La Malapuglia rimane troppo sottovalutata

Dalla grande manifestazione di Foggia contro la mafia, a cui partecipano migliaia di persone, oltre 300 associazioni e i rappresentanti delle istituzioni, a Orta Nova, in provincia, dove un ordigno scoppia davanti a un negozio. Non sappiamo se si tratti di un attentato di mafia – questo lo scopriranno gli inquirenti – ma se così fosse non ci sarebbe da stupirsi, perché la Capitanata è caratterizzato da fenomeni di “mafiosizzazione” di organizzazioni criminali locali. Per chi intenda crearsi sul territorio quella fama di violenza propria dei sodalizi mafiosi è molto utile far esplodere un ordigno a poche ore da una manifestazione di Libera. Siamo molto distanti dalle più evolute organizzazioni che, per sviluppare meglio i propri affari, fanno tutto il possibile per evitare i “reati rumorosi”.

I 20 mila di Foggia ricordano le numerose manifestazioni di protesta che si tennero negli anni 80 a Manfredonia, Cerignola, San Severo e Trinitapoli: gli attentati dinamitardi, le rapine, le estorsioni e gli incendi dolosi erano aumentati in maniera esponenziale. E questo apparve inaccettabile per la società civile. Nasceva la mafia pugliese, ma non si può certo sostenere che mancasse il “rigetto sociale”. Mancò invece una reazione efficace dei poteri pubblici. Il riduzionismo e persino il negazionismo riguardò l’apparato giudiziario, nonostante ripetute sollecitazioni della Commissione parlamentare antimafia. Vi era una forte difficoltà ad ammettere l’esistenza della mafia anche in Puglia. Quell’atteggiamento favorì la genesi dei gruppi criminali e la sudditanza della popolazione non nasce solo dalla paura della violenza, ma anche dall’impunità: il mafioso che sfugge alla pena apre la strada all’omertà. Oggi la situazione è cambiata e a partire dagli anni 90 sono diverse le sentenze definitive che provano l’esistenza di organizzazioni mafiose a Foggia. Ma i sintomi di sottovalutazione ci sono ancora. È del 2012 la decisione di chiudere il Tribunale di Lucera, soppresso da uno “spietato” decreto di tagli alla spesa pubblica: è stato eliminato un presidio di legalità su un territorio ad alto rischio criminale.

In 4 mila contro Raggi: “No a Malagrotta2”

Quattromila persone in piazza a Roma contro Malagrotta 2. E un problema interno al M5s di non facile risoluzione, ricordando che i pentastellati romani si sono in pratica costituiti 10 anni fa intorno alla battaglia storica dei comitati della Valle Galeria, alla periferia ovest della città, contro la discarica più grande d’Europa. Fa discutere la delibera del 31 dicembre di Virginia Raggi che individua nella cava di via Monte Carnevale il sito per la nuova discarica di Roma, impianto da 1,5 milioni di metri cubi per almeno quattro anni di “vita”: provvedimento seguito alla pressione della Regione Lazio, che nel novembre scorso ha emesso un’ordinanza che costringeva il Campidoglio a individuare la nuova discarica, disponendo la chiusura anticipata di quella di Colleferro, nella Valle del Sacco. Ed qui la grande beffa. In una lettera inviata venerdì sera al Ministero dell’Ambiente, il governatore Nicola Zingaretti afferma che “a supporto del ciclo dei rifiuti di Roma”, la discarica di Colleferro continuerà a ricevere fino al 2022 “una ben più limitata quantità” di rifiuti da Roma, la cosiddetta “Fos” (Frazione organica stabilizzata). In sintesi: si apre una nuova discarica in Valle Galeria ma (ancora) non si chiude quella della Valle del Sacco, due dei territori più inquinati d’Italia e con tassi di patologie tumorali elevati.

Ieri i comitati hanno tirato fuori dai cassetti striscioni e slogan riposti da 7 anni, da quando nel 2013 Ignazio Marino decretò la chiusura di Malagrotta, l’impianto di proprietà del “re della monnezza” Manlio Cerroni. “Non pensavamo di dover rivivere questo incubo con la nostra gente al governo della città e del paese”, dicono gli attivisti dal palco in un parcheggio. Oltre a Zingaretti, sul banco degli imputati è salita anche la Raggi, il cui nome è finito su alcuni striscioni insieme alla parola “dimissioni”. La sindaca è accusata di non aver approfittato dei pareri negativi dei dipartimenti capitolini e dello Stato Maggiore dell’Esercito per revocare la delibera, scelta scaricata sulla cabina di regia regionale. “Virginia aveva la pistola puntata alla tempia, ma spero che ritiri la delibera”, dice il presidente della commissione parlamentare Ecomafie, Stefano Vignaroli, un tempo leader dei comitati anti-Malagrotta. C’erano quattro consiglieri capitolini del M5s, Daniele Diaco (presidente della Commissione ambiente), Simona Ficcardi, Eleonora Guadagno e Monica Montella. Con loro le presidenti del Municipio XII, Silvia Crescimanno, e del Municipio VII, Monica Lozzi. “Non usciamo dal M5s perché non siamo stati noi a tradire”, sentenzia Ficcardi. E la consigliera Regionale Roberta Lombardi considera “ingiusta” la decisione attaccando sia Regione sia il “Comune che ha sottovalutato il problema Ama”.

