“Il cugino mafioso? Non parlo di morti, ma della Calabria”

Per il candidato del Movimento Cinque Stelle a governatore della Calabria, l’articolo del Fatto Quotidiano è “una bomba ad orologeria”. Ieri abbiamo pubblicato la notizia che il docente universitario Francesco Aiello era cugino di primo grado di Luigi Aiello, presunto boss di ’ndrangheta ucciso cinque anni fa a Soveria Mannelli, nella faida del Reventino. Il candidato Aiello è nervoso. Vorrebbefissare lui le regole del gioco, minacciando: “Altrimenti me ne vado”.

Oggi abbiamo pubblicato la notizia che suo cugino era un soggetto legato alle cosche. Le crea imbarazzo?

Imbarazzo per una persona morta? Non potevo e non posso parlare di una persona morta. Mi sarei posto il problema se fosse stato vivo, se avessi avuto legami con questa persona. Se fosse stato vivo avrei riferito di questa parentela sebbene io, nella mia vita, non ho mai avuto rapporti di interlocuzione con queste filiere sociali. Un morto non può essere un problema per nessuno. Né per me, né per lei. Stiamo riesumando un cadavere mentre la Calabria sta morendo.

Ma il M5S ha sempre fatto della trasparenza il cavallo di battaglia. Perché non ha informato i vertici?

Che cosa avrei dovuto dire? Non potevo e non posso parlare di una persona morta. Mi sarei posto il problema se fosse stato vivo.

Lei ha paragonato la sua storia a quella di Peppino Impastato…

Il paragone mi aspettavo che lo facesse lei.

Ci sono alcune fotografie di suo cugino intento a fare dei lavori nella sua abitazione.

È fuori domanda, fuori traccia. Lei mi deve fare una domanda su Morra e io le rispondo.

Professore, mi dice se suo cugino ha fatto dei lavori nella sua abitazione?

In quegli anni vivevo a Londra, leggevo Erich Fromm, “Avere o essere”, “Teorie pratiche della non violenza” di Gandhi e “Gli indifferenti” di Moravia. Facevo queste cose, oltre a studiare economia.

Appresa la notizia, il senatore Morra ha detto che non sosterrà la sua candidatura e non si impegnerà per il M5S alle Regionali. Cosa ne pensa?

È un problema che non esiste e di cui non mi interessa. Il senatore Morra aveva già scelto prima di non impegnarsi in queste elezioni. Io sono per unire e non per dividere. Poi ciascuno ha un carattere e una visione politica. Il tempo è sempre galantuomo.

Però Morra si lamenta che il candidato Aiello non ha detto prima della sua parentela.

Ripeto, che cosa avrei dovuto dire all’onorevole Morra se io non posso parlare di una persona morta. Lei aveva detto al nostro portavoce che mi avrebbe fatto tre domande.

Lei esclude che tra i suoi candidati a consiglieri ci siano persone imparentate con mafiosi?

Nel centrodestra e nel centrosinistra ci sono esponenti condannati o imputati per ’ndrangheta. Sono vivi e non sono morti. Al momento non vedo attenzione da parte degli organi di stampa. Nessuna forza politica ha fatto le denunce che ha fatto il Movimento Cinque Stelle.

Lei esclude che tra i suoi candidati ci siano persone imparentate con mafiosi?

Lei sta deviando. Quando faccio gli esami… lei è fuori traccia”.

Ma io non sono un suo studente.

Lei è off-topic. Lei mi sta interrogando?

Il giornalista fa le domande e l’intervistato, se vuole, risponde

In condizioni normali. Vedo delle anormalità. Mi piacerebbe che lei parlasse di fatti, di chi ha agito bene e chi male. Capisco che è più redditizio discutere di polemiche e alimentarle. È il gioco delle parti. Ritengo utile affrontare il problema della legalità in maniera oggettiva e profonda. Vorrei dire che ci sono due aziende sanitarie sciolte per infiltrazione mafiosa. Si tratta di due miliardi di bilancio e noi parliamo dei morti…

Bonaccini e la corsa controvento nelle città più leghiste d’Emilia

Per raccontare Piacenza partiamo dai margini della provincia. Cerignale è lontana dal capoluogo, ai confini con la Liguria: Alta Val Trebbia, Appennino, 700 metri d’altezza sopra la Pianura padana, un borgo delizioso che lotta per non sparire.

Il sindaco Massimo Castelli dice che “è come la Norvegia”. Nel senso che ci vivono in tutto 120 persone, spalmate su un territorio di 30 chilometri quadrati (comprese le frazioni). I fiordi sono più popolosi. Bene – si chiederà il lettore – ma che c’entra Cerignale? Questa minuscola cittadina è l’unica in tutta la provincia di Piacenza in cui la Lega non è il partito più votato. Alle Europee del 26 maggio 2019 ha “vinto” il Pd con la bellezza di 37 voti contro i 26 del Carroccio. Per il resto, ovunque, è stato il trionfo assoluto del salvinismo. Ma davvero ovunque: anche a Bettola, il paese dove è nato Pier Luigi Bersani.

La Lega ha dominato in 45 comuni piacentini su 46, con la percentuale bulgara del 45,3%: quasi un elettore su due. In città la percentuale scende al 38,2, nei comuni montani invece sfiora spesso il plebiscito.

