Lega Serie A, come Lotito ha battuto Agnelli

Se non ci fossero in ballo un miliardo e mezzo di diritti televisivi e la sopravvivenza di molti club di A, la partita della Lega Calcio si potrebbe chiudere con una banale freddura a sfondo botanico: un Dal-Pino al posto di un Abete (che ha rispettato scadenze, mandato e parola, rifiutando fino all’ultimo le lusinghe per passare da commissario a presidente). Ma la realtà è molto più seria e complessa, legata all’ennesimo scontro tra le due cordate di padroni del vapore che puntano al controllo della Lega di A, quella che gli umoristi chiamano “la Confindustria del pallone”.

Lotito batte Agnelli 3-0 è il titolo più facile per la movimentata assemblea che ha consegnato a Paolo Dal Pino – manager internazionale nel campo dell’editoria e dell’informatica – i comandi della locomotiva di tutto il calcio italiano. Un outsider, si direbbe, ma non tutti ricordano che nei mesi scorsi i cacciatori di teste avevano individuato in Dal Pino un possibile amministratore delegato per la Lega di A, cioè “un manager per aumentare i ricavi”, secondo la definizione un po’ brutale ma efficace di Lotito. Fu affondato da Malagò, allora commissario straordinario a Milano, che gli preferì De Siervo. Ma è proprio attorno all’identikit di Dal Pino che ruota la soluzione trovata con una maggioranza appena sufficiente: 12 voti contro 7 per Miccichè, una scheda bianca. La partenza è in salita. Il piano di Lotito e soci, però, sta prendendo forma: i poteri del presidente di Lega sono limitati oggi a un’attività di coordinamento e di rappresentanza, tutto quello che conta davvero è nelle mani dell’ad. Forte di un contratto con scadenza 2021,De Siervo non ha intenzione di mollare, mentre l’obiettivo è quello di depotenziarlo, cambiare lo Statuto e trasferire al neo presidente deleghe e competenze per la parte economico-finanziaria. A cominciare dalla guerra Mediapro-Sky per la grande abbuffata dei diritti tv.

Dal Pino, quindi, non solo presidente, ma anche il nuovo “uomo dei ricavi”, con la prospettiva e la speranza di arrivare a 2 miliardi di euro nel prossimo contratto 2021-2024. Per lui fa il tifo tutto il calcio professionistico, pronto a chiedere una fettina in più di “torta”: la Serie B di Balata, poche idee ma sempre a caccia di soldi, e la Serie C di Ghirelli, impantanata in un duello a distanza con il ministro Gualtieri per prendere ossigeno da benefici economici sotto forma di defiscalizzazione. Di fronte a interessi malcelati e quasi sempre egoistici, in una strana alleanza che fa storcere il naso ai rispettivi ultras, pur di far vincere il suo candidato, Claudio Lotito è andato a braccetto con la Roma e con l’eterno rivale Aurelio De Laurentiis con il quale condivide anche il problema delle multiproprietà (la Salernitana per il patron della Lazio, il Bari per quello del Napoli, ma su questo è la Figc che decide). Se riuscirà a passare dal fair play del tennis (elegante giocatore di club, salito in classifica fino all’attuale Serie B) all’arena del calcio con la stessa grinta che metteva sulla terra rossa, Paolo Dal Pino avrà 6/8 mesi di tempo per dare ragione ai suoi sostenitori. Ma soprattutto per convincere chi non lo ha votato e ha finito invece per esporre Gaetano Miccichè – presidente di Banca Imi e consigliere di amministrazione della Rcs di Cairo – a un secondo flop.

Nell’alleanza anti Dal Pino non mancano pezzi da novanta e reparti di artiglieria pesante: Urbano Cairo, che oltre al Torino, è proprietario di Gazzetta dello sport, Corriere della Sera e La 7 ; Antonello e Marotta, gestori dell’Inter con i capitali cinesi; Andrea Agnelli, presidente della Juventus e membro dell’Esecutivo Uefa. Almeno in quest’ultimo caso, in un mondo di interessi ma pur sempre di passioni sportive, Dal Pino parte con un vantaggio da non sottovalutare: una provata e indiscussa fede juventina.