Foggia non è ancora Libera: nuovo botto in stile mafioso

Corso Aldo Moro, Orta Nova, 25 km da Foggia. Sabato mattina. La “marmotta” esplode che ancora non è giorno. La serranda del negozio di biancheria intima salta insieme alle vetrine, all’insegna e a parte degli arredi. Poche ore prima 20mila persone avevano sfilato nelle vie del capoluogo al fianco di don Luigi Ciotti, ai parenti delle vittime di mafia, a 300 associazioni e rappresentanti delle istituzioni per far sentire la propria voce dopo i quattro attentati e l’omicidio che in provincia hanno scandito i primi dieci giorni del nuovo anno.

Ai carabinieri Marianna Borea, 38 anni, ha raccontato di non aver mai ricevuto richieste estorsive o minacce. È la proprietaria del negozio, Marianna, ma è anche la sorella di Paolo, il presidente del consiglio comunale la cui auto il 22 dicembre è stata distrutta da un incendio. In paese le voci si rincorrono, si parla di un collegamento con l’emergenza rifiuti delle ultime settimane: l’azienda che li raccoglie è in liquidazione e il comune ora deve garantire il servizio e salvare i posti di lavoro.

Le parole consegnate a Facebook dal sindaco Mimmo Lasorsa avvalorano l’ipotesi: “Ogni volta che cerchiamo di prendere decisioni importanti per questa comunità – si legge – accadono questi episodi. Non ne possiamo più”. Borea non ha “alcun tipo di elemento per ipotizzare un collegamento tra la questione rifiuti e le due intimidazioni”, ma ammette: “In questi momenti è opportuno fare una riflessione sul mio futuro politico”.

Il presente di Orta Nuova, intanto, parla di violenza: cinque attentati e un omicidio in 10 giorni. Una scia di fuoco cominciata la notte di San Silvestro, quando a Foggia due bar – il Veronik di via Lucera e il New Generation di via Alessandro Volta – sono stati distrutti da roghi appiccati dall’interno. Neanche 24 ore dopo, Roberto D’Angelo, commerciante d’auto, veniva affiancato da una moto e freddato con tre colpi di pistola. L’uomo, 53 anni, nel 2016 era stato pestato da quattro malviventi che volevano estorcere 80mila euro a suo nipote. Il 4 gennaio, poi, una bomba ha distrutto l’auto di Cristian Vigilante, testimone in un’inchiesta dell’antimafia contro la Società, una delle mafie foggiane. Il giorno successivo le indagini passavano alla Dda di Bari e una serie di perquisizioini portavano al sequestro di armi, munizioni da guerra e ordigni esplosivi. Nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, infine, ignoti hanno appiccato il fuoco alla saracinesca di una macelleria in via dell’Immacolata. Il corteo di Libera ha dimostrato che le coscienze sono sveglie. Ma la risposta della mala non si è fatta attendere.

Ancora giù calcinacci dalla volta di una galleria

Alla fine è dovuta arrivare l’Europa. È dei giorni scorsi la notizia del documento con cui la Commissione per le gallerie del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ha diffidato Autostrade (Aspi) a mettere in sicurezza 124 gallerie che non sono a norma. L’atto risale al 6 novembre scorso. Ma è soltanto l’ultimo anello di una catena interminabile di ritardi e lentezze. Già, perché il passo arriva pochi giorni dopo una messa in mora dell’Italia da parte dell’Europa.

Si legge nei documenti ufficiali del 10 ottobre 2019: “La Commissione Ue ha inviato oggi lettere di costituzione in mora a Belgio, Bulgaria, Croazia, Italia e Spagna per il mancato rispetto della direttiva 2004/54, che stabilisce requisiti minimi di sicurezza relativi all’infrastruttura e all’esercizio delle gallerie e si applica a tutte le gallerie della rete stradale transeuropea di lunghezza superiore a 500 metri”.

