Salvini fa il doppio di Lucia: lui 42 comizi, lei appena 23

Instancabile e solitario. Nel giro di un mese Matteo Salvini ha partecipato a una quarantina di eventi in Emilia-Romagna, il doppio della candidata a governare quel territorio, Lucia Borgonzoni: 42 a 23, questi i dati aggiornati dal primo dicembre all’11 gennaio inclusi. Il leader leghista segue un copione apertamente dichiarato a Bologna lo scorso 29 dicembre allo Starhotel Excelsior: “Io e Lucia ci vedremo poco, facciamo iniziative diverse, lei incontrerà le categorie e le imprese, io da segretario della Lega incontrerò la gente”.

Detto, fatto. Il “Capitano” dai primi giorni di dicembre non perde occasione per girare l’ex regione rossa: da solo o al massimo accompagnato da qualche eletto del territorio. Lucia lontana, spesso dalla parte opposta della Regione. È possibile che l’aspirante presidente stia facendo anche molti incontri privati o comunque non pubblicizzati sui social, ma a colpire è il confronto con la massiccia presenza di Salvini, concentrato negli stessi giorni anche sulla Calabria dove pure si voterà il 26 gennaio.

Solo cinque gli incontri politici o eventi pubblici tenuti dai due senatori insieme: l’ultimo in ordine temporale il 9 gennaio scorso. Si sono visti a pranzo in un ristorante in provincia di Reggio Emilia. Un break tra “colleghi” e poi via di nuovo separati.

Un’altra differenza che balza agli occhi è che Borgonzoni ha concentrato, almeno finora, gran parte dei suoi appuntamenti a Bologna e comuni limitrofi, lasciando la provincia emiliano-romagnola a Salvini. Casa per casa, molto spesso senza nemmeno un palco, con le immancabili dirette su Facebook: Langhirano nel parmense, Vigarano Mainarda nel ferrarese, Fiumalbo nel modenese solo per citarne alcune.

Una strategia ben precisa, come rivelato da un fuori onda di Open. “Dov’è che si gioca la partita in Emilia-Romagna?” chiede un militante alla Borgonzoni. La senatrice, ignara di essere ripresa, disegna la mappa delle città che voteranno per lei e quelle dove bisogna spingere. È il 21 dicembre, e a Milano all’Hotel Da Vinci si sta svolgendo il congresso federale della Lega. Mentre nella sala congressi si consuma l’addio avvelenato dell’ex Senatùr Umberto Bossi, fuori al bar Borgonzoni chiacchiera dell’Emilia-Romagna con due delegati leghisti. “In Appennino siamo avanti, stra-avanti ma l’Appennino è solo il 17% del corpo elettorale. A Piacenza, Parma e Modena andiamo in compensazione tra il centro città, che è del Partito Democratico, e la provincia che è con noi”. Borgonzoni poi prosegue il ragionamento: “Abbiamo anche i territori intorno a Bologna, come i comuni di Casalecchio e San Lazzaro ma la partita si gioca a Reggio Emilia, bisogna spingere lì”.

Reggio Emilia uguale Bibbiano, il paese dove quest’estate è esplosa l’inchiesta del procuratore Marco Mescolini sul presunto malaffare nella gestione degli affidi di bambini. Dalla maglietta “parlateci di Bibbiano” sfoggiata dalla candidata in Senato ai consigli di marketing per gli aspiranti consiglieri regionali, “usate Bibbiano come una clava”, la provincia reggiana sembra essere il nodo delle prossime elezioni.

“Questa è una regione grande, c’è bisogno di tutti dappertuttto” ha spiegato Salvini a quei, pochi, sostenitori che l’hanno raggiunto in piazza Prampolini a Reggio Emilia per motivare l’assenza della candidata del Carroccio. “Con Lucia ci becchiamo una volta ogni due, tre giorni per fare il punto. Da fine dicembre ho fatto già 30 incontri sul territorio, è importante perché dopo 50 anni ogni singolo voto può fare la differenza e per questo mi auguro anche che ci sia un’affluenza al voto fortissima”.

Cinque anni fa gli elettori che si recarono alle urne furono solo il 37,71% contro il 68% delle precedenti elezioni. L’allora sfidante leghista del centro destra, Alan Fabbri, attuale sindaco di Ferrara, raccolse 374.736 voti, Bonaccini 615. 723.

Il 18 gennaio, finalmente, Matteo e Lucia saranno insieme a Maranello in provincia di Modena. Ad annunciare l’evento è stato lo stesso Salvini caricandolo come immagine social: su uno sfondo rosso acceso si legge “L’Emilia-Romagna che sogna, che corre, che vince!”

“Contro Di Maio solo una minoranza. M5S non cambia per il Pd”

Il Guardasigilli che del M5S è di fatto il numero due lo dice subito: “Non vedo una guerra contro Luigi Di Maio, perché per definirla tale servirebbe la partecipazione di molte persone. Invece è una minoranza che sta provando ad attaccare Luigi. Ma il capo politico è e deve restare lui”. Così la pensa il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.

Sarà pure una minoranza, ma solleva anche temi di buon senso: per esempio, come si possono svolgere assieme due ruoli come il capo politico e il ministro degli Esteri?

Semplice, lavorando 24 ore al giorno come fa Di Maio, che si dedica senza sosta a entrambi i ruoli.

Non sembra sostenibile. Delegare è una necessità.

Luigi non si è mai tirato indietro di fronte alla necessità di riorganizzare il Movimento, e infatti ha voluto il team del futuro e i facilitatori. Ora il M5S ha le spalle abbastanza larghe per governare il Paese e per rispondere alle esigenze dei territori.

Ma in tanti chiedono una gestione più collegiale, magari una segreteria politica. E in generale il malessere è diffuso, non trova?

Ripeto, è una minoranza che sfrutta la stampa, il mainstream, per avere un’eco. Io ricordo che il reddito di cittadinanza, il taglio dei vitalizi, quella dei parlamentari e la legge Spazzacorrotti sono obiettivi raggiunti con Luigi come capo politico.

Provocazione: Di Maio non farebbe bene a dimettersi, così da mettere gli altri di fronte alla responsabilità di gestire tutto?