Biglietti per gli azzurri a Roma: rimangono solo i bagarini web

Dodici giugno, stadio Olimpico, Roma: fra 5 mesi esatti inizia Euro 2020, europei di calcio un po’ di casa per l’Italia. Il nostro Paese ospiterà quattro partite nell’inedita formula itinerante in giro per il continente: un girone, più un quarto di finale prima di spostarsi a Londra, l’onore di ospitare il match inaugurale: Italia-Turchia. Tra sorteggi, tessere del tifoso e problemi informatici, però, esserci sarà (quasi) impossibile: ormai gli oltre 2,5 milioni di ticket, almeno 75mila riservati agli italiani, sono esauriti.

Come nelle scorse edizioni, i biglietti per gli Europei sono venduti su un’unica piattaforma centralizzata della Uefa. Sarebbe meglio dire sorteggiati: per acquistarli bisogna partecipare a una specie di “lotteria”. La domanda è superiore all’offerta, la formula itinerante ha quasi raddoppiato le richieste (da 11 a 19 milioni) rispetto a Euro 2016. Così niente vendita libera: tutti i ticket, in differenti fasce di prezzo, si comprano in una grande estrazione collettiva, in più fasi. Ci si iscrive sul sito, indicando partita e settore; chi viene estratto, compra il prezioso biglietto.

Sistema democratico, forse complesso, di sicuro molto anticipato: i biglietti sono già stati tutti venduti nel 2019. La prima fase, 1,5 milioni di ticket per il pubblico “generico” di ogni nazionalità, si è svolta addirittura la scorsa estate. La seconda invece era quella che riguardava più da vicino i tifosi azzurri: un altro milione per le 24 nazionali qualificate al torneo. È qui che sono stati venduti la maggior parte dei ticket per le tre partite dell’Italia all’Olimpico: a ogni Federazione spettava circa il 25% della capienza, c’erano in palio circa 75mila biglietti per i match con Turchia, Svizzera e Galles.

A complicare ulteriormente il quadro, metà di questi era riservata ai possessori della Vivo Azzurri card, la “tessera del tifoso” della nazionale. La Uefa la incentiva perché consente di avere tifosi “controllati” allo stadio, la Figc perché porta fidelizzazione (e marketing). Ma in pochi ce l’hanno. Andava sottoscritta in anticipo, e fuori dalla corsia preferenziale le possibilità si abbassavano. Aggiungiamo che il sito non sempre ha funzionato, in tanti sono rimasti a mani vuote. Anche questa finestra ormai è chiusa, presto i vincitori riceveranno il loro tagliando. E per tutti gli altri, per chi non ne sapeva nulla, o è stato sfortunato? Restano le briciole. Tra marzo e aprile su un altro sito Uefa si potrà far domanda per le eccedenze, i ticket che non sono stati riscattati o che i tifosi hanno comprato e vogliono rivendere. Rimasugli: trovare qualcosa per una partita di cartello, come ad esempio l’inaugurazione, sarà quasi impossibile. Restano i canali non ufficiali: nonostante la Uefa assicuri che non esistano altri tipi di vendita, su diversi siti di “secondary ticketing” (il cosiddetto bagarinaggio online) i biglietti per Italia-Turchia o per la finalissima di Wembley si trovano ancora. A prezzi spropositati, ovviamente, non meno di 250 euro per la curva, rispetto ai 50 di listino. Se invece vi accontentate di Austria-Ucraina a Bucarest, o Turchia-Galles a Baku, bastano 60 euro. Ma sempre col rischio di non entrare allo stadio, perché i biglietti sono personali e il cambio di nominativo è sempre un’incognita.

Intanto il conto alla rovescia è cominciato: fra cinque mesi tutti a tifare Italia all’Olimpico. Per chi ci riesce.