Non solo l’Emilia rossa non esiste più, ma Piacenza non ne ha mai fatto parte. Città borghese e moderata, spesso terra di conquista per il centrodestra (come nel 2017, quando Patrizia Barbieri ha battuto al ballottaggio l’ex sindaco dem Paolo Dosi). In teoria la leghista Lucia Borgonzoni dovrebbe andare sul velluto. Una convinzione rafforzata dal desolante comizio piacentino di Stefano Bonaccini dello scorso 20 dicembre: la piazza deserta di fronte al governatore in carica è diventata tristemente virale. E invece, malgrado le ironie leghiste, la partita è aperta: l’attuale presidente della Regione conserva una stima e un rispetto che valicano di molto i confini del suo partito (e dei suoi comizi).

Il capolista della lista “Bonaccini presidente” è un altro amministratore piuttosto noto a queste latitudini. Roberto Pasquali a maggio è stato rieletto sindaco di Bobbio per il quinto mandato (quasi) consecutivo: governa il suo comune dal 1995, con una parentesi da vicesindaco tra il 2009 e il 2014. Pasquali è stato iscritto alla Lega fino al 2017. Poi il partito ha deciso di accompagnarlo verso l’uscita. Racconta il sindaco: “Ho ricevuto una cortese telefonata del collega Rancan, consigliere regionale leghista. Mi diceva così: ‘Roberto, mi ha appena telefonato Salvini dicendomi che se voti il piano sanitario di Bonaccini ti espelle dalla Lega’”. Il sindaco di Bobbio non se l’è fatto ripetere: “Caro mio devi dire a Salvini che io il piano lo voto perché è ben fatto ed è stato approvato dal 90% dei medici ospedalieri. Digli anche che non dovrà fare la fatica di espellermi perché me ne esco da solo”. Sotto Pasquali, Bobbio è fiorita. L’anno scorso la trasmissione di Rai3 Il Borgo dei borghi l’ha votata “borgo più bello d’Italia”. L’improvvisa popolarità la fa riempire di turisti ogni fine settimana.

Gli ex compagni della Lega lo chiamano traditore, Pasquali non ha rimorsi: “Mi candido con Bonaccini perché è un eccellente amministratore. Questo non è un voto politico: l’Emilia Romagna ha bisogno di un presidente capace. Stefano è sempre stato presente, conosce questi territori alla perfezione. Sono convinto che sarà rieletto”.

Risalendo la statale di Val Trebbia verso Piacenza si attraversa Podenzano: quasi 10mila abitanti, uno dei pochi comuni ad aver conservato una giunta di centrosinistra. Il sindaco è Alessandro Piva, civico vicino al Pd. È stato rieletto per il secondo mandato il 26 maggio 2019. Quel giorno, come ricorda Piva, c’erano anche le Europee: “Domenica sera avevo svuotato l’ufficio e preparato gli scatoloni, nello spoglio europeo il centrodestra era al 65%. Lunedì mattina, con mia grande sorpresa, ho scoperto che invece ce l’avevo fatta”. La speranza di Piva e di tutto il Pd è che prevalga la dimensione del voto amministrativo: “Bonaccini può farcela perché qui la dimensione nazionale è meno importante. Conta il lavoro sul territorio, quello che la gente tocca con mano. Anche se la Lega ha stravinto in tutta la provincia di Piacenza, credo che moltissimi elettori sceglieranno il voto disgiunto, magari voteranno una lista di centrodestra ma il presidente di centrosinistra”. È proprio qui che si decide la partita emiliana. Salvini gira la Regione come un ossesso: la campagna elettorale è tutta su di lui, non sulla Borgonzoni. Chi vota Lega vota lui, non l’eventuale futura governatrice. Bonaccini ha fatto esattamente l’opposto: ha oscurato il Pd, ha nascosto il simbolo di partito e tenuto lontani i suoi leader, punta tutto sulla reputazione personale. È la sua unica possibilità.

Piacenza è ricca, la sua economia è in salute. “Il tessuto produttivo è sano”, racconta Luigi Perazzoli. È il titolare della Scriba, un’industria grafica di circa 60 addetti, tornata ad assumere nuovi lavoratori dopo aver stretto i denti negli anni della crisi. “Non ne faccio un discorso politico, non sono iscritto a nessun partito – dice Perazzoli –. Se fossi in Veneto voterei Zaia, sono in Emilia e voterò Bonaccini. Conosce la Regione, è una garanzia”.

La città è benestante, ordinata, tranquilla. Eppure anche qui la parola d’ordine su cui è stato edificata l’egemonia leghista è la stessa di ogni provincia italiana: “Sicurezza”. Le amministrazioni, anche quelle di sinistra, investono centinaia di migliaia di euro per riempire le strade di telecamere. Spopola il “controllo di vicinato”: interi quartieri che si scambiano informazioni in tempo reale su Whatsapp, collegate alla polizia municipale, sui movimenti sospetti nelle strade. A vederla da fuori sembra di stare in Svizzera, ma la gente ha paura: è un’alterazione collettiva della percezione della realtà? Elena Murelli, deputata leghista eletta a Piacenza, ovviamente nega: “Ci sono i ladri, i furti sono un problema e la sicurezza è un argomento serio. E comunque, non creda: noi vinciamo perché sappiamo stare in mezzo alla gente”.

Il “non mafioso” Carminati resta lo stesso in cella

I destini dei due principali protagonisti dell’inchiesta “Mondo di Mezzo” si dividono: a differenza di Salvatore Buzzi, al quale il 18 dicembre sono stati concessi i domiciliari, Massimo Carminati resta in carcere. Lo ha deciso la terza sezione penale della Corte d’Appello alla quale i legali dell’ex Nar hanno fatto richiesta di scarcerazione dopo la sentenza di Cassazione.