Insomma, l’Italia – in buona, si fa per dire, compagnia – deve ancora adeguare oltre 100 gallerie a una norma europea che risale a una quindicina di anni fa. Scrive ancora l’Ue: “Gli Stati membri interessati non hanno attuato la totalità delle misure infrastrutturali prescritte, volte a garantire i più elevati livelli di sicurezza in alcune gallerie rientranti in tale ambito di applicazione”.

Da ottobre l’Italia aveva due mesi a disposizione “per comunicare alla Commissione le misure adottate per porre rimedio alla situazione, trascorsi i quali la Commissione potrà decidere di adottare pareri motivati al riguardo”. Era stata venerdì la stessa ministra alle Infrastrutture, Paola De Micheli, a parlare di ritardi: “Non c’è un rischio, ma una attività di adeguamento a delle norme obbligatorie. È un’attività comunque in ritardo”.

La responsabilità, par di capire, va ripartita tra concessionario e ministero. Che, dopo anni di inerzia, adesso sembrano puntare il dito uno contro l’altro. Non si tratta di problemi strutturali. Ma la messa in mora europea riguarda pur sempre norme che “hanno lo scopo di garantire un livello minimo sufficiente di sicurezza degli utenti nelle gallerie autostradali della rete transeuropea”.

Nel frattempo il Consiglio Superiore ha indicato provvedimenti da prendere subito nei tunnel che non sono ancora a norma. Si tratta di limitazioni del traffico, divieti di sorpasso, misure anti-incendio (estintori, formazioni di squadre addestrate in grado di intervenire entro cinque minuti dall’allarme), collegamenti radio e telefonici all’interno dei tunnel.

Intanto continuano crolli e distacchi di materiale nei tunnel. Ieri pezzi di calcestruzzo sono crollati dalla volta della prima galleria della via Mala che dalla Valle di Scalve porta alla Valle Camonica, al confine tra le province di Bergamo e Brescia. Il crollo ha provocato un incidente: due vetture hanno fatto in tempo a evitare il materiale, mentre una terza è stata colpita. L’usura del tunnel era stata più volte segnalata dai Comuni alle autorità.

È soltanto l’ultimo episodio. Nelle scorse settimane altri cedimenti si erano verificati sulla A26 (oltre due tonnellate di calcestruzzo che per miracolo non avevano colpito le vetture in transito), poi sulla A10. Due giorni fa, infine, c’era stato un distacco di materiale dalla volta della galleria Ricchini sulla A6 (la Savona-Torino, gestita dal gruppo Gavio, dove a novembre scorso è crollato un viadotto).

La lobby del polpo inguaia la Bellanova. A rischio la specie

Che non sia una eroina degli ambientalisti è cosa nota. Ma Teresa Bellanova che pure ha cercato di recuperare punti con il fermo pesca e con la proroga delle norme a tutela delle oloturie, oggetto dell’appetito famelico dei mercati asiatici, adesso è di nuovo nei guai. E a causa del polpo, alimento che da buona pugliese ama, fin troppo. Perché ora è nel mirino per un decreto firmato a fine dicembre che quintuplica il numero massimo di trappole che ogni imbarcazione autorizzata all’esercizio professionale della pesca può detenere a bordo. Trappole in materiale plastico o pvc che rischiano di trasformare il mare in una pattumiera. E così, per via del cefalopode della famiglia Octopodidae, celebrato dai poeti di ogni epoca e giubilato nelle cucine dell’intero Mediterraneo, la ministra rischia di finire di nuovo sulla graticola. Il fatto è che Bellanova cerca di badare al sodo anche quando tratta di blue economy, il modello di sviluppo che promette tra l’altro un utilizzo sostenibile del mare. Ma non è facile la ricerca dell’equilibrio tra il rispetto della risorsa marina, la difficoltà dei pescatori di sbarcare il lunario e i profitti delle imprese.

Ambiente, posti di lavoro e affari spesso fanno a cazzotti come dimostrano pure la questione del Tap e dell’Ilva che Bellanova ha approcciato facendo impallidire i pochi ecologisti ancora rimasti in Italia. Contro la plastic tax si è addirittura sgolata: Italia Viva, la creatura politica renziana di cui è presidente, è arrivata a minacciare la tenuta del governo purché venisse cancellata dalla manovra o rivista, come poi è accaduto.

In questa storia di polpi e di rischio di inquinamento marino, la plastica è protagonista ingombrante. Almeno stando alla Guardia costiera che fa operazioni di controllo in mare e pure sulle banchine e che da qualche giorno ha cominciato a segnalare i rischi legati alle nuove norme: per il pericolo di estinzione della specie soggetta a pesca intensiva e sotto-costa dove i polpi sono prelevati prematuramente. E per la moltiplicazioni di barattoli che rischiano di disperdersi in mare.