Le piazze francesi e la buona educazione: un breve apologo

Ricapitoliamo. Da qualche mese Emmanuel Macron e il suo primo ministro, Edouard Philippe, tentano di portare a casa la riforma delle pensioni: senza perdersi in dettagli, l’idea è rendere il sistema previdenziale meno solidale, senza farsi mancare l’aumento dell’età pensionabile, né un regalino a lavoratori ricchi (oltre i 10mila euro al mese) e imprese (3 miliardi l’anno di sgravi). Non bastassero i Gilet Gialli, alla 61esima settimana di mobilitazione, adesso in strada ci sono anche i sindacati: da 40 giorni è ripartita in grande stile la rivolta. Ieri – nonostante Macron nel suo discorso di fine anno facesse lo splendido (“la riforma sarà portata a termine”) – il premier Philippe ha scritto ai sindacati offrendo un primo passo indietro sull’età pensionabile. È il frutto di una rivolta (e davanti a una polizia assai violenta) autenticamente popolare e basata su un’agenda sociale chiara: non l’happening con l’artista quasi impegnato, non il raduno dei bravi bambini con l’editorialista comm’il faut, non il flash mob prima dell’aperitivo. La rivolta popolare: se arrestano un sindacalista, togli la corrente al commissariato (Bordeaux); se c’è un convegno in Comune (Le Havre) lo occupi dopo aver bloccato il porto e, già che sei lì, gli fotti tartine e champagne; se sparano lacrimogeni nel mucchio (Parigi) resti in strada e rispondi. La Francia continua a insegnarci che se stai dalla parte sfortunata della barricata non avrai vittoria senza lotta. E se non si potrà fare sempre con buona educazione, be’, pazienza: faremo finta che non ci è piaciuto.

L’inverno latitante in un Pianeta ormai troppo caldo

Comincia oggi la collaborazione con Luca Mercalli, di cui leggerete ogni domenica la rubrica “Sos clima”.

In Italia – Fino a Natale a riempire le cronache erano state alluvioni, valanghe sulle Alpi, burrasche e acque alte record a Venezia. Passate appena due settimane già siamo proiettati in anomalie di segno opposto, dentro un mite anticiclone esteso dall’Atlantico al Mar Nero che blocca le perturbazioni e di cui non si vede la fine. Le uniche parvenze d’inverno sono affidate a inversioni termiche e nebbie nell’aria ferma e inquinata della Valpadana, mentre appena più in quota le temperature sono primaverili (3 °C sopra media negli ultimi dieci giorni). Tra i valori più rigidi da inizio inverno, le minime di -6 °C di martedì 7 intorno a Belluno e Verona, niente di che per un’alba di gennaio, mentre lo stesso giorno l’isoterma zero sfiorava i 3500 metri sulle Alpi, valore che sarebbe normale in estate. Dei venti freddi settentrionali di domenica 5 gennaio si sono accorte solo le regioni adriatiche e del Sud (alcune località siciliane hanno rilevato le raffiche più forti in circa vent’anni di misure, tra cui 97 km/h a Mussomeli, nel Nisseno), poi è tornata ovunque la calma, appena scalfita da un’insignificante perturbazione atlantica che venerdì 10 ha prodotto deboli piogge sul Levante ligure. Il Cnr-Isac di Bologna comunica che con 1 °C sopra media il 2019 è risultato il quarto anno più caldo dal 1800 in Italia, superato di poco dal 2014, 2015 e 2018, e ha chiuso il decennio più caldo della serie climatica nazionale in un’escalation che dal 1980 ha visto un riscaldamento di 1,8 °C, circa il doppio della già preoccupante tendenza planetaria.

Nel mondo – I devastanti incendi australiani sono il risultato di una combinazione di fattori climatici senza precedenti e resa più probabile dal riscaldamento atmosferico: secondo il Bureau of Meteorology il 2019 è stato infatti l’anno più rovente e secco dall’inizio delle misure nel 1910 (anomalia termica +1,5 °C e deficit di pioggia del 40%), e la soffocante estate australe prosegue con punte di 46 °C. In tutta Europa l’inverno latita, e stando al servizio di monitoraggio EU-Copernicus dicembre 2019 è stato il più caldo con 3,2 °C sopra la norma. Alla Vigilia di Natale a Mosca pioveva, e finora il termometro nella capitale russa non è sceso che a un misero -4,4 °C (29 dicembre). Dalla Lapponia alla Siberia anche la prima decade di gennaio 2020 ha visto anomalie termiche medie di oltre +7 °C, con impressionanti punte di +15 °C a Nord del Lago Bajkal. Giovedì 2, temperatura massima di 19,0 °C a Sunndalsøra, valore mai registrato prima in gennaio in Norvegia. È sempre Copernicus a segnalare che il 2019 si è chiuso come secondo anno tra i più caldi a scala planetaria (anomalia +0,59 °C), appena sotto il caso del 2016 (+0,63 °C). L’Artico è la regione del mondo che più soffre il riscaldamento globale: l’“Arctic Report Card 2019” della Noaa indica che il periodo ottobre 2018-settembre 2019 è stato il secondo più caldo dal 1900 a Nord del 60° parallelo (+1,9 °C), la Groenlandia perde oltre 260 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno contribuendo per 0,7 mm/anno all’aumento dei livelli marini, la degradazione del permafrost libera nell’aria 300-600 miliardi di tonnellate annue di carbonio che a loro volta peggiorano l’effetto serra, oltre a una moltitudine di altri processi in una cascata di effetti che minaccia non solo gli orsi polari ma tutta la complessa trama della vita terrestre. Alluvioni a inizio gennaio hanno colpito Colombia, Perù, Angola, Turchia, e in particolare Israele (fino a 550 mm d’acqua sono piovuti in una settimana nel Nord, sei vittime) e la città di Giakarta in Indonesia (almeno 66 morti), megalopoli già penalizzata dallo sprofondamento del suolo per l’eccessivo sfruttamento delle falde acquifere e un’edilizia sfrenata.

