737 Max, l’aereo “progettato da pagliacci”

“Metteresti la tua famiglia su uno di quegli aerei, con piloti addestrati sui nostri simulatori? Io no”: è uno dei messaggi che dipendenti della Boeing si scambiavano prima che due tragedie aeree, avvenute tra il 2017 e il 2018, facessero 346 vittime in Indonesia e in Etiopia proprio nello schianto di due 737 Max della compagnia statunitense. Gli aerei di cui loro parlavano, nuovi di zecca. Ora, la Boeing si scusa per il tono delle mail dei suoi dipendenti, ma dovrebbe soprattutto scusarsi per avere messo in circolazione un prodotto così difettoso ed i cui limiti erano ben noti. Al punto che, nel 2017, un tecnico della Boeing scriveva del 737 Max: “È un aereo disegnato da clown che sono a loro volta controllati da scimmie”, riferendosi in particolare al computer che doveva controllare il velivolo e che si sarebbe poi rivelato responsabile delle due sciagure.

Nelle loro mail, i dipendenti della Boeing raccontano anche come si facevano gioco dei responsabili della Federal Aviation Administration, l’autorità americana dell’aviazione civile, e battute sulle carenze dell’aereo, rivelatesi poi fatali. In particolare, la Boeing convinse con trucchi e inganni le compagnie aeree e le autorità federali che non fosse necessario nessun addestramento specifico con simulatori per i piloti del velivolo. Gli scambi di mail interni in versione originale, sono stati consegnati alla commissione d’inchiesta del Congresso prima di Natale. La corrispondenza non farà che complicare le relazioni già difficili tra la Boeing e la Faa.

Il 737 Max è ormai a terra da quasi dieci mesi, dopo le due tragedie. In un messaggio, la Boeing esprime il proprio “rammarico” per tono e contenuti delle comunicazioni interne, scusandosene “con la Faa, il Congresso, le compagnie aeree nostre clienti e il pubblico”. Un comunicato afferma: “Il linguaggio utilizzato in queste mail non è in linea con i valori di Boeing, e la società sta decidendo le azioni opportune”: è stata avviata un’inchiesta, al termine della quale si deciderà come agire nei confronti degli autori delle email.

Ma più che gli autori dei messaggi di posta elettronica, dovrebbero stare sulla graticola i responsabili del progetto. Secondo Peter De Fazio, presidente della Commissione Trasporti della Camera, un democratico dell’Oregon, “i messaggi offrono un quadro profondamente inquietante di fin dove la Boeing volesse arrivare per evitare i controlli di autorità, piloti, passeggeri, nonostante i suoi stessi dipendenti suonassero l’allarme”. C’è stato “uno sforzo coordinato, fin dai primi passi del 737 Max, per nasconderne informazioni cruciali alle autorità e al pubblico”. Anche la Faa si dice “delusa” dal comportamento della Boeing.

A dicembre, Dennis Muilenburg, la massima autorità del gruppo aeronautico, aveva lasciato l’incarico, proprio a causa della crisi del 737 Max: il cambio di leadership si era reso necessario, secondo l’azienda, “per restituire fiducia nella società”. La Boeing s’era impegnata a quel momento “a operare con rinnovata trasparenza”.

Non solo Soleimani, raid su leader iraniano in Yemen

Gli Stati Uniti impongono, come il loro presidente Donald Trump aveva anticipato, nuove sanzioni all’Iran, che “resteranno finché il regime non cambierà atteggiamento”, dice la Casa Bianca. E rispondono picche all’Iraq che chiede a Washington di avviare le operazioni per andare via. “Se arriva una nostra delegazione è per meglio organizzare la permanenza dei soldati Usa” è la risposta.

Ma l’attenzione s’è ormai spostata dalle tensioni Usa-Iran all’inchiesta sulle cause della sciagura aerea di mercoledì mattina, in cui hanno perso la vita 176 persone: il Boeing ucraino è stato abbattuto, sia pure per errore, da un missile iraniano?, O è caduto per un problema tecnico o un errore umano?

Il raid che ha ucciso il generale Soleimani non era l’unica azione dell’offensiva della Casa Bianca. Lo dice il Washington Post: lo stesso giorno i militari tentarono di colpire, in Yemen, Abdul Reza Shahlai, alto dirigente iraniano e uno dei leader delle forze d’elite Quds Force, di cui Soleimani era il capo. Ma questa missione non è andata in porto.

