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Le responsabilità del Mit su autostrade e ponti

Ho letto gli articoli sulla situazione autostradale italiana comparsi sul Fatto di mercoledì. Il contenuto suona come concreta denuncia di una situazione che ha radici lontane. Viene citato il nome dell’ingegnere Paolo Migliorino, nominato dal Mit per verificare lo stato di manutenzione di vari tratti autostradali. La decisione del Mit è logica quanto dovuta. Appare quindi legittimo supporre che se il Mit negli anni passati avesse incaricato i suoi esperti probabilmente il disastro di Genova non sarebbe avvenuto. La responsabilità del Mit appare aggravata dal fatto che la Spea, società cui era demandato il compito di controllare lo stato di manutenzione di tratti autostradali fra cui la A26, è del gruppo Atlantia. Siamo di fronte a un evidente conflitto di interessi. In conclusione, appare evidente come i ministri del Mit precedenti a Toninelli debbano essere chiamati a rispondere della eventuale lacunosa osservanza di quegli obblighi ministeriali di vitale importanza per la sicurezza dei cittadini. Il disastro del ponte Morandi chiede una risposta. Sino a oggi, tuttavia, la stampa non appare avere dato particolare risalto alle responsabilità del committente ovvero al Mit e in particolare ai suoi ministri.

Marcello Scalzo

 

La prescrizione fa il gioco degli avvocati. E costa allo Stato

Avendo come “medico della mutua” un ottimo professionista che riceve dalle ore antelucane (7.30 e anche prima), ho fatto una corsa in edicola per comprare il Fatto Quotidiano. Arrivato prima che il medico aprisse lo studio un paziente mi ha chiesto, vedendomi con il giornale: “Che cosa ha scritto oggi Travaglio?”. Ho risposto che non lo avevo ancora letto e ho colto l’occasione per spiegare le ragioni della scelta di un quotidiano che fin dalla testata – “Non riceve alcun finanziamento pubblico” – dice chiaramente quale è la sua linea editoriale. Non appena tornato a casa ho letto il “fondo” e concordo pienamente sul fatto che pochi accennano alla prescrizione che danneggia più che altro le vittime di abusi e raggiri e ancor meno vengono citati i dati che dovrebbero vedere in galera i “prescritti”, che in Italia sono numerosa schiera. Perché non si dice che i colpevoli dei peggiori scandali politici e finanziari sono tutti liberi a godersi i frutti delle malefatte? Perché in Italia l’esercito degli avvocati si distingue non per la bravura nei processi ma sulle lungaggini per arrivare alla agognata prescrizione? Quanto costa imbastire processi che non avranno un termine?

Franco Novembrini

 

I bei tempi della schedina e di “Tutto il calcio” in radio

Sessant’anni fa andava in onda la trasmissione radiofonica più popolare di sempre Tutto il calcio minuto per minuto. Ideata dal giornalista Rai Guglielmo Moretti, chi non ricorda le mitiche voci di Nicolò Carosio, Enrico Ameri e Sandro Ciotti? Mentre la schedina poteva cambiare la vita… Poi le tv private iniziarono a cucinare lo “spezzatino” e Tutto il calcio e la schedina finirono nel mondo dei ricordi. Erano bei tempi: quei sogni via etere non hanno prezzo, e quindi un grande grazie a chi ce li ha fatti vivere.

Enzo Bernasconi

 

Elena Ferrante: una teologa più che una femminista

Molti parlano di Elena Ferrante come di una scrittrice femminista, riduttivamente, mentre a me sembra di intravedere una profonda ricerca teologica, la ricerca della parola di Dio, dalle traduzioni dal latino nell’Amica geniale alla esplicita ricerca di Dio nella Vita bugiarda degli adulti, in cui la protagonista deve cercare la verità fra un padre ipercolto e una zia analfabeta.