Dio può manifestarsi nella semplicità di una persona qualsiasi

Anche in una società secolarizzata e indifferente come la nostra, i simboli e i riti religiosi continuano a essere occasione di discussione, sia come testimonianza correttamente orientata o, all’opposto, spiritualmente sviata, sia come ricerca identitaria o di strumentalizzazione politica e ideologica. Dal presepe al crocifisso al rosario, i riferimenti di cronaca non mancano. Fino a che punto è lecito “difenderli” e “mostrarli” senza per questo “ostentarli” per compattare i seguaci e provocare gli avversari?

In questa prima domenica dopo l’Epifania, il lezionario “Un giorno una parola” (ed. Claudiana) in uso in molte chiese cristiane, soprattutto di tradizione protestante, ci presenta un rito molto particolare: il battesimo di Gesù (ormai adulto e pronto a iniziare la sua missione) da parte di Giovanni chiamato il Battista (o il Battezzatore) proprio perché praticava questo rito come segno della conversione dei cuori e delle menti. “Allora Gesù dalla Galilea si recò al Giordano da Giovanni per essere battezzato da Giovanni (il battista). Ma questi vi si opponeva dicendo: ‘Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?’. Ma Gesù gli rispose: ‘Sia così ora, poiché conviene che noi adempiamo in questo modo ogni giustizia’. Allora Giovanni lo lasciò fare. Gesù, appena fu battezzato, salì fuori dall’acqua; ed ecco i cieli si aprirono ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dai cieli che disse: ‘Questo è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto’ (Matteo 3,13-17). Gesù va al Giordano in mezzo a molte altre persone, solamente Giovanni sembra comprendere chi ha veramente davanti e ciò che avviene nelle acque di quel fiume, gli altri pare che non si accorgano di nulla. Perché? Perché così viene Dio, così può venire Dio: nella semplicità di una persona qualunque, in mezzo agli altri, tanto che, se non fai attenzione, se noi hai lo sguardo acuto e la mente aperta, puoi anche non accorgertene. Lutero diceva che questo è il modo preferito di Dio di venire a noi, come Deus absconditus, come Dio nascosto, in Gesù uomo, in un fratello o una sorella, o in altro modo. Bisogna dunque sapere e volere guardare per riconoscere Dio, Dio che viene a te e ti parla, ti chiama.

In particolare, nel caso del racconto di oggi, vediamo Dio venire in Gesù attraverso un atto religioso: il bagno rituale di pentimento e conversione che, dall’epoca di Giovanni, diventerà quello che è ancora oggi per i cristiani, e cioè il segno dell’adesione a una fede praticata nella vita. Quante volte abbiamo pensato che i riti religiosi siano pure formalità, che ciò che conta è la sostanza? C’è del vero, e anche molto, nella critica al rito religioso, ma, a parte il fatto che tutta la nostra vita, anche quella quotidiana, è piena di piccoli e grandi riti, è anche vero che il rito è un richiamo che ci rimanda a impegni presi da noi stessi e/o da altri.