In primo grado, a luglio 2017, Carminati era stato condannato a 20 anni di reclusione (Buzzi a 19) e già in quel caso il Tribunale aveva stabilito che non vi è alcuna mafia a Roma, bensì due associazioni a delinquere semplici: una costituita da Carminati dedita all’usura e all’estorsione, e quella di Buzzi, operante invece negli appalti pubblici, in cui partecipavano anche alcuni politici. In Appello, a settembre 2018, questa sentenza viene ribaltata: i giudici riconoscono l’accusa di 416-bis. Le pene inflitte però sono minori: 14 anni e mezzo per Carminati, 18 anni e 4 mesi per Buzzi.

In Cassazione, a ottobre 2019, nuovo colpo di scena: cade definitivamente l’accusa di mafia e gli atti vengono mandati in Corte d’appello per ricalcolare le pene. Non solo. Per alcuni si aprono le porte del carcere. Ma non per l’ex Nar. I giudici della Corte di Appello in un’ordinanza di un paio di pagine spiegano: “(…) La Corte di Cassazione ha sostanzialmente confermato l’impianto accusatorio, ritenendo la fondatezza di gran parte delle accuse e riconoscendo, in particolare, il ruolo di promotore e organizzatore di Carminati con riferimento a due pericolose associazioni per delinquere”. E poi c’è il certificato penale “da cui – continuano i giudici – si evince il particolare spessore criminale del Carminati, il quale è gravato da precedenti penali inquietanti e continuativi nel tempo”. Inoltre per la Corte d’Appello l’ex Nar “lungi dal manifestare resipiscenza, ha continuato in modo ininterrotto a rendersi responsabile di gravi delitti, assumendo nel tempo uno spessore criminale tale da incutere rispetto e timore persino nell’ambito di pericolose associazioni criminali, oltre che nelle potenziali vittime, avendo anche la disponibilità di armi”.

Gli arresti domiciliari, quindi, secondo i giudici, sono una misura “non idonea” “tenuto conto, tra l’altro, della rete di relazioni del Carminati con gli ambienti criminali romani, che è stata definitivamente dimostrata anche con la sentenza di Cassazione”.

Il ricorso dell’ex Nar così viene rigettato. E aveva espresso parere contrario anche il procuratore generale Pietro Catalani, il quale ha puntato l’attenzione anche su un possibile pericolo di fuga. “Deve considerarsi – scrive il pg il 24 dicembre – che nella primavera 2013 (…) quando Carminati temeva di essere arrestato, aveva abbandonato… casa disponendo di rifugi atti a scongiurare la cattura”.

Per il pg i benefici non dovevano essere concessi neanche a Buzzi, contro cui, scrive, “questo ufficio è in procinto di ricorrere in Cassazione per difetto di motivazioni”. Le battaglie tra difese e accusa non sembrano finite.

La giornalista russa dai pm: “Ecco cosa so di Savoini”

Si chiama Irina Aleksandrova Afonichkina la testimone russa sentita giovedì sera in Procura a Milano dai magistrati che indagano sull’incontro all’hotel Metropol di Mosca avvenuto il 18 ottobre 2018 e sui presunti 65 milioni di dollari che dovevano finire nelle casse della Lega di Matteo Salvini al termine di una compravendita di gasolio. La donna, di professione fa la giornalista e lavora per l’agenzia di stampa russa Tass. Al centro del verbale, che è stato secretato, ci sarebbe la volontà di capire gli incontri dell’ex vicepremier durante i suoi viaggi in Russia. Questo sarebbe l’ambito dell’interrogatorio, oltre ai contatti che la donna avrebbe potuto intrattenere con i tre indagati per corruzione internazionale, ovvero Gianluca Savoini, ex sherpa di Salvini per gli affari russi, l’avvocato d’affari Gianluca Meranda e il consulente finanziario, nonché ex politico del Pd, Francesco Vannucci. La giornalista giovedì si è presentata spontaneamente, il che ha escluso la necessità di una rogatoria specifica.

Il progetto di richiedere informazioni a Mosca resta però nei piani dei pm, che invece, ormai da settimane, hanno inviato una prima rogatoria a Londra. In questo caso, l’obiettivo è capire il ruolo nella vicenda Moscopoli della banca d’affari Euro-Ib per la quale ha lavorato Meranda. Non va dimenticato, poi, che a Londra ha sede la società Eni Trading and Shipping (controllata da Eni) che nel 2017 rilasciò una lettera di referenze alla Euro-Ib, documento che Meranda suggerisce di usare quando nel febbraio scorso lo stesso Savoini propone l’affare del gasolio a Gazprom. Eni, tirata in ballo dai tre come acquirente finale del gasolio venduto da società di stato russe, non è oggi oggetto d’indagine e si è dichiarata formalmente parte offesa. Negli scorsi mesi la Guardia di finanza ha acquisito diversi documenti negli uffici della società petrolifera. A firmare poi la lettera di referenze fu Alessandro Des Dorides (qui non indagato), ex manager di Eni Trading and Shipping, mandato via da Eni per altre vicende.

Torniamo al mistero di Irina. Non vi è dubbio che tra Aleksandrova e Savoini vi sia quantomeno un rapporto di conoscenza. A dimostrarlo un video caricato sul profilo Facebook dell’Associazione Lombardia-Russia di cui Savoini è presidente dal 2014, anno della sua fondazione.

