La moglie perfetta è quella idiota

Gli innamorati sono scemi e “l’amore rende stupidi”: copyright del Molière de La scuola delle mogli, andato in scena per la prima volta nel 1662 e ora allestito da Arturo Cirillo con un cast minuto ma superlativo: Valentina Picello, Rosario Giglio, Marta Pizzigallo e Giacomo Vigentini.

Il regista, nonché primattore, ha scelto proprio questa commedia del maestro francese perché “sapiente e di sorprendente maturità: vi si respirano un’amarezza e una modernità come solo negli ultimi testi Molière riuscirà a trovare”.

La trama – tra equivoci plautini e lazzi à la Marivaux – è cucita addosso all’intrigante Arnolfo, ribattezzatosi signor del Ramo e bramoso di sposarsi. Egli è ben consapevole, tuttavia, che le “corna sono il sacro corredo del matrimonio” e che prender moglie è un “gesto temerario”, soprattutto se la donna è colta e spigliata, sa leggere e addirittura scrivere. Il suo ideale, insomma, è “una idiota brutta”: per questo ha fatto allevare l’orfana Agnese come una sciocca dalle suore, e ora può finalmente convolare a nozze con lei, tanto gentil, onesta e ignorante. Peccato, però, che la signorina si sia nel frattempo invaghita di un suo coetaneo, Orazio, scemo e ingenuo tanto quanto lei e disposto a tutto pur di strapparla dalla casa del dispotico e vecchio carceriere del Ramo.

L’abitazione – disegnata dallo scenografo Dario Gessati – ha qualcosa della casa di bambola e qualcosa della casa degli orrori del luna park: è, infatti, girevole e “al suo interno possiamo vedere una camera che è anche una cella, una stanza delle torture”. Il davanti e il retro dell’appartamento, il sopra e il sotto della villetta rispecchiano la doppiezza del protagonista, che ha doppio nome, doppia identità e natura e persino doppia dimora, in città e in campagna. La sua falsità e manipolazione insieme con l’astuzia dei personaggi minori (come i due spassosissimi servi) rendono certo un po’ più sexy l’intreccio amoroso, così come l’incantesimo sentimentale si eleva a gioco del teatro nel teatro, del “romanzo” dentro la finzione, del sogno che irrompe nella realtà.

L’allestimento si regge soprattutto sulle spalle dei bravissimi interpreti: è grottesco ma garbato, cinico ma pure romantico e onirico, benché il sogno sia più spesso un incubo, un’allucinazione, una fattucchieria malefica. Gli attori si divertono tutti molto, e quindi anche il pubblico, e pazienza per qualche eccesso nella messinscena, dalle luci rutilanti alle musichette insistenti ai colori sparati persino sugli abiti.

Al di là delle corna, delle stupidaggini degli innamorati e dei sotterfugi dei gelosi – in poche parole: al di là dell’umana e noiosissima psicologia –, lo spettacolo ha il pregio di far brillare quella scatola magica chiamata teatro, forse pacchiana, pomposa, sporca, maliziosa, bugiarda, ma irresistibilmente attraente.

 

La scuola delle mogli Di Molière – Arturo Cirillo – Roma, Teatro Eliseo, fino al 19 gennaio; Thiene (Vi), Teatro Comunale, dal 21 al 23 gennaio

Arriva il biopic su Elvis: Austin Butler avrà il suo volto

Baz Luhrmann torna sul set per dirigere un biopic su Elvis Presley prodotto da Warner Bros. e recitato nel ruolo del protagonista da Austin Butler, la nuova star 28enne americana già interprete de I morti non muoiono di Jim Jarmush e di C’era una volta a Hollywood di Tarantino oltre che di recenti serie tv per ragazzi come Hannah Montana.

Tom Hanks, nella parte del colonnello Tom Parker, controverso manager del re del rock’n roll, e Olivia DeJonge in quella della moglie di Elvis, Priscilla Presley, sono gli altri interpreti del film che il visionario regista australiano ha sceneggiato con Sam Bromell.

L’ambizione è quella di raccontare l’ascesa al successo della leggendaria icona pop di Memphis e, parallelamente, la storia degli Stati Uniti dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta.