E infatti questo racconto ha qualcosa da dire a chi è battezzato: Gesù è – come i battezzati – un chiamato da Dio e – come i battezzati – è chiamato a vivere e realizzare il suo battesimo. Certamente, per Gesù il battesimo ha conseguenze non comuni: “Potete bere il calice che io bevo o essere battezzati con il battesimo con il quale io sono battezzato?” (Marco 10,38), ma quel battesimo richiama tutti i battezzati alla necessità dell’ubbidienza alla volontà e al piano di Dio “adempiendo in questo modo ogni giustizia” (Matteo 3,15). Quello che fa scandalo agli occhi di Dio e del mondo è che i cristiani non si impegnino nella direzione indicata dal loro battesimo, come invece dovrebbero fare. Senza ostentazioni ma portando buoni frutti.

Italia, le stragi sono rimaste cieche

L’implacabile calendario della Rete fissa con esattezza le ricorrenze e ti obbliga a celebrarle. Nei giorni scorsi sono cadute, e sono state ricordate di seguito, tre ricorrenze di grandi fatti che hanno segnato in modo aspro e profondo la vita italiana. Parlo della strage di Piazza Fontana, della strage di Bologna e della uccisione mafiosa di Piersanti Mattarella. Impossibile non notare subito che, nella lista celebrata in sequenza di tre gravi crimini, solo uno (Mattarella) può essere definito con una parola (mafia) che i fatti successivi hanno confermato, in un contesto storico su cui hanno potuto lavorare e allargare la conoscenza dei fatti, giornalisti, giudici, storici e politica.

Piazza Fontana, mentre la racconti oggi per chi non sa o dimentica, era e resta un fatto misterioso che appare più grande col tempo, proprio perché non ha un contesto (chi c’era, chi voleva, perché?) e non ha colpevoli. Una fitta rete di depistaggi ha contagiato e squilibrato subito ogni possibile ricostruzione dell’evento, pattuglie diverse di imputati si sono susseguite, in inchieste e processi diversi, alla sbarra, e non ci sono mai stati eventi a cui si possano accostare le parole verità o certezza. C’è voluto del tempo per passare dagli anarchici ai fascisti come presunti colpevoli. Ma il tempo e lo spazio si erano intanto dilatati al punto da isolare i fatti e trasformare la tragedia in faldoni, mentre l’attenzione si è voltata altrove. Si è sentito, questo sì, l’odore del potere, cioè la presenza di gente adatta per lavorare a una strage, gente che, almeno nell’ultimo ciclo di processi, non sembrava essere – o essere stata – tanto lontano dai mandanti. L’odore veniva da destra, ma giornalismo, libri e giudici non hanno potuto approfondire o sapere di più. La roulette di quell’evento di morte gira ancora e la pallina non si è fermata.

La strage di Bologna, un evento molto più grande in tanti sensi, si è diretta verso un esito strano: personaggi sproporzionatamente piccoli della brutta vita italiana di quegli anni, ci vengono presentati con sicurezza come gli autori di un evento grandissimo, che avrebbe dovuto avere per forza (salvo disgrazia) mandanti capaci di pensare e ordinare un cambiamento brutale della storia italiana. Invece ci troviamo di fronte al fatto più grave e arrischiato dello stragismo mai accaduto in Italia, affidato, come per caso, a dei giovani di passaggio, esperti solo in lotte fra bande armate, omicidi secondo decisioni personali o a scontri a fuoco con la polizia che li conosceva e li braccava. Viene in mente la domanda chiave: chi li ha mandati, considerata l’ampia scelta che gli organizzatori di un simile piano avrebbero avuto nel mondo febbrile e affollato dei tecnici dell’esplosivo, nei Paesi industriali e in Medio-Oriente in quegli anni? È utile ricordare una vicenda americana (terrorismo interno) paragonabile a Bologna per assurdità della strage e numero delle vittime (168 morti, tra cui 20 bambini): l’esplosione che ha distrutto l’edificio federale di Oklahoma City, funzionari e pubblico, il 29 aprile 1995. Anche in quel caso la polizia federale si è orientata subito a destra, in questo caso nel mondo religioso-fondamentalista che due decenni dopo avrebbe votato Trump. E ha puntato sul soldato McWeight, militante del culto, esperto di esplosivi, sulla base di una evidenza non smentibile. È stato lui a portare il furgone con l’esplosivo nel garage dell’edificio saltato in aria. E lo ha fatto nel “giorno della vendetta”. Infatti il 29 aprile di due anni prima la polizia federale, nel tentativo di indurre alla resa il predicatore fondamentalista David Koresh che distribuiva armi ai suoi fedeli, aveva provocato l’esplosione dell’edificio e la morte di sessanta militanti (20 bambini). Colpisce la differenza. Nella vicenda americana tutto è collegato e tragicamente ragionevole.