Le nuove sanzioni, dettagliate dai segretari al Tesoro Steve Mnuchin e di Stato Mike Pompeo, sono conseguenti all’attacco missilistico iraniano contro due basi Usa in Iraq, nella notte tra il 7 e l’8: colpiscono vari settori, tra cui il manifatturiero, il tessile, il minerario (specie acciaio e alluminio), nonché otto dirigenti ritenuti coinvolti. Quasi contemporaneamente all’annuncio, migliaia di manifestanti sono scesi in piazza a Baghdad e in altre città irachene, innalzando cartelli e scandendo slogan contro gli Stati Uniti e l’Iran, accusati entrambi di ingerenza nel Paese. È un rilancio del movimento che in ottobre aveva protestato contro disoccupazione, corruzione, mancanza di servizi essenziali. Il venerdì di preghiera è stato preceduto da aspri scontri a Kerbala, nel Bud, e a Bassora, nell’Est, con numerosi arresti. Nell’inchiesta sulla tragedia del Boeing, l’Iran si dice “certo” che l’aereo ucraino, precipitato all’alba di mercoledì subito dopo il decollo dall’aeroporto di Teheran, non sia stato colpito da un missile, nonostante accuse esplicite di Canada e Gran Bretagna e i forti sospetti avanzati dal Pentagono e condivisi dalla Nato. Per stornare i sospetti, l’Iran invita a partecipare all’inchiesta, come dicono le norme internazionali, i tecnici della Boeing ed esperti Usa del National Transportation Safety Board, oltre a quelli di tutti gli altri Paesi coinvolti nel disastro. Kiev ha già sul posto un team di 50 investigatori, che stanno analizzando con gli iraniani le scatole nere: un processo che può richiedere mesi.

Se a Teheran si parla di “una grande menzogna degli Usa”, molte fonti delle intelligence occidentali insistono sulla tesi dell’abbattimento per errore. Mosca sostiene che finora non ci sono i presupposti per accusare l’Iran del disastro. Fra chi avalla la tesi del missile c’è invece l’Olanda, con la tragica esperienza del volo Malaysia Airlines partito da Amsterdam e diretto a Kuala Lumpur, abbattuto da un missile terra-aria sui cieli ucraini nel 2014. A Teheran è giunto un team di dieci canadesi, per “occuparsi delle 63 vittime” del loro Paese. L’Iran intende facilitare il loro compito, anche se Ottawa ha interrotto le relazioni diplomatiche con Teheran nel 2012 a causa del sostegno iraniano a Bashar al Assad in Siria.

Tra incertezze sulle cause della tragedia e tensioni persistenti tra Usa e Iran, numerose compagnie hanno sospeso i loro voli su Teheran. Tra queste la Lufthansa, che ha richiamato un aereo in volo verso la capitale iraniana e ha deciso uno stop almeno fino al 20 gennaio.

Negli Stati Uniti si muove anche il fronte impeachment: la democratica Nancy Pelosi si dice pronta a consegnare al Senato il fascicolo con le accuse a Trump sul Kievgate, mentre l’Fbi annuncia una nuova inchiesta: la Russia non solo sarebbe già scesa in campo per influenzare le elezioni presidenziali del 2020, ma avrebbe nel mirino l’ex vicepresidente Usa Joe Biden per ostacolare la sua corsa verso la Casa Bianca. Proprio come nel 2016 fece con Hillary Clinton, avvantaggiando di fatto Donald Trump.

Tsai favorita, ma il Dragone trama

Al voto per allontanare la minaccia del Dragone cinese. Alle urne, oggi, 19,3 milioni di cittadini al di sopra dei 20 anni, compresi 1,18 milioni di giovani elettori che voteranno per la prima volta. Oltre al nuovo presidente, gli elettori sceglieranno 113 parlamentari. La presidente Tsai Ing-wen, del Partito progressista democratico (Dpp), formazione di governo di orientamento centrista, secondo i sondaggi dovrebbe ottenere una conferma e battere sia il candidato del Partito nazionalista cinese (Kmt), Han Kuo-yu, che James Soong (People First Party). Quest’ultimo è la quarta volta che si presenta alle presidenziali. Il successo di Tsai Ing-wen sarebbe un messaggio a Pechino che considera Taiwan una provincia ribelle e ha fatto pressioni sulla comunità internazionale per non farla riconoscere come repubblica indipendente.

Queste ingerenze non fanno che rafforzare il sentimento di opposizione alla Cina: l’80% della popolazione, secondo i sondaggi, è contraria alla riunificazione. Tsai ha un vantaggio di circa 30 punti; altro discorso sui seggi parlamentari dove il divario dovrebbe essere minore. Il Partito progressista democratico cercherà di confermare la propria maggioranza in modo da garantire a Tsai ampio margine di manovra politica. Il Kmt invece spera di ottenere un certo numero di seggi per rilanciare il proprio progetto: migliori rapporti con la Cina, almeno dal punto di vista commerciale.

La rivolta anti-Cina. Stress e depressione: Hong Kong a pezzi

Non sono solo le guerre a minare la salute mentale, oltre che fisica, della popolazione. Secondo uno studio pubblicato dalla più autorevole rivista scientifica medica del mondo, Lancet, anche vivere in un luogo dove sono in corso conflitti sociali provoca la cosiddetta sindrome da trauma psicologico e, di conseguenza, quella post traumatica. Lo staff della rivista scientifica lo ha dedotto studiando i risultati di un dossier dei ricercatori dell’Università di Hong Kong sullo stato di salute mentale degli abitanti: uno su tre adulti di Hong Kong ha riportato sintomi di disturbo traumatico da stress durante i nove mesi di disordini sociali spesso violenti, peraltro ancora in corso.

