Ormai la mia Kangaroo Island, con i suoi koala, non esiste più

Sono sbarcata a Kangaroo Island tre anni fa, in una fredda giornata di dicembre. Era metà pomeriggio, io e i miei amici non avevamo pranzato, il mio hotel era a circa un’ora di macchina dal piccolo porto dell’isola e decidemmo di fermarci a mangiare un fish&chips in un baretto affacciato sull’oceano. “Se dovete raggiungere quell’hotel vi conviene partire prima che faccia buio”, ci consigliarono. Io che non avevo ancora capito dove mi trovassi, affascinata dai gabbiani giganti, me ne fregai e partii che era buio.

Quel viaggio durò circa tre ore perché quella notte, lungo la strada dritta e buia che si apriva tra gli eucalipti, sbucavano canguri che sfrecciavano via in un lampo e, soprattutto, i koala. Koala che sostavano nel bel mezzo della carreggiata e che con una lentezza buffa e irrimediabile raggiungevano un cespuglio non prima di aver fissato la nostra automobile con un tenerissimo stupore. Quella notte capii che quel luogo non somigliava a nessun altro, e che non l’avrei dimenticato.

Tre anni dopo, Kangaroo Island come l’ho conosciuta io non esiste più. Gli incendi delle ultime due settimane hanno divorato quasi metà dell’isola, ne hanno ridisegnato la geografia e forse anche le paure degli abitanti, che pur abituati a sentirsi minuscoli nel mezzo di una natura tanto maestosa, un fuoco così feroce non se l’aspettavano.

A Kangaroo vivono 4.500 persone in tutto (di cui 2.500 nella città di Kingscote), tra di loro, anche una decina di italiani tra cui Luca Lovison, 47 anni, guida turistica di riferimento di tanti tour operator. Luca è dalla provincia di Varese, ma da 20 anni vive a Kangaroo dove si è trasferito con sua moglie. I suoi due figli di 12 e 14 anni sono nati e cresciuti qui. Lo chiamo che a Kangaroo è già notte. “Il 3 gennaio qui c’è stato un violento temporale e i fulmini hanno innescato un incendio a nord, che col vento forte si è propagato per mezza isola. Sei giorni dopo, l’incendio è arrivato alle porte di Kingscote, dove vivo. Eravamo increduli. All’una di notte l’orizzonte era tutto rosso, ho dovuto mostrare a mia figlia come usare la canna dell’acqua e come proteggermi, se mi fossi trovato a dover lottare con le fiamme”. Gli chiedo se sull’isola siano rimasti sorpresi. “Ci aspettavamo un incendio perché la vegetazione era cresciuta troppo, ma non così devastante. Qui ci sono persone che hanno perso tutto. È arrivato l’esercito per aiutarci a seppellire gli animali, ci sono dai 5 ai 7.000 capi di bestiame morti per fattoria e servono le ruspe per scavare le fosse. È bruciato perfino il lussuoso Southern Ocean Lodge, dove veniva in vacanza Bill Gates”.

Su internet girano video in cui si vedono abitanti di Kangaroo lottare eroicamente col fuoco. “Le persone sono state fantastiche. Dana Mitchell del Wildlife Park ha protetto con tutte le forze gli animali del suo parco. Alcuni come il canguro o il dingo erano difficilmente trasportabili. Il mio amico Marcus, un contadino, è da tre settimane nel nord dell’isola da solo a lottare con le fiamme per proteggere la sua casa. Un giorno ero al telefono con lui che gli leggevo il bollettino dei venti perché era nel mezzo di un incendio ed è caduta la linea. Pensavo fosse morto, è riapparso tre giorni dopo, non sapeva più come caricare il telefono. Ha salvato il cane e le pecore dal fuoco”.

Qualcuno però a Kangaroo non ce l’ha fatta. “Sono morti un padre e un figlio, mentre viaggiavano in macchina. Una è stata trovata carbonizzata in auto, l’altra a duecento metri, aveva tentato di scappare”.

L’animale più amato dell’isola, il koala, faccio notare a Luca quanto sia diventato nel mondo il triste testimonial di questa tragedia. “È vero, e il fatto che siano morti forse 20/30.000 koala è orribile. Spero non mi si accusi di cinismo però se dico che i koala non c’erano qui, sono stati portati cento anni fa quando si inaugurò il Flinders Chase National Park. Erano solo sei coppie, credo. Oggi sull’isola vivevano 60.000 koala che dagli anni 80 venivano considerati un’emergenza nazionale: distruggevano la vegetazione. Il governo, per non abbatterli, ha speso cifre enormi per la sterilizzazione. La natura tenere a ricreare un equilibrio negli habitat, nella tragedia provo a cercare un senso”.

A proposito di natura ed equilibri domando a Luca che idea si sia fatto delle cause di questi incendi. “Io non sono uno scienziato, ma vivo nella natura e il cambiamento climatico lo vedo con i miei occhi. Qui i politici negano la correlazione, ma i cittadini disprezzano questo negazionismo. Poi certo, ci sono altre cause. Un’altra paradossalmente è la difficoltà che si ha nell’intervenire sulla vegetazione. L’Australia è molto rigida sull’ambiente, se pulisci un bosco o raccogli della legna sul ciglio della strada ti multano. Servono permessi per tutto, questo ha impedito a molti di proteggere le case e i campi”.