Sulla scia dell’ottima accoglienza riservata alla commedia 10 giorni senza mamma la Colorado Film e la Medusa rimetteranno in campo dal 20 gennaio l’affiatata coppia formata da Fabio De Luigi e Valentina Lodovini, questa volta diretti da Alessandro Genovesi, in un nuovo capitolo intitolato 10 giorni con Babbo Natale. La nuova storia interpretata anche da Diego Abatanuono sarà girata tra Roma, l’Alto Adige e la Scandinavia e vedrà i due genitori e i loro tre figli arrivare in Lapponia per incontrare Babbo Natale senza che nessuno riesca a immaginare che cosa stia per succedere durante la permanenza al Polo Nord.

Reduce dal notevole successo della recente commedia Belle Epoque Nicolas Bedos sta girando per la produzione Mandarin e la Gaumont OSS 117: Alerte Rouge en Afrique Noire, il terzo capitolo della fortunata serie delle avventure satiriche dell’agente segreto francese 0SS17 (alias Hubert Bonisseur de La Bath) interpretato da Jean Dujardin, questa volta affiancato da Pierre Niney.

Piccole donne. Essere Jo March: l’eterno sogno di noi bambine

Piccole donne di una grande rivoluzione. Che persino Elena Ferrante ha scelto quale “chiave di svolta” per le sue Lila e Lenù ne L’amica geniale: d’altra parte tutte vogliono diventare Jo March, l’una perché selvaggia e ribelle, l’altra perché determinata a costruirsi un destino da scrittrice e soprattutto da donna libera ed emancipata.

Romanzo eterno, evergreen per definizione, femminile e femminista al punto giusto da piacere anche ai maschi, rieccolo al cinema nell’adattamento che tutti speravamo di vedere, frutto della passione di Greta Gerwig, che dall’infanzia all’età adulta ha divorato quelle vite, si è identificata con la protagonista, arrivando a ricalcarne alcune tracce fino ad assumerla quale tangibile compagna di viaggio ed intensa mentore d’esistenza. Little Women sceneggiato e diretto dalla 37enne scrittrice, regista e attrice californiana di cui è opera seconda dopo Lady Bird, è un film intimamente moderno e attuale, seppur mai esposto all’eccentrismo della modernizzazione: per intenderci, siamo lontani dal Bildungsroman di crinoline punk che Sofia Coppola ha imbastito su Maria Antonietta. Senza nulla togliere a quest’ultimo, l’operazione di Gerwig è apparsa più raffinata e complessa, e non solo perché originata da un testo fra i più pop della letteratura di sempre, e dunque di delicata rielaborazione. Rivestita di un look classico e figlio dei suoi corpetti e gonnelloni, l’opera sovverte la linearità narrativa per abbracciare il cinema puro, quello capace di alternare spazi e tempi, mescolando abilmente passato e presente in un vortice di montaggio sapiente ed esplosivo. Unificando la materia letteraria dei due romanzi (Piccole donne e Piccole donne crescono), Greta Gerwig permette alle piccole-donne-cresciute di guardarsi all’indietro, osservando se stesse nello sviluppo del proprio essere in cui nulla dall’infanzia si è perso, semmai si è arricchito. E questo appare soprattutto per i caratteri vivaci e diversamente wild di Jo (la straordinaria Saoirse Ronan) e Amy (la sorprendente Florence Pugh). Ciò che ne risulta è un testo cinematografico dirompente che nel suo “tradire” il romanzo in realtà vi rimane aderente e fedele come meglio non potrebbe. Un paradosso intrinseco alla forza stessa del libro: in altre parole Gerwig ha agito come Louisa May Alcott avrebbe voluto facesse se fosse stata un suo personaggio. Film poliedrico, all women-made ma attento alla corretta rappresentazione degli uomini, focalizza il rapporto fra le donne (di allora) e il denaro (la necessità del matrimonio…) e fra le donne (di sempre) e l’arte, specie la letteratura, cerchio virtuoso donde tutto parte e ritorna per una chiusa meta-letteraria vibrante e vincente. Giustamente incurante dei film che l’hanno preceduto, Piccole donne di Gerwig è un’opera piena di vita, in ogni suo segmento, anche quando tratta il dolore più profondo. Ancora una volta in fedeltà alla “travagliata” Alcott quando decise di scrivere “racconti gioiosi” a compensare un’esistenza difficile: la sofferenza non è mai celata bensì vissuta con una tale pienezza da mutare di segno.

