedendo anche appositi contenitori per strada, proprio come avviene per i cassonetti degli altri materiali riciclabili. E nel giro di qualche mese il verde pubblico della città potrebbe per la prima volta posare sopra a un insieme di mozziconi.

Il video di “Gigolò”, quando della donna resta solo il sedere

“Una delle figure retoriche più utilizzate non soltanto in poesia ma anche nel linguaggio comune è la sineddoche. Un artificio linguistico che consiste nel citare una parte per intendere il tutto (…) ma come tutte le semplificazioni, comportano un rischio, quello di creare stereotipi e distorsioni di significato anche molto insidiose, soprattutto quando hanno a che fare con questioni politiche, di razza o di genere”. Scrive su www.optimagazine.com la cantautrice, Grazia Di Michele, in riferimento all’uso che si fa della figura femminile all’interno della musica (t) rap. In particolare la cantautrice romana attacca il video del brano Gigolò del trapper, Lazza feat. Sfera Ebbasta e Capo Plaza, in cui abbondano auto costose, soldi e culi. Identificare la donna nel suo sedere – continua la cantautrice – sarà sembrata a qualcuno una trovata creativa”.

“Ma è qualcosa che porta in sé un messaggio pericoloso, che nega in un colpo solo decenni di battaglie per la dignità della donna”, conclude la cantante. Un video dove emerge forte il machismo e l’ostentazione del lusso con ragazze mezze nude, come nella maggior parte dei testi e delle immagini che accompagnano le canzoni della generazione (t)rapper dove i temi trattati sono sempre gli stessi: soldi, auto costose, griff e “troie”. “A chi dice che l’arte non deve avere restrizioni e censure – continua la Di Michele – si può ricordare che l’arte, quando è tale, è soggetta al dibattito pubblico, che il diritto di critica è sacrosanto e che persino qualche boicottaggio – quando serve ad evitare pessime derive nella cultura e nella mentalità – ha la sua ragione di essere”. Un discorso vecchio che si ripete nella musica rap e che forse è giunto il momento di affrontare. Nel 2013 Fabri Fibra fu attaccato dal Di.Re, l’associazione Donne in rete contro la violenza, ed escluso dal concertone del primo maggio per i suoi “messaggi omofobi, sessisti e misogini” contenuti in alcuni suoi brani come “Su le mani” (2006) e “Venerdì 17” (2004). Anche Jovanotti difese Fibra su Twitter: “Mi sembra assurda questa censura a Fabri Fibra da parte del minculpop dei sindacati. Fibra è un acceleratore di immagini, la sua è arte”. L’ultimo caso famoso è quello che riguarda Tiziano Ferro che, pochi mesi fa, ha attaccato Fedez per averlo schernito per la sua sessualità in una canzone, “Tutto il contrario” (2011), in cui rappa: “Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing, ora so che ha mangiato più wurstel che crauti”.

Il cantante ha dichiarato: “Il fatto che un idolo dei ragazzini possa prendermi in giro su certe tematiche è bullismo”. Fedez si è difeso affermando che si tratta di una vecchia canzone e ha invitato Tiziano Ferro a una collaborazione proprio per sensibilizzare le nuove generazioni sull’omofobia. Ma c’è anche chi come l’irriverente rapper Myss Keta usa proprio quella stessa estetica per provocare. Allora forse la domanda da porsi è: qual è il limite che divide la provocazione dall’assecondare quell’idea di donna oggetto che tanto si vuol combattere? Basti pensare a come spesso viene percepito il movimento femminista delle Femen nel mondo, criticato per il modo in cui usa il proprio corpo per denunciare il sessismo e altre discriminazioni sociali. Frankie hi nrg mc, pioniere del rap italiano, ha le idee chiare: “La riduzione dei misogini del corpo femminile a una sola delle sue parti, forse nasconde il timore di confrontarsi con tutto il resto, un senso di inadeguatezza che è evidentemente sinonimo di debolezza. Una debolezza che tende a indebolire la controparte”. Per Frankie hi nrg il problema è culturale ed è su quel piano che va affrontato, anche perché la musica non è altro che il riflesso della società. Perché come rappa Frankie nella canzone, L’ovvio, dedicata alle donne: “Sai già che nella vita sarai madre di maschi, sposa di maschi, amante di maschi comunque sarai sempre raccontata da maschi”. Come in questo caso. Chi scrive è un maschio.