Luca però cerca di essere positivo. “Io lavoro con i turisti, è la mia vita. Tanti stanno annullando le prenotazioni, io voglio difendere non solo il mio lavoro ma quest’isola. C’è ancora tanto da vedere: la zona est è intatta e io continuo i tour, non mollo, l’ho detto anche all’Abc, la tv pubblica australiana, e gli abitanti di Kangaroo mi fermano dicendomi “Well done!”. Non molla, forse, anche per i due figli nati e cresciuti qui. Chiedo a Luca cosa significhi per un bambino nascere ai confini del mondo. “Giorni fa mio figlio dodicenne è andato con un amico a pescare. Ha trascorso la giornata tuffandosi dal pontile. Io che sono italiano non ho fatto che pensare al fatto che sotto quel pontile potessero esserci degli squali, cosa normale qui. Per mio figlio i pericoli di questo tipo sono semplicemente una cosa in cui è immerso da sempre: la natura”.

E la natura, mi dice Luca, rimetterà le cose a posto. Ci sono abitati che stanno già ricostruendo. Ci sono koala in cima agli alberi più alti, sopravvissuti alle fiamme. Gli uomini e gli animali si stanno già organizzando.

Manifestavano per il clima: arrestati Hanoi Jane e Joker

Joker è stato arrestato. E non solo lui, anche il capitano Willard di Apocalypse Now: protestavano per il clima, con Jane Fonda. Chiaramente i veri protagonisti sono gli attori Joaquin Phoenix – l’attore protagonista del film premiato con il Leone d’Oro, reduce dei Golden Globe e nel pieno della corsa verso gli Oscar – e Martin Sheen. La notizia è stata diffusa ieri dai media americani e ha dato in pochissimo tempo una eco ancora più grande a un movimento, “Fire Drill Fridays” che, parallelamente al Friday for Future di Greta Thunberg, si allarga di settimana in settimana conquistando le pagine della cronaca e l’interesse dei media.

Il motivo è semplice: al Fire Drill Fridays si stanno avvicinando decine e decine di vip, nomi importanti del cinema e delle serie tv del presente e del passato. Il primo, su tutti, è quello dell’ideatrice Jane Fonda, ormai arrestata almeno cinque volte a Washington per le sue proteste contro il cambiamento climatico. L’attrice – che dalla settimana prossima sarà impegnata nelle riprese della nuova stagione della serie Netflix di cui è protagonista, Grace&Frankie – ha di fatto fondato il movimento, garantendo prima la presenza a Capitol Hill ogni venerdì, per protestare con ogni condizione atmosferica, ora sostenendone l’organizzazione. “Non possiamo permetterci di aspettare – ha spiegato -. La crisi climatica non è un problema isolato: coinvolge ogni parte della nostra economia e società. Scienziati, leader del movimento, esperti, attivisti, capi indigeni e giovani si riuniranno per condividere le loro storie e chiedere che vengano intraprese azioni prima che sia troppo tardi”, dice Fonda. Un modo per allargare la protesta e coinvolgere, oltre gli studenti e i giovani, ogni cittadino interessato a discutere anche di tutti i temi collegati al cambiamento climatico, dalle guerre al capitalismo agli allevamenti intensivi. Non a caso, altra presenza fissa ogni venerdì è la scrittrice e attivista Naomi Klein. E, per raggiungere più persone possibili, ogni giovedì sera prima delle dimostrazioni, Jane Fonda ospita sulla sua pagina Fb un “Teach-In”, trasmesso in streaming, con un gruppo di esperti, “affinché il pubblico possa partecipare almeno virtualmente”. Nel giro di pochi mesi, le proteste, nate con un nugolo di venti dimostranti, sono arrivate a contare centinaia di persone. E almeno 200, secondo gli organizzatori, sarebbero le persone arrestate.

Le immagini della manifestazione di venerdì mostrano una marcia pacifica, capitanata da Jane Fonda (cappotto e cappello rosso, come gli indumenti di molte altre donne presenti) che con gli altri invoca la necessità urgente di un Green New Deal. “Quando lo vogliamo?” urla la voce che guida la marcia: “Ora!” è la risposta del corteo. Accanto a Jane ci sono la scrittrice e attivista Naomi Klein, la supermodel Amber Valletta, l’avvocato per i diritti umani Rebecca Adamson, numerosi attivisti (Eriel Tchekwie Deranger, Omekongo Dibinga, Tara Houska), associazioni come Greenpeace e gli attori June Diane Raphael, Martin Sheen, Susan Sarandon e Joaquin Phoenix. L’attore, prendendo la parola, ha invitato ad affrontare la questione degli allevamenti intensivi: “A volte mi sforzo di pensare cosa posso fare, e ci sono cose che non si possono evitare. Non posso non prendere un aereo, per esempio, ma posso cambiare il mio modo di mangiare. Unitevi a questa causa”, ha detto Phoenix.