La vicenda italiana ci presenta personaggi solitari e isolati che hanno compiuto una strage immensa senza che nessuno glielo abbia chiesto. Colpisce il fatto che l’ultimo processo di questi giorni, e l’ultima condanna all’ergastolo, tanti anni dopo i fatti che stiamo narrando, ci presenti un co-responsabile ancora più piccolo, ancora senza mandanti, spiegandoci che adesso la tragica storia ha avuto il suo sigillo finale. Invece la storia resta intatta con i suoi personaggi di sempre: il bisogno legittimo e appassionato di verità delle vittime e per le vittime; la proclamazione dei colpevoli, personaggi senza potere, senza know how e senza legami conosciuti o almeno intravisti con gli ideatori di un delitto che poteva cambiare la storia. E un vuoto che fa paura e che oltrepassa le risposte date finora, persino se fossero vere: che cosa c’era (e forse che cosa c’è) dietro questa tragica scena che forse non è finita?

Mail box

 

Prescrizione, ora qualcuno proverà ad ascoltare Davigo?

Volevo chiedere se il punto di mediazione sulla prescrizione (anche se io la penso come voi) tra Pd (sorvolando sul fatto di come la pensavano questi parolai) e 5S potrebbe essere il ritorno a prima delle schifezze fatte da B.&C. (ec Cirielli, lodo Schifanni, ecc.). Per poi comunque riprendere la Bonafede completandola con quel che serve.

È veramente deprimente sentire i commenti praticamente unificati a schifare la legge Bonafede solo perché fatta dai 5S. Gli unici coerenti in questa farsa sono quelli di Forza Italia!

Francesco Ferdico

 

Caro Francesco, la Bonafede che blocca la prescrizione è da un anno una legge dello Stato, dunque nessuno può toccarla, a meno che il Pd e Iv votino la proposta di Forza Italia per riportarci alle schifezze berlusconiane. Ora, bloccata la prescrizione, bisogna ridurre i tempi dei processi: Davigo, nell’intervista al Fatto, suggerisce molte soluzioni di buon senso. Speriamo che qualuno lo ascolti.

M. Trav.

 

M5S, un progetto visionario calato nella realtà sbagliata

Il Movimento è, contemporaneamente, fautore meraviglioso e carnefice di se stesso. L’onirica e visionaria prospettiva di Grillo e Casaleggio, giusta e virtuosa, è stata calata sulla realtà sbagliata. L’Italia non è permeabile a corpi estranei rispetto alla patologia di cui soffre e difende. Dice bene Travaglio: “Hai voglia a selezionare… scegli sempre tra italiani”.

Diventa perciò chiaro l’autolesionismo che disciplina il limite di mandato dei parlamentari e l’obbligo di far confluire parte dello stipendio al microcredito o ad altro.

Principi precorritori, da cui conseguono i numerosi e “sinceri” distinguo, a denunciare dell’ordine: mancanza di democrazia, tradimento delle origini, gestione verticistica e ogni altra qualsivoglia questione nel rispetto di “imprescindibili principi”. Tutti propedeutici a decorare e travestire disinvolte fughe con poltrona sottobraccio.

Giovanni Marini

 

Intransigenza e sogno, come ai tempi di Berlinguer

Caro Travaglio, scanalando a casa mi sei apparso tu che parlavi con Proietti su un palco, e lui che dice “Sono del Pci”. Ho guardato la tua espressione e ho pensato che in quel momento ti fosse venuto in mente Berlinguer. Ci ho visto come una sorta di bisogno di qualcosa di diverso, di intransigente e che Berlinguer ha rappresentato, e allora mi è venuta in mente quella canzone di Gaber “Qualcuno era comunista”, anche senza essere comunista. Intransigenza e sogno. Chissà se riusciranno a coniugarle.