La dinastia Scarpetta. Eduardo, il re della risata

Tiene casa, carrozze e cavalli Eduardo Scarpetta. Ma già dire casa, nel suo caso, è dire poco. È una villa al Vomero – “la Santarella” – ed è il risultato del suo sontuoso successo di teatrante. Ovunque arrivi il suo Felice Sciosciammocca – il personaggio cui presta anche i tic della pochade francese – gli applausi lo laureano beniamino del pubblico e sulla facciata della sua dimora, appagato dopo una vita di gavetta, Scarpetta fa scrivere: “Qui rido io”.

Capocomico, drammaturgo, capostipite di “una famiglia difficile” – per dirla col titolo del libro scritto dal figlio “naturale” Peppino De Filippo – Eduardo comincia l’arte scritturato da Antonio Petito, l’assoluto tra i Pulcinella, e tra tante ricchezze che tiene, Scarpetta tiene anche le corna. “Scarpe’ tu tiene ‘e ‘ccorna!”. Un suo spettatore glielo rinfaccia durante una rappresentazione. “Sì, è ‘o vero”, risponde lui dalla ribalta, “ma sono corna di Re!”.

Tiene dunque a Napoli palazzo, destrieri, vetture e anche tanti figli, Scarpetta. Quattro sono quelli nati sotto il tetto coniugale, dopo di che c’è una gran folla. Il primo di tutti loro, Domenico, detto “Settimino” – venuto alla luce sette mesi dopo il matrimonio – è frutto della relazione di Rosa De Filippo, la moglie, con Sua Maestà il re Vittorio Emanuele II. Lo sa bene, Eduardo, che riconosce il bebè come suo. Lo sanno tutti, in tutta Napoli. E così a Corte. Nessuno ne parla e però sul bimbo – somigliantissimo alla genia dei Savoia – c’è un preciso decreto che gli assicura un appannaggio e il divieto di calcare le scene per tutta la sua vita. Tocca perciò al secondogenito, Vincenzo, raccogliere l’eredità paterna, e così alla gran folla di figli, legittimi e no, generati dall’esuberante Eduardo da cui discende la prima conclamata famiglia allargata storicamente accertata – e accettata – nell’immaginario d’Italia.

Ed eccoli, quindi. Da Luisa, nipote della moglie, Scarpetta ha tre degni successori: Eduardo, Peppino e Titina De Filippo. Da Francesca Giannetti nasce Maria, oggi drammaturga, adottata dal Maestro. Da Anna, sorellastra della paziente moglie, ha altri tre piccoli futuri artisti: uno è Ernesto, di cognome Murolo che diventa poeta e paroliere e da cui discende l’ancora più famoso Roberto, voce di Napoli; un altro è Eduardo – un altro De Filippo all’anagrafe (il cui nome d’arte, è Eduardo Passarelli) – e poi Pasquale, sempre un De Filippo, come la madre, entrambi volti del varietà e del cinema italiano, spesso al fianco di Totò.

Figli, dunque, a eccezione di Domenico che meriterebbe uno struggente film – tanto è straniante il destino di un Re cresciuto tra i commedianti – chiamati tutti a prendere parte di quella travolgente carovana di guitti, scavalcamontagne e attori la cui bottega, attraverso le generazioni, arriva a Mario Scarpetta, attore prezioso, scomparso nel 2004. Lo stesso Totò e così Aldo e Carlo Giuffré vanno considerati figli suoi, eredi e financo titolari del suo marchio.