Secondo me no. Deve portare avanti il suo lavoro.

A marzo ci saranno gli Stati generali. Come li immagina, come un Congresso?

Dovranno essere un momento di riflessione, sui contenuti e sugli obiettivi che si deve dare il M5S da qui a dieci anni.

Dovrete discutere anche della collocazione politica del Movimento. Per Beppe Grillo e Giuseppe Conte dovete restare stabilmente nell’area di centrosinistra.

A mio avviso il M5S deve rimanere una forza post-ideologica, e valutare i contenuti che vengono portati avanti e le modalità con cui vengono realizzati.

Governate con il Pd però.

Non cambia. Dobbiamo mantenere la nostra natura, la nostra energia che guarda ai fatti prima che alle ideologie.

A proposito: se il dem Bonaccini perdesse in Emilia Romagna, tutti a casa?

Il voto in Emilia Romagna riguarda quella regione. Nessuna correlazione con l’esecutivo.

Per il Movimento però tira aria di disfatta. In caso di 4-5 per cento per Di Maio sarà di nuovo bufera.

Abbiamo sempre avuto difficoltà nelle elezioni locali, e comunque non ragiono sui se. Ma sono convinto che in Emilia avremo un buon risultato

Nell’ultimo vertice di governo sulla giustizia avete trovato un compromesso sulla prescrizione, con il lodo Conte per gli assolti in primo grado: se il processo d’appello non si chiude entro due anni, la prescrizione torna a correre. Ma in diversi hanno dubbi sulla costituzionalità della soluzione, perchè differenzia assolti e condannati.

Non è la mia norma di partenza ma dagli uffici del ministero ho ricevuto primi feedback positivi: non è la prima volta che si introduce una distinzione del genere.

Questa norma per lei non è una sconfitta?

No. È un passo avanti compiuto grazie al presidente Conte e può essere lo snodo per dare ai cittadini processi più veloci. E poi le impugnazioni degli assolti rappresentano il 2 e il 3 per cento del totale, una cifra gestibile. Detto questo, il punto centrale è che la riforma della prescrizione dal primo gennaio è una legge dello Stato. L’obiettivo di non permettere più isole di impunità è raggiunto. E resterebbe blindato anche con il correttivo proposto da Conte.

Maria Elena Boschi ha definito “insufficiente” la sua proposta: Italia Viva è pronta a votare la proposta di legge del forzista Costa, per tornare alla vecchia normativa. Se lo facesse sarebbe crisi di governo?

Lo scorso vertice si era concluso con l’impegno di tutti i partiti di valutare le proposte messe sul tavolo. E Pd e Leu avevano apprezzato l’apertura. Ciascuno fa politica come vuole, e non è il mio modo di farla minacciare di votare testi di Forza Italia. E poi ricordo che parliamo di una proposta del presidente del Consiglio.

Però servono risorse per la giustizia: altrimenti, altro che processi veloci.

Questo mantra degli investimenti deve finire. Con le risorse che abbiamo stanziato da qui a tre anni non ci saranno abbastanza stanze per i giudici nelle Corti d’Appello. Da quando mi sono insediato abbiamo già assunto 1.125 persone, e lo scorso 3 gennaio abbiamo assunto 251 magistrati. Parliamo di un piano complessivo di quasi 9mila assunzioni.

Quando presenterà il nuovo testo della riforma del processo penale ai partiti?

Tra martedì e mercoledì. Conto di portarla da qui a due settimane in Cdm. Tutti i partiti si erano impegnati per realizzare la riforma: il patto con i cittadini va rispettato.

Zingaretti annuncia “il partito nuovo”, Franceschini e gli ex renziani già dicono no

Vuol fare “un partito nuovo” e non “un nuovo partito”, Nicola Zingaretti. Almeno, così ha detto ieri a Repubblica. Cosa significhi esattamente e soprattutto con quali tempi non solo non è chiaro allo stesso segretario, ma è già oggetto del contendere.

Ieri c’è stato l’annuncio in pompa magna, ma in realtà sono settimane che Zingaretti distilla dichiarazioni sul tema. E dunque, nell’idea del segretario e di Goffredo Bettini, il Pd deve “sciogliersi” in un nuovo soggetto, che assorba i movimenti civici (Sardine comprese), consenta agli scissionisti di LeU di tornare a casa e offra riparo agli elettori dei 5 Stelle delusi dal Movimento. Per il segretario, un buon momento per lanciare questo processo potrebbe essere dopo le elezioni in Emilia-Romagna. In caso di vittoria di Stefano Bonaccini, la strategia migliore potrebbe diventare quella di fare un congresso tematico (quindi senza altri candidati), dare vita al “partito nuovo” e andare alle urne, presentandosi come un soggetto più di sinistra di quanto sia il Pd di oggi. Magari alleato con una lista di centro, guidata da Giuseppe Conte.

Peccato che il piano in via di elaborazione non piaccia a molti nel partito. Tanto per cominciare a Dario Franceschini, che è dell’idea di continuare l’esperienza di governo. Sentire Roberta Pinotti (esponente di rilievo di Area Dem) per credere: “Il tema non credo sia lo scioglimento del Pd ma come saremo in grado di essere il motore del cambiamento, se sia necessario aprire una nuova fase costituente in cui il nostro partito non debba pensare a qualcosa di più grande e aperto”. Insomma, “l’intuizione di Zingaretti è opportuna”. Epperò, “sta a noi ora decidere quale sia il modo, se sia più utile e appropriato un congresso o l’apertura di un confronto ampio che parli a tutto il fronte riformista e democratico”. Per i non addetti ai lavori, in genere aprire “un confronto ampio” significa diluire i tempi e rimandare le scelte.

Le idee ben più chiare ce le ha la minoranza ex renziana di Base Riformista. Per i suoi componenti, il voto non è neanche in agenda e il congresso non può esserci prima del prossimo autunno. Non solo: non deve essere un congresso tematico, ma un assise con primarie e più candidati.