Il 16 luglio del 2018 lo stesso Salvini, all’epoca ministro dell’Interno e vicepremier, dopo un vertice politico a Mosca, partecipa a una conferenza stampa negli studi della Tass. E’ il video messo su Facebook. A moderare l’incontro c’è proprio Aleksandrova. La conferenza dura circa mezzora, l’allora ministro riferisce dei contenuti dell’incontro avvenuto anche con i rappresentanti del Consiglio per la Sicurezza nazionale della Federazione Russa, Yuri Averyanov e Aleksander Venediktov. Salvini, che al momento non è indagato nel fascicolo milanese, parla di lotta all’immigrazione, di lavoro e contrasto alla mafia. Alla fine Irina Aleksandrova ringrazia pubblicamente Savoini per aver organizzato l’incontro. Dice: “Dobbiamo finire, mi dispiace, il tempo è sempre poco, però vorrei ringraziare Gianluca Savoini che ha aiutato molto per questo incontro, grazie mille”. In un tweet del giorno dopo Savoini scrive: “È stato per me un piacere accompagnare il ministro Matteo Salvini nel corso della sua visita ufficiale a Mosca”. Mentre a corredo del video sul profilo Facebook dell’associazione Lombardia-Russia, Irina viene definita “un’amica giornalista”.

Non vi è dubbio, quindi, che il verbale sia ritenuto di grande interesse, anche per mettere a fuoco la rete di contatti russi dello stesso Savoini. La registrazione negli studi dell’agenzia Tass, infatti, avviene tre mesi prima dell’ormai famoso incontro all’hotel Metropol di Mosca dove gli indagati discutono con tre russi di una compravendita di gasolio per 1,5 miliardi di dollari dalla quale “scontare” il 4%, ovvero 65 milioni di dollari da far arrivare nelle casse della Lega in vista delle elezioni europee dello scorso maggio. Due dei tre russi risultano collegati all’entourage del presidente Vladimir Putin. È a loro che si rivolge Meranda illustrando il piano, a suo dire, pensato dai “political guys” della Lega. In attesa, poi, di depositare al giudice la richiesta di proroga delle indagini, la cui scadenza è fissata per l’inizio di febbraio, i magistrati, come rivelato ieri dal Fatto, stanno ascoltando diverse telefonate registrate da Meranda attraverso un’app-spia. Si tratta di 20 conversazioni, il cui contenuto resta, al momento, riservato e viene giudicato di grande rilevanza dagli inquirenti. Al vaglio della Guardia di finanza anche diverse email in russo e alcuni audio registrati con WhatsApp.

“Gallerie insicure”, lo stop del ministero ad Autostrade

Una diffida ad Autostrade a mettere in sicurezza 124 gallerie che non sono a norma. È un atto depositato il 6 novembre scorso dalla Commissione per le gallerie del Consiglio Superiore dei Lavori pubblici. “La Commissione, tenuto conto della non conformità ai requisiti indicati nei decreti e delle necessità di disporre la mitigazione dei rischi… diffida Autostrade a mettere in sicurezza le gallerie comprese nell’elenco con il completamento di tutti i requisiti minimi previsti per legge”.

Come si legge nel documento di 7 pagine tutto parte dall’obbligo di adeguare almeno un centinaio di tunnel alle norme europee del 2006 che “hanno lo scopo di garantire un livello minimo sufficiente di sicurezza degli utenti nelle gallerie autostradali della rete transeuropea”. Purtroppo molte gallerie della nostra rete non sono ancora a norma. “Autostrade – come spiega al cronista una fonte interna – aveva presentato un piano di interventi provvisori, in attesa che fossero eseguiti quelli definitivi”. Un metodo al risparmio già seguito, e bocciato, quando si è trattato di mettere mano agli adeguamenti delle barriere di sicurezza sui viadotti, sottoposte ai sequestri della procura di Avellino in mezza Italia.

Per le gallerie, ecco invece il parere della Commissione che diffida Autostrade e indica le soluzioni da adottare nei tunnel (vedi elenco a lato). A cominciare dalle “opportune misure di limitazione della circolazione… limitazioni della velocità, distanze minime tra veicoli, divieto di sorpasso per autobus e camion oltre le 3,5 tonnellate”. Dovranno poi essere individuati percorsi alternativi per i mezzi che trasportano sostanze pericolose, vietandone il passaggio dove non ci sono sistemi per drenare liquidi infiammabili e tossici.

La Commissione si sofferma anche sull’illuminazione: la mancata presenza di un sistema adeguato deve essere segnalata prima della galleria e devono essere presenti nel tunnel delle lampade portatili in corrispondenza delle postazioni di emergenza (dove queste sono presenti, un altro problema da risolvere). Si richiede che le gallerie siano messe in connessione con un centro di controllo.

Si richiede di “incrementare la sorveglianza anti-incendio” con squadre “munite di mezzi idonei”, che possano garantire tempi di intervento non superiori ai 5 minuti dall’allarme. Le gallerie senza collegamento idrico dovranno avere provviste di almeno 10 metri cubi d’acqua.

Rilievi anche per il sistema di semafori che andranno installati all’ingresso del tunnel e anche all’interno di quelli lunghi oltre un chilometro. Nelle gallerie sprovviste di stazioni di emergenza dovranno poi, ogni 250 metri, essere posizionati estintori portatili. C’è infine la necessità di garantire le comunicazioni nelle gallerie dove non siano presenti stazioni di emergenza: occorre “garantire la copertura Gsm (i telefonini, ndr)… e utilizzare ponti radio”.

La Commissione stabilisce una condizione essenziale: “Il soddisfacimento dei requisiti consentirà il mantenimento in esercizio, ancorché limitato, delle gallerie non conformi”.

I tecnici del Consiglio Superiore non sembrano convinti neanche dei tempi prospettati da Autostrade per i lavori di adeguamento: occorre “rivedere il cronoprogramma dei lavori per verificare la possibilità di una riduzione dei termini di adeguamento”. Il concessionario dovrà avvertire la Commissione se i lavori produrranno “gravi e lunghe perturbazioni del traffico”. È quello che si sta verificando, riferisce una fonte del ministero, “in alcuni tratti della rete ligure e adriatica”.