La gamma dei disturbi con cui si conclama il Ptsd ( post traumatic stress desorder) è molto ampia: va dalla tristezza, nel migliore dei casi, alle allucinazioni e reazioni violente, fino all’omicidio. Spesso i problemi mentali sono anche accompagnati da reazioni fisiche come tremori e atti di autolesionismo. La malattia più comune è la depressione. Nello studio medico-scientifico si legge che un abitante su dieci della metropoli cinese presentava quei sintomi. Si tratta di cifre paragonabili a quelle osservate nelle aree di conflitto armato o dopo attacchi terroristici. Più la violenza fisica e psicologica è maggiore, più lo stress aumenta e sussiste nel tempo, per poi peggiorare se non viene curato. La prevalenza dei sintomi del Ptsd è stata sei volte più alta rispetto alle ultime grandi proteste del movimento Occupy a favore della democrazia nel 2014, passando da circa il 5% a marzo 2015 a quasi il 32% a settembre-novembre 2019.

L’aumento corrisponde a ulteriori 1,9 milioni di adulti con sintomi Ptsd nella città che conta 7,4 milioni di residenti. Dal dossier medico si apprende che fino all’11% degli adulti presi in esame ha riferito sintomi di depressione, rispetto a circa il 2% prima delle proteste di Occupy e al 6,5% nel 2017. “Uno su cinque adulti ora riferisce probabile depressione o sospetto di Ptsd, che è paragonabile a quelli che vivono conflitti armati, disastri su vasta scala o attacchi terroristici”, ha riportato uno dei ricercatori. Un altro dato molto interessante: l’uso massiccio dei social media per seguire eventi socio-politici sembra aumentare il rischio di probabile depressione e sospetto di Ptsd. “Hong Kong ha risorse limitate per far fronte a questo onere eccessivo per la salute mentale”, ha commentato il professor Gabriel Leung, decano della medicina presso l’Università di Hong Kong, che ha co-realizzato la ricerca. I ricercatori hanno utilizzato sondaggi realizzati prendendo un campione di 18.000 persone tra il 2009 e il 2019 in quello che viene definito lo studio più ampio e più lungo circa l’impatto dei disordini sociali sulla salute mentale nel mondo. Gli scienziati hanno peraltro sottolineato che i loro risultati potrebbero sottostimare l’entità dei problemi di salute mentale della popolazione di Hong Kong in quanto non includevano i minori di 18 anni, che costituiscono una grande percentuale di manifestanti.

Negli ultimi sette mesi, i disordini sono sfociati in una guerriglia tra i dimostranti da una parte e la polizia affiancata da sostenitori di Pechino dall’altra. Questi ultimi hanno contribuito ad accrescere il tasso di violenza. “Con i disordini sociali in aumento in tutto il mondo – anche nelle principali città come Barcellona, Delhi, Parigi e Santiago nel 2019 – la questione di come questi incidano sulla salute mentale della popolazione è di grande importanza per la salute pubblica”, ha affermato Michael Ni dell’ateneo della città ribelle. Prima di questo studio, ne erano stato condotti altri nelle zone del mondo dove la violenza e i conflitti sono endemici e quotidiani. Il più esaustivo fu quello in Messico. Anche lì il risultato fu lo stesso di quello appena pubblicato.

Il grido della cenerentola di Puglia

Oggi in piazza, uniti, mai rassegnati. Foggiani in corteo fino a via Lanza partendo da via Candelaro, dove è avvenuto l’omicidio di Roberto D’Angelo, il primo del nuovo anno. La manifestazione Foggia libera Foggia è stata fortemente voluta da Libera, a più di un anno dall’arrivo del presidente Luigi Ciotti. “Attenti alla ferocia di una mafia emergente” disse Ciotti nella 23esima Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie per denunciare organizzazioni silenziose ma radicate. Il territorio foggiano, infatti, è spartito da grosse organizzazioni criminali che, nei decenni, hanno allentato la morsa solo per fare il punto della situazione.

Un mercato della droga in crescita e “appaltato” a gruppi di distribuzione sempre più numerosi, fino a creare una confusione che destabilizza gli storici assetti. Il racket, tuttavia, è la punta dell’iceberg, in una vasta provincia di piccoli centri che ha visto scandali nei comuni più popolosi, Cerignola e Manfredonia. Se le amministrazioni vengono inquinate da logiche di raffinata corruzione, gli illeciti più spudorati serpeggiano nelle strade del capoluogo, dove tutti ormai hanno sulla bocca i nomi delle quattro famiglie egemoni.
Lo scontro tra i clan appunto è la traccia più seguita dagli investigatori per decodificare il clima di tensione dei giorni scorsi e giunto alle cronache nazionali dopo l’esplosione all’auto del manager-testimone Cristian Vigilante. Tre bombe e un omicidio innalzano il livello di allerta. A Roma Luciana Lamorgese conferma quanto detto in Prefettura il 23 dicembre, dopo le richieste dei parlamentari 5S, quindi l’istituzione di una sezione della Dia. Dotare il territorio di strumenti e presidi volti ad arginare violenze e intimidazioni non risponde agli interrogativi dell’opinione pubblica: chi risarcirà le attività commerciali danneggiate?