A 82 anni, Jane Fonda ha aperto gli interventi dal palco ricordando la devastazione degli incendi in Australia. “Il cambiamento climatico sta rendendo il nostro pianeta meno sicuro” ha detto: “E negli ultimi giorni lo spettro della guerra ha ricominciato ad aggirarsi… Il movimento per il clima e quello contro la guerra facciano fronte unico”. Accanto a lei, Naomi Klein: “Fire Drill Fridays è un’occasione per coinvolgere, e far partecipare, le persone che sono da sole a casa e si sentono disperate. Noi dobbiamo essere infiammati per il pianeta, trovare il fuoco dentro di noi e diffonderlo”.

La polizia è intervenuta quando il corteo si è trasferito sulle scale della sede del Congresso, con cartelli e slogan. Phoenix è stato fermato lì, per essersi rifiutato di disperdersi con gli altri partecipanti. Dal palco aveva ringraziato Jane Fonda, “la sua eroina dell’età adulta”: “Chiaramente il mondo sarà salvato dalle donne. Grazie a Dio sono più numerose degli uomini”.

Francia, pensioni e riforma: l’uscita a 64 anni non c’è più

Il governo cede (almeno in parte) alla pressione della protesta: ieri il premier Edouard Philippe ha ritirato dal progetto di riforma delle pensioni l’età d’equilibrio, la misura più contestata del testo, respinta dal 61% dei francesi. Ma si tratta di una sospensione “provvisoria”: “Per dimostrare la mia fiducia ai partner sociali, e non pregiudicare l’esito dei loro lavori sulle misure da attuare per raggiungere l’equilibrio nel 2027 – ha scritto Philippe in una lettera ai sindacati –, sono disposto a ritirare la misura a breve termine che consiste nel convergere progressivamente, a partire dal 2022, verso un’età di equilibrio di 64 anni nel 2027”. Questa stessa misura figurava nella bozza del controverso testo resa nota appena due giorni fa. Ma per uscire dall’impasse, Philippe ha bisogno di ritrovare il sostegno dei sindacati riformisti, anche loro opposti all’età di equilibrio. Il “gelo” della misura è dunque una vittoria per Laurent Berger, il segretario generale della moderata Cfdt.

La sua proposta di organizzare una “conferenza sul finanziamento delle pensioni”, per discutere dell’equilibrio finanziario 2027 in sede separata, è stata accolta. Ma il governo vuole fare presto ed è lui a fissare il calendario: le conclusioni di questa conferenza dovranno essere tirate entro fine aprile, per permettere il voto della legge prima dell’estate. In assenza di accordo tra le parti sociali, ha precisato Philippe, sarà il governo a prendere in mano la situazione e a decidere “via ordinanze le misure necessarie per raggiungere l’equilibrio 2027”. Al suo 39° giorno, la protesta potrebbe essere a una svolta. La Cfdt è “soddisfatta”. Ora per i sindacati si tratta di trovare una soluzione e non lasciare al governo l’ultima parola. Non è detto però che sarà facile pervenire a un accordo. Contrario sin dall’inizio alla riforma in tutti i suoi punti, Philippe Martinez, segretario generale della Cgt, il sindacato che dal 5 dicembre blocca treni e metrò, resta inflessibile: “Siamo più che mai determinati a ottenere il ritiro del resto”, ha scritto ieri sera in un comunicato. La notizia che l’età d’equilibrio era stata ritirata è arrivata mentre migliaia di persone erano tornate a protestare nelle strade di tutta la Francia. Nella capitale, dove i Gilet gialli si sono uniti ai sindacati, diverse tensioni hanno segnato il percorso tra la place de la Nation e la République. Sono tornati i black bloc che hanno incendiato scooter, cassonetti e pannelli pubblicitari e infranto vetrine di negozi. La place de la République si è ritrovata immersa nei fumi dei lacrimogeni. I manifestanti non si sono fatti impressionare dall’annuncio di Edouard Philippe. Il cedimento del governo incita piuttosto a continuare: chi scende nelle strade da cinque settimane vuole solo una cosa, che tutto il testo venga ritirato. Le date per le proteste del 14, 15 e 16 gennaio sono confermate.

Pawel turba ancora i populisti

Un anno fa, nella notte tre il 13 e il 14 gennaio, moriva Pawel Adamowicz, il sindaco di Danzica. Moriva durante un concerto di beneficenza, per delle coltellate al petto inferte da uno squilibrato di 27 anni, Stefan W. (il cognome non è stato ancora reso noto).

In questi giorni la città ricorda con una serie di eventi Adamowicz, primo cittadino molto popolare e volto noto del mondo liberale polacco. Libertà, dialogo, Europa, rispetto delle minoranze sessuali, multiculturalismo: questa la sua visione per Danzica e la Polonia. Agli antipodi rispetto a quella dei populisti al governo dal 2015. “Se non fosse stato assassinato, lo avrebbero candidato a premier. Ne sono quasi certo”, afferma al Fatto Quotidiano Mikolaj Chrzan, giornalista dell’edizione di Danzica di Gazeta Wyborcza, influente giornale liberale polacco; il cronista ha seguito da vicino la carriera politica di Adamowicz e la sua ascesa a leader liberale.