Un grido di allarme che è arrivato fino in Parlamento dove è stato raccolto dall’interrogazione di cui è primo firmatario Antonio Saccone dell’Udc. “Il decreto stravolge la regolamentazione di tale attività. Il numero massimo di trappole è stato portato dai 250 previsti dalla norma precedente a 1.250. In questo modo il numero di trappole depositabile sul fondo marino viene aumentato in modo esponenziale, rischiando di creare danni irreparabili all’ambiente”.

Secondo il senatore infatti si rischia di depauperare in modo irreversibile la popolazione dei polpi con un aumento degli esemplari pescati, “ma si aumenta anche a dismisura la possibilità che su detti dispositivi possano incagliarsi le reti utilizzate per le normali attività di pesca che, oltre ad essere danneggiate, potrebbero disperdere su un fondo marino già fin troppo inquinato le trappole in plastica o pvc”.

Ora è vero che ciascun barattolo per la pesca del polpo, che sia professionale o ricreativa, non possono essere utilizzati, salvo deroghe, tra il 15 luglio e il 15 agosto e in nessun caso quando possano mettere a rischio le preziose praterie di poseidonia. Ma l’obbligo previsto per decreto a carico dei pescatori di recuperare le trappole che dovessero disperdersi in mare rischia purtroppo di rimanere sulla carta. E così in molti sperano che Bellanova ci ripensi. Ad ogni buon conto, per chi fa affari col polpo sarà una pacchia.

La tv “occultata” e il mito Volontè: Favino che vuol essere il migliore

A sette anni trastulla familiari e compagni con le imitazioni di Totò, Fausto Leali e Drupi. Poi, il diploma all’Accademia Silvio D’Amico e il teatro, dai Fratelli Karamazov al Pasticciaccio di Gadda. La via è affollata, il ragazzo mediano, eppure si farà. Nel 2010 la terza stagione di Boris gli vaticina il corrente successo: l’improbabile Martellone (Max Bruno) rosica perché Favino, ingrassato dieci chili, gli soffia il ruolo di Pacciani e, ingrassando altri dieci chili, si prepara a sfilargli pure quello di Spadolini. Mutatis mutandis, dieci anni più tardi ecco Buscetta e Craxi. Se non è il più bravo, Pierfrancesco Favino ci sta lavorando. La crescita è quella del bosco: ombra, silenzio, epifania. Quando a Sanremo 2016 traggono il compendio: “Recita divinamente, canta, balla, suona e parla inglese. Favino conquista il pubblico femminile (e non solo)”, lui sorride e porta un panino alla compagna, l’attrice Anna Ferzetti. Quando piange è per La notte poco prima della foresta di Bernard-Maria Koltès: il monologo lo fa tirare per la giacchetta, perché Sanremo è Sanremo, ma lui non disarma, perché Favino è Favino. Anna, le due figlie Greta e Lea custodite nel privato, in pubblico licenza di rubare: la prima volta che incrocia Gianni Amelio nel 2004, gli bastano tre minuti sullo schermo per fare sue Le chiavi di casa, che pure apparterrebbero ad altri. Amelio manda a memoria, periodicamente la rinfresca facendo con la mano “tre” come quei minuti e quindici anni dopo lo vuole per l’innominato Bettino Craxi di Hammamet: lui e nessun altro. Cinque ore di trucco, Favino scompare nel make-up protesico e ricompare il leader socialista. Mimando l’artiglio craxiano, stavolta è lui a fare tris con la mano e certamente sono sue le chiavi di casa di Hammamet.

Sulle labbra degli spettatori, l’esclamazione che fu già per Il Traditore: “Che bravo Favino!”, e silenziosa la domanda: “Ma da quando è così bravo Favino?”. Picchio molto ha fatto per meritare la prima ed eludere la seconda. Si concede deviazioni – pochi giorni fa la vacanza instagrammata alle Maldive, prima la pubblicità Barilla – ma non inversioni: la popolarità acquisita al festival della canzone decide di non usarla per apparire, ma per scomparire. Via dalla pazza folla, si scalda con il grammelot di D’Artagnan nei Moschettieri del re di Veronesi, si prova con il Buscetta di Bellocchio, si conferma con il C. di Amelio. La consecutio temporum non ammette tentennamenti, e Pierfrancesco preferisce la subordinata dell’interprete: a differenza dei colleghi che fanno sé stessi, capisce che possono venirti a vedere per due, tre film, ma perché continuino tocca nascondersi, dentro ai ruoli e fuori dal set. È il carnet a suggerirglielo: dal Libanese di Romanzo criminale (2005) al televisivo Gino Bartali, da Masino a Bettino, il suo ruolino d’attore è lessico familiare e sintassi patria, dunque, urge sottrarsi. Come molti altri, è pronto a tutto: chiedere a Bellocchio, a cui timoroso di non essere preso strappò un secondo provino per Il Traditore; come pochi altri, non è buono a nulla: chiedere sempre a Bellocchio. Gli esordi sono ascissa televisiva – l’apporto del piccolo schermo nella sua carriera è maliziosamente ridimensionato, se non artatamente omesso – e ordinata cinematografica di un piano cartesiano: diventare il migliore.