Dice il ministro Guerini: “Dopo le regionali di giugno si vada ad un congresso vero su identità e missione del nostro partito, rafforzandone, in questa stagione nuova in cui siamo al governo del paese, l’identità riformista e la sua vocazione maggioritaria”. Nella corrente di Lotti sono pronti a combattere – Statuto alla mano – per dire che l’operazione prima dell’autunno non si può fare. Perché il congresso tematico è previsto sì, ma senza elezione degli organi (segretario, direzione, Assemblea), che restano immutati. Ergo, un congresso di questo tipo non potrebbe portare allo “scioglimento” del Pd.

Per gli ex renziani, dunque, non ci sono i tempi per un congresso vero: perché in primavera ci sono le Regionali. E fare la campagna elettorale in contemporanea appare una scelta quanto meno discutibile. Da domani il Pd si riunisce nell’Abbazia di San Pastore a Contigliano, nel reatino. Chissà che il ritiro programmatico non si trasformi in una rissa.

Lo Statuto 5 Stelle nel mirino. Ora rischia anche Casaleggio

Il capo è lì, sopra e sotto i palchi, nell’Emilia Romagna di quelle Regionali dove il M5S pare un terzo incomodo e il governo si gioca parecchio, forse di più. “Le mie dimissioni? Se ne sentono tante…” sorride Luigi Di Maio di fronte ai cronisti che lo assediano. E poi “ma quale ribellione, le mie dimissioni le chiedono in tre”. Calca, altri sorrisi, gli attivisti che urlano “non mollare”.

Però poi altrove è tutto un pensare e un discutere su un altro futuro, per il capo politico e per il Movimento. Per esempio il viceministro siciliano Giancarlo Cancelleri, dimaiano di certa fede, lo dice senza metafore: “Se Di Maio deciderà di abbandonare il ruolo di capo politico, saremo pronti a sostenerlo in questo passaggio nel quale il comitato di garanzia dovrà prendere le redini del Movimento per affidarlo al successivo capo politico”. Cancelleri spiega che la struttura per la transizione è pronta. Perché fa parte di quel comitato, l’appello della giustizia a 5Stelle, di cui il membro anziano è Vito Crimi: il reggente in caso di addio del capo. Così stabilisce lo Statuto, quel corpus di norme su cui si sta già giocando la vera battaglia sull’avvenire del Movimento, su chi comanderà e con quali poteri. Perché dentro lo Statuto c’è tutto, c’è anche la piattaforma web Rousseau, la macchina operativa del M5S, la cassaforte dei dati e di molto altro che ora può aprire solo Davide Casaleggio, sempre in asse con Di Maio.

Per questo se salta il giovane capo Casaleggio dovrà preoccuparsi. E già si agita, perché negli Stati generali di marzo, il congresso che non c’era mai stato, si discuterà moltissimo anche dello Statuto e quindi delle prerogative di Casaleggio, della sua autonomia di “militante” (autodefinizione di vecchia data) che invece è un altro capo, un altro potere. Ma sono tanti, mica solo “i tre” senatori a cui accenna Di Maio, a volere che le chiavi non siano più solo le sue, ansiosi di poter aprire quella serratura, di “cambiare utilizzo e fissare regole per la piattaforma” come sussurra un big. Di decidere chi controllerà la leva del web, il liquido amniotico del M5S. Per questo Di Maio che giovedì sera, prima dell’assemblea congiunta, ha parlato a lungo con Casaleggio, il “militante” che pochi giorni fa è stato in una riunione fiume con i membri della sua associazione Rousseau, e che parla spessissimo con Crimi, storicamente vicino a lui e al padre, e comunque pure dimaiano. Il reggente perfetto, a cui chiedere di immaginare e costruire un avvenire gestibile, anche in punto di norma, di Statuto.

Però il “dopo” con nuove norme se lo vogliono immaginare anche gli altri. Anche dentro il team del futuro, quello dei facilitatori nazionali che venerdì hanno incontrato Di Maio a Roma e hanno cominciato a discutere con lui degli Stati generali. Ovvero del campo di gioco, che però non ha ancora un perimetro fatto di regole e contenuti, neppure una sede (potrebbe essere Torino, ma dipende da quanta gente potrà partecipare, cioè da quanto sarà aperto il congresso). E già su questo è partita serrata, su come fare la tre giorni, soprattutto su cosa. In una precedente riunione del team, il capo aveva indicato Danilo Toninelli come l’uomo dell’organizzazione degli Stati generali, dando così un compito delicatissimo all’ex ministro. Ma gli altri cinque facilitatori (Paola Taverna, Enrica Sabatini, Ignazio Corrao, Barbara Floridia, Emilio Carelli) non staranno a guardare. “Ci dovrà essere condivisione” già dicono da più parti del Movimento. Però ovviamente poi si ritorna al capo politico, e al dopo. Alla fase del Di Maio leader solitario, che si sta chiudendo. Lo confermano le voci (che il suo “giro” non ha affatto scoraggiato) su una donna di peso che potrebbe affiancarlo lassù in cima, un rilancio per ribadire che lui non vuole mollare ma che nel contempo conferma il cambio di era, l’entrata in un’età di mezzo.

Quella donna, se valgono le preferenze di Di Maio, non potrebbe essere che Chiara Appendino, la sindaca di Torino a cui aveva chiesto di fare il ministro dello Sviluppo economico nel governo con il Pd. Invece la soluzione ideale per Beppe Grillo, il Garante che tace, sarebbe Paola Taverna, e infatti Dagospia rilancia l’idea. Come si riparla insistentemente di Stefano Patuanelli come capo delegazione di governo proprio al posto di Di Maio. E sempre, di continuo, come capo alternativo. Nell’attesa al Di Maio che scherza sui tre ribelli risponde il senatore Mattia Crucioli: “Non siamo solo tre a chiedere il cambiamento, e non abbiamo chiesto le sue dimissioni”. Ha ragione, su entrambe le cose. Di Maio lo sa, ma in tempo di guerra vale tutto. Soprattutto se devi decidere cosa fare del tuo potere di capo.