Autostrade in una nota ha dato la sua versione dei fatti: “L’adeguamento degli impianti nella gallerie gestite da Aspi e citate nel rapporto è in corso nel 90% dei casi (alcuni interventi sono già conclusi), per il restante 10% sono in corso le gare d’appalto… gli interventi previsti non riguardano la sicurezza strutturale”. Il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli ha aggiunto: “Non c’è un rischio, ma un’attività di adeguamento a norme obbligatorie. È un’attività comunque in ritardo”.

Insomma, non si tratta di rischi strutturali come quelli rivelati dal crollo di due tonnellate di cemento nella galleria Berté sulla A26 (peraltro compresa in questo elenco). Ma si tratta pur sempre di sicurezza per gli automobilisti e, come ha confermato il ministro, di “attività svolta in ritardo”.

La Juve a cena in Vaticano con la Casellati e Bertone

Chi non vedeva l’ora di farsi un selfie con CR7 c’è rimasto male, ma il giusto. Perché la Vecchia Signora va sempre forte nei Palazzi che contano: e così la defezione dei fuoriclasse della Juve non ha deluso gli invitati alla cena di giovedì organizzata dall’Associazione parlamentare Agnelli-Juventus club e ospitata al Palazzo della Cancelleria Apostolica a Roma.

Location che gode dell’immunità extraterritoriale della Santa Sede dove si sono attovagliati accanto agli onorevoli, pure tre pezzi grossi della “Chiesa mondana” che così poco piace a Papa Francesco: l’ex segretario di Stato Tarcisio Bertone, finito nei guai per la ristrutturazione del famoso superattico in Vaticano e che è socio d’onore del club bianconero. E pure il prefetto della Congregazione delle cause dei santi Angelo Becciu insieme a quello della Congregazione per l’educazione cattolica, Giuseppe Versaldi. Tutto è filato liscio fin dai controlli della Gendarmeria all’ingresso. Anche se gli ospiti sono stati meno del previsto complice l’aria non proprio serena a causa della crisi tra Usa e Iran.

Chi ha invece deciso di partecipare comunque alla serata, si è trovato alla grande: ai tavoli, la mise en place è stata impeccabile, specie nella sala riservata ai supervip. Dove il presidente del club, Maurizio Paniz, giù deputato e oggi avvocato della stragrande maggioranza degli ex parlamentari in lotta per riavere i vitalizi ha fatto sedere i porporati, e gli altri ospiti di riguardo. A partire dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati di cui pure si ignora la fede calcistica, a differenza del suo capo di gabinetto Nitto Palma sicuro tifoso bianconero. Come l’ex presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, presente pure lui.

I parlamentari semplici invece erano tutto sommato pochi considerando che il club della Juve tra Montecitorio e Palazzo Madama conta su 102 eletti in carica e 142 ex. Tra cui Guido Crosetto, uno dei fondatori di Fratelli d’Italia. E poi ci sono i soci d’onore, come Bertone, ma pure Bruno Vespa, gli ex presidenti di Consulta, Antonio Baldassarre, e Finmeccanica, Pierfrancesco Guarguaglini.

Al club dei parlamentari juventini sono iscritti il Mazzarino della Lega, Giancarlo Giorgetti e i suoi colleghi di partito Raffaele Volpi che presiede il Copasir e l’ex sottosegretario all’Interno Stefano Candiani. Ma lo schieramento è trasversale: tifano Juve il presidente della Vigilanza Rai, il forzista Alberto Barachini, i dem Anna Rossomando, vicepresidente di Palazzo Madama e Antonio Misiani, sottosegretario all’Economia. Che ha il pallino bianconero almeno quanto il viceministro Laura Castelli del M5S. O Gianluigi Paragone, espulso dai 5S. Tifosi pure i ministri Francesco Boccia e Paola De Micheli, il Commissario europeo Paolo Gentiloni e il presidente della regione Abruzzo Marco Marsilio che invece è del partito della Meloni. Nutrita anche la rappresentanza di Italia Viva, tra tutti Ettore Rosato, Luigi Marattin e Lucia Annibali: nel club convivono Nico Stumpo di LeU e gli azzurri Renato Brunetta, Elio Vito e Stefania Prestigiacomo che a B. hanno dato tanto senza convertirsi al Milan.

Insomma una bella squadra quella presieduta da Paniz che pensa in grande e che intende crescere ancora, magari grazie a un maggiore impegno degli esponenti di governo di provata fede juventina. Nel frattempo chi è nel direttivo ha già deciso di organizzare a breve in Parlamento un convegno sul calcio, dove il presidente Andrea Agnelli dovrà esserci e in primo piano. E di chiedere un’audizione in cui la dirigenza della società bianconera possa fornire “suggerimenti su aspetti normativi che possano migliorare e stimolare la crescita del mondo dello sport e del calcio”. Quando si dice la classe.

Prescrizione: il lodo Conte resiste, ma è a rischio Consulta

Non solo Piercamillo Davigo, consigliere del Csm, ma anche l’ex Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha espresso dubbi di costituzionalità sul cosiddetto lodo Conte sulla prescrizione, che ha evitato giovedì sera, al fotofinish, la fumata nera per la maggioranza dopo un vertice tormentatissimo.