Un ruolo che l’esponente liberale interpretava con passione, e che gli è costato attacchi durissimi da destra. Per qualcuno, l’assassinio è legato al clima d’odio instaurato nei suoi confronti. Adamowicz ha lasciato a Danzica un’eredità ricca e varia, comunque molto legata allo spirito di Solidarnosc, il movimento politico-sindacale, nato proprio a Danzica nel 1980, che diede la prima grande spallata al Muro di Berlino. La storia politica di Adamowicz è segnata da quell’esperienza.

“Fu un giovane leader di Solidarnosc nel 1988-1989, gli anni della svolta democratica. Ha sempre cercato di trasfondere nella pratica politica i valori di apertura e dialogo che ispirarono il movimento, adattandoli a tempi e situazioni”, dice Basil Kerski, direttore del Centro europeo Solidarnosc, il grande museo di Danzica sulla storia del movimento, voluto proprio da Adamowicz. “Un esempio – continua Kerski – è la sua posizione favorevole pro-migranti. Quella del governo, di chiusura netta, non rispecchiava a suo avviso l’idea di società inclusiva e plurale di Solidarnosc”.

Adamowicz è stato un critico severo dell’esecutivo anche sull’occupazione del settore giustizia operata in questi anni con riforme che hanno minato l’indipendenza della magistratura. Riforme costate vari richiami da parte dell’Ue. Il fronte è sempre caldo, e ieri i giudici polacchi hanno protestato a Varsavia. In piazza, anche alcuni togati giunti da vari Paesi dell’Unione europea.

Un altro motivo di attrito tra il governo e Adamowicz sono stati i diritti delle minoranze sessuali. Ignorati dal primo, invocati dal secondo. “Nel 2017 e 2018 il sindaco prese parte al gay pride: un momento importante nel suo processo di trasformazione politica”, riflette Chrzan. Già, perché all’inizio della sua carriera da primo cittadino, nel 1998 (quattro le elezioni successivamente vinte) non era un liberale. “A quel tempo – è sempre Chrzan a parlare – tendeva al conservatorismo. La sua svolta maturò intorno al 2010-2012, nel periodo che precedette gli europei di calcio in Polonia e Ucraina. Danzica fu una delle città ospitanti, e il sindaco girò molto per l’Europa. Strinse rapporti, vide al lavoro i grandi partiti europei, comprese quanto fossero aperti e moderni. Qualcosa in lui cambiò”.

E cambiò Danzica, oggi guidata da Aleksandra Dulkiewicz, l’ex vice di Adamowicz. Con Euro 2012 arrivarono moltissimi fondi europei, oltre a investimenti privati. Furono potenziate le infrastrutture, si sviluppò il turismo. Danzica, fino a qual momento città post-industriale e periferica, abbastanza sonnolenta, si rimise in moto. “Questo è vero, ma va anche detto che Adamowicz ha privilegiato una visione della città troppo fondata sullo sviluppo, con poche reti sociali per chi è rimasto indietro”, sostiene Andrzej Skiba, esponente dell’opposizione populista in consiglio comunale.

Adamowicz, alla gente di Danzica, manca. Difficile riempire quel vuoto; difficile dimenticare quella drammatica notte. “Ogni volta che veniva invitato in Europa, a qualche conferenza, si presentava così: ‘sono di Danzica, la città della libertà e di Solidarnosc’. Lo trovavo bizzarro. Ebbene, da quando è morto anch’io, se sono all’estero, mi qualifico in questo modo”, confessa Mikolaj Chrzan.

La Svizzera del Medio Oriente ha un altro sultano “illuminato”

Dopo aver giurato davanti agli altri membri della famiglia reale, il neo Sultano dell’Oman, Haitham ben Tariq Al Said (nella foto) ha portato a spalle la bara del cugino Qaboos, sul trono dell’ex impero omanita dal 1970. Considerato dai suoi sudditi – 4 milioni e mezzo di cui la metà composta da espatriati – il vero “padre della patria” e da tutti i capi di Stato del mondo l’unico mediatore in grado di dirimere, da dietro le quinte, le dispute più difficili e insidiose tra musulmani (sunniti e sciiti) e tra Occidente e Medio Oriente, Qaboos aveva deciso da tempo di farsi succedere al vertice dal cugino Haitham bin Tariq, 65 anni. Due anni fa circa, quando il sovrano scoprì di avere un cancro, iniziò a preparare una successione in linea con la propria agenda. Tradotto: neutralità in ambito estero e sviluppo infrastrutturale e culturale all’interno. Nella sua prima dichiarazione ai media, il cugino ha infatti sottolineato di voler mantene il paese neutrale. La tolleranza religiosa, l’ammodernamento dei costumi assieme alla creazione di infrastrutture, scuole e ospedali anche negli angoli più remoti dell’Oman (specialmente nel sud al confine con lo Yemen) imposti da Qaboos hanno trasformato l’Oman in una sorta di “Svizzera del Medio Oriente”. Come Qaboos, anche Haitham bin Tariq ha studiato nel Regno Unito. Tornato a Muscat, bin Tariq iniziò subito a lavorare al fianco del cugino fino a diventare ministro.