Stefano

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Davide Milosa, in merito all’articolo a sua firma pubblicato ieri sul Fatto Quotidiano dal titolo “Russiagate, i pm hanno gli audio delle telefonate”, ci preme ribadire ancora una volta che Eni non ha preso parte in alcun modo e non è a conoscenza di operazioni volte al finanziamento di partiti politici. Peraltro, l’operazione di fornitura descritta non è mai avvenuta. Inoltre, Eni si è dichiarata parte offesa presso la Procura di Milano nell’indagine ivi pendente cosiddetta “Moscopoli” nei confronti di tutti coloro che l’hanno anche soltanto nominata (così come risulterà dagli accertamenti della magistratura) nel contesto di operazioni illecite come controparte, o disponibile alla partecipazione alla commissione di un reato, in particolare di finanziamento illecito dei partiti. Eni tiene altresì a precisare che la lettera di referenze citata nell’articolo, assolutamente anomala nel suo utilizzo rispetto alle procedure interne a Eni, è firmata dal Sig. Des Dorides, licenziato dalla società per violazione delle procedure interne e dell’obbligo di riservatezza in relazione a un’operazione di acquisto di polietilene, ed era già stata utilizzata nel 2017 con soggetti terzi che nulla avevano a che fare con le vicende in questione.

Erika Mandraffino, Ufficio stampa Eni

 

Ringrazio per la precisazione che non eccepisce nulla del contenuto dell’articolo, nel quale, peraltro, si ribadisce che l’azienda non è coinvolta penalmente. Prendo atto che Eni si dichiari parte offesa nella vicenda giudiziaria cosiddetta “Moscopoli”.

D. M.

Migranti. Le percezioni e la propaganda: non c’è emergenza, servono politiche sociali

 

Caro direttore Travaglio, nel vostro articolo del 29 dicembre sulle Regionali in Emilia-Romagna, affermate che gli studenti liceali modenesi hanno dato come percezione di extracomunitari in Italia percentuali sbagliate del 20 o del 30 per cento contro un dato reale dell’8,7 per cento. Intanto, se al dato reale aggiungete i 600.000 clandestini sbarcati negli ultimi 4 anni o passati da Trieste, che vagano per l’Italia, il dato sfiorerebbe il 10 per cento, che è una cifra notevole per un piccolo Paese come l’Italia. Ma gli studenti forse sono stati tratti in errore dal fatto che a Modena il dato percentuale di stranieri sfiora il 13 per cento, quasi il doppio rispetto all’8,7 per cento nazionale. Quindi, vedendosi circondati da una robusta platea di extracomunitari, i ragazzi hanno avuto una percezione ben più elevata, anche in base ai numeri reali differenti. Ma poiché è la percezione quella che poi influenza maggiormente il cittadino elettore, o fornite dati più corretti o rischiate di influenzarla anche voi del Fatto, che in genere siete affidabili.

Enrico Costantini

 

Caro Costantini, anche i meridionali al Nord e gli italiani in America e altrove erano largamente percepiti come sospetti, pericolosi o sgradevoli. Delle percezioni occorre tenere conto, ma anche sottolineare quando sono sbagliate. L’8,7 per cento – e anche il 13 – è lontanissimo dal 21-30 per cento percepito dai liceali modenesi e non solo. Pesa molto la propaganda sulla presunta invasione. La stragrande maggioranza dei quasi 6 milioni di immigrati lavora, studia, paga le tasse e i contributi e contrasta il calo demografico e la preoccupante emigrazione italiana, in larga parte qualificata. Non parlerei di “600 mila clandestini sbarcati negli ultimi 4 anni o passati da Trieste”: dal mare sono arrivate circa 340 mila persone dal 2016 e almeno fino al rigetto della domanda sono quasi tutti richiedenti asilo, identificati e non irregolari; su Trieste e il corridoio balcanico abbiamo stime di poche migliaia l’anno. Non tutti restano qui. Molti dei circa 500 mila irregolari (erano di più nel 2002 o nel 2008) sono in Italia da tempo, avevano un titolo di soggiorno e l’hanno perso. Saranno sempre di più anche grazie al decreto cosiddetto Sicurezza 1, che ha abolito la protezione umanitaria e ai risparmi sull’accoglienza. Sono i più esposti al lavoro nero e alla criminalità, problemi gravi ma nell’ordine di meno dell’1 per cento della popolazione. Integrarli costa meno che espellerli, come peraltro non sempre è possibile. Servono politiche sociali efficaci, per gli stranieri e per gli italiani. E non “nemici” immaginari.