Il 3° giorno resuscitò

Più leggiamo i giornali, più ci convinciamo che stiano facendo di tutto per convincere i lettori dell’inaffidabilità dei giornalisti, categoria ormai inutile, se non dannosa. Per due giorni, dopo che il presidente libico Al Sarraj aveva revocato all’ultimo momento la visita al premier italiano Conte, programmata a breve distanza da quella del suo nemico Haftar, le mejo firme del bigoncio hanno fatto a gara nello scrivere che quella era una “gaffe” del nostro capo del governo, o del suo portavoce Casalino, o del ministro degli Esteri Di Maio, o di tutti e tre: l’ennesima prova del fatto che l’Italia non conta più niente (diversamente da prima, quand’era padrona dell’Europa e del mondo), non ha una politica estera, anzi non ha una politica punto, perché chi la governa non sa proprio come si fa. Mancava poco che la guerra civile in Libia fosse colpa di Conte, Casalino e Di Maio. Breve antologia: “Conte vede solo Haftar, Sarraj diserta. Gaffe diplomatica sul conflitto in Libia”, “Il pasticcio inquieta i diplomatici: ‘Errore madornale, ci costerà caro’” (Corriere), “Gaffe, flop e debolezze. Le inutili fatiche di Di Maio. Sarraj ha scaricato l’Italia e aperto ai turchi dopo che il grillino ha visto Haftar” (Stampa), “Conte vede Haftar. Ira di Serraj che non va a Palazzo Chigi”, “In Libia contiamo meno di zero… Di Maio vuol abolire il ministero degli Esteri”, “L’Italia perde la sua guerra” (Repubblica), “Gaffe italiana su Haftar” (Sole 24 ore), “Conte senza l’oste” (manifesto), “Anche il premier di Tripoli prende a ceffoni Giuseppi. Figuraccia internazionale”, “C’è l’impronta di Mattarella sul disastro libico di Conte”, “Governanti per caso”, “I volponi del deserto”, “Lo smacco subito da Conte”, “Non sanno che pesci prendere” (La Verità), “Conte e Di Maio dilettanti senza frontiere. Organizzano un vertice sulla Libia disertato dal leader libico”, “Berlusconi è preoccupato: ‘Così il Paese esce di scena’”, “L’Italia fatta fuori dalla Libia” (il Giornale), “Governo pattumiera. Non conta più nulla nel mondo” (Libero).

Bastava aspettare due giorni per scoprire che Serraj, ieri, ha regolarmente incontrato Conte a Palazzo Chigi: pressato da turchi e russi e minacciato dalle milizie nemiche, ha preferito venire 48 ore dopo il rivale. Il che naturalmente non significa che ora le cose in Libia andranno meglio, o che l’Italia conti più di prima, o che Conte e Di Maio, morti mercoledì, siano resuscitati il terzo giorno. Significa più modestamente che non hanno mai smesso di muoversi nel campo minato di una guerra per bande che più caotica non si potrebbe ed esigerebbe una presenza diplomatica compatta dell’Europa, non di questo o quel Paese.

Ora non sarà certo una visita in più o in meno di Sarraj o di Haftar o di entrambi, nello stesso giorno o a tre giorni di distanza, a cambiare le cose. Nè tantomeno a misurare il peso dell’Italia nel mondo. Ma chi aveva tratto giudizi catastrofici sul nostro governo dalla (momentanea) buca di Sarraj a Conte, per coerenza dovrebbe riconoscere di aver scritto un sacco di fregnacce e scusarsi. Non succederà, naturalmente, e questo convincerà vieppiù i lettori superstiti che i giornali servono a incartare il pesce. Così come dimostrato dall’intera copertura informativa della prescrizione, dove si parla solo di cose che non c’entrano nulla con la prescrizione: la presunzione di non colpevolezza, il garantismo, il giustizialismo, le manette, la funzione rieducativa della pena, la lunghezza dei processi. E mai del fatto che l’Italia è l’unico Paese d’Europa che spende un capitale per scovare e mandare a giudizio gli indiziati di reato e poi ne lascia impuniti 3-400mila all’anno perché il tempo è scaduto. L’altro giorno, a 40 anni esatti dalla strage di Bologna, è stato condannato in primo grado un altro neofascista, Gilberto Cavallini. Unanime e giusta esultanza perché la verità, sempre depistata, fa un altro passetto in avanti verso i mandanti che, se tutto va bene, saranno beccati a funerali avvenuti. Per fortuna le stragi, come gli omicidi, non si prescrivono mai. Tant’è che fu possibile processare Priebke e altri ufficiali tedeschi nonagenari per le stragi naziste del 1943-’45. Qualche anima bella de sinistra, che si straccia le vesti per i “processi eterni” che violano la “ragionevole durata” e la “funzione rieducativa della pena” condannando chi intanto è molto cambiato, dirà mai che bisogna smetterla di indagare sulle stragi impunite solo perché chi le faceva ora ha smesso?
No, per un motivo semplice: i padroni del dibattito pubblico non sono coinvolti nelle stragi, dunque per quelle la prescrizione non serve e la ragionevole durata dei processi è un optional. Vale solo per le specialità della casa: ruberie, mafierie, omicidi colposi e così via. E non per abbreviarli (prima finiscono, prima i colpevoli vanno dentro), ma per allungarli e farli prescrivere. Infatti lorsignori tuonano contro i processi lunghi solo perché rivogliono la prescrizione. Infatti, quando Davigo o Gratteri spiega come si accorciano, strillano come vergini violate. Da un anno il povero Bonafede fa il piazzista per farsi approvare la riforma del processo penale che ne taglia i tempi (se cambia un giudice, non si riparte da zero; i processi monocratici restano tali anche in appello; termini più stringenti per le indagini e i vari gradi di giudizio, con azioni disciplinari per i magistrati che non li rispettano per “dolo o negligenza inescusabile”; notifiche non più a mano, ma sulla Pec dei difensori dalla seconda in poi; nuove “assunzioni” di magistrati e cancellieri). Purtroppo cambiano i governi, ma non si trova nessuno -nè Lega, nè Pd&Iv – che la voti. Il sistema non vuole processi più brevi, ma più lunghi, possibilmente prescritti. L’informazione dovrebbe smascherare questi impostori. Invece fa il palo e regge il sacco.