In tv mutua da Fenoglio, per la regia di Alberto Negrin, quel che diverrà il suo approccio artistico, il corpo a corpo con il ruolo: Una questione privata (1991). Al cinema incrocia i guantoni con i Pugili (1995) di Lino Capolicchio e perfeziona la combinazione: osare e trasformarsi. Cercano (Capolicchio) un veneto e lui è romano, cercano (Negrin) un pel di carota e lui è moro, cercano qualcuno e trovano Favino. Ricambierà, trovando vite di uomini illustri: Bartali (2005); Cristoforo Colombo (Una notte al museo, 2006); Giuseppe Pinelli (Romanzo di una strage, 2012); Giorgio Ambrosoli (la miniserie Qualunque cosa succeda, 2014). Per i televisivi Padre Pio (2000) e Ferrari (2003) è al fianco del protagonista Sergio Castellitto, un esempio, ma forse il modello di Favino è un altro: Gian Maria Volonté, teoria e prassi dell’attore-autore. Per Bartali Picchio non macina solo migliaia di chilometri in bicicletta, ma tappezza la camera con le foto del Gino: non è tentata osmosi, bensì metodo, e viene da Volonté. Altro non viene: l’impegno? Non forzatamente. L’intellettualità? Non necessariamente. Piuttosto, l’architettura faviniana prende da Mies van der Rohe, Less is more!: Favino è come appare e quando, per mimesi e metamorfosi, scompare è ancora di più. Alla mente come strumento attoriale ha sempre anteposto il corpo, e in fondo più del prostetico per Craxi può quell’artiglio, come per Buscetta i fianchi smodati scoperti al mare: l’immaginazione s’è fatta carne.

E vedremo se saprà farsi anche flesh: con Hollywood c’ha provato, dal ricordato Night at the Museum a Le cronache di Narnia – Il principe Caspian, da Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee ad Angeli e demoni di Ron Howard, ma tocca stare là, e nemmeno è detto valga la pena. Il Traditore e, in misura minore, Hammamet hanno affaccio internazionale, ma non sono questi i titoli dirimenti per il futuro del Nostro: lo stato dell’arte lo dirà a San Valentino Gli anni più belli di Muccino, che l’ha diretto ne L’ultimo bacio (2001), Baciami ancora (2010) e A casa tutti bene (2018). Un titolo per decennio, sicché Gabriele è la cartina al tornasole di Pierfrancesco: senza trucco (Craxi) né parrucco (Buscetta), capiremo quel che è diventato. E quel che potrà cantare la Favineide degli Anni Venti. @fpontiggia1

“Io mi ribello alla mia malattia e pure ai cliché sulla Calabria”

“Quando una persona subisce un attacco così violento alla propria vita, quando il dolore fisico si fa radicale e incomprimibile, allora quella persona ha due strade: deprimersi e farsi portare via dalla corrente, scegliere che il destino scelga per lei. Oppure attivarsi, concentrarsi e soprattutto ribellarsi. Io sono una persona danneggiata dalla malattia. Quel verbo e quella parola sono gli esiti della lettura del libro di Josephine Hurt (Il danno, appunto) che mi è stato di grande aiuto. Mi hanno obbligata a inquadrare l’esatta misura del dolore e di testare la capacità di replicare alla sofferenza, addirittura di resistervi e infine di dominarla”.

Jole Santelli ha cinquant’anni, già cinque legislature alle spalle, è candidata del centrodestra alla guida della regione Calabria e racconta, su una panchina del corso principale di Cosenza, la sua nuova vita. Anzi la sua doppia vita: un po’ candidata, un po’ ammalata. “Non ho mai nascosto la mia malattia, qui in città tutti sanno, non voglio neanche però che essa mi perseguiti. Spero di parlare con lei anche di quel che ho in mente per la Calabria”.

Guidare la Regione esige un impegno fisico notevole. Chi si candida a una responsabilità così rilevante deve averne la possibilità di farvi fronte. Non è una curiosità morbosa domandarle quindi di una condizione che, secondo i suoi avversari, potrebbe portarle anche qualche voto in più.