Alessandro Mantovani

The New Pope, un’allucinazione che è meglio della realtà

Morto un Papa, non se ne fa un altro. Se ne fanno altri due, e il totale arriva a tre se il Papa non è ancora morto, è soltanto in coma. Questo è The New Pope di Paolo Sorrentino; carnale ma esoterico, fragile e potente al tempo stesso. Un regista che è riuscito a prendere un Oscar senza dire nulla per due ore, ma dicendolo benissimo, non poteva non dare il meglio di sé nei tempi rallentati e labirintici di una serie tv. Se la trama spizzica qua e là dalla storia recente (la duplicazione dei pontefici, la morte lampo di Giovanni Paolo I, la ventata moralizzatrice di Bergoglio, le contromosse della curia), se i dialoghi indulgono al sentenzioso (ma anche questo è Sorrentino), la vera forza di questo prodotto da esportazione, girato come girava Bertolucci quarant’anni fa, sta nella scelta e nella direzione del cast. Dopo il papa discobolo in boxer Jude Law, così poco etereo perfino sul letto di morte, c’è il papa dandy John Malkovich, un Jep Gambardella votato all’estremo sacrificio di rinunciare alle sue giacche aragosta per calzare la tiara; mentre il cardinal Voiello di Silvio Orlando piange quando vede i film di Hollywood ma non smette di tessere le sue trame: lui sa che i Papi passano, ma il Segretario di Stato resta. L’ultimo paradosso di The New Pope è di essere una serie d’autore più di The Young Pope, Sorrentino in purezza: accostamento degli opposti, realtà capovolte, cinema come allucinazione, come incubo da cui è meglio non svegliarsi perché sarebbe peggio.

Sharon & C. soli in un mondo di solitudini

Ha fatto scalpore nei giorni scorsi la notizia che Sharon Stone, 60 anni, si sia rivolta alla piattaforma Bumble, un sito d’incontri, per trovare un compagno. La cosa è parsa talmente incredibile che la Bumble ha chiuso il profilo dell’attrice ritenendo la sua richiesta un falso. Invece era vera. Sulla scia di questa notizia è saltato fuori che altri vip, come Ben Affleck, Lily Allen, Cara Delevingne, Amy Schumer, Katy Perry, Zac Efron, si sono rivolti a questi siti d’incontri che sono una sorta di declinazione moderna dei vecchi “annunci matrimoniali”.

Mark Gaisford, importante manager inglese di 50 anni, ha confessato di non avere un solo amico. E questi sono tutti soggetti giovani e nel pieno dell’età, famosi, che non dovrebbero avere difficoltà a incontrare chi vogliono. Il fatto è che quello occidentale è un mondo di solitudini. E se la solitudine colpisce giovani e famosi, si può facilmente immaginare quale sia la situazione dei vecchi. Non è così in mondi molto più disastrati del nostro. In Africa il vecchio vive circondato da figli e nipoti (in Europa solo il 5,3 % si trova in questa situazione), resta il capo della famiglia, conserva un ruolo e la sua vita un senso. Da noi accade esattamente l’opposto. Terribile, veramente terribile, è la situazione del vecchio nelle società sviluppate. Il micidiale istituto della pensione, una crudeltà che solo la modernità poteva inventarsi, una volta raggiuntala ti taglia fuori. Da un giorno all’altro perdi il posto, per quanto modesto, che avevi avuto nella vita sociale. E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo (qualcuno ricorderà, forse, il film Fantozzi va in pensione). Scriveva lo storico Carlo Maria Cipolla nel 1980 in Storia economica dell’Europa preindustriale: “Una società industriale è caratterizzata dal continuo e rapido progresso tecnologico. In tale società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono alla regola. L’agricoltore poteva vivere beneficiando di poche nozioni apprese nell’adolescenza. L’uomo industriale (per non parlare di quello che vive nell’attuale mondo digitale, ndr) è sottoposto ad un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella società agricola è il saggio: nella società industriale è un relitto”.