L’Iran ha abbattuto l’aereo: ora gli Ayatollah sono soli

Nel gioco al rialzo della tensione con l’Iran azzardato a inizio 2020, con l’uccisione del generale Qasim Soleimani, il presidente Donald Trump le azzecca quasi tutte. E gli ayatollah non ne fanno una giusta: scelgono l’opzione della risposta a salve, per disinnescare l’escalation verso il conflitto, ma, volendo essere moderati, danno l’impressione di essere intimoriti; e, per di più, non volendo fare vittime, abbattono per errore un aereo di linea: 176 morti civili, uomini, donne, bambini. L’ammissione è arrivata all’alba di ieri, dopo che accuse precise erano già state formulate dall’Ucraina – il Paese del Boeing 737 centrato da un missile – e dal Canada, che, dopo l’Iran, aveva più cittadini a bordo.

Citando fonti militari, la tv di Stato riconosce che l’Iran ha “involontariamente” abbattuto l’aereo di linea ucraino “per un errore umano”. L’assunzione di responsabilità giunge inattesa, un esercizio di trasparenza che impressiona l’Occidente, ma che fa infuriare i contestatori del regime in Iran.

Le Forze Armate iraniane affermano che il Boeing precipitato poco dopo il decollo dall’aeroporto ‘Imam Khomeini’ di Teheran era stato “erroneamente” preso di mira, scambiato per un “aereo nemico”. Poche ore prima, missili iraniani erano caduti su basi militari irachene utilizzate da militari americani e di altri Paesi, fra cui l’Italia, della coalizione internazionale anti-Isis: la contraerea iraniana era sul chi vive e – altro tragico errore – lo spazio aereo iraniano non era stato chiuso al traffico civile. Ci sono state manifestazioni di solidarietà per le 176 vittime; e poi proteste aperte, ed eccezionali, contro il comandante supremo delle forze armate, ovvero l’ayatollah Ali Khamenei, la massima autorità iraniana.

La polizia è intervenuta contro i dimostranti che chiedevano a gran voce le dimissioni della Guida Suprema, scandendo slogan come “Comandante, dimettiti!”, “Referendum per la costituzione”, “Il nostro nemico è qui, è una bugia che sono gli Usa”. Oltre che a Teheran, proteste analoghe a Mashhad, nel Nord-Est. Video che girano sui social mostrano persone che corrono nelle strade attorno all’Università di Teheran.

Molte celebrità locali, tra cui artisti, attori ed atleti hanno postato sui propri social testimonianze di solidarietà con le vittime del disastro aereo e critiche al sistema. Una protesta è annunciata oggi pomeriggio in piazza Azadi. L’ammissione è arrivata dopo 72 ore di tentennamenti. “Non è una buona mattina, ma almeno ci ha portato la verità”, ha commentato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Justin Trudeau, premier canadese, chiede “giustizia per le vittime”. Come è stato possibile? Gli americani sanno che errori del genere possono succedere: il 3 luglio 1988, l’Airbus A300 del volo IranAir 655, appena decollato da Bandar Abbas per Dubai con 290 persone a bordo, fra cui 66 bambini, venne abbattuto da un missile tirato dall’incrociatore Usa Vincennes sullo stretto di Hormuz: era stato scambiato per un caccia iraniano ostile. Gli Usa espressero rammarico per l’avvenuto e, dopo otto anni, concordarono un risarcimento ai familiari delle vittime, ma non ammisero mai la loro responsabilità né si scusarono con l’Iran. Il comandante della forza aerea delle Guardie rivoluzionarie, generale Amirali Hajizadeh, appare prostrato: “ Avrei preferito morire piuttosto che veder accadere un fatto simile. Me ne prendo la responsabilità e accetto qualsiasi decisione le autorità prenderanno”. L’Unione europea decide che le sue compagnie aeree evitino per il momento lo spazio aereo iraniano.

Putin tira le orecchie al generale di Bengasi che in serata si piega: “Ok alla tregua”