Quando Silvio Berlusconi mi offre la candidatura ringrazio felice, ma chiedo due minuti prima di accettare. Chiudo la telefonata e formo il numero del mio oncologo: posso candidarmi? Posso onorare il mandato quinquennale? Il medico risponde: non solo puoi candidarti, ma mi auguro che io possa essere il tuo consulente negli anni della presidenza.

La Calabria è stata così sgovernata che la sanità pubblica assomiglia a un mattatoio. La sua regione spende centinaia e centinaia di milioni di euro per far curare altrove i suoi abitanti. Adesso lei si ritrova ad essere cliente del disastro provocato dal ceto politico che soprattutto in lei si identifica. Il destino sembra vendicarsi.

In ogni comizio racconto dei nostri errori. Errori della mia parte politica ed errori dell’altra parte politica. Non dimentico, riconosco.

Riconosce, però oggi alla sua manifestazione hanno partecipato fior di squali della politica calabrese. Famelici acchiappavoti.

Non sono più famelici di tanti altri, e non addossi loro tutte le responsabilità di questo mondo.

Lei dice di essere ribelle e poi pare il cane da guardia del grande gregge. Può farne a meno dell’ipocrisia.

La malattia, caro amico, ti dà tanti dolori ma ti fa un grande regalo: ti fa conoscere la libertà, ti aiuta a non avere paura di niente, a non rispettare più le convenienze. Quindi, altro che ipocrita!

La sua ribellione dovrebbe misurarsi nei volti nuovi e non nella sfilata dei soliti noti.

Forza Italia ha giovani capaci, ed in quelli ripongo la mia speranza. È colpa mia se lei non li conosce? Venga, glieli faccio vedere. Hanno tutti curriculum eccellenti, al riparo di ogni possibile ombra.

Ecco Maurizio Gasparri che viene a salutarla. Parlavamo del nuovo… Tutto torna.

Il 26 gennaio si vota non solo per cambiare la Calabria, ma per mutare le sorti del governo. Quindi è del tutto comprensibile che i leader nazionali si impegnino.

La Calabria è una cascina piena di pacchetti di voti e di distributori in attesa del miglior offerente…

La Calabria è meglio di quel che lei pensa. È meglio di come la giudicano i giornali. La Calabria è molto di più.

Si faccia curare in Calabria. Trovi un lavoro in Calabria. Scelga di aprire un’attività imprenditoriale in Calabria.

Io sono in cura presso il reparto di oncologia di Paola. Sorpreso, vero? Da noi ci sono medici eccellenti.

Le eccellenze in un mare di incompetenza, di clientelismo, di ignavia, annegano come sassolini nello stagno.

Lo so lo so, tante cose non vanno. E io proverò a cambiare.

Già ha vinto?

I voti si conteranno il 27 gennaio.

Salvini è salito con lei sul palco?

Due volte, e tornerà ancora.

Il suo vice, nel caso, sarà della Lega?

Se si vince si vede chi ha in termini di rappresentanza il diritto di sedere in giunta.

Ci sarà una gara alle preferenze. Chi più ne ha più bravo sarà.

Nessuna gara, ma chi gode del voto popolare avrà pure da esercitare un qualche diritto? O deve vergognarsene?

La Calabria si sta svuotando, è in limine mortis.

Ho due sorelle. Ambedue vivevano a Roma. Una ha scelto di andare in Germania, l’altra di tornare in Calabria. Come vede la realtà non è bianca o nera: ci sono i grigi in mezzo. Voi vedete questa terra sempre allo stesso modo. Si chiama cliché.

È la realtà che racconta sempre la stessa verità: malaffare, sudditanza della politica alla criminalità organizzata, incapacità di guardare lontano.

Chi fa politica deve guardare lontano.

Dovremo dunque aspettarci un repulisti da lei?

Le ricordo che la malattia, oltre alla disgrazia, mi ha dato la fortuna di non aver paura della libertà, di essere libera e di sentirmi tale. E non ho paura del coraggio che serve perché quello l’ho dovuto conoscere così bene che è divenuto un amico fraterno.

Gli “incivili” luoghi comuni sulla prescrizione

“Barbarie”, “inciviltà giuridica”, “condanna a essere imputato a vita”. Lo stanco refrain degli amici della prescrizione continua a essere ripetuto, nella speranza che risulti alla fine anche vero. Ma vero non è. Incivile è, una volta che lo Stato ha intrapreso l’azione penale contro una persona, buttare il lavoro fatto, perché scatta la tagliola della prescrizione all’italiana. Incivile è che le vittime dei reati non possano vedere la fine del processo in cui sono imputati i loro (possibili) carnefici. Incivile è che le vittime siano condannate – loro sì – a restare sospese a vita, inchiodate a un doppio destino: non riuscire ad avere giustizia attraverso la condanna del colpevole; ma restare anche per sempre con il terribile dubbio che un innocente (prescritto) possa essere il loro colpevole carnefice. Incivile è usare la prescrizione come cura contro l’eccessiva lunghezza dei processi; in Italia la lunghezza dei processi – è vero – è una malattia, ma l’antidoto non può certo essere la prescrizione: sarebbe come accettare che gli ospedali mandassero a casa a metà della cura i pazienti che non riescono più a curare per mancanza di medici o di soldi o di posti.