L’autocensura Rai al Festival della canzonetta

 

“E allora penso che no, gli italiani non sono razzisti. Sono solo spaventati da un mondo che cambia, che diventa sempre più plurale in un momento di crisi economica e valoriale, e di crollo della fiducia e delle certezze”

(da “Quello che abbiamo in testa” di Sumaya Abdel Qader – Mondadori, 2019 – pag. 177)

 

Il dietrofront della Rai sulla partecipazione della giornalista di origine araba naturalizzata italiana Rula Jebreal al prossimo Festival di Sanremo, prima richiesta, poi annullata e infine ridotta a una sola serata, è la classica punta dell’iceberg che rivela la patologia cronica di un servizio pubblico subalterno alla politica, suddito della partitocrazia. E tuttora sottomesso ai “desiderata”, reali o presunti, di un centrodestra sovranista che sfida una maggioranza parlamentare legittima e democratica.

Con ogni probabilità, s’è trattato di un maldestro tentativo di censura preventiva, parzialmente revocato in extremis, in modo da salvare l’anima e la faccia. Ma l’incidente sarebbe ancora più grave se non fosse stato provocato da un diktat di Matteo Salvini, come ha sostenuto invece Davide Faraone, capogruppo di Italia Viva al Senato. Allora si tratterebbe di un’autocensura della Rai, cioè di un caso in cui la tv pubblica decide di mutilarsi e danneggiarsi da sola, contravvenendo ai doveri istituzionali imposti dal pluralismo delle opinioni, per compiere una discriminazione di Stato in nome di una malintesa opportunità. E per di più, con l’effetto di occultare agli occhi dei telespettatori una presenza rappresentativa di una società multietnica e multirazziale, all’opposto di quello che dovrebbe fare un servizio pubblico radiotelevisivo.

La verità è che Rula Jeabreal aveva osato commentare così l’attentato compiuto a Macerata il 3 febbraio 2018 da Luca Traini, già candidato della Lega Nord nelle Comunali di Corridonia, contro un gruppo di immigrati: “Questo atto terroristico è l’applicazione pratica della propaganda fascista della destra italiana che incita all’odio contro gli stranieri e istiga alla violenza contro tutti gli altri”. Tanto da suscitare la sdegnata reazione della “pasionaria nera” Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, la stessa che fantasticava fino a qualche tempo fa sui blocchi navali e sull’affondamento delle navi delle Ong. Chissà che cosa sarebbero capaci di combinare in futuro a Viale Mazzini, lei e il Capitano leghista, se un giorno dovessero vincere le elezioni e andare al governo.

Ha ragione da vendere allora il renziano Michele Anzaldi quando rivolge pubblicamente un appello ai suoi colleghi della maggioranza, “dem” e Cinque Stelle: “Diano subito soluzione al problema Rai, altrimenti ci risparmino tweet e dichiarazioni ipocrite”. Perché il M5S e il Pd non portano la questione in Consiglio dei ministri e nella Commissione parlamentare di Vigilanza? E perché il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, non ritira immediatamente il suo rappresentante nel Cda dell’azienda di Stato, allo scopo di provocare un avvicendamento al vertice?

Per rendersi conto della condizione in cui vivono gli italiani figli della diaspora araba, si può leggere intanto il libro citato all’inizio, scritto da Sumaya Abdel Qader, nata a Perugia da genitori giordano-palestinesi, la prima musulmana consigliera comunale a Milano. Il servizio pubblico di un Paese civile farebbe bene a raccontare giorno per giorno questa complessa realtà, umana e sociale, per favorire un’integrazione reciproca all’interno della nostra comunità piuttosto che fomentare l’intolleranza, l’odio e la violenza. O peggio ancora, dare voce alla propaganda xenofoba e razzista.

Taglio parlamentari: Salvini contro Salvini

Tra le tante fandonie, pardon: narrazioni, propinate dalla compagnia di giro dei politici al grande pubblico negli ultimi anni, la nostra preferita è quella che vuole Salvini con l’orecchio a terra, attento a ogni sussulto del mitologico territorio, vicino al popolo snobbato dalla sinistra e distante anni luce dalla Casta, compresa quella dei politici tra i quali dal 1993 non si pregia di annoverarsi.