Ultime lettere di Cesare Pavese: “L’avvenire è tutto nei ricordi”

Leonida Repaci (Palmi, 1898 – Marina di Pietrasanta, 1985), narratore e poeta, fondatore del Premio Viareggio, antifascista inflessibile e tra i primi a organizzare nel settembre del 1943 la lotta contro i nazifascisti a Roma, nel 1950 invitò Cesare Pavese ad aderire al Convegno Nazionale “La Resistenza e la cultura italiana”, in programma al Palazzo Ducale di Venezia dal 22 al 24 aprile. Tra i promotori dell’appuntamento, voluto da Repaci e da Franco Antonicelli per affermare “la fedeltà storica ai motivi, non contingenti e non limitati, della Resistenza”, c’erano, tra gli altri, Corrado Alvaro, Piero Calamandrei, Vittorio De Sica, Ennio Flaiano, Goffredo Petrassi, Gaetano Salvemini, Alberto Savinio, Ignazio Silone, Renata Viganò, Luchino Visconti, Cesare Zavattini.

Pavese rispose all’invito dello scrittore calabrese con un biglietto inviato da Torino, il 20 aprile. “Caro Repaci”, gli scrisse, “sono lieto e fiero di dare la mia adesione al Convegno nazionale della Resistenza e cultura italiana. È evidente che l’avvenire nostro sta tutto qui, in questi operanti ricordi. Ripenso a Leone Ginzburg e Giaime Pintor, miei amici, e mi chiedo se in avvenire sapremo essere degni di loro e degli altri, di tutti gli altri. Coi migliori auguri. Cesare Pavese”.

La breve e poco nota lettera di Pavese, intrisa di rimpianto per gli amici caduti nella Resistenza, come Ginzburg e Pintor, era stata citata in un libro del 2003 di Santino Salerno e ora è pubblicata nel volume Mio caro Leonida… (Lino Pellegrini Editore, pagine 293, euro 18) di Natale Pace, già autore di alcuni saggi dedicati a Repaci. Pace ha focalizzato l’attenzione sull’attività di Repaci su più livelli. Si va da una polemica sull’edizione integrale dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci alle corrispondenze con Luigi Longo, Maria Bellonci, Fortunato Seminara, Maria Fida Moro; fino al convegno veneziano del 1950, caduto oggi davvero nell’oblio, e a quell’adesione di Pavese, che peraltro non vi prese parte di persona.

L’intellettuale piemontese, nei mesi che precedettero il suicidio del 27 agosto 1950, stava vivendo una profonda crisi esistenziale, non solo per i suoi amori disperati. La lacerazione era grande pure sul piano dell’impegno politico. “Il nuovo ordine, promesso dalla Resistenza”, ha scritto Davide Lajolo ne Il vizio assurdo, “non è apparso e Pavese (…) non ha tempo d’aspettare”. Per queste ragioni il biglietto a Repaci, soprattutto quel richiamo a Pintor e a Ginzburg e il timore di non sapere esserne degni, assume un rilievo non da poco per quanto accadrà in agosto, quando si toglierà la vita con i barbiturici in una stanza dell’albergo Roma di Torino.

A Ginzburg aveva pensato il primo luglio dello stesso 1950. Quel giorno regalò all’attrice americana Constance Dowling, della quale era innamorato, la copia di Moby Dick di Melville che aveva dato a Leone Ginzburg il 10 giugno del 1932, e che aveva riavuto poi da Natalia Ginzburg, la moglie di Leone, dopo la morte di questi nel 1944 nel carcere di Regina Coeli. Forse sperando di trattenerla accanto a lui, le diede dunque la copia del libro. Sotto alla dedica per Leone, che recitava “offro gratis a Leone Ginzburg”, appuntò l’altra. Scrisse in inglese, in un’estrema illusione e con un sussulto di passione: “Leone è morto mio unico amico. Non vorresti prendere il suo posto, Connie?”. Lei non lo prese, salvo uccidersi a sua volta, qualche anno dopo, come si era ucciso Pavese, con i barbiturici.

Brunori Sas, quanto amore sussurrato in un “Cip!”

Prendete il nuovo singolo di Dario Brunori Per due che come noi. Pochi autori hanno saputo trattare l’argomento relazione sentimentale dal punto di vista della sensibilità femminile (quasi sempre vincente). Solo Fossati è Maestro in questo. Questo spiccato talento ha reso Brunori il cantautore più interessante in circolazione, capace di stabilire empatia con un pubblico trasversale e colto, attento alle sfumature e ai dettagli. Cip! non è un disco come gli altri, è un tentativo sofferto e riuscito di far emergere la poetica del quotidiano, la leggerezza contro la superficialità, la spiritualità contro il materialismo, la voglia di usare toni pacati e moderati contro chi grida e usa violenza nel linguaggio.