Gli amici della prescrizione, convinti delle sue taumaturgiche virtù, dovrebbero accordarsi con se stessi. Inveiscono contro la riforma Bonafede che rende almeno un po’ meno devastante la scure della prescrizione. Ma poi si compiacciono della condanna (in primo grado) arrivata a Gilberto Cavallini a quarant’anni dalla strage di Bologna.

Certo, il reato di strage è gravissimo e – per fortuna – non si prescrive mai. Ma se fossero coerenti dovrebbero inveire anche contro la “barbarie”, l’“inciviltà giuridica”, la “condanna a essere imputato a vita” inflitta a Cavallini.

Oppure – meglio – applaudire a una riforma che finalmente impedisce di incenerire migliaia di processi ogni anno lasciando senza giustizia soprattutto i più deboli.

Matteo va a Bibbiano, i partiti in provincia, le Sardine a Bologna

Addio Bologna, bentornata provincia. Gli eventi principali dei candidati in corsa per la presidenza dell’Emilia-Romagna saranno lontani dal capoluogo: Forlì per il dem Stefano Bonaccini, Maranello per Lucia Borgonzoni.

Forse i partiti vogliono evitare il confronto con il Sardina Day di domenica prossima, pieno di artisti nazionali e internazionali che fanno tornare in mente il glorioso Mtv Day bolognese di fine anni 90: Bluvertigo, Afterhours, Vasco Brondi e il conduttore e regista Pif, ultima sorpresa annunciata. Sei ore di cultura e arte sul palco di piazza VIII Agosto, finanziate da una raccolta fondi online, con un intervento dei vari portavoce regionali delle sardine. La vera sorpresa di questa campagna elettorale d’altronde sono state loro: il movimento ittico spontaneo nato per protestare contro la propaganda razzista della Lega. Muti e stretti come pesci in scatola contro il bla-bla della politica.

Le sardine hanno costretto Matteo Salvini a cambiare abitudini e programmi: abituato a essere duramente contestato nei territori rossi, questa volta ha modificato la propria agenda per evitare di incontrare le piazze piene di pesciolini.

Il leader leghista ha annunciato che chiuderà la sua campagna a Bibbiano, il paese del reggiano noto per l’inchiesta sulla presunta mala gestio del sistema affidi. Sarà solo molto probabilmente, come in tutte le settimane passate, mentre l’unico incrocio con la sua candidata Borgonzoni è fissato per sabato 18 gennaio a Maranello: è l’evento su cui – ufficialmente – la Lega dice di puntare di più. “Ci vedremo nella città della Ferrari, dove c’è il rosso italiano che piace nel mondo. Propongo a tutti di venire vestiti di rosso” ha anticipato Salvini alla Gazzetta di Modena. Per ora non è in programma un altro evento a Bologna, come invece aveva annunciato lo stesso Salvini durante l’evento al PalaDozza in diretta tv e video: “Ci rivediamo prima della chiusura della campagna elettorale in piazza Maggiore a Bologna”. Ancora meno presenti gli altri del centrodestra, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi. La leader di Fratelli d’Italia continuerà a dividersi tra Calabria ed Emilia-Romagna, e chiuderà probabilmente in quest’ultima. Di certo a destra ognuno va per sé: ad oggi non è prevista nemmeno una conferenza stampa dei tre leader insieme come fecero invece in Umbria.

Dal lato del centrosinistra Bonaccini sta per vincere la sfida personale di toccare 100 comuni prima del voto, ne ha già raggiunti 80. Nelle prossime due settimane farà un ultimo comizio in tutti i nove comuni capoluogo: quello conclusivo generale però sarà a Forlì, comune perso dal Pd alle ultime elezioni. “Qui siamo stati sconfitti e qui ripartiamo”. Anche i candidati delle liste che sostengono Bonaccini erano stati presentati in una città persa, Imola. Al fianco del dem c’era il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, “uno dei primi a interpretare un nuovo centrosinistra aperto alla società civile”. Più volte Bonaccini ha dichiarato come obiettivo di voler diventare “il sindaco dell’Emilia-Romagna”. Cinque anni fa l’attuale governatore aprì e chiuse la campagna insieme al leader di allora leader del Pd, Matteo Renzi. Tempi lontani: Nicola Zingaretti negli ultimi mesi si è visto poco anche se ha annunciato che sabato prossimo sarà in Romagna (da solo) e poi la sera raggiungerà Bonaccini a Ravenna. Il 23 invece il segretario dem – sempre da solo – sarà a Bologna. Una scelta fortemente voluta dal presidente della Regione, forse memore delle contestazioni che riservarono all’attuale leader di Italia Viva quando chiusero insieme al PalaDozza. O forse ben consapevole di avere un volto apprezzato sul territorio, magari a discapito del Pd stesso. Non a caso il logo della campagna è stato il volto stilizzato dello stesso governatore: occhiali a goccia e barba hipster.