A cavallo tra Ottocento e Novecento sono due secoli d’arte, quello degli Scarpetta, il cui repertorio, con ‘O Scarfalietto, Tre pecore viziose e Mettiteve a ‘ffa l’ammore cu ‘mme s’impone sempre nel cartellone dei teatri per la felicità dello sbigliettamento; mentre con i titoli affidati a Totò, la grande commedia d’Italia – nell’innesto di Scarpetta, commediografo, dialoghista, adattatore e soggettista – spalanca il sipario dell’eternità. Ed ecco, infatti: Miseria e Nobiltà, Un Turco Napoletano, Il medico dei pazzi, Sette ore di guai.

Il Centro Sperimentale di Cinematografia custodisce due rarità pioneristiche, due prove filmiche con Vincenzo Scarpetta, il figlio, alla prova della Settima Musa – Tutto per mio fratello (1911) e Il Gallo nel pollaio (1916) – e se ne fa pregio la bellissima mostra al Teatro Valle, a Roma, La Grande arte del ridere a cura di Maria Procino e Sandro Piccioni. Vincenzo non è soltanto il figlio cui Eduardo – il capostipite – affida il mestiere di casa, Vincenzo è un destino. La battuta delle battute – “Vincenzo m’è padre a ‘mme” – è il mantra cui il pubblico, sia di spettatori che di lettori, riconosce il vivo fuoco di un vivaio che non spiega solo la passione di un singolo genio ma l’attesa epifanica di tutti. Anche oltre il suo stesso tempo. E non è un caso che ai suoi funerali – come La Bella Addormentata – imbalsamato e addobbato coi costumi dell’arte artigiana, Eduardo Scarpetta scelga di restare in scena, visibile nella sua teca di vetro. Al Cimitero di Santa Maria del Pianto. Inumato nella cappella Scarpetta-De Filippo. Più che un sepolcro, una sfolgorante premiata ditta. Tutta di carrozze, angeli e cavalli.

“Colpevole”. Cavallini è il quarto condannato per il 2 agosto 1980

Per la terza volta, una Corte d’assise conferma, in nome del popolo italiano, che la strage di Bologna è nera, che il più grave attentato della storia repubblicana è stato compiuto dai fascisti dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar). Questa volta a essere condannato è Gilberto Cavallini, dopo i due processi precedenti che avevano condannato, il primo, all’ergastolo Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, il secondo a 30 anni di detenzione Luigi Ciavardini. Quella della stazione di Bologna è dunque una strage fascista, portata a termine dai Nar con inquietanti collegamenti con apparati dello Stato.

Questa è la verità giudiziaria che affiora dal processo terminato ieri dopo due anni di dibattimento, oltre quaranta udienze, quasi cinquanta testimoni. La sentenza di condanna (“ergastolo per concorso in strage”) è stata letta dal giudice Michele Leoni, presidente della Corte d’assise di Bologna, dopo sei ore e mezza di camera di consiglio.

Per la terza volta, pm, giudici togati e giudici popolari hanno ricostruito, con decine di testimoni e migliaia di atti processuali, la vicenda che è culminata nell’esplosione che il 2 agosto 1980 ha provocato 85 morti e oltre 200 feriti tra la gente comune che aspettava il treno nella sala d’aspetto e sui marciapiedi della stazione. E hanno confermato gli elementi che nei due precedenti processi avevano portato a condannare Fioravanti, Mambro e Ciavardini.

Il reato attribuito ora anche a Cavallini, in passato già condannato per banda armata, è concorso in strage. “Nella sentenza c’è stata una riqualificazione da strage politica a strage semplice”, ha gioito a caldo l’avvocato difensore di Cavallini, Alessandro Pellegrini, “evidentemente i giudici non hanno qualificato il gesto o la condotta degli attentatori come rivolta al fine di attentare alla sicurezza dello Stato”. Spiega invece l’avvocato Andrea Speranzoni, che assiste l’associazione dei familiari delle vittime: “La strage di Bologna resta una strage politica. Questa è solo una riqualificazione tecnica, per il ne bis in idem: non si può condannare due volte per lo stesso reato; e Cavallini è già stato condannato per banda armata con finalità politiche ed eversive”.