Antimafia ed ecologia: il grande abbraccio che fa rinascere l’Italia

“Quell’etichetta per il negramaro l’ho immaginata io”. La giovane donna combatte il groppo in gola, se ne libera con un sorriso tenero, malinconico, di quelli che riserviamo solo a chi non c’è più. “Ho voluto io che tra i suoi capelli apparisse quell’ibisco. Ogni tanto le piaceva infilarlo nella capigliatura”. La conversazione sta andando avanti da una cinquantina di minuti. Il pubblico in sala, quasi 100 persone, si commuove. È muto dall’inizio, da quando ha incontrato questa grande storia che la maggioranza non conosceva, anche se oggetto due anni fa di una bella fiction di Mediaset. Chi amava l’ibisco è Renata Fonte, la madre della giovane donna, che la figlia chiama sempre “mamma”, senza pudori semantici.

L’etichetta è quella di un vino rosso prodotto sui terreni confiscati da Libera Terra in Puglia, intitolato a lei, assessora alla cultura nel comune di Nardò, nel Salento, nei primi anni ottanta. La giovane invece si chiama Viviana Matrangola. Sua madre Renata fu vittima innocente di mafia. Venne uccisa una notte dell’84 mentre rientrava a casa dal consiglio comunale perché si opponeva a una delle speculazioni più sfrontate che si possa immaginare, quella su Porto Selvaggio, area marina di possente bellezza, una frastagliata distesa di verde e azzurro incontaminati. Fu all’insaputa di tutti, tranne che degli interessati, una delle più grandi battaglie ambientaliste del tempo, alla quale oggi dobbiamo uno dei trionfi naturali che ancora costellano le nostre coste.

Quando le uccisero la madre Viviana era una bimba. Ma i ricordi sono nitidi. E bruciano. Soprattutto i ricordi dei silenzi, la voglia di Nardò di ingoiare tutto, la solitudine di una donna di 33 anni di fronte ai gruppi della grande speculazione edilizia. Ricordi stipati, che fanno esplodere quell’età tra infanzia e prima adolescenza in cui si è inchiodato il trauma. Nell’auditorium di Radio Popolare a Milano Viviana intuisce il pubblico amico, a cui poter consegnare anche le memorie più personali. E ci prova. Ma la parola che mastica il ricordo è fatica fisica. Provo un senso di colpa nel fare le domande e vedere le energie nervose consumate da ogni risposta. Viviana sembra letteralmente sfibrarsi nella lotta tra impulso al pianto e voglia di non farsene sopraffare, con quell’imperativo orgoglioso di apparire serena, padrona della situazione, mica potrà commuoversi ancora, dopo 36 anni. Seleziona con attenzione ogni parola, perché il ricordo sia limpido, perché le sfumature che fanno la differenza siano precise. Quando si fanno queste interviste si resta catturati da quel che il proprio interlocutore dice e racconta. Ma qui, forse per la prima volta, resto incantato, rapito dal “come” del racconto. Dalla profondità della sofferenza di una ragazza che è diventata a sua volta madre e che ancora oggi vive ogni forma di amore a immagine della madre.

Don Ciotti è stato il suo nume tutelare, Libera – dice lei – la famiglia che non ha potuto avere. Ricorda quando il prete torinese tuonò a Nardò perché alla commemorazione di Renata Fonte non erano state invitate le figlie. Lo ricorda correlatore alla sua tesi di laurea in Architettura, la prima in assoluto sui beni confiscati. E riporta un racconto di lui, dopo un viaggio a Lampedusa. Una testimonianza dei volontari in soccorso dopo una delle tante disgrazie del mare. Scesi sui fondali a cercare le vittime e straziati di meraviglia e pietà allo spettacolo di madri ancora abbracciate, laggiù, ai propri figli. Spiega che non ha mai dimenticato quel racconto.