“In Libia ci sono mercenari russi? Ma quel paese è pieno di persone che combattono per soldi. Alcuni vengono dalla Siria, da Idlib, ad esempio”. La conferenza del presidente Vladimir Putin a Berlino è un compendio dell’arte russa di affrontare la realtà di un paese frantumato come l’ex regno di Gheddafi. Putin vuole essere il capo di Stato sempre dalla parte giusta. Tutti devono prestare attenzione. Soprattutto il generale Haftar, uno che già nel gennaio 2017 saliva sulla portaerei russa Ammiraglio Kuznetsov al largo della Cirenaica per sapere se Mosca lo avrebbe spalleggiato nel tentativo di buttare a mare il governo di Tripoli di al Serraj. “Quello è in ostaggio delle milizie islamiste. Sono gli stessi che voi state combattendo in Siria”. Lo avrà detto, Haftar, agli ammiragli? Non lo sappiamo; ma se lo avesse fatto non resteremmo stupiti. Ora però il generale di Bengasi che accerchia da settimane Tripoli vuol fare di testa sua, e quando il presidente turco Erdogan, assieme a Putin, due giorni fa ha lanciato l’idea della tregua, mentre al Serraj diceva “ci sto”, lui batteva i pugni sul tavolo. A Putin non sta bene: “Spero che l’appello di Russia e Turchia per una tregua in Libia venga ascoltato, tutti i contendenti devono prendere parte al processo, conto molto che a mezzanotte, come abbiamo esortato con Erdogan, le parti in contrasto smetteranno le ostilità”. Haftar in serata si è piegato alla “richiesta” russa, annunciando il cessate il fuoco immediato.
Per lo zar un punto messo a segno. Che però non basta. Dunque, la conferenza di pace da tenersi a Berlino sarà ben accetta dalla Russia? “Riteniamo che l’iniziativa della Germania di ospitare la conferenza sia tempestiva”. Come per magia, mentre il presidente russo esortava gli attori del conflitto fratricida a mettere i fucili da parte, da Tripoli un comandante delle forze di governo, Nasir Ammar, all’agenzia di stampa Anadolu sosteneva che i mercenari russi della Wagner avrebbero iniziato a ritirarsi dalla linea del fronte nei pressi di Tripoli, proprio in vista del ‘cessate il fuoco’. Per il comandante fedele ad al Serraj è stato osservato “un ritiro significativo” dei mercenari dalla zona intorno a Tripoli, facendo rientro in elicottero a Jufra. “Quelli che restano sono lì per controllare il ripiegamento” ha spiegato il comandante, che ha poi ribadito che l’Esercito nazionale libico di Haftar “include nei suoi ranghi, oltre ai combattenti di Wagner, le milizie sudanesi dei Janjaweed, e poi mercenari egiziani, emiratini e sudanesi”. Ma se fanno un passo indietro quelli di Wagner, le intenzioni della Russia sono di imporre a tutti la tregua. Sebbene su questo punto, Putin non ha abbassato la guardia, negando i rapporti con l’agenzia di sicurezza privata: “Se ci sono russi in Libia, non rappresentano lo Stato e non sono pagati da Mosca”. Poco importa che Wagner abbia combattuto a fianco delle truppe governative di Damasco contro i ribelli e gli estremisti islamici in Siria, così come siano presenti in quei paesi africani dove Mosca ha stabilito i suoi interessi; per Putin quei combattenti non rispondono al Cremlino.

Alla fine Sarraj va da Conte: “Haftar deve ritirarsi”