Il doppio binario della prescrizione per condannati e assolti ha soddisfatto il Pd e ha fatto masticare amaro i pentastellati. Grasso, di LeU, era l’unico a essere d’accordo con il ministro M5S Bonafede che con la sua legge ha introdotto il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado senza se e senza ma. Invece, con il lodo Conte il blocco definitivo sarebbe solo per i condannati di primo grado mentre per gli assolti ci sarebbe la prescrizione processuale: se non si conclude l’appello in 2 anni (o 2 e mezzo in certi casi) torna a correre la prescrizione, dopo un anno in Cassazione. È quindi la proposta Pd, al netto dei condannati. “Per la nostra Costituzione siamo tutti non colpevoli fino al terzo grado di giudizio”, aveva subito fatto notare Grasso. Poi, però, da ormai esponente politico, ha fatto i conti con la realtà e di fronte al muro di gomma di Pd e Italia Viva si è “riservato” di vedere come sarà scritta la norma, perché la cosa più importante sono “le riforme sostanziali che riducono drasticamente il numero e la durata dei processi”.

Riforme che il ministro Bonafede ha messo sul tavolo da mesi. Grasso aveva anche fatto un tentativo “disperato”, visto i protagonisti del vertice. Se introduciamo il doppio binario per assolti e condannati, aveva suggerito, facciamo almeno partire il calcolo della prescrizione non da quando è stato commesso il reato (come avviene anche oggi) ma da quando viene scoperto. Neanche a dirlo, c’è stato un coro di no partito dalle poltrone occupate da Pd e Italia Viva.

Ieri, di un possibile intervento della Corte costituzionale ne ha parlato Davigo: “Possono esserci dubbi sotto il profilo di precedenti pronunce della Consulta”. Il riferimento è alla bocciatura della Corte Costituzionale della legge Pecorella, governo Berlusconi: negava il diritto al pm di ricorrere in appello se un imputato veniva assolto. Ma Davigo comprende la scelta del lodo Conte: “Dal punto di vista politico è un compromesso facilmente spendibile perché se si usa l’argomento del ‘fine pena mai’ può avere senso per chi è stato assolto mentre non ha alcun senso per l’imputato condannato che sta impugnando. Di che si lamenta se è lui che chiede un altro giudizio?”. Il doppio binario piace all’Anm: “La distinzione tra condannati e assolti – dice il segretario Giuliano Caputo – ci vede concordi”. Nella maggioranza, a gongolare più di Italia Viva è il Pd mentre M5S tace. Che il compromesso abbia pienamente soddisfatto i dem lo dimostra il fatto che martedì, in Commissione Giustizia, voterà con M5S contro il ddl Costa, che abolisce la legge Bonafede.

Il lodo Conte giovedì è arrivato a fine vertice dopo che era naufragata la prima proposta del premier: blocco della prescrizione per tutti in cambio di più stringenti sanzioni per i magistrati in caso di mancato rispetto di tempi prestabiliti per appello e Cassazione. Ma Pd e Italia Viva volevano a tutti i costi la prescrizione processuale, altrimenti non avrebbero neppure discusso delle proposte di Bonafede per accelerare i processi. A quel punto Conte ha preso da parte il ministro della Giustizia e l’ha convinto che l’unica via d’uscita fosse la prescrizione processuale per gli assolti in primo grado in cambio di un’accelerata sulle modifiche al processo penale. E, infatti, Bonafede all’uscita di Palazzo Chigi ha puntato tutto sulla riforma che – a suo avviso – non renderà più un problema la prescrizione perché velocizzerà i processi: dalle notifiche elettroniche solo ai difensori, ai processi d’appello con il giudice monocratico, come nei tribunali, per triplicare, è convinto il ministro, la produttività (nei primi 6 mesi del 2019 le prescrizioni in appello sono state del 25%) alla fine dell’obbligo, se lo chiede la difesa, di far ricominciare da zero un processo anche se cambia uno solo dei componenti del collegio giudicante. Le proposte saranno contenute nella legge delega ferma da mesi proprio per il nodo prescrizione e che dovrà andare al Consiglio dei ministri con tanto di lodo Conte. Poi la palla passerà al Parlamento. A stretto giro, Bonafede, dopo l’accordo accettato per realismo politico, sul lodo Conte si confronterà con il M5S. Da qui al voto finale la strada è ancora lunga.

Salvini & Craxi: le firme per salvare le poltrone

Alla fine Salvini si è rimangiato la parola. E ha offerto un soccorso decisivo a chi non vuole il taglio dei parlamentari: nove senatori leghisti hanno firmato la richiesta di referendum che rinvia la riforma che altrimenti sarebbe entrata in vigore già dal 12 gennaio. Fino a ieri mattina, la sottoscrizione era in bilico dopo la defezione dell’ultimo minuto di due senatori dem e quattro eletti di Forza Italia vicini a Mara Carfagna che avevano fatto mancare il numero minimo di 64 firme da portare in Cassazione perché si tenga la consultazione. E così la Lega si è vista costretta a gettare la maschera e il risultato è stato raggiunto e addirittura superato: si è arrivati a 71 firme più che sufficienti a tamponare il flop dei radicali che, con la loro raccolta alternativa nelle piazze, si sono fermati a quota 669 firme quando ne sarebbero servite 500 mila per chiedere il referendum.