L’abbraccio materno, il miracolo umano di cui lei ha sentito la mancanza. E a cui ha voluto dedicare, lei che ha fatto il liceo artistico e che dipinge, una mostra fotografica (“Abbracci”) ospitata da festival, fondazioni e istituzioni per circa 3 anni. Il pubblico applaude e si chiede perché, anche se Viviana si dice “inadeguata” al cospetto di altri ospiti, una donna così non l’abbia mai vista in televisione. E si sente privilegiato, dall’averla incontrata. E con ragione.

P.S. Dedico l’articolo al simpatico presidente della provincia di Barletta–Andria–Trani, nonché sindaco di Margherita di Savoia, che per Capodanno ha girato un ancor più simpatico sketch ispirato al “Padrino” in cui s’invitavano con accento e abbigliamento da boss i concittadini ad andare a divertirsi la notte in piazza dalla Chiesa. Mi piace ricordargli che per fortuna c’è anche la Puglia di Viviana e di sua mamma.

Mense scolastiche: ecco la classifica e gli orrori

Pasta al pesto di barbabietola, vellutata di zucca con crostini, crocchette di miglio e piselli, tortino di cannellini e cavolo nero. No, non è il raffinato menù di una bio–trattoria, ma quello della mensa scolastica di Cremona, promossa dall’osservatorio Foodinsider come una delle migliori realtà di ristorazione scolastica in Italia, come si evince dalla classifica dei menù che ogni anno viene pubblicata sul sito www.foodinsider.it, un autorevole ranking dei menù scolastici, rispetto a qualità e sostenibilità, partito nel 2015 da un gruppo di genitori milanesi. Un altro dei comuni più virtuosi, per il legame del menù alle materie prime del territorio, è Bolzano. Come spiega Claudia Paltrinieri, direttrice di Foodinsider e autrice dell’utilissimo libro Mangiare a scuola (appena edito da Franco Angeli), “nel menù di Bolzano precisano se il prodotto è Dop o Igp, se è filiera corta, eco–solidale, se è un piatto tipico”. E poi ci sono le Marche, dove grazie al progetto “Pappa fish” sono arrivati nei piatti dei bambini pesci locali come alici, triglie, suri, moli, pannocchie, sardine, sgombri, gallinelle.

Niente di più sbagliato immaginare, però, che tutti i nostri bambini a scuola mangino legumi e pesce fresco locale. La realtà dei menù è fatta ancora di errori madornali, scarsa cultura alimentare e sciatteria. Così si può arrivare a servire pasta al ragù, prosciutto cotto e piselli in un unico pasto (è accaduto a Viterbo due anni fa), o altri abbinamenti sbagliati come pasta e poi patate, legumi e carne. Nello specifico, tanti sono i problemi: troppa carne rossa, scarsa varietà dei cereali – 1 mensa su 4 usa solo pasta e riso –assenza di cereali integrali, presenza di dolci e budini non previsti dalle linee guida, pesce sotto forma di bastoncini o tonno in scatola, troppo formaggio nascosto, niente frutta secca, alte percentuali di biologico solo in poche realtà virtuose.

Ma c’è anche chi il problema del cibo di scarsa qualità non se lo può neanche porre, come racconta bene il rapporto di Save The Children “(Non) tutti a mensa”. Dai dati del ministero dell’Istruzione emerge una realtà preoccupante: la mensa riduce la povertà, soprattutto al sud. In Sicilia l’81,05% per cento non ce l’ha, segue il Molise (80.29%), la Puglia (74,11%), la Campania e la Calabria. Del tutto disomogenea inoltre la percentuale di spesa a carico delle famiglie: superiore all’80% in comuni come Forlì e Bergamo, inferiore al 35% in comuni come Perugia, Napoli, Bari, Cagliari e Reggio Calabria. La diversità delle tariffe è impressionante, le massime da 2,5 euro a Perugia a 7,2 a Ravenna, mentre le minime da 0,3 a 6 e si può arrivare a pagare, come segnalato da “Cittadinanza attiva” l’ottobre scorso, 32 euro al mese a Barletta o 132 a Torino. L’esenzione è garantita spesso solo su segnalazione dei servizi sociali, per non parlare del tema, noto alla cronaca, dell’esclusione dal pasto per i figli dei genitori morosi (su 45 comuni monitorati, 11 prevedono la sospensione del servizio).