La mafia colpisce nelle aride notti d’estate, come a San Severo, ma anche nelle rumorose festività natalizie è la constatazione che vede gli investigatori di fronte a un puzzle misterioso. Se in mancanza di arresti i negozianti evitano di denunciare gli estorsori, la coesione di questa mobilitazione, con oltre trecento adesioni all’appello di Libera, li rassicura notevolmente che nessuno è solo.

Questa terra baciata dal sole è purtroppo la cenerentola di uno sviluppo culturale ed economico che vede in Bari e nel Salento le capofila isolate di un meridione turisticamente ghiotto per operatori internazionali. Lo stallo occupazionale della provincia di Taranto fa eco a quello più drammatico della Capitanata; interi borghi spopolati di giovani che, in mancanza di lavoro, hanno preferito trasferirsi nel Centro-Nord.

Con questa realtà conclamata e con l’immobilismo di investimenti in agricoltura e trasporti, deve fare i conti una politica immatura che evoca uno Stato che forse Stato non è, se non con l’approssimarsi delle elezioni regionali o delle visite papali.

Tra i campanili restaurati e le distese di grano, tra i gruppi di preghiera a Padre Pio e i campeggi estivi dei vacanzieri tedeschi, il grido di una città che desidera il cambiamento è spesso inascoltato da quei poteri economici e istituzionali che preferiscono le ospitate televisive a progetti di riqualificazione territoriale e urbanistica.

Nella terra di nessuno, tra genitori orfani di neolaureati in fuga e immigrati-cibo del caporalato, uno sguardo si è levato tra i grigi palazzi delle robuste periferie foggiane, quello paterno del santo torinese che procacciava lavoro ai ragazzi, vittime ieri come oggi, dell’analfabetismo e della criminalità.

Foggia sfila contro le bombe: “La paura non deve vincere”

Una città blindata. Il quartiere Candelaro deserto. Le volanti della polizia a decine coi lampeggianti accesi in un silenzio assordante. A squarciarlo è stato il grido unanime “Foggia libera” di migliaia di partecipanti – c’è chi dice 20 mila – alla manifestazione organizzata da Libera contro le mafie di Don Luigi Ciotti, che ha rimbombato ieri lungo il viale dove la sera del 2 gennaio Roberto D’Angelo, commerciante 53enne, è stato freddato mentre rincasava. Al civico di casa sua, il 27 di viale Candelaro, i manifestanti hanno deposto un fascio di rose prima di sfilare lungo la città stretta nel cordoglio per l’impennata di atti criminosi che hanno segnato questi primi giorni del nuovo anno.

“Ho provato varie volte a parlare della mafia di Foggia, ma prima non interessava a nessuno. Non era la ’ndrangheta, non era la camorra, non era la mafia siciliana”. Daniela Marcone, vicepresidente di Libera e figlia di Francesco Marcone, ucciso il 31 marzo 1995 sul portone di casa, sente l’urgenza di un progetto per la sua città. Un progetto nazionale che parta dalla memoria storica: “Abbiamo necessità di raccontarcelo prima fra noi foggiani cosa sia la nostra mafia. Nelle nostre scuole spesso – denuncia – si parla delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ma non si dice che a Foggia in quel momento la mafia nasceva”.

Dagli anni 90 in poi, la storia della Capitanata è segnata da morti. Vittime innocenti. Bombe. Rapine. Droga. “Siamo qui – ha dichiarato don Luigi Ciotti – per disinnescare la miccia della paura e della rassegnazione”. Quella paura ieri Foggia l’ha vinta. Anche dai balconi sventolavano striscioni di dissenso. Le più alte cariche istituzionali, assieme a quelle delle forze dell’ordine, hanno sfilato al fianco dei cittadini accorsi anche dalla provincia. Numerosi i sindaci con la fascia tricolore presenti. Oltre ai procuratori Giuseppe Volpe, Francesco Giannella e Giuseppe Gatti della Direzione nazionale antimafia di Bari. Con loro la ministra Teresa Bellanova, il presidente della Regione Michele Emiliano e i primi cittadini di Foggia, Franco Landella, e di Bari, Antonio De Caro. “Sono giorni che ci svegliamo nel cuore della notte per i boati”, ha detto una delle manifestanti. “Ho paura quando esco. A volte – ha raccontato – mi domando se questa sia Foggia o Baghdad”.