Ci riserviamo di condurre indagini approfondite a riguardo, ma converrebbe a Salvini cominciare a raccontare in giro che anche gli istituti demoscopici appartengono alla Casta, o sono ad essa collusi o manovrati da Davos o dalla Merkel o dagli Illuminati o da chissà quale altro soggetto del teatrino dei complotti messo su dai sovranisti nei loro simposi, perché altrimenti non uscirà vivo dalla dissonanza cognitiva prodotta in lui dalla coincidenza delle sue attuali manovre e del sondaggio di Demos per Repubblica di Capodanno, secondo cui il 90% degli italiani è favorevole al taglio dei parlamentari.

Ci aveva visto giusto, direte: Salvini quel taglio l’ha sempre voluto (c’è un disegno di legge costituzionale a firma dalla Lega Nord risalente al 2013 per dimezzare il numero dei parlamentari), e la legge l’ha chiesta, firmata, rivendicata, e l’estate scorsa, dopo l’approvazione, festeggiata con tanti tweet quanti quelli dedicati alla pappa e al ruttino.

E chi è che adesso vuole il referendum per sospendere l’entrata in vigore della legge voluta da Salvini? Salvini. O meglio: 71 senatori misti (più dei 64 utili per il quorum), di cui 3 leghisti in purezza sopraggiunti ieri alle 15 in punto insieme a 6 di Forza Italia ma “vicini alla Lega”, raccattati alla bell’e meglio dopo la defezione di 4 forzisti pare carfagnani.

Capiamo bene il personaggio per apprezzarne l’anticlimax epico: “La proposta è chiara: votiamo il taglio di 345 parlamentari già la prossima settimana, e poi andiamo subito alle elezioni, restituendo la parola agli Italiani (13 agosto); “Sto ricevendo centinaia di messaggi di incoraggiamento sulla linea decisa oggi, sul taglio dei parlamentari” (13 agosto); “A differenza del PD, la Lega ha già votato e voterà ancora per il taglio dei parlamentari. Bene il risparmio di mezzo miliardo di euro per gli Italiani” (16 agosto); “Voglio vedere cosa accadrà con il taglio dei parlamentari. Noi abbiamo sempre votato a favore, il Pd no. I 5Stelle entrati in Parlamento contro la Casta, sono diventati la Casta” (4 settembre). Il messaggio era chiaro: la Lega sta col popolo contro i politici parassiti e mangiapane a tradimento. Ma già a ottobre: “Voteremo sì solo se non sarà oggetto di scambio tra Pd e M5S per fregare gli italiani. Orfini ha detto sì al taglio ma in cambio dello Ius Soli”, e l’introduzione di questa variabile francamente risibile fa comprendere come nel frattempo non solo l’ordine, ma anche il risultato dei fattori fosse irrimediabilmente cambiato.

Cos’era successo? Come tutti sanno, l’8 agosto Salvini ha affondato sé stesso e il governo in cui bulleggiava tracotante, e il 20 è andato in scena l’auto-25 luglio del leghismo, un’autodafé che ha travolto il pertinace oltre le sue stesse aspettative. Da allora, non possedendo nessuna visione politica e avendo esaurito tutte le sue carte, Salvini ha rivolto ogni pensiero, parola, opera e omissione verso le elezioni anticipate come l’ago è rivolto sempre verso il nord. Conta solo il fine, il mezzo è indifferente e casuale, che sia il rimangiarsi la parola o il fare accordi di sabotaggio col finto nemico Renzi.

Ed eccoci a ieri, con la legge sulla riduzione dei parlamentari – punto forte, o almeno di sutura, del governo Pd-M5S (anche se tra i firmatari ci sono 3 grillini, 2 ex grillini passati alla Lega e 7 senatori del Pd, con menzione speciale per la firma numero 64, di certo Francesco Giacobbe, eletto col Pd in Australia) – stramazzata a terra e il referendum blocca-taglio rianimato dalla respirazione bocca a bocca dei 9 filo-salviniani (ma i numeri ballano: per soprammercato comico, alcuni pidini stanno ritirando la firma). Nota di colore: mentre Salvini aveva già deciso e stava già smistando i seggi (che lui chiama poltrone) dei futuri 945 per i suoi e per chi eventualmente volesse gradire, i radicali (del Partito Radicale), dopo aver raccolto 669 firme delle 500mila necessarie, manifestavano davanti alla Cassazione appellandosi a Salvini “perché sia il popolo a decidere”. Del resto erano già due giorni che la povera anima in pena si aggirava per Roma farfugliando: “Io ritengo che quando i cittadini si possono esprimere è sempre meglio, io farei referendum su tutto, come in Svizzera ogni mese”. Il popolo, quell’entità usa e getta il cui consenso è sufficiente a far cadere un governo, ma che secondo Ilvo Diamanti, sicuramente pagato da Soros (tranne quando dà la Lega al 32%), per il 90% vuole eleggere 600 parlamentari invece di 945.