Ma sempre con un sottile filo d’ironia, quella che salva dall’ego dell’artista e dal pericolo di aggiungersi ai già troppi profeti canterini. È proprio lui a prendersi in giro alla presentazione dell’album alla Casa degli artisti a Milano: ironico e beffardo esordisce con un monito: “Non sono Osho, tutti diciamo fesserie, ma le mie sono di qualità superiore”. Cip! riprende il filo interrotto da A casa tutto bene abbandonando quello che definisce “il primo dei due motori esplorati, la paura, per dedicarmi all’amore che ci apre e ci proietta verso gli altri. Prendersi cura degli altri è un modo per avere cura di noi stessi. Affrontare la paura del cambiamento era ciò che avvertivo tre o quattro anni fa, oggi c’è molta gioia e pochissima paura in giro quindi sono felice di essermi sbagliato (ride, ndr). In questo album parlo d’amore e delle varie declinazioni delle relazioni: mi sono un po’ imbarazzato a rileggere le cose che ho scritto, sembravo un personaggio da libro esposto nell’autogrill. Ma volevo parlare di ciò che tiene insieme le persone”. Capita così è la canzone più interessante ed è una sorta di Cosa sarà 2.0 con un pizzico di iniezione rock’n’roll in più: geniale il testo sull’accettarsi con citazioni degne di Ernesto Calindri (“Il bello della vita è rientrare in partita” e “La felicità non è una colpa” su tutte). “È un tentativo di resistere all’obsolescenza programmata dei sentimenti e raccontare la difficoltà e la bellezza di tenere in piedi le cose e farsi vanto delle rughe se necessario. In Al di là dell’amore, evoco il fanciullino di Pascoli e cerco di recuperare il suo sguardo e la sua religiosità. Cerco di bilanciare un estremo, come ogni artista dovrebbe fare. E oggi occorre andare in una direzione poetica, a rischio di sembrare naïf. La religiosità l’ho ritrovata in alcuni scritti di Einstein: ho scritto le sue stesse cose senza le sue formule rognose (ride nuovamente). Provo a recuperare da un momento di disillusione e disincanto, l’incanto”. Brunori è così, non finge: sinceramente inebriato da poesia e letteratura, colto – a differenza di molti suoi colleghi – ma sempre pronto a sfociare in una battuta con un pizzico di sarcasmo. “Gaber è un riferimento per la scrittura e la condotta, mi fa mordere la coscienza. Ho la necessità di trovare in quel che vedo fuori e dentro di me una sorta di accettazione che non è rassegnazione, ma è il non perdere troppo tempo su quello che è reale. Puoi cambiare o attendere o soffrire costantemente perché le cose del mondo non vanno come vuoi tu. Suggerisco elementi che ci facciano riconciliare con quello che non ci piace. Riconciliare è assolutamente necessario”.

Per Brunori Cip! è la prosecuzione ideale del suo album d’esordio: ”Potrebbe essere l’1 bis da non confondere con il 41 bis. Non volevo perdere questo sguardo e l’ironia. Evito di cadere nell’inganno di sentirmi un cantautore. Non ho il piglio dell’accademico ma semmai il guizzo del poeta. La scrittura è tuffarsi negli abissi anche personali e illuminare con una torcia gli animali che lo compongono e tornare in superficie e fare un bel respiro”. E se il pettirosso in copertina incontrasse una sardina? “Mi pare che vogliano recuperare una visione poetica della vita; vedo un movimento di ragazzi e di passione, ma resto in osservazione…”.

“Il trucco del BarLume? Amici, risate e dentiere”

La cadenza è annuale, ed è calibrata, ben costruita, ben girata, e anche in questo mantiene la tempistica di una pubblicazione letteraria; in sottofondo c’è un giallo, il colore imprescindibile per ottenere in Italia attenzione e successo; il cast è più o meno lo stesso degli ultimi anni, con in aggiunta il ritorno di Massimo Viviani (alias Filippi Timi) al fianco del fratello Beppe Battaglia (Stefano Fresi); al centro c’è il celebre bar di Pineta, nella serie originale Sky I delitti del BarLume (da lunedì in onda). “Quando d’inverno devo pensare a qualcosa di positivo per evadere con la mente, mi dico: ‘Per fortuna quest’estate giro i nuovi episodi”, racconta lo stesso Fresi.

Le puntate emanano un qualcosa di familiare.

Gran parte del merito è del regista (Roan Johnson), è lui a dettare i tempi, a portare leggerezza e professionalità sul set. Noi ci divertiamo realmente, e siamo amici.

Lei è in tournée con uno dei protagonisti…

Ecco, esatto. Con Alessandro Benvenuti ci siamo innamorati professionalmente proprio sul set, e poco dopo aver iniziato le riprese ci siamo detti: ‘Perché non pensiamo a un progetto insieme e a teatro?’. E invece di far morire l’idea, dopo due mesi eravamo in scena. Ora sono due anni di tournée.

Siete una coppia.

A lui non posso più rinunciare: ha una grandissima capacità di associare la freschezza e una curiosità adolescenziale a un’esperienza che parte dagli anni Settanta.

Il “BarLume” è un buon viatico per farsi conoscere dal grande pubblico.

La serie tv porta ad abbracciare un numero di spettatori che non puoi raggiungere con cinema e teatro, e ti permette di ampliare le possibilità di riscontro.

Gianmarco Tognazzi ha espresso a “I lunatici” di Radio2 la necessità di difendere il cinema italiano da quello straniero.

Sono d’accordo, e rilancio: bisognerebbe proteggere la sala cinematografica, il piacere di sedersi accanto a perfetti sconosciuti, l’obbligo di non distrarsi con il cellulare, l’opportunità di restare concentrati al 100% sul film.

Al contrario…

Siamo troppo distratti dalle più differenti sollecitazioni: il gatto che deve mangiare, la telefonata della zia, la pipì impellente; poco tempo fa ho rivisto Amici miei per la prima volta in una sala, e nonostante lo conosca a memoria, insieme a 300 persone ho riso come non mai. (ci pensa) Comunque gli italiani sono esterofili.

Dice?

Ho partecipato anche a Il nome della rosa, ed è stato venduto in 150 paesi. Sa qual è la nazione dove è andato peggio? L’Italia. Mentre in Francia è stato un successone.

In “BarLume” c’è Guzzanti che s’inerpica in uno strepitoso dialetto veneto. Lei com’è riuscito a restare serio?

Non ha idea della fatica, e con lui non è neanche la prima volta: in Ogni maledetto Natale Corrado aveva il ruolo del filippino, e Mattia Torre (sceneggiatore scomparso di recente) gli aveva lasciato libertà d’improvvisazione. Ecco, pensavo di sentirmi male dalle risate, lui è un genio…

Genio vero.

Come nessun’altro: in carriera ho lavorato con tanti attori bravissimi, ma lui va oltre.

Tra gli attori c’è Bobo Rondelli, musicista livornese da alcuni considerato geniale.

Ho scoperto la sua musica e poi ho acquistato tutti i cd. Super. E poi ha un’ironia e un’imprevedibilità disarmanti: alla festa di fine riprese mi ha passato un bicchiere, e per fortuna non ho bevuto senza controllare il contenuto: dentro aveva piazzato la dentiera.

Anche lei è musicista.

Ho iniziato così…

Ed è suo il jingle della Rai.