Le cose stanno cambiando? Sì e no. Da un lato, la carne rossa, si sta riducendo (si è passati dal 66% dei menù che la proponevano dalle 4 alle 7 volte al mese al 33% nel 2019), crescono i comuni che eliminano i salumi, il 40% delle scuole ha prodotti integrali, ci sono scuole come a Mantova dove i dolci sono senza zucchero. Mentre il bio aumenta ma non dappertutto (solo il 27% ha più del 70%) anche se nel 2017 il ministero delle Politiche Agricole ha stanziato un fondo da 44 milioni di euro fino al 2021 – 10 milioni di euro l’anno a regime – proprio per incrementare il bio nelle mense scolastiche. Purtroppo però, come spiega sempre Paltrinieri, “il modello di mensa dominante è quello industriale, con pasto trasportato e cibo processato, dove il driver è il profitto”.

Un altro problema ancora non del tutto risolto è quello dello spreco (il 29,5%), come spiega un’insegnante di Perugia, pure città modello: “La frutta e la verdura ci sono, e anche i legumi, ma i bambini spesso li lasciano. Il cibo che avanza è tanto, anche perché a un bambino va servito per forza tutto e per legge non può finire il piatto dell’altro”. Tante le buone pratiche contro questo problema: lavorare sul menù prima di andare a mensa, formare i cuochi, mentre in alcune scuole, come ad esempio a Fano, si organizzano dei corsi di cucina per i genitori, in modo che i bambini trovino a casa quello che mangiano a scuola. E poi gli avanzi come pane e frutta si usano in molte scuole come merenda, mentre in alcuni istituti è permessa la doggy bag per casa. Ma se oggi è più facile per un genitore rivolgersi alla Commissione mensa della scuola o direttamente al Comune per un menù sbagliato, meno è facile risolvere i problemi di accesso alla mensa o il suo costo. A luglio scorso la Corte di Cassazione ha bocciato la discussa proposta del panino da casa avanzata da un agguerrito comitato di genitori – critici verso i costi della mensa – sostenendo che non si tratta di un “diritto soggettivo”, mentre il Tar del Lazio, recentemente, ha stabilito il contrario: sì al pranzo da casa. La battaglia legislativa è ancora aperta.

Cosa bisognerebbe fare, allora? Paltrinieri ha le idee chiare: “I Comuni devono riprendere in mano la governance, non può essere il mercato a decidere cosa mangiano i bambini. Bisogna inoltre investire anche sui controlli, se si vogliono evitare le frodi in pubblica fornitura che ogni anno i Nas rilevano. Terzo: occorre riaprire le cucine, dove c’è la cucina interna è più facile che si mangino piatti non processati. Ancora: va rafforzato il legame con il territorio e in questo senso è ottima la decisione della Regione Toscana che dal 2020 darà incentivi a chi utilizza prodotti di filiera corta. Infine l’educazione: la mensa deve essere uno strumento che educhi al gusto autentico degli alimenti e non a cibi manipolati dal mercato”. È d’accordo anche Silvia Goggi, medico nutrizionista di Milano: “Siamo molto esigenti sui programmi, sull’inglese e altri aspetti, meno sulla mensa. Perché i legumi a scuola sono presenti come contorno? Perché ci sono fonti proteiche sia nel primo che nel secondo? Perché la scuola dà zuccheri? Visto che i nostri figli mangiano a scuola per 15 anni, e la mensa si paga, bisognerebbe pretendere che mangino in maniera adeguata. E nel frattempo, magari, vincendo la pigrizia, dare noi la sera quei legumi che a pranzo mancano”.