Lucia ha problemi di orientamento

La lingua batte dove il dente duole. Lucia Borgonzoni ha un punto di forza: Matteo Salvini. E un punto di debolezza: la scarsa o inesistente esperienza amministrativa. È un problema serio. I sostenitori del suo avversario, Stefano Bonaccini, dicono che il presidente in carica “conosce a menadito ogni angolo della Regione”. Di lei si può dire lo stesso? Nel dubbio, ieri Borgonzoni ha annunciato un comizio a Bologna e per non farsi mancare niente ha accompagnato la notizia con una sua fotografia scattata in centro a Ferrara. In tempi di feroce campagna elettorale, anche la più innocente gaffe di un social media manager può scatenare terrificanti prese per i fondelli. Così è andata. Bonaccini ha subito informato la sua avversaria della svista. Ovviamente su Facebook: “No Lucia, quella non è Bologna, è Ferrara…”. Ecco, forse è meglio se questa campagna elettorale continua a farla Salvini.

Povero Fassino: gabbato da Vespa difensore di Craxi

Mai pensato di dover scrivere a sostegno di Piero Fassino. Però di fronte al Tribunale speciale che gli è stato organizzato contro, giovedì sera, a Porta a Porta, nella puntata su Bettino Craxi, ci è sorto dentro un moto spontaneo di simpatia umana per il segretario Ds dell’“abbiamo una banca”. Bruno Vespa, che di Craxi è un difensore di ufficio, ha infatti chiamato a discutere due fronti contrapposti. Da un lato, un plotone di esecuzione formato da Stefania Craxi, che quando parla del padre uccide con lo sguardo, Claudio Martelli, che a suo padre, invece, voltò le spalle e Fabrizio Cicchitto, di cui abbiamo scritto già tutto. La tesi della “banda dei tre” era la stessa di sempre: Craxi non ha colpe, il finanziamento illecito faceva parte del “sistema”, piuttosto indagate sull’ex Pci e sul complotto ordito dal Pool Mani Pulite. Dall’altra parte, l’attore Pierfrancesco Favino, l’ex ministro democristiano Vincenzo Scotti, buono per ogni occasione e, appunto, Piero Fassino a cui è toccato il compito di difendere le inchieste Tangentopoli. Lo ha fatto, ma con la convinzione di un condannato al patibolo. Invitato da Vespa, non aveva capito che sarebbe stato il capro espiatorio di una puntata tesa a riabilitare Craxi mettendo al centro la protervia e l’arroganza di chi venticinque anni fa faceva parte dei “mariuoli” e che oggi ancora li difende.

Un po’ Achille Lauro un po’ Mago Oronzo

Fermi tutti: si è reincarnato Achille Lauro. Non parliamo del giovane cantante, il quale gode di ottima salute, ma del vecchio sindaco di Napoli, che invece ci ha lasciati nel 1982. Lauro era il campione delle più straordinarie, improbabili, celestiali promesse clientelari (“la clientela come Cristo comanda”, direbbe Vincenzo De Luca). Nelle sue leggendarie campagne elettorali, Lauro regalava ai sostenitori una scarpa sinistra, assicurando che la scarpa destra sarebbe stata consegnata dopo le urne, a risultato ottenuto. Ecco, ieri Matteo Salvini ci ha regalato questa emozione: ci è sembrato – con le dovute proporzioni – di rivedere un comizio di Achille Lauro. Di fronte al pubblico di Crotone, “il Capitano” ha pronunciato una promessa di meravigliosa solennità: “In Calabria dopo il 26 gennaio (data delle elezioni regionali, ndr) porteremo lavoro, sanità e strade”. Mica cavoli. “Non vedo l’ora che arrivi quel giorno – insiste il Nostro – . Il governatore si chiamerà Jole Santelli e visto l’affetto che sento, il primo partito sarà la Lega e poi lavoro, lavoro, lavoro”. Non solo Achille Lauro, Salvini somiglia pure al Mago Oronzo: con la sola imposizione delle mani trasformerà la Calabria nella Scandinavia. Con una scarpa destra e una scarpa sinistra.