Quasi 400 le associazioni tra scuole, associazioni, diocesi e sindacati. In testa al corteo, che ha attraversato il centro cittadino, c’erano i familiari delle vittime. Sul palco, poi, hanno preso la parola: “Buonasera Foggia, siamo Arcangela, Marianna e Alberto, i familiari di Luigi e Aurelio Luciani ammazzati barbaramente dalla mafia il 9 agosto 2017”. Quei due contadini, uccisi perché si trovavano lì dove veniva freddato il boss, hanno cambiato la storia di questa città, perché da quel momento i riflettori si sono accesi. “Ho paura – ha detto Arcangela Luciani – ma non permetto più alle mie paure di farmi abbassare la testa e di accettare tutto l’orrore che ci circonda. Oggi potrebbe essere l’inizio di quel grande cambiamento che aspettiamo da anni”. Non sono più degli “appestati”, come ha raccontato di essersi sentito il figlio di Nicola Ciuffreda, l’imprenditore edile assassinato nel 1990. I familiari delle vittime oggi sono tanti. La consapevolezza tra i cittadini è cresciuta. Eppure sono pochi i pentiti. Poche le denunce. Basti pensare che al processo “Decima azione” del mese scorso, in cui sono imputate 29 persone, nessuno degli imprenditori, vittime di estorsione, si è costituito parte civile. Solo il Comune e la Regione. A Foggia, fino a qualche giorno fa, durante l’operazione congiunta delle forze dell’ordine “Alto impatto”, è stata trovata un’artiglieria da guerra: armi, munizioni e ordigni esplosivi. “I foggiani non devono sentirsi soli perché lo Stato c’è ed è con loro”, ha scritto il premier Giuseppe Conte, nato da queste parti, a Volturara Appula, in una lettera ai manifestanti. Quello Stato ieri c’era e scortava silenziosamente la città.

Quarant’anni di sangue nero. Prossima fermata: i mandanti

Ora che una terza sentenza di una nuova Corte d’assise ha confermato le due precedenti, si può sostenere che la pista nera per la strage di Bologna ha avuto un’ulteriore convalida. Anche Gilberto Cavallini è stato condannato per strage, come prima di lui i suoi camerati dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari) Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini.

La storia processuale della strage del 2 agosto 1980 non è tortuosa e attorcigliata come quella di piazza Fontana, ma è comunque complessa. E ancor più di piazza Fontana segnata da depistaggi di Stato, che cominciano la sera stessa del 2 agosto, quando il governo in carica, presieduto da Francesco Cossiga, mostrò di credere che il crollo dell’ala ovest della stazione fosse stato provocato dall’esplosione di una vecchia caldaia nei sotterranei dell’edificio.

La magistratura bolognese percorse invece con determinazione la pista nera, tra mille difficoltà, attacchi e inquinamenti. Sedici mesi dopo il più grave attentato della storia repubblicana (85 i morti, oltre 200 i feriti), l’11 dicembre 1985, i pm Libero Mancuso e Attilio Dardani chiesero ai giudici istruttori Vito Zincani e Sergio Guastaldo di emettere 20 mandati di cattura per neofascisti di diversi gruppi, che il 14 giugno 1986 furono rinviati a giudizio.

Il primo processo iniziò il 9 marzo 1987 e finì nel 1995. Imputati sei neri per strage (tra cui Fioravanti e Mambro), undici per banda armata (tra cui Cavallini), undici accusati di associazione sovversiva (tra cui Licio Gelli) e quattro di calunnia aggravata, “al fine di assicurare l’impunità agli autori della strage”: il venerabile della loggia P2 Licio Gelli, gli ufficiali del Sismi Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, il consulente del servizio segreto militare Francesco Pazienza.

La sentenza di I grado arriva l’11 luglio 1988 e condanna all’ergastolo, per strage, non soltanto Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ma anche Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco. Assolve invece Paolo Signorelli e Roberto Rinani. Condanna per banda armata, oltre a Fioravanti e Mambro, anche Gilberto Cavallini, Massimiliano Fachini, Egidio Giuliani, Sergio Picciafuoco, Roberto Rinani e Paolo Signorelli. Cade per tutti l’imputazione di associazione sovversiva, ma arrivano le condanne per il depistaggio a Gelli, Pazienza, Musumeci e Belmonte: avevano cercato di accreditare una fantomatica “pista internazionale” facendo trovare sul treno Taranto-Milano, il 13 gennaio 1981, una valigia con otto lattine di esplosivo (simile a quello della stazione), un mitra Mab (della Banda della Magliana), un fucile automatico e due biglietti aerei Milano-Monaco e Milano-Parigi.

In appello (inizio il 25 ottobre 1989), cade per tutti l’imputazione di strage: la sentenza del 18 luglio 1990 assolve Fioravanti, Mambro e gli altri quattro imputati. Conferma però le condanne per banda armata (a Fioravanti e a Mambro, a Cavallini e a Giuliani). E condanna, per la calunnia aggravata del depistaggio, Musumeci e Belmonte, che hanno però una pena ridotta (da 10 a 3 anni) e sono assolti per l’associazione sovversiva.

È la Cassazione che ribalta la vicenda. Il 12 febbraio 1992, le Sezioni unite penali della Suprema corte dichiarano che il processo d’appello deve essere rifatto, perché la sentenza è illogica e priva di fondamento, “tanto che in alcune parti i giudici hanno sostenuto tesi inverosimili che nemmeno la difesa aveva sostenuto”.

Il secondo appello inizia l’11 ottobre 1993 e termina il 16 maggio 1994 con la condanna all’ergastolo, per strage, di Fioravanti, Mambro e Picciafuoco e con l’assoluzione di Fachini. Confermate le condanne per banda armata a Cavallini, Giuliani e Picciafuoco, oltre che a Fioravanti e Mambro. Confermate anche le condanne per il depistaggio: a Gelli e Pazienza (10 anni), al generale Musumeci (8 anni e 5 mesi) e al colonnello Belmonte (7 anni e 11 mesi).