Spot della Tim per il 5G: la nota stonata di Muti

I 10 milioni di italiani che il 31 dicembre avrebbero di lì a poco ascoltato l’originale e ficcante discorso del presidente della Repubblica, hanno avuto il privilegio di godersi in anteprima un altro piccolo capolavoro: lo spot di Riccardo Muti per Tim. Il nesso tra la rituale allocuzione del Capo dello Stato e una operazione di marketing in grande stile era stato sottolineato dalla stessa Telecom: “Grazie alle potenzialità del 5G, la storia del Mausoleo di Augusto prende vita nel nuovo spot istituzionale di Tim, on air in Tv da domani sera, prima del tradizionale discorso di fine anno del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con la straordinaria partecipazione del maestro Riccardo Muti”.

Il senso del maestro Muti per gli affari è ben noto. Ed è anche nota l’assenza di una sua particolare sensibilità in fatto di patrimonio culturale: ricordo quando, nonostante un corale appello degli intellettuali napoletani perché si rifiutasse di farlo, accettò di dirigere nel Teatro Grande di Pompei devastato dal cemento (per cui la Corte dei Conti ha condannato in via definitiva l’allora commissario di Pompei Marcello Fiori). Eppure, colpisce che egli abbia messo la sua reputazione globale al servizio di una causa discutibile per almeno tre ragioni.

La prima è la scarsa qualità culturale dello spot, che inscena la visita a un monumento come una caricatura di una puntata di Alberto Angela, tra imbarazzanti ambientazioni in costume e testi storicamente approssimativi. Una visita al Mausoleo di Augusto di una bambina guidata dal celeberrimo direttore, che però non riesce a guardare nulla di ciò che la circonda, perché è ossessivamente presa dal suo smartphone, che le consentirebbe di ‘vedere’ il monumento com’era nelle varie trasformazioni della sua lunga storia. Oltre alla legittimazione, anzi all’esaltazione, di questa sorta di sostituzione dell’esperienza reale con una virtuale, è da notare come quest’ultima non sia resa in modo a sua volta credibile, ma risolta col montaggio di spezzoni cinematografici: così che la bambina né vede il monumento, né impara qualcosa. Ma è semplicemente intrattenuta (il famoso edutainment: education+entertainment: che di fatto né educa né diverte…): come avrebbe potuto esserlo dalla tv, sul divano di casa sua.

La seconda ragione di perplessità sono i dubbi tutt’altro che infondati sulla tecnologia 5G, il vero oggetto dello spot a cui Muti presta il suo volto e il suo nome. Le conseguenze sulla salute del cosiddetto “internet delle cose” – che, grazie a un’inedita moltiplicazione di antenne e ripetitori, permetterà una totale connessione in rete delle nostre case, dal telefono al tostapane – sono assai dibattute, e l’Associazione Medici per l’Ambiente sta, per esempio, chiedendo con forza “una moratoria per l’esecuzione delle ‘sperimentazioni 5G’ su tutto il territorio nazionale sino a quando non sia adeguatamente pianificato un coinvolgimento attivo degli enti pubblici deputati al controllo ambientale e sanitario, non siano messe in atto valutazioni preliminari di rischio secondo metodologie codificate e un piano di monitoraggio dei possibili effetti sanitari sugli esposti, che dovrebbero in ogni caso essere opportunamente informati dei potenziali rischi”. Comunque la si pensi, i dubbi andrebbero affrontati ed eventualmente archiviati con la massima trasparenza: non certo attraverso una campagna pubblicitaria che ha l’evidente scopo di costruire un consenso di massa per la nuova tecnologia. Che lo faccia Tim è naturale: mentre non lo è affatto che una personalità della cultura come Riccardo Muti scelga di non giocare dalla parte del pensiero critico (e dunque del dubbio e della richiesta di massima precauzione e trasparenza), e preferisca invece diventare testimonial a pagamento di un business le cui conseguenze sui nostri corpi sono ben lungi dall’essere note.