Picchetto d’onore, quasi tre ore di colloquio, dichiarazioni congiunte davanti alla stampa: ieri alla fine Giuseppe Conte e Fayez al Sarraj si sono visti a Palazzo Chigi. Solo tre giorni fa, il presidente del governo nazionale libico aveva cancellato il faccia a faccia, previsto lo stesso giorno in cui il premier aveva incontrato il generale della Cirenaica, Khalifa Haftar. Coincidenza di tempi indigeribile per Sarraj. Dopo tre giorni di polemiche e di lavoro costante, i rapporti tra i due si sono rimessi su un binario positivo. Il pressing diplomatico di Conte si unisce a quello della Cancelliera Angela Merkel e di Vladimir Putin, che ieri si sono visti a Mosca, ribadendo la necessità della Conferenza di Berlino. E soprattutto agli inviti dello stesso presidente russo e del presidente della Turchia, Erdogan ai due protagonisti della crisi per arrivare a una tregua. In serata, Haftar il cessate il fuoco lo annuncia. “Primo passo verso una soluzione politica”, twitta Conte.
Ieri, subito dopo la partenza di Sarraj, il premier ha telefonato al presidente francese Emmanuel Macron. Oggi dovrebbe sentire Putin e la Merkel. Domani va ad Ankara a incontrare Erdogan e martedì al Cairo da Al Sisi. Nel frattempo continua a ribadire in tutte le sedi quanto detto ieri a Sarraj: “L’intervento dell’Unione europea è la massima garanzia che si possa offrire oggi all’autonomia del popolo libico”. Perché, l’alternativa è che il paese diventi oggetto di spartizione tra due attori (la Turchia, che appoggia Sarraj e la Russia, che appoggia Haftar).
Haftar aveva posto come condizione per la tregua il ritiro della Turchia (in questo almeno in parte sostenuto da Egitto e Emirati Arabi). Mentre la condizione di Sarraj è lo stop dell’avanzata su Tripoli. Da capire i contorni della tregua: Haftar si ritirerà davvero?
Il colloquio tra Conte e Sarraj (durato quanto quello con Haftar) si è svolto in un buon clima.
Il libico è stato accolto con tutti gli onori di un Capo di Stato (evidentemente non riservati al leader della Cirenaica) e ha pubblicamente riconosciuto il ruolo dell’Italia. Il premier ha espresso tutta la vicinanza del caso, tesa anche a chiarire di non aver cambiato cavallo. Ha assicurato l’azione “lineare e coerente” del nostro paese, ribadendo di non avere “agende nascoste”. E, come aveva già fatto con Haftar, ha chiarito che non converrebbe a nessuno dei due affidarsi a Putin e Erdogan. Ma che potrebbero essere meglio aiutati da un ruolo crescente dell’Unione europea. Non fosse altro perché un’eventuale spartizione tra 28 paesi sarebbe più complessa. Ha ribadito l’importanza della Conferenza di Berlino. Condizione necessaria, il cessate il fuoco. Poi, ha spiegato a Sarraj le richieste del generale. “Accogliamo con piacere l’iniziativa della Russia e della Turchia per un cessate il fuoco – ha detto il libico – e siamo disponibili ad accogliere qualsiasi tipo di iniziativa che possa andare in questa direzione. A condizione che ci sia un ritiro da parte di chi attacca. Ma questa fazione avversa non sembra disponibile a ciò, perché ha un altro modus operandi…”.
Una volta finito l’incontro con Sarraj, Conte ha parlato con Macron, al quale ha raccontato gli incontri con i due. Un accordo Italia-Francia non è secondario, visto che anche le rivalità tra Roma e Parigi hanno complicato il dossier. Ma i due hanno convenuto sulla necessità di un impegno diplomatico comune per il cessate il fuoco, per un sollecito avvio del processo di Berlino e per l’importanza di un crescente ruolo dell’Ue. I distinguo restano (Macron ha appoggiato Haftar fin dal primo momento). Il presidente francese, infatti, sostiene la tesi che i turchi dovrebbero lasciare la Libia, Conte gli ricorda che l’avanzata verso Tripoli l’ha iniziata Haftar e che l’accordo di Sarraj con Erdogan arriva dopo. A tutti, il premier sta paventando il rischio di una nuova Mogadiscio. Da vedere anche qui quali fatti seguiranno.
Nel frattempo,si lavora a una missione europea di pace. E all’ipotesi di un inviato speciale italiano. Se l’ipotesi diventasse realtà, il favorito è Marco Minniti. “Io mediatore? Se me lo chiedessero per me sarebbe un onore. L’importante è che ci sia una voce unica, se poi è italiana è una grande opportunità per l’Italia”, ha detto lui.

La maxi-multa al comandante Ong che violò divieto di sbarco

Una multa di 300mila euro è stata notificata a Claus Peter Reisch, il comandante tedesco della Lifeline, la Ong impegnata per il recupero dei naufraghi nel Mediterraneo. È l’effetto di quel decreto sicurezza bis di cui il governo ha promesso la modifica, innanzitutto nella parte che prevede multe salatissime per le Ong che non dovessero rispettare il divieto di ingresso in acque territoriali italiane. Multe che i rilievi del presidente della Repubblica hanno giudicato spropositate. Ma nelle more di una modifica che tarda ad arrivare, mentre i divieti di ingresso in acque territoriali italiane di fatto non sono stati più firmati dal Viminale guidato da Luciana Lamorgese, le multe continuano a fioccare. A riferire della multa, in un tweet, è lo stesso Reisch, secondo il quale la sanzione si riferisce alla violazione del divieto di ingresso in acque italiane dopo un soccorso effettuato a fine agosto con la Marie Eleonore, l’ultima nave sequestrata con le norme del decreto sicurezza bis e ferma dal 2 settembre nel porto di Pozzallo. “Purtroppo dopo la battaglia un’altra battaglia. Sono stato multato in modo incredibile in Sicilia. Farò ricorso ma nel frattempo è tutto molto costoso”, ha scritto Reisch postando la foto del decreto notificatogli.

Lo scorso 8 gennaio, il comandante della Lifeline, la prima nave umanitaria sequestrata a giugno del 2018 dalle autorità maltesi dopo aver portato a Malta 234 persone soccorse al largo della Libia, è stato assolto in secondo grado a La Valletta. Ribaltata così la sentenza di primo grado che lo aveva invece condannato al pagamento di 10mila euro per alcune presunte infrazioni al codice della navigazione, come la non iscrizione della nave Lifeline al registro olandese di cui la nave batteva bandiera. L’accusa non è stata in grado di dimostrare alcuna intenzione criminale, nonostante permangano dubbi sullo status di bandiera della nave.

Sfruttati di Stato in accademia. Arte e musica sono precarie

I sindacati hanno parlato di “caporalato di Stato” (la Flc Cgil in testa, che ha seguito e sollevato la protesta) mentre le campagne istituzionali raccontano di un boom di iscritti nei settori dell’arte e della musica: secondo gli ultimi dati del ministero dell’Istruzione, l’Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica (Afam), di cui fanno parte Conservatori di Musica, Accademie di danza e scuole artistiche e di teatro sta vivendo un periodo di grande fioritura: crescono costantemente gli iscritti e i diplomati, si percepisce un tangibile entusiasmo per questi ambiti. Peccato, però, che il sistema si basi su una buona parte di docenti a contratto, soprattutto per le istituzioni più piccole, con rinnovi di anno in anno e il rischio di paralisi appena terminano i soldi.