Il sigillo finale è posto dalla Cassazione il 23 novembre 1995, con la conferma della sentenza del secondo appello (tranne che per Picciafuoco, che sarà poi assolto a Firenze).

Il secondo processo. A parte viene giudicato, tra il 1997 e il 2007, Luigi Ciavardini, che all’epoca della strage era minorenne. È dapprima condannato per banda armata e assolto per strage, poi condannato in appello a 30 anni anche per strage. La Cassazione annulla la sentenza e ordina un nuovo appello, che gli conferma 30 anni per strage. La Cassazione rende definitiva la condanna l’11 aprile 2007.

Il terzo processo, a Gilberto Cavallini, inizia nel 2017. La sentenza di primo grado, il 9 gennaio 2020, lo condanna all’ergastolo.

I mandanti. Ora si apre il capitolo più delicato: chi sono i mandanti degli esecutori materiali fin qui condannati? Sta cercando una risposta la Procura generale di Bologna, dopo aver avocato un’inchiesta che la Procura stava per archiviare. Oggetto: Licio Gelli, i suoi finanziamenti ai gruppi fascisti, i suoi rapporti con i servizi segreti e gli apparati istituzionali.

Sorpresa, i Berlusconi sperano nei giudici. Sì dei soci Mediaset alla holding olandese

Pier Silvio Berlusconi confida nei buoni uffici della magistratura per dar vita a MediaforEurope (Mfe), la holding di diritto olandese che dovrebbe riunire sotto un unico cappello tutte le attività del Biscione. “Se i Tribunali ci danno l’ok, ce la faremo” ha precisato l’ad di Mediaset dopo un’infuocata assemblea che ha approvato alcune modifiche allo statuto di Mfe. Il tutto fra le proteste dei soci francesi di Vivendi secondo cui il cda del Biscione ha messo a segno “un piano abusivo che priva gli azionisti di minoranza dei loro diritti.”

Non bisognerà attendere a lungo per conoscere l’epilogo di una delle telenovelas finanziarie più intriganti del momento: nei termini del diritto olandese, l’operazione Mfe dovrà essere formalmente realizzata entro il 19 marzo. Intanto il 21 gennaio, il tribunale di Milano dovrà esprimersi sulle sorti di Mfe. Ben presto toccherà anche alla Corte di Madrid. In entrambi i casi, i magistrati dovranno valutare il peso delle modifiche statutarie approvate ieri in assemblea con il voto contrario di Vivendi, che possiede quasi il 29% di Mediaset. I cambiamenti sono stati approvati con il 79,85% dei voti, corrispondente al 48,28% del capitale. Ma, anche in questa occasione, il gruppo della famiglia Bolloré non ha potuto esercitare il diritto di voto per l’intera quota in portafoglio. Il cda di Mediaset ha ammesso al voto solo la partecipazione detenuta direttamente da Vivendi (il 9,61%). Non ha potuto esprimersi la Simon Fiduciaria, cui il gruppo francese ha affidato più del 19% della sua partecipazione per venire incontro ai rilievi di Agcom.

Per questo, secondo Vivendi, il nuovo piano di MediaForEurope è stato approvato “in maniera irregolare”. “Il progetto, peraltro, ha potuto essere adottato unicamente grazie all’illegale interdizione dal voto della Simon Fiduciaria sulla base di un’interpretazione del diritto italiano contrario ai trattati dell’Uea” si legge in una nota di Vivendi. Con il risultato che l’operazione mette “ancora una volta in più Mediaset in una situazione di grave incertezza giuridica”.

E pensare che, invece, per il presidente del Biscione, Fedele Confalonieri, è proprio Vivendi che “sta “cercando di mettere in stallo Mediaset con il solo intento di perseguire mire e obiettivi soggettivi a spregio della società e di tutti gli azionisti, italiani e spagnoli”. Per Confalonieri, Vivendi “invece di favorire questo processo, vorrebbe impedirci, con azioni legali pretestuose, di ottenere i benefici industriali di un’operazione paneuropea”. Soprattutto per Fininvest che rafforzerà notevolmente la presa su Mediaset attraverso MediaForEurope, cassaforte in cui confluiranno le tv italiane e spagnole, oltre alla partecipazione (15%) nella tv tedesca Prosiebensat. E potrà cercare nuovi alleati senza l’ingombrate socio Vivendi. Giudici permettendo.

Bus, b&b e viaggi da incubo: è il concorso il vero business

“Se sei tra coloro che dovranno sostenere la prova preselettiva del Concorso Assistenti di Vigilanza MIBAC, allora di sicuro ti starai chiedendo come raggiungerai la Fiera di Roma”. La soluzione è a pochi clic e raggiungibile con bonifico, postepay o paypal: utilizzare uno dei tantissimi autobus di linea organizzati da privati o dalle agenzie di viaggio per permettere ai circa 210 mila candidati per 1.052 posti da Afav (assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza) nei musei di raggiungere la sede del concorsone organizzato dal ministero dei Beni culturali alla Fiera di Roma. Le preselettive sono iniziate due giorni fa e proseguiranno fino al 20 gennaio. “In questa pagina ti proponiamo il servizio bus effettuato dall’agenzia di viaggi convenzionata con noi” si legge in uno degli annunci.