Però il mio è andato in onda dal 2010 al 2017, adesso è rimasto solo il logo; poi hanno lanciato un concorso e coinvolto grandi musicisti, e di questo sono orgoglioso.

Nel “BarLume” c’è una funzione sociale?

È la fotografia ironica della Toscana, una fotografia scattata dall’interno, ma piantata ben in terra, da chi la conosce e sa quali sensazione suscitare, senza dover cadere nella banale volgarità.

Le parolacce sono poche.

Ci sono come linguaggio comune, non come escamotage per strappare una risata.

Lei ha un gemello di fatto.

Giuseppe Battiston? Lo so, con lui ci siamo dati la patente di poter scattare selfie e firmare autografi a nome dell’altro, ma a parte la mole e la barba siamo diversissimi, e poi io parlo romano, lui è di Udine. E si sente. Eccome se si sente. Ma oramai è andata così.

 

Quando l’Italia educava Mozart

Pochi artisti hanno avuto un’infanzia infelice quanto Mozart. Molti l’hanno avuta triste: Bach, con un fratello tiranno e forse invidioso, Beethoven, con un padre alcoolizzato. Ma basta contemplare il folle giro di viaggi ai quali il bambino venne sottoposto per tutt’Europa per rendersene conto. Già dalla stanchezza fisica, che avrebbe ucciso un elefante e che minò sin da allora la sua salute.

Leopold, il padre, si atteggiava a educatore severo e probo, a buon cattolico. Forse non aveva capito che quel bambino era uno dei più grandi genî della musica mai vissuti. Glielo dovette spiegare, molti anni dopo, Haydn, dalla sua altezza. Per Leopold il figlio era un fenomeno dotato di qualità istintive quali nessuno aveva; la composizione, e ancor più l’improvvisazione, vi rientravano. Esibire il fenomeno, farne oggetto di meraviglia e forse di divertimento, cavarne denaro e regali: quelle tabacchiere, magari riempite di talleri, con le quali i regnanti o i nobili sovente compensavano gli artisti.

Ma non era stato ancora in Italia fino ai quattordici anni. Di veri genî della musica aveva conosciuto solo a Londra Johann Christian Bach e il napoletano Jommelli, di stanza a Stoccarda, che l’ammirò moltissimo. Mozart era di carattere piuttosto maligno e invidioso, e quando a Napoli ascoltò uno degli ultimi capolavori del Maestro di Aversa, l’Armida, ebbe subito a commentare che si trattava di vecchiume.

Jommelli appartiene alla seconda generazione dei fondatori dello Stile Classico, quella che lo rinsalda e stabilisce per sempre: la prima pure parte da Napoli, con Alessandro Scarlatti, Domenico Scarlatti, Pergolesi e Leo.

Il viaggio in Italia era nel Settecento e ancora nell’Ottocento il culmine del Grand Tour europeo quasi obbligatorio per il gentiluomo che volesse essere un uomo colto. Per Mozart i tre viaggi, che idealmente, superando come un arco gl’intervalli, sono uno, sono altra cosa. Interiormente, sono un ritorno alla fonte di quello stile del quale egli è uno dei sommi esponenti: e ancora non lo sapeva. Dall’esterno, un’occasione di perfezionamento e insieme di riconoscimenti in quella che, nonostante tutto, veniva considerata la patria e la fonte della musica.

Il primo ingresso nella penisola fu idilliaco. L’approdo fu a Rovereto, nel dicembre del 1769. A Mantova la famiglia potette contemplare, appena compiuta, un’opera di un genio pari a quello di Wolfgang (o Theophilus, come amava farsi chiamare): il Teatro Scientifico di Antonio Galli Bibiena, deciso rinnovamento rispetto a quel modello barocco tanto imitato dagli architetti italiani o italianizzanti al servizio dei piccoli regnanti tedeschi. Era stato appena inaugurato, e Theophilus vi si esibì il 16 gennaio. Discesa verso Roma e, come ho detto, approdo a Napoli; a Roma ascoltò la musica sacra tardo-barocca che si eseguiva nelle basiliche, quella sì un vecchiume (trascrisse a memoria il Miserere di Gregorio Allegri), e il Pontefice lo decorò cavaliere dello Speron d’Oro: onde talvolta lo vediamo firmarsi con un von prima del cognome.

La famiglia risale presso il Nord. In una villa presso Bologna, della famiglia Pallavicini, viene concepito il primo prodigio compositivo di Mozart quale autore drammatico: il Mitridate Rè di Ponto, su testo di Parini, che trionfò subito dopo a Milano. Non so se il padre, se egli stesso, si rendessero conto del livello del capolavoro. Mozart pare lasciarsi alle spalle tutto quel che si era prodotto: nel 1770 Paisiello doveva dare ancora il meglio, Gluck era nel pieno dell’attività. Dei Recitativi d’una potenza drammatica inaudita, con aderenza alla parola poetica italiana, delle Arie ove l’espressione del pathos giunge ai confini. Si può riascoltare quanto si vuole (purché non eseguito dagli insulsi “barocchisti”), e la forza drammatica è sempre la stessa. Paisiello l’avrebbe conosciuto a Torino e rivisto a Vienna, diventandone amico: ecco un altro dei genî capace di influenzarlo.

La stazione bolognese è significativa sotto un altro profilo. Pur non avendo l’età, Wolfgang venne candidato a membro dell’Accademia Filarmonica dopo aver preso lezioni dal più grande contrappuntista vivente, il francescano Giovan Battista Martini. La prova d’esame consisteva nello scrivere un’Antifona su di una melodia liturgica, Quaerite primum regnum Dei. Il santo sacerdote prese di soppiatto il compito del ragazzo prima di esibirlo alla commissione e corresse di suo pugno alcuni errori di contrappunto.

L’anno successivo, dall’agosto al dicembre, il secondo viaggio. In ottobre si eseguì a Milano la “Serenata” Ascanio in Alba, sempre su versi di Giuseppe Parini. La “Serenata”, o “Festa teatrale”, è una composizione semidrammatica, che poteva essere eseguita in forma di concerto o semiscenica: per occasioni solenni come questa, le nozze dell’arciduca Ferdinando. In questa il pathos si alterna a una delicatezza lirica rara.