L’obiettivo insomma è stato centrato grazie all’input dato nelle ultime ore da Matteo Salvini ai suoi che hanno vergato eccome, al fianco di nomi da sempre scomodi per il Carroccio come quello di Craxi (Stefania). Ora il capo della Lega fa finta di niente e anzi prova a liquidare la faccenda così: “Quando i cittadini scelgono è sempre una buona notizia” ha detto durante un comizio in Calabria senza timore di vedersi rinfacciata l’esultanza seguita dopo ciascuna delle quattro votazioni, tra Camera e Senato, necessarie per approvare la riforma costituzionale che punta a mandare in cantina un Parlamento di quasi mille eletti. Contro cui Salvini ha sempre tuonato persino quando era già all’opposizione. “Il taglio dei parlamentari? Bene, lo abbiamo sempre votato. Meglio tardi che mai”. E nei mesi prima, quando era al governo, se lo era addirittura intestato come risultato già acquisito. “Taglio di 345 parlamentari: fatto”.

Tutto dimenticato con la giravolta di ieri che favorisce la casta contro cui ha sempre tuonato. Certo, l’imbarazzo c’è, se è vero che ha cercato di non metterci la faccia fino all’ultimo. Prima di mobilitare le sue truppe cammellate: i senatori Barbaro, Candura, De Vecchis, Marti, Montani, Pepe e Lucidi (quest’ultimo ex 5 Stelle come Grassi e Urraro, che però avevano già firmato da tempo), tutti leghisti non esattamente di primo piano se non della seconda e terza ora. Impegnati a tentare di far slittare la riforma che avrebbe consentito al governo di ridisegnare subito i collegi elettorali, riperimetrandoli rispetto al numero ridotto seggi. Ma questo avrebbe tolto a Salvini ogni speranza che la Consulta, il prossimo 15 gennaio, dichiari ammissibile il referendum proposto dai consigli regionali a guida leghista, per abolire la quota proporzionale del Rosatellum e ottenere indirettamente una legge elettorale maggioritaria.

Di qui la decisione che per centrare il risultato, valeva la pena prendersi qualche critica. Anzi proprio l’accusa di essersi prestato a una manovra di palazzo. “La Lega vota per il taglio dei parlamentari e poi non lo vuole. Anzi sì. Non firma per il referendum, ma poi dà l’aiutino per presentarlo. Cosa non si fa per i giochi di palazzo e le poltrone” twitta Francesco d’Uva incalzando Salvini e compagni, accusati di avere due facce o forse tre. Diranno “sì o no quando si tratterà di votare il referendum confermativo del taglio”? Oppure, ironizza il pentastellato, voteranno “forse”? Paola Taverna usa il tirapugni. “Capisco che per racimolare i 49 milioni che hanno sottratto allo Stato è necessario avere più parlamentari possibile. Non vedo l’ora di fare questa campagna referendaria”.

Insomma i 5 Stelle, che pure non se la passano bene, sembrano ringalluzziti dalla mossa di Salvini. E pure la maggioranza segna un punto: la legge elettorale a cui si sta lavorando in questi giorni, alla fine potrebbe risultare gradita anche alle forze politiche estranee al perimetro governativo. Perché il Germanicum che prevede un proporzionale con sbarramento al 5 per cento e un diritto di tribuna per i piccoli alletta chi, del maggioritario che vorrebbe la Lega, non vuole saperne.

Ecco il senatore Antonio Saccone dell’Udc eletto alle politiche del 2018 tra le file di Forza Italia. “Il proporzionale è il sistema che maggiormente può garantire la rappresentanza, specie in un Parlamento di soli 600 eletti. Adesso sarebbe importante prevedere anche le preferenze e, per garantire la stabilità, anche la sfiducia costruttiva”. Aperture che lasciano intravvedere una predisposizione al dialogo da parte di un pezzo del partito dell’ex Cavaliere.

Dove solo quelli che sono certi di essere rieletti hanno abbracciato la causa di Salvini senza se e senza ma.

Haftar non si ferma, oggi Serraj incontra Conte

Alla fine il premier del governo di Tripoli Fayez al-Sarraj verrà a Roma per inontrare Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. L’incontro, si terrà oggi nel pomeriggio e rimedia all’incontro mancato di mercoledì scorso.

Dopo il colloquio con Sarraj, Conte ha in preparazione una visita in Turchia da Erdogan, lunedì mattina. Nel pomeriggio dello stesso giorno sarà al Cairo per vedere il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Conte tesse così il filo della trattativa come ha fatto fin dalla Conferenza di Palermo di fine 2018

La “gaffe” del mancato arrivo di al Serraj viene così recuperata grazie al colloquio costante con Tripoli anche se nell’entourage di Palazzo Chigi ci si interroga ancora sull’incidente. E c’è chi ricorda che i consiglieri di Conte si erano posti correttamente il problema di far accordare arrivi e partenze e che i Servizi segreti avevano garantito che le cose si sarebbero svolte senza intoppi. Poi, l’incidente. Il problema, però, è che Khalifa Haftar non si ferma e continua la sua marcia verso ovest. Dopo Sirte, l’obiettivo è Misurata, roccaforte fedele ad al-Sarraj. E sul campo sembra ci siano i primi morti, almeno tre, tra i soldati turchi dispiegati nel Paese. Il quotidiano libico Libyan Address di Bengasi, la zona controllata da Haftar, ha dato ieri la notizia in questo modo: “La Turchia comincia a raccogliere i frutti delle avventure di Erdogan in Libia”.

Haftar non si ferma, quindi, nonostante un nuovo appello dei due principali alleati, Vladimir Putin e l’egiziano Abdel Fattah al Sisi: “I presidenti di Russia ed Egitto – comunica il Cremlino – hanno espresso l’opinione che gli sforzi internazionali dovrebbero essere incrementati in modo da risolvere la crisi in Libia pacificamente favorendo il dialogo politico tra le parti belligeranti”. Da Bengasi, però, fanno orecchie da mercante e tramite il Comando generale dell’Esercito nazionale libico si dicono disposti ad ascoltare gli appelli alla pace di Putin aggiungendo però “con gli sforzi per eliminare le milizie terroristiche”. Il punto, continua l’Enl, sono “i gruppi armati che hanno il controllo di Tripoli e stanno ricevendo il supporto da alcuni Paesi e governi che li equipaggiano con armi e droni”. E si ritorna quindi alla Turchia.