Riccardo Robiglio

 

Autostrade, una sola vita vale più degli indennizzi

Buongiorno Direttore, leggendo l’articolo di Carlo Di Foggia mi chiedo se dopo 43 morti, code infinite in autostrada per mancanza di manutenzione (a favore solo del profitto) blocchi di cemento che cadono in galleria, il Pd vuole ancora trattare con una società che ha dimostrato che al di sopra di tutto ci sono solo i loro interessi. Questi politici che sono senza vergogna non dovrebbero avere nessun dubbio per la revoca dell’appalto visto che una vita vale molto più dei venti miliardi di indennizzo che dovrebbero liquidare. Per la diminuzione dei parlamentari si stanno mobilitando per un referendum dal risultato scontato e perdita di denaro pubblico.

Perché non si impegnano anche a chiederlo per la revoca di Autostrade?

Luciano B.

 

Craxi “statista” nel Paese che dimentica il passato

Se Mr B. (pur se ormai un po’ malandato) è ancora sulla breccia, nonostante le sue condanne e tutte le volte che è riuscito ad beffare la giustizia, Craxi, un altro condannato, prova a riprendersi la rivincita da morto.

In molti lo vorrebbero riabilitare e santificare. Il film agiografico di Gianni Amelio, “Hammamet”, sembra su questa strada. Sì è vero, lo chiamavano “Bottino”, ha distrutto il Partito di Matteotti e Pertini, ha sguazzato alla grande nel sistema di tangenti e malaffare, ci ha regalato Mr B. ma… era un grande statista!

Eppure, è un pregiudicato, per aver “istituzionalizzato” il sistema di corruzioni da paura, che è stato ed è una delle piaghe d’Italia, il verminaio scoperchiato da Mani pulite e mai sanato.

Mario Frattarelli

 

Riforma del Pronto soccorso: meritiamo una sanità migliore

C’è grande attesa per la riforma del Pronto soccorso nazionale, che partirà a febbraio. Tra gli obbiettivi della nuova riforma, ci sono tempi di attesa certi e percorsi dedicati, ma anche umanizzazione delle cure.

Auspichiamo in questa riorganizzazione accessi alle strutture e urgenza in tutte le regioni del nostro Paese, per dare in particolare ai nostri concittadini un nuovo stile di sanità più efficace.

Massimo Aurioso

 

Diritto di replica

Per un errore l’attacco del mio intervento di ieri sul Fatto diceva l’opposto di quello che penso. Non credo affatto che “Di Maio debba lasciare”, bensì che all’attuale capo politico non ci sia alternativa. Resti leader e lo si sostenga in questo momento difficile – per il Movimento e per le grane internazionali che deve affrontare da ministro degli Esteri – con una gestione delle decisioni più allargata e collegiale.

Luisella Costamagna

Di fronte agli irriconoscenti uno non vale sempre uno

 

“L’ipocrisia è un male ma l’irriconoscenza è peggio. Siete liberi di credere alle favole che stanno raccontando i parassiti che ci succhiano il sangue dall’interno, ma a questo non c’è cura se non la psichiatria”.

Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri 5stelle su coloro che complottano contro il capo politico Luigi Di Maio

 

Spesso lo sforzo (vano) delle cronache politiche è quello di tentare di spiegare il caos secondo logiche geometriche. E dunque le tensioni interne dei partiti sono sempre collocate nel consueto schema: chi sta con il leader e chi sta contro. Quanto alle posizioni intermedie, nelle grafiche dei giornali sono i satelliti più o meno lontani dal sole in un planetario immaginario. Sì, perché nell’ansia di dare un senso politico al dissenso non si tiene conto della forza dei ri-sentimenti più deteriori (rancore, gelosia, rabbia, disprezzo). Ruggini personali ma anche reazioni emotive mosse dall’egoistica difesa di ciò che si possiede e non s’intende mollare: lo scranno parlamentare, per esempio. Nella furiosa invettiva del sottosegretario Di Stefano contro i congiurati anti-Di Maio, tre sembrano le parole chiave: ipocrisia, irriconoscenza, parassiti. Da inserire in un contesto accusatorio che proviamo a decrittare. Siete degli irriconoscenti perché malgrado veniate dal nulla oggi sedete in Parlamento solo perché Luigi vi ha scelti e candidati. Siete degli ipocriti perché non osate affrontare a viso aperto il capo politico ma preferite spargere zizzania e avvelenare i pozzi. Siete dei parassiti perché pensate soltanto ai vostri interessi (ed emolumenti) senza ricambiare in alcun modo ciò che il Movimento ha fatto per voi. E per chi vi da retta ci vuole lo psichiatra. Per dare un senso compiuto a tanto biasimo, Di Stefano, Di Maio e Beppe Grillo farebbero bene a interrogarsi su due aspetti. La selezione improvvisata di una classe politico-parlamentare che accanto a innegabili competenze sembra più che altro composta da miracolati senza arte né parte. A dimostrazione, insomma, che uno non vale uno. Poi, per premunirsi dal rischio di avere imbarcato degli imprevedibili sconosciuti, onde evitare colpi di testa e mantenere la disciplina il Movimento si è inventato un farraginoso meccanismo di controllo fondato sulle espulsioni. Sanzioni estreme quasi sempre originate dai mancati rimborsi. Mettete insieme il problema dei soldi, della cacciata incombente e la sensazione di contare zero nelle decisioni più importanti, mescolate bene e avrete la miscela esplosiva che potrebbe far saltare la leadership Di Maio e implodere il Movimento tutto. Il capo politico replica ipotizzando nuovi assetti di vertice allargati a una donna (Taverna, Appendino), misure che tuttavia potrebbero non placare i ribelli. Più che passi indietro o di lato servirebbe infatti un deciso passo in avanti del M5S. Finalmente in grado di passare dalla turbe adolescenziali alla maturità dell’età adulta.