Subito dopo il ritorno, le cose incominciarono a peggiorare. Salisburgo era un piccolo principato retto da un arcivescovo. Morto il tollerante Sigismund von Schrattenbach, gli subentra Hyeronimus von Colloredo. Questi volle riportare il giovane Maestro allo stato e ai doveri di salariato; inoltre non lo poteva soffrire. Così il terzo viaggio fu anche l’ultimo: ma produsse a Milano il Lucio Silla, rappresentato il 26 dicembre. Questo è il capolavoro d’un musicista maturo, che si apre con un tombeau ispirato a quello dell’Orfeo e Euridice di Gluck e persino superiore. A brani di straordinaria forza drammatica se ne alternano altri con Arie lunghissime ove il virtuosismo vocale è inserito nella forma di Sonata. Siamo in pieno Stile Classico.

Il Lucio Silla è anteriore di nove anni all’Idomeneo, uno dei capolavori del teatro musicale di tutti i tempi (Monaco, 1781); ma già ne pone le premesse. Sebbene la completa formazione di Mozart si terminasse con il soggiorno viennese, l’arco in tre campate dei viaggi in Italia è l’espansione d’una personalità che da alcuni tratti ancor adolescenziali passa alla maturità di artista sommo. Tutto questo a Salisburgo non avrebbe potuto nemmeno concepirlo. Si comprende come non potesse restare un salariato. Resistette a Salisburgo altri cinque anni; poi, pur cercando un posto alla Corte di Vienna, che non ottenne mai, tra un viaggio e l’altro incominciò un’esistenza da libero professionista, tra le prime del mondo classico-romantico. Quando quella morte inscritta nel suo patrimonio genetico lo raggiunse a 35 anni la sua fama diventava universale: era chiamato L’Orfeo tedesco.

 

“Età di equilibrio” a 64 anni: ora è nero su bianco

A cinque settimane dall’inizio della protesta per la riforma delle pensioni, in un clima sempre molto teso, i francesi si chiedono ormai fatalisti quando finirà questo conflitto. Ieri il governo ha reso noto il testo del contestato progetto di legge, 70 pagine e 64 articoli, che il 24 gennaio arriverà al Consiglio dei ministri, ma per i sindacati non ci sono stati miracoli: anche la più avversa delle misure, la famosa “età di equilibrio” a 64 anni, di cui chiedono da tempo il ritiro, era lì.

La copia, che era già in mano anche alle redazioni dei media, non sarebbe arrivata invece alla Cgt, il più radicale dei sindacati, proprio quello che dal 5 dicembre blocca treni e metrò, che ha già fermato le raffinerie e sabotato anche le linee elettriche di alcune città. E che tra l’altro ora non esclude neppure di bloccare due succursali della Banca di Francia che riforniscono i bancomat. “Non abbiamo ricevuto nulla. È il colmo che sia un giornalista a leggermi un testo del governo”, ha commentato sarcastico il segretario Philippe Martinez, intervistato ieri mattina su France Info. Il governo ha spesso accusato la CGT di rifiutare ogni dialogo.

È stato Martinez a non aver voluto sospendere la mobilitazione neanche durante le feste di fine anno. Per lui quel testo va solo stracciato e bisogna ricominciare da zero. Ieri il premier Edouard Philippe è tornato a incontrare i responsabili dei sindacati uno dopo l’altro, alla ricerca di un compromesso per uscire dall’impasse. “Non mi entusiasma andare a fare l’idiota davanti al primo ministro se tanto tutto è già scritto”, ha commentato Martinez. Secondo il sindacalista per finanziare le pensioni bisogna aumentare le contribuzioni patronali e instaurare l’uguaglianza salariale tra uomini e donne, che in questo modo potrebbero contribuire di più. Ma la copia del governo non prevede nulla di tutto ciò. Come era stato annunciato, sarà introdotta una nuova “cassa pensionistica nazionale universale” a partire dal primo dicembre 2020 che implica dunque la fine dei regimi speciali (anche se alcune categorie, come i poliziotti, hanno già ottenuto garanzie per conservare i loro statuti). L’età legale alla pensione resta fissata a 62 anni, ma si introduce un’età di equilibrio a partire dal 2022 per i nati dal 1960 in poi, e che sarà “evolutiva” fino a fissarsi a 64 anni nel 2027. È su questa misura che si concentrano i conflitti. Il governo non sembra volerci rinunciare: questa misura dovrebbe permettere di realizzare 3 miliardi di risparmi sin dal 2022 e 12 miliardi dal 2027. Il testo introduce una “regola d’oro”: con la riforma, le pensioni non potranno essere abbassate.

Per gli insegnanti, tra i più penalizzati, è scritto nero su bianco che il livello della pensione sarà garantito da un aumento degli stipendi. È inoltre fissata una pensione minima a mille euro a partire dal 2022 per tutte i lavoratori giunti alla fine del servizio.

Laurent Berger, segretario del sindacato riformatore Cfdt ha proposto di cancellare l’età d’equilibrio dal testo per rinviare la questione dell’equilibrio finanziario a più tardi. L’idea di una “conferenza” apposita non è dispiaciuta neanche a Edouard Philippe. Il futuro del conflitto potrebbe essere ora nelle sue mani. “Abbiamo fatto grandi passi avanti”, ha detto ieri il premier al termine della lunga giornata. Oggi Philippe avanzerà ai sindacati delle “proposte concrete” in vista di un compromesso. In attesa, la mobilitazione continua. Tra 450 mila e 1,7 milioni di persone, a seconda delle fonti, sono scese di nuovo nelle strade giovedì in tutto il paese. Il corteo parigino si è chiuso tra manganellate, lanci di sampietrini e una ventina di feriti. Ieri a Marsiglia un centinaio di manifestanti sono scesi sui binari della stazione centrale Saint-Charles bloccando il traffico e causando ritardi di diverse ore. Decine di avvocati hanno invaso la Corte d’appello di Parigi sfilandosi le toghe e lanciandole in aria. Tre nuove giornate di iniziative sono già state fissate, dal 14 al 16 gennaio.