I pm Enrico Cieri, Antonella Scandellari e Antonello Gustapane hanno ottenuto per Cavallini l’ergastolo che avevano chiesto alla Corte d’assise, portando le prove della sua partecipazione diretta alla strage: per aver ospitato nella sua casa nei pressi di Treviso il commando dei Nar che stava preparando l’attentato e per aver fornito le auto per raggiungere Bologna, quel 2 agosto di 40 anni fa.

Cavallini oggi ha 67 anni ed è ospite, in stato di semilibertà, del carcere di Trani. È un nero cresciuto a Milano, nel quartiere periferico di Calvairate. Tra i fondatori del gruppo ultrà dei “Boys San” dell’Inter, nell’aprile 1976, per vendicare la morte del camerata Sergio Ramelli ucciso dai rossi un anno prima, aggredisce con il suo gruppo tre ragazzi di sinistra in via Uberti, a Milano. Resta a terra, accoltellato a morte, Gaetano Amoroso, 21 anni. Condannato e incarcerato, evade e si stabilisce con una falsa identità in Veneto, a Villorba di Treviso, ma è spesso a Roma. Mantiene i collegamenti tra i veneti di Ordine nuovo (Massimiliano Fachini, Carlo Maria Maggi, Carlo Digilio e i protagonisti della stagione delle stragi di piazza Fontana e di Brescia) e i romani di Costruiamo l’azione (Paolo Signorelli) e dei Nar. Con i Nar realizza l’agguato al magistrato Mario Amato, titolare delle principali inchieste romane sui neri. È Cavallini che, il 23 giugno 1980, gli spara alla nuca, mentre Amato, lasciato senza protezione, aspetta alla fermata l’autobus 391 che lo doveva portare a palazzo di giustizia. Due mesi dopo, esplode la bomba di Bologna.

Dal processo terminato ieri sono emersi anche i collegamenti con apparati dello Stato (i servizi segreti Sisde e Sismi), intervenuti per frenare e depistare le indagini.

Restano aperti gli interrogativi sui mandanti della strage, che secondo una nuova indagine che sta per essere conclusa dalla Procura generale di Bologna sarebbero da cercare nella saldatura tra apparati dello Stato e uomini della P2, la loggia massonica segreta guidata da Licio Gelli. Il Venerabile è già stato condannato, in passato, insieme agli uomini del Sismi (Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte e l’“esterno” Francesco Pazienza) per aver cercato di rendere incredibile la pista nera, accreditando invece una inesistente pista internazionale.

Soddisfatti della sentenza i famigliari delle vittime, riuniti nell’associazione presieduta da Paolo Bolognesi. Cavallini, invece, nelle sue dichiarazioni spontanee prima della sentenza aveva ripetuto di essere estraneo alla strage: “Sono in carcere dal 12 settembre del 1983, sono 37, 38 anni… ho perso il conto. Anni di galera che mi sono meritato e che non contesto. Quello che non accetto è dover pagare per ciò che non ho fatto, non tanto e non solo in termini carcerari, ma anche di immagine e di credibilità. Noi, e mi riferisco anche ai miei compagni di gruppo, tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo fatto alla luce del sole, a viso scoperto, lo abbiamo rivendicato e pagato”. Ai giornalisti, Cavallini aveva poi rievocato l’omicidio Amato: “È una vittima che mi pesa particolarmente. L’ho giustiziato in un modo vigliacco e partigiano di colpire una persona, alle spalle. Ho fatto così perché se l’avessi guardato negli occhi non sarei più riuscito a farlo, non avevo il coraggio di guardare negli occhi una persona che stavo per ammazzare. Mi pesa lui, mi pesa tutto ciò che è successo in quegli anni”.

Le motivazioni della sentenza arriveranno in 180 giorni, sei mesi. Prima dovrebbe arrivare l’avviso di chiusura indagini della Procura generale, con indicazioni sui mandanti e sulle complicità istituzionali della strage più nera della storia della Repubblica.