Le partenze sono da decine di fermate: Avellino, Salerno, Cava dei Tirreni, Pompei, Caserta, Napoli, Nocera, Frosinone. Lo stesso annuncio si ripete per quasi ogni Regione italiana e dai diversi capoluoghi di provincia: quando c’è un concorso pubblico, gli autobus si mettono in moto. Lecce, Cosenza, Potenza. Con costi che vanno da un minimo di 40 a un massimo di 60 euro andata e ritorno. Tutti i giorni per almeno quindici giorni.

Sono viaggi sfibranti: chi ha il turno del concorso alle 8 del mattino, arriva alla sede romana alle 7.20. Ma la partenza è prevista anche alle 2 di notte: “L’autobus fa decine di fermate – racconta Marisa L. – impiega quasi sei ore per un percorso che ne richiederebbe al massimo tre e tutte di notte. Dormire è una utopia, non il meglio prima di affrontare anche una prova d’esame”. Per molti è l’unica scelta, il metodo più economico e veloce: “Chi partecipa a questo concorso spesso è precario e ancora più spesso ha una famiglia – racconta un partecipante – non possiamo assentarci a lungo da casa e soprattutto spendere per pernottare e viaggiare. Bisognerebbe mettere in conto almeno 200 euro che non tutti possono permettersi. Io no. L’autobus è l’unica soluzione, ma ti distrugge”.

Così c’è chi ha scelto di non partecipare perché troppo complicato. “Io non ci sarò, vivo a mille chilometri di distanza, avrei dovuto prendere un volo stasera, spese d’albergo e ho un neonato che allatto quindi sarebbe dovuto venire anche mio marito. Aspetto il prossimo concorso” spiega Emanuela R. Questo, però, è il primo concorso da vigilante dopo il 2008. Come la sua, ci sono altre decine di casi. Irene C. è una archeologa, dottore di ricerca con un master di specializzazione, disoccupata, mamma di due bambini “Mi sono iscritta al concorso, mi sono preparata sui test e ho studiato nella speranza di avere una chance per diventare sorvegliante museale – spiega –. Escono le date, il 13 mattina, ore 8.30 Fiera di Roma. Io vivo in una città del nord Italia, sono originaria di una regione ancora più a nord quindi zero parenti in zona Roma e dintorni”. Ha due figli di 3 anni e 11 mesi, allatta ancora il più piccolo. “L’unica soluzione sarebbe smuovere dalle 4 alle 5 persone (io, figli e uno o due nonni), soggiorno con notte, nella Capitale. In più mettiamoci benzina e autostrada. Il giochetto mi costa dai 4 ai 500 euro che al momento non ho. Ora punto all’estero”. Per chi invece ha deciso di evitare gli autobus, i prezzi variano. “Per il momento sono a ‘solo’ a 148 euro di treno e 50 di B&B” dice Ludovica S. “Io 120 aereo andata e ritorno 35 di B&b” racconta Andrea F.

“In questi primi due giorni di selezione, molti più della metà degli iscritti non si sono presentati – spiega Daniela Pietrangelo dell’associazione Mi Riconosci, che da anni si occupa di tematiche legate al lavoro culturale – è giusto che le persone non possano entrare a lavorare al ministero non perché non passano una prova, ma perché la macchina organizzativa discrimina chi vive lontano da Roma, o non può prendere ferie, o non può permettersi viaggio e alloggio? Sappiamo bene quanto ciò sia diffuso nei concorsi pubblici, ma oggi, nel 2020, con le tecnologie a disposizione, come può essere accettabile?”. Gli autobus riempiono così questo gap: ce ne sono decine per ognuno dei concorsi organizzati a Roma, coprono una platea di migliaia di partecipanti, nel 2018 c’è stato chi ha viaggiato per due giorni dalla Puglia a Torino per il concorso per i cinque posti da infermiere a cui si presentarono in 5 mila. C’è anche un’azienda che è stata fondata da due aspiranti infermieri che stanchi di fare concorsi per l’Italia hanno capito di poter guadagnare su chi ancora non lo era. E oggi, sul loro sito, è possibile prenotare i posti per il concorso da commissario di polizia il 5 febbraio: 29 euro andata e ritorno. Di necessità, virtù.

Gli 007 della qualità: sfruttati come rider e pagati pure meno

Un nuovo fantasma si aggira nei corridoi della gig economy, quell’economia dei lavoretti che stanno diventando troppo spesso l’unica fonte di reddito per molti. È quello dei mistery shopper (o mistery client): acquirenti e clienti misteriosi al servizio, ma in modo indiretto, di aziende più o meno grandi. Se diventi uno di loro, e ottieni cioè i gradi del service checker, del “rilevatore”, vieni spedito, armato di smartphone, in un negozio d’abbigliamento o d’elettronica, in un ristorante o salone di auto; e una volta lì, rigorosamente in incognito, camuffato da normalissimo cliente medio e mostrando naturalezza, fai il tuo check. Che consiste in un feedback, in un giudizio di qualità oscillante in genere tra quattro livelli di gradimento.