Il cibo per i clic? Ma non scherziamo

Omo de panza, omo de sostanza Lo disse pure il buon Matteo Salvini a Lilli Gruber per rispondere alle invero un po’ sgradevoli osservazioni della conduttrice sul suo fisico. Un modo di dire che deve essere in auge a via Solferino. Ieri, infatti, Il Corriere della Sera ha dedicato un pezzo, corredato di prezioso materiale iconografico, all’appetito rablaisiano del capo leghista: “La maratona (elettorale, ndr) in Umbria è stata un ininterrotto inno al Sagrantino di Montefalco”, vino umbro – a scanso di accuse di opportunismo – omaggiato anche “ai Vinitaly degli ultimi anni”, ma senza dimenticare “lo Sfursat valtellinese e l’Amarone orgoglio di Valpolicella”. A Strasburgo va ancora peggio: i poveri leghisti, pare, sono “costretti a ingurgitare ettari di Flammkuchen, la pizza alsaziana coperta di cipolla e lardons oppure carriolate di formaggi fusi alla Cloche à Fromage”. In Calabria, ovviamente, è andato di “spuntino a base di ‘nduja e soppressata”, ma è in Emilia-Romagna che “avviene la trasmutazione. Con cappelletto e culatello in Salvini si compie un prodigio: diventa più emiliano di un piacentino, più romagnolo di un forlivese. Al punto, e non è uno scherzo, da assumere la zeta sfuggente ferrarese e la erre arrotata dell’alta Emilia. Non è soltanto un’esca per i clic”. Ma non sia mai, non ci avevamo manco pensato: ma che gli è potuto venire in mente al Corriere?

Il mistero del Pd (e di chi lo cambia)

Il lettore meno accorto, forse, ha scambiato la O per una A, vocale che avrebbe certamente dato un senso a quel verbo piazzato in prima pagina: Pd, cambio tutto, titolava ieri a sei colonne Repubblica. E invece, a leggerlo bene, era proprio coniugato in prima persona, pur senza alcun nome che se ne assumesse la paternità, né virgolette che testimoniassero quantomeno la natura del discorso diretto. Dunque chi è che cambia tutto? Il direttore del giornale, Carlo Verdelli? L’autore dell’articolo, Massimo Giannini? Non è dato saperlo, a meno di leggere il pezzo per intero e di capire che a parlare è il segretario del Pd Nicola Zingaretti. È suo “il piano” per rifare il partito. Ma a Repubblica non hanno voluto concedergli nemmeno l’onore delle virgolette. Una scelta in contro tendenza rispetto alle altre due interviste con cui il quotidiano ha aperto il giornale in questa prima decade del 2020: una al premier Giuseppe Conte, l’altra al commissario Ue Paolo Gentiloni. Entrambe titolate su una frase dell’intervistato, opportunamente racchiusa tra gli apici. Stavolta non è andata così. Che sia mancanza di fiducia nel leader dem, uno non proprio abituato al pugno duro, o totale sovrapposizione tra i sogni del segretario e le speranze della testata?