È quanto è successo nei mesi scorsi: i corsi si sono fermati, i docenti non sapevano se sarebbero stati confermati, non c’erano gli esami. A causarlo, l’entrata in vigore a luglio, dopo una lunga serie di rinvii, del divieto per l’amministrazione pubblica di stipulare contratti Co. co. co. per incarichi continuativi e con vincoli specifici. Alla Pa restava solo di poter assegnare incarichi individuali con contratti di lavoro autonomo e solo per obiettivi e progetti specifici, di natura temporanea e senza possibilità di rinnovo. Tanto da spingere i docenti ad aprirsi la partita Iva per poter continuare a lavorare. Un controsenso.

Anche perché basta guardare i dati per accorgersi dell’importanza del settore: dall’anno scolastico 2010/ 2011 gli iscritti sono aumentati mediamente ogni anno del 7 per cento. L’anno scorso gli studenti sono stati 76.072 e in otto anno la presenza di studenti stranieri è più che triplicata, con una crescita del 3,4 per cento negli ultimi 12 mesi. I corsi sono aumentati del 30 per cento, ce ne sono 5mila attivi, la maggior parte quali attiene al settore musicale e coreutico, circa l’87 per cento, e il restante 13 per cento al settore artistico e teatrale. Nel 2018 sono stati 16 mila i diplomati, un aumento del 60 per cento rispetto ai numeri del 2011. La quota di diplomati con cittadinanza non italiana è il 18,9 per cento. E sono tantissimi anche i docenti: nell’ultimo anno hanno lavorato a vario titolo nel sistema in 18.500, di cui 15.402 docenti e 3.134 non docenti. Peccato che almeno il 40 per cento non è stabilizzato.

“È una situazione che va avanti da vent’anni – spiega Giuseppe Cipolla, docente di Storia dell’Arte all’accademia delle Belle Arti di Palermo e Reggio Calabria –, da quando nel 1999 una legge ha equiparato la galassia Afam all’università. Negli anni qualcosa si è mosso, ma molte questioni sono rimaste in sospeso. Con gravi disagi anche per gli studenti e la didattica”. Cipolla racconta di ritardi nella nomina dei docenti “che arriva anche a metà anno” e delle incertezze di esami e lezioni continui. “È disarmante: ormai ho quasi cinque anni di servizio, fatto esperienze all’estero, in Cina, a Barcellona, in Bulgaria e altri paesi. Fuori dall’Italia, le accademie sono facoltà di belle arti, università a tutti gli effetti, i contratti sono quelli dei docenti universitari. Qui no, ed grave. Anche perché l’Italia è il Paese fondatore delle accademie”.

A migliorare la situazione, seppur di poco, un emendamento alla manovra che da un lato ha stanziato 11,5 milioni dal 2020 per i servizi ai disabili e l’allargamento della no tax area e dall’altro ha previsto una deroga alla stipula dei contratti co.co.co., seppur con il limite massimo di un triennio. Ma non basta. “Grazie a questa misura i docenti potranno tornare a tenere le loro lezioni, risolvendo per il momento l’emergenza che si era venuta a creare con interi corsi sospesi, lezioni annullate e didattica bloccata – ha spiegato Enrico Gulluni, coordinatore nazionale dell’Unione degli Universitari – Tuttavia il via libera alla stipula dei contratti co.co.co. deve essere una soluzione tampone e temporanea, è necessario aumentare la docenza in organico nelle istituzioni Afam ed evitare il dilagare di forme di contratti di lavoro precario come i co.co.co”. Anche perché i fondi previsti per sopperire al mancato introito della no tax area sarebbero dovuti arrivare nel 2017 assieme alla legge di bilancio che ha introdotto la misura, come è stato per il sistema universitario.

La protesta, quindi, non si ferma. Una delle prime richieste che arriva al neoministro dell’Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi, è firmata da 3.410 professori del Cordinamento Nazionale Docenti Precari Afam (rappresentati da Piero Di Egidio, Michele Giangrande, Maria Letizia Paiato e lo stesso Cipolla) che chiedono il ritiro del recente regolamento sul reclutamento del personale che, tra le altre cose, non allarga l’organico e non risolve il problema dei 2 mila precari storici, che hanno dai cinque ai 15 anni di servizio, a cui tra incognite e confusione non viene garantita una certa prospettiva di stabilizzazione per l’introduzione di farraginosi e lunghi concorsi a cattedra locali prima dell’esaurimento delle graduatorie.

Nel settore, intanto, iniziano a farsi strada i privati, inclusi fondi milionari con sede alle Cayman che si muovono attraverso multinazionali dell’educazione. Con rette che possono andare da 5mila ai 20mila euro rischiano di garantire – soprattutto se confrontati con realtà minori, lontane dai grandi nomi come Brera a Milano – una qualità a cui è difficile stare dietro. E soprattutto riservata solo ai più ricchi.