Queste cose Haftar le aveva spiegate bene a Conte nel colloquio di mercoledì scorso.

Secondo chi ha seguito il dossier il generale libico, avrebbe posto tre condizioni per accettare la tregua: la garanzia di mantenere le posizioni che ha conquistato sul terreno; il ritiro di tutte, ma proprio tutte, le milizie e le forze straniere. E poi, più sottotraccia e in forma mediata, il punto della ripartizione corretta dei proventi del petrolio che oggi beneficiano soprattutto Tripoli tramite la Banca centrale libica.

A Bruxelles, intanto, al Consiglio dei ministri degli Esteri Ue, l’obiettivo resta la conferenza di Berlino. Sul punto ha insistito molto, anche questa è una novità rilevante, il ministro italiano Luigi Di Maio che chiede che “l’Ue parli con una sola voce”, blocchi il commercio di armi e punti tutto sul dialogo: “Non esiste una risposta militare” sottolinea Di Maio che poi, in una dichiarazione alla stampa, ribadisce l’importanza che la Conferenza si tenga al più presto e che vi partecipino tutte le parti, compresi i Paesi limitrofi alla Libia. E rilancia l’idea della missione Ue. Di Maio, insieme al ministro francese, Le Drian ha ricevuto gli apprezzamenti del ministro degli Esteri tedesco, Maas. Ma, forse, il non detto nei complimenti è che Francia e Italia si parlino direttamente, sarebbe la vera novità.

Il Pd spera: se esce Di Maio, il governo diventa più stabile

Con l’eventuale passo indietro (o il commissariamento) di Luigi Di Maio, il Movimento 5 stelle esploderà in mille pezzi, si consegnerà al premier Giuseppe Conte o sceglierà di trasformarsi sotto la guida di Alessandro Di Battista? Visto dal Nazareno, il punto centrale è questo.

Perché in questo momento, nell’orizzonte del Pd, non c’è molto, se non cercare di portare avanti l’esperienza di governo, senza perdere troppo terreno politico. Tanto è vero che una riflessione si faceva avanti, ieri, in ambienti vicini al segretario, Nicola Zingaretti: “Con la sconfitta in Emilia-Romagna sarebbe meglio rimanere al governo. Con la vittoria, invece, si potrebbe far avanti chi pensa che è il caso di capitalizzare il dato che Matteo Salvini non è invincibile e puntare alle elezioni”. Al netto del fatto che una débâcleemiliana potrebbe trascinare tutto con sé, è una riflessione che rovescia gli scenari fatti nelle ultime settimane. D’altra parte, non è un caso se lo stesso Zingaretti continua a dire che dopo le Regionali si farà il congresso. Senza specificare come, quando e perché. E senza prendere posizione sul post-voto.

Esiste un unico dato certo: con il passare del tempo, il Pd si è posto come il vero garante dell’esecutivo Conte, come l’elemento di responsabilità. E dunque, l’uscita di scena di Di Maio come capo politico del Movimento e come capo delegazione a Palazzo Chigi (a favore del più governista, Stefano Patuanelli) potrebbe essere un elemento di stabilizzazione. E favorire sia l’iniziale disegno del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella di “addomesticare” i Cinque Stelle e assorbirli nel sistema, sia il piano strategico di Goffredo Bettini di svuotarli per arrivare a una sorta di “amalgama”. In questa prospettiva, effettivamente, il ridimensionamento di Di Maio potrebbe aiutare l’esecutivo. “Di Maio e Renzi devono cambiare radicalmente approccio. Il tema non è chi la guida la maggioranza, ma il modo dei partiti di stare nella coalizione”, commentava ieri uno dei big dem. E sempre in questa chiave, il Pd franceschiniano leggeva la mediazione del premier sulla prescrizione (che giovedì ha convinto il Guardasigilli, Alfonso Bonafede a introdurre delle modifiche alla sua riforma), come una vittoria, ma anche come una cartina al tornasole nella direzione di un Movimento più moderato e più gestibile.

L’incognita di cosa ne sarà del M5S, di fronte a una spaccatura nel nome di Di Maio, però resta. Gli effetti delle slavine sono per definizione imprevedibili e i processi politici non sono sempre governabili. Non a caso Dario Franceschini, il più governista dei dem, aveva cercato un modo per costruire un rapporto di fiducia non solo con il premier, ma pure con il ministro degli Esteri. Proprio partendo dall’idea che la sua leadership era il maggior punto di equilibrio possibile.

Nel frattempo, il Pd ha organizzato per lunedì e martedì una sorta di ritiro spirituale collettivo: in un ex convento del Reatino nell’abbazia di San Pastore a Contigliano, con il segretario ci saranno ministri, sottosegretari e parlamentari. Per Zingaretti, a livello locale, l’appuntamento era un’abitudine. Ora lo ripropone a livello nazionale. L’intenzione è fare il punto sulle proposte dem per l’agenda 2020 dell’esecutivo. Senza sapere in che condizioni si trova il maggior partner di maggioranza, come finiranno le elezioni in Emilia e pure quanta forza avrà il premier, sembra un obiettivo piuttosto complicato da raggiungere. Ma tant’è: meno la direzione politica è chiara, più i Dem moltiplicano gli appuntamenti che si vogliono di confronto e si trasformano in autocoscienza.