Nave Gregoretti, ecco perché la Giunta deciderà sul leghista dopo le Regionali

Salvini fa la voce grossa e il centrodestra è pronto a scendere in piazza al suo fianco. Ma la minaccia di trasformare l’accusa di sequestro di persona che gli pende sul capo per la gestione dei migranti a bordo della Nave Gregoretti in benzina con cui alimentare l’ultima settimana di campagna per le Regionali in Emilia Romagna, non fa paura a nessuno.

In Giunta la maggioranza è intenzionata a non cedere: il voto sulla richiesta di autorizzazione a procedere dei magistrati di Catania che vorrebbero tanto processarlo, non si potrà tenere che dal 27 gennaio. Meno che mai questa settimana. “Sono sicuro che il Presidente Gasparri non anticiperà alcuna votazione e manterrà la sua decisione, ampiamente motivata dal mio impegno istituzionale, tenendo altresì conto della impossibilità di qualsiasi sostituzione dei membri della Giunta ed in particolare della mancanza di rappresentanza di un gruppo parlamentare” spiega Pietro Grasso di LeU che fino a sabato 18 sarà in missione negli Stati Uniti insieme ai membri della commissione Antimafia di cui fa parte anche un altro membro della Giunta, il pentastellato Mario Giarrusso.

Impossibile, dunque, una decisione prima del 20 gennaio, data però fissata prima che la capigruppo del Senato stabilisse la sospensione del- l’attività parlamentare (dal 20 al 24) in vista delle Regionali: domani o al più tardi martedì, all’esito di un confronto con la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, Maurizio Gasparri dirà se la sospensione vale anche per i lavori della Giunta che presiede. “Le date sono secondarie, si guardi al merito” ha detto il forzista richiamando l’attenzione alla relazione (in cui chiede di negare l’autorizzazione a procedere chiesta nei confronti di Salvini) che ha sottoposto giovedì scorso all’attenzione dei membri della Giunta. In una seduta in cui sono stati chiesti ben sei approfondimenti che saranno utili per decidere se mandare o meno Salvini a processo. Anche questo depone per una decisione non prima di fine mese.

Di che si tratta? Si vogliono acquisire le dichiarazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte di giovedì in cui ha fatto sapere di conoscere il dossier. Cosa che proverebbe, a detta della Lega, la condivisione da parte dell’inquilino di Palazzo Chigi dell’affaire Gregoretti per cui è invece il solo Salvini a rischiare l’osso del collo. Grasso invece vuole che siano allegate al fascicolo tutte le esternazioni dell’allora ministro dell’Interno in cui affermava che i porti sarebbero rimasti chiusi e che tali decisioni sarebbero state assunte solo da lui. Insomma un lavoro che richiederà un certo impegno. E tempo. Anche perché si vuole integrare l’istruttoria con altri elementi informativi utili a capire, ad esempio, se l’ordine di Salvini di non sbarcare i migranti sia stato dato con direttiva formale o no. E per verificare se la promiscuità derivante dall’inadeguatezza delle strutture logistiche della nave Gregoretti possa aver contribuito ad un aggravamento delle condizioni di salute dei soggetti malati presenti a bordo o comunque possa aver determinato situazioni di contagio. O se sussistano davvero le differenze nautico-strutturali tra la nave Gregoretti e la nave Diciotti (su cui Salvini è stato già “assolto” dal Senato) evidenziate dai magistrati di Catania.

Il capo della Lega invece spera che la Giunta voti il prima possibile: “Se vogliono processarmi e arrestarmi abbiano la dignità di dirlo e di farlo e dalla settimana prossima chiamerò a raccolta gli italiani che la pensano come me per muoverci tutti insieme: dovranno trovare non un tribunale ma uno stadio per processarci”, ha detto ieri forte dell’appoggio di Giorgia Meloni (FdI) disponibile pure lei a scendere in piazza per il caso Gregoretti. “Tutto il centrodestra compatto – ha twittato – sia pronto ad una mobilitazione nazionale”.