Il mistery shopping è una pratica di marketing molto diffusa tra le imprese a cui preme conoscere la reale efficienza nell’erogazione dei servizi dalla galassia dei loro affiliati, e avere il polso della soddisfazione quotidiana dei clienti, del rispetto degli standard prefissati. Solo che l’incarico è estemporaneo e tendenzialmente sottopagato: se va bene ti liquidano un tot di euro a prestazione, con bonifico bancario o tramite Paypal, e con ritenuta d’acconto. Ma se qualcosa va storto – se viene riconosciuto o il report non convince fino in fondo – il check viene cancellato e non si guadagna niente. E non si lavora mai, formalmente, per conto delle aziende-madri: l’incarico di “auto-controllarsi” viene infatti appaltato e subappaltato a società e cooperative esterne, un superclassico degli ultimi anni. I mistery shopper, insomma, non sono dipendenti: “Sono ingaggiati come lavoratori autonomi individualmente per ogni service check. Di conseguenza, ogni service checker è responsabile per la sottoscrizione di una propria assicurazione e per ogni dichiarazione necessaria ai fini del pagamento delle imposte, in accordo con le leggi locali”, dichiara International Service Check, una delle piattaforme del ramo più conosciute. Si fanno tutte concorrenza sul web. In maggioranza sono realtà transnazionali, ma ve ne sono anche di attive in un solo Paese. Gli altri nomi più gettonati sono quelli di Helion, Bare International, Mistery Client, Ipsos, Mistery Customers, Gap Buster, Market Force. E non mancano le app native, come BeMyEye.

Chi vi scrive è riuscito a infiltrarsi (mistero per mistero…) in alcuni di questi siti internet di recruiting. Registrarsi è assai complicato. Siamo a livelli altissimi di profilazione. Vogliono sapere davvero tutto di te. I tuoi guadagni circostanziati, se viaggi spesso, quanto pesi, se porti occhiali, fai sport e addirittura se frequenti casinò. Per ottenere maggiori “opportunità” occorre riempire le mille domande e test di certificazione che ti propinano. Ci si logga e cominciano ad arrivare le prime proposte. Eccone una. “L’incarico perfetto per gli amanti del cioccolato! Visita un negozio, testa il servizio chiedendo consigli per scegliere alcuni prodotti e acquistane una selezione per la quale otterrai un rimborso. Quale migliore occasione per tuffarsi nel caldo e cremoso mondo del cioccolato?”. Basta recarsi nel punto vendita di una celebre multinazionale dolciaria svizzera, appurare che tutto sia in ordine, i commessi gentili, e in cambio ti verranno “accreditati 3 euro per il service check”. Tre euro per un incarico che potrebbe durare pure un intero pomeriggio, se si comprendono il tempo necessario per arrivare, tornare a casa e redigere il rapporto. E in più si è obbligati a comprare 17 euro di cioccolata che verranno poi, si spera, rimborsati. E le spese per la benzina? Quelle non sono previste, si fa rifornimento di tasca propria e poco importa se magari si abita a 40 o 50 chilometri di distanza. International Service Check ci lascia con un’ulteriore speranza: “Abbiamo un nuovo entusiasmante progetto in arrivo nei prossimi mesi. Ti piacerebbe testare un prodotto innovativo lanciato da un marchio leader mondiale del tabacco?”.

Francesca S., una ragazza lombarda, conferma la nostra esperienza personale: “Ero pagata decisamente poco. Per ogni report dai 5 agli 8 euro, e la benzina sempre fai-da-me. Dove avvenivano le mie ispezioni sotto copertura? Prevalentemente all’interno di supermercati discount”. Dario I. è un venticinquenne di Parma ed è stato un mistery shopper per cinque anni: “Guadagnavo 5-7 euro a check, e ogni tanto anche cifre più dignitose, che però scaturivano da prestazioni più complesse, che mi assorbivano per diversi giorni. Come richiedere, ad esempio, preventivi ai concessionari. E non esisteva nessun tipo di rimborso per gli spostamenti”. Mark B. ha vestito il mantello del cliente invisibile fino a qualche tempo fa: “La mia prima esperienza risale al lontano 2009, e ho continuato per qualche annetto. I soldi grossi li fanno le aziende incaricate di fare i controlli, soltanto una minima fetta finisce a chi svolge il lavoro sporco. Va detto tuttavia che i compensi vengono comunicati subito: basta scegliere se accettarli o meno”. Un tempo, prima del wi-fi e degli smartphone di massa, le cose andavano meglio. Ci dice Stefano S. che lui lavorava, e senza intermediari, alla luce del sole, per grandi brand in auge tuttora. E sapete quanto portava a casa? “Circa 30.000 lire nette a visita, e una volta ricevetti 4 milioni, sempre in lire, di anticipo”. Ma c’è molto più mistero nel diventare agenti segreti della nostra epoca, seppur sottopagati, volete mettere.