Infine, il terzo dubbio: è giusto usare un monumento per vendere qualcosa? La Fondazione Telecom ha restaurato il Mausoleo di Augusto, ma qua è Tim che lo usa (pagandone l’affitto di tre giorni necessario a girare lo spot).

Intendiamoci, lo si fa regolarmente: il David di Michelangelo serve per vendere di tutto, dal prosciutto toscano ai mitra americani, il povero Van Gogh è un testimonial inconsapevole degli psicofarmaci dei colossi farmaceutici globali, le statue di Antinoo smerciano profumi griffati.

E dunque qualcuno (o quasi tutti) potrebbe trovare normale che Tim usi un pezzo di storia per vendere la sua tecnologia. Ma davvero anche il Mausoleo di Augusto – la tomba monumentale dei primi imperatori romani – va gettato in questo tritatutto commerciale che alimenta l’immaginario collettivo costruito dal mercato? Dovremmo avere seri dubbi su questa banalizzazione: perché il patrimonio culturale dovrebbe rimanere libero dal mercato per liberarci dai bisogni indotti dalla pubblicità. Un luogo terzo, in cui entrare da cittadini e non da consumatori. Come persone libere, non come obiettivi di una pubblicità. E chi ha avuto tanto dalla cultura, tutto dovrebbe fare tranne che prestarsi a questo gioco. Ma la verità è che anche lo stesso Riccardo Muti è un prodotto: perfetto per l’ora di cena dell’ultimo dell’anno, per vendere i buoni prodotti della buona tecnologia prima del bel discorso del buon presidente. Grazie al nostro bel patrimonio culturale, che è messo così bene.

Show della transumanza per brucare fondi europei

Non solo pecorelle secche e malnutrite, messe a pascolare solo per fare scena. Ma anche mucche scaricate da camion con la targa Foggia a Campo Imperatore, dove non c’è rimasto manco un metro quadro di pascolo per gli allevatori locali. È un business colossale quello che sta mettendo in ginocchio i pastori abruzzesi e che sta decretando la morte di tantissime aziende facendo girare milioni di euro di finanziamenti europei che però finiscono dritto nelle tasche sbagliate: quelle di “gentilissimi” imprenditori del Nord che niente hanno a che fare con mucche e pecore, ma che hanno trovato il modo di intascare tantissimi soldi dell’Unione europea destinati all’agricoltura. Un business che ha bisogno però di qualche messinscena: ed ecco allora le pecore-comparsa, le pecore malnutrite che non producono nulla, né lana né formaggio né carne, di pastori tenuti lì a far finta di badare alle greggi, di Comuni indifferenti o compiacenti che mettono all’asta ogni anno – a maggio – i terreni di uso civico che vengono aggiudicati regolarmente a chi col bestiame traffica solo per abbuffarsi con la ricca torta comunitaria. O che nemmeno le fanno le aste. Imprese che fanno pastorizia solo sulla carta, e che prendono in affitto pascoli che spesso non hanno neppure mai visto, ammaliati dai tantissimi soldi per gli aiuti pubblici all’agricoltura.

“Gentilissimi”: li definisce così la professoressa di Geografia del Dipartimento di Scienze umane dell’università dell’Aquila, Lina Calandra, che si è imbattuta molto per caso in una serie di stranissimi episodi facendo interviste per il laboratorio di cartografia, “Cartolab”, nei parchi abruzzesi. “Gentilissimi” perché questi signori del Nord in prima battuta si avvicinano ai pastori veri con molta cautela e qualche blandizia per convincerli a vendere pecore e terre. E hanno avvicinato persino lei (così racconta), invitandola a farsi gli affari suoi, di piantarla con questa ricerca: “Mi hanno consigliato di smettere, ma sempre in maniera gentile”.