Umbria, è già lotta fratricida tra Lega e meloniani

Nei corridoi di palazzo Donini, sede della giunta regionale umbra, da giorni rimbomba una frase che sta facendo tremare le gambe alla nuova governatrice leghista, Donatella Tesei: “La battaglia è solo all’inizio”. E considerando che l’avvertimento, per non dire la minaccia, politica s’intende, è stato pronunciato a inizio anno da un esponente di peso di Fratelli d’Italia, un membro di maggioranza, i primi mesi della nuova giunta a trazione Lega si annunciano più complicati del previsto.

Nel mirino del partito di Giorgia Meloni è finito l’assessore alla Sanità Luca Coletto, già sottosegretario del governo gialloverde imposto in giunta da Matteo Salvini. Tema: i tagli sui fondi alle famiglie con disabili che non sarebbero stati ripristinati dal neo assessore alla Sanità: “Sono ormai mesi che continuo a ricevere segnalazioni da parte di famiglie in difficoltà che lamentano la sospensione, senza preavviso, dell’erogazione dei fondi per assistere i familiari disabili – ha detto il presidente del consiglio regionale di Fratelli d’Italia, Marco Squarta – l’assessore alla Sanità si attivi”. Ma fonti della maggioranza fanno sapere che dietro l’uscita improvvisa di Squarta ci sia il primo atto di una guerra politica nata dopo che il partito di Giorgia Meloni è stato escluso dalla giunta.

In questo contesto va inquadrata un’altra dichiarazione al vetriolo pronunciata dal coordinatore regionale di FdI, il senatore Franco Zaffini: “Il nostro partito non può restare senza un assessore in giunta” ha detto, forte del 10,4%. Giovedì Coletto ha replicato a Squarta, facendo sapere che i fondi relativi al 2019 per gli autosufficienti saranno “presto sbloccati” ma la tensione interna alla maggioranza rimane. Proprio l’assessore veneto era stato il primo motivo di polemiche della nuova giunta Tesei: a inizio dicembre era scoppiato il caso di una sua vecchia condanna, quando era assessore provinciale a Verona nel 2001, per un volantino usato per sgomberare i campi rom che gli era costata una pena di due mesi di reclusione per il reato di “propaganda di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale”. La sua replica, in consiglio regionale, non era piaciuta agli alleati: “È un classico reato di opinione, niente di gravissimo” aveva detto lui. La governatrice Tesei invece si era irritata non poco perché non ne sapeva niente e, sulla questione, non ha mai risposto alle domande di cronisti e opposizioni. Queste sono solo le ultime difficoltà di una coalizione che, già dai primi momenti successivi alla vittoria elettorale del 27 ottobre, ha mostrato le prime crepe. In primo luogo le spaccature tra Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia si sono concretizzate con la formazione della nuova giunta: dopo l’insediamento, nelle prime due settimane si è parlato solo di numeri e di schemi, 3-1-1 o 2-1-1-1 come gli assessori per ogni lista. Alla fine c’è voluto più di un mese per formare la nuova giunta ed è dovuto scendere in campo Salvini in persona per sbrogliare la matassa: la Lega si è presa due assessori e uno a testa sono andati alle altre liste (tranne FdI) con il leader del Carroccio che ha imposto un nome esterno, il veneto Luca Coletto, per dare una “svolta” alla Sanità umbra. Ma la prima patata bollente della giunta Tesei doveva essere il bilancio da approvare entro il 31 dicembre. E invece no, perché, nonostante il poco tempo a disposizione, la governatrice ha rinunciato ad aprire il confronto tra gli alleati approvando, lo scorso 4 dicembre, il bilancio provvisorio. Tutto rinviato a fine febbraio.