La mafia dei pascoli la chiamano, anche se agisce dentro i confini della legalità, seguendo i percorsi che la legge consente. Ma sempre mafia è. Tanto che, a parte i primi approcci “gentili”, gli episodi in cui si è imbattuta la Calandra parlano di minacce, di stalle incendiate, pecore decapitate, di furti di mezzi agricoli e di bestiame anche se fino a questo momento nessuno è ancora mai riuscito a mettere in relazione i finanziamenti europei con questi fatti. E tutto accade proprio mentre la Transumanza viene dichiarata patrimonio dell’umanità, con i politici che esultano mentre i pastori piangono perché la posta in gioco è altissima, si parla di 20 milioni l’anno di fondi Ue destinati alla pastorizia che finiscono regolarmente nelle tasche di imprenditori del Nord Italia. Accade in Abruzzo, accade nei territori colpiti dal terremoto e sui Monti Sibillini, dove gli allevatori faticano a ricominciare, sempre per lo stesso motivo: pascoli che diventano appannaggio di imprese del Nord.

“Accade perché nessuno controlla – spiega l’allevatore di Anversa Nunzio Marcelli, uno dei pochi che pratica ancora la transumanza – basterebbe che lo Stato, le Regioni, l’Europa, mettessero in atto una serie di verifiche a tappeto sul territorio”. Verifiche, vincoli e controlli che gli altri Paesi, come la Francia, hanno adottato con successo. Secondo un’inchiesta del New York Times solo in Italia il 60% delle aggiudicazioni nascondono una frode, cifre importantissime visto che tra il 2014 e il 2020 l’Unione europea ha stanziato per l’Italia circa 40 miliardi di euro a sostegno della Politica agricola comune.

Adriano Marrama è un agricoltore che ha presentato ben tre denunce alla procura dell’Aquila, inutilmente. “Il problema è che hanno le leggi dalla loro parte e col governo della Lega sono caduti i pochi paletti che c’erano. Innanzitutto è stato ridotto il tempo del pascolamento: prima era previsto che il bestiame dovesse pascolare almeno sei mesi, oggi bastano 60 giorni, col risultato che i ricchi imprenditori veneti invitano i pastori foggiani a venire in Abruzzo con le loro greggi mentre loro beccano miliardi di contributi; poi è stato ridotto anche il cosiddetto carico di bestiame minimo: prima occorrevano 1 mucca o sei pecore per un ettaro di terra, ora con lo stesso numero coprono 5 ettari”. Mucche o pecore che fanno le comparse, ingaggiate apposta per succhiare fondi europei.

Senza contare il sistema del “disaccoppiamento”: se riesci a prendere in affitto un terreno che nell’antichità serviva a coltivare tabacco prendi un sacco di soldi, molti di più di un terreno agricolo, anche se adesso ci pascoli le pecore. Scorciatoie che alimentano una vera e propria mangiatoia per gli imprenditori del Nord, veneti soprattutto, sempre gli stessi personaggi che col gioco delle partite Iva fanno incetta di tutto.

Ma chi sono questi personaggi? “Sono imprenditori che si muovono nei salotti, nelle stanze della politica, tra i colletti bianchi – spiega Marrama – e che non a caso riescono a farsi fare leggi ad personam”. D’altronde Giuseppe Antoci, il protagonista principale della guerra alla gigantesca truffa gestita dalle cosche sui terreni agricoli in Sicilia, ha calcolato che la mafia grazie ai piccioli europei ha intascato negli ultimi dieci anni un bottino immenso: tre miliardi di euro potenziali.

Qualcosa si muove, ma lontano dall’Abruzzo: ad agosto scorso sono finite nei guai sette aziende agricole grazie a un’inchiesta della procura di Sondrio: 91 persone denunciate e 10 milioni di euro sequestrati per associazione a delinquere e truffa aggravata finalizzata all’indebito conseguimento di contributi europei. In questo caso è bastato che la Finanza accertasse che alcuni pascoli venivano concessi in affitto dai Comuni ad aziende agricole non locali, che pur non portando animali in quota, riuscivano a ottenere i benefici previsti dalla normativa europea.

Invece in Abruzzo nessuno ci fa caso, e i terreni continuano a finire nelle mani sbagliate.