Russiagate, i pm hanno gli audio delle telefonate

Cellulari che registrano le telefonate e una importante testimone russa sentita ieri sera in Procura. L’inchiesta sull’incontro all’hotel Metropol di Mosca del 18 ottobre 2018 e sui “rubli” che dovevano finire nelle casse della Lega accelera e non poco. Sei mesi dopo lo scandalo, ecco la svolta che potrebbe inguaiare l’ex vicepremier Matteo Salvini. I magistrati di Milano, che indagano per corruzione internazionale, stanno studiando i contenuti dei cellulari sequestrati nel luglio scorso. Si tratta degli smartphone in uso ai tre indagati dell’indagine: Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, nonché uomo della Lega per i rapporti con la Russia, Gianluca Meranda, avvocato d’affari, ex massone e Francesco Vannucci, toscano, consulente bancario, ex politico locale del Pd. Ma è soprattutto su Meranda che si concentra l’attenzione dei magistrati. Il professionista, già consulente della banca d’affari londinese Euro-Ib e per questo, emerge dall’inchiesta, in contatto con Eni, aveva l’abitudine, secondo i pm, di registrare le telefonate.

Il dato non è di poco conto. I file scaricati e poi trascritti sono molti. I magistrati li stanno ascoltando. Quale sia il contenuto, al momento, resta un omissis. Quale interlocutore ha registrato Meranda? Anche Salvini? Al momento il capo della Lega non è indagato. Di certo, però, il 17 ottobre 2018, il giorno prima del Metropol, Salvini era a Mosca per un convegno organizzato da Confindustria Russia. Lo stesso giorno vedrà il suo omologo russo, Dimitry Kozak, con deleghe per l’energia. L’incontro dell’ex capo del Viminale, non annotato nell’agenda ufficiale, si tiene nello studio dell’avvocato Vladimir Pligin, professionista vicino a Putin.

In questi sei mesi l’inchiesta ha accumulato decine di atti: dalle carte acquisite in Eni ai dati estrapolati dai cellulari. Riassumiamo: nel luglio scorso il sito americano Buzzfeed rende pubblico un audio registrato ai tavolini dell’hotel Metropol di Mosca. È il 18 ottobre del 2018. Sei persone sono sedute: tre italiani (gli indagati attuali) e tre russi. Di questi due sono stati identificati e risultano molto vicini all’entourage del presidente Vladimir Putin. Il terzo, pur già identificato, è un omissis. Quella mattina ci sono anche due cronisti de l’Espresso che da lontano vedono e scrivono. L’articolo uscirà nel febbraio scorso. L’indagine, ufficialmente, si apre a fine maggio con l’iscrizione nel registro degli indagati di Gianluca Savoini. Sul tavolo del Metropol si discute di una partita di gasolio che Eni dovrebbe acquistare. A vendere è una società di Stato russa, Gazprom o Ronseft. A illustrare il piano è proprio Meranda che tra le tante cose spiega come i political guys della Lega abbiano calcolato in un 4% il discount da far uscire. Tradotto: se la partita vale 1,5 miliardi di dollari, lo “sconto” da far arrivare nelle casse della Lega in vista delle Europee dello scorso maggio è di “65 milioni di dollari”. Allo stato non si ha prova che l’affare sia andato in porto. Di certo si sa che sarà trattato ben oltre il 18 ottobre e fino al primo febbraio. In tutto questo Eni resta un punto di domanda. La società non è indagata, ma vi è prova di un rapporto, se pur datato al 2017, con la Euro-Ib della quale Meranda era consulente. A scrivere una lettera di referenze è la Eni & Trading shipping.

Che l’avvocato d’affari registrasse le telefonate è un dato in mano ai pm, che sia stato lui a registrare la conversazione del Metropol resta solo una ipotesi. Di certo nel suo cellulare i magistrati hanno trovato la fotografia di un foglio sul quale è scritto l’accordo per far arrivare i soldi alla Lega. Il dato viene rilevato dal tribunale del Riesame che il 30 settembre ha confermato la bontà dell’azione della Procura nel richiedere il sequestro dei cellulari. Posizione poi ribadita lo scorso dicembre dalla Cassazione. E se da un lato si studiano con attenzione le telefonate registrate da Meranda, dall’altro, negli uffici della Procura ieri sera è stata sentita come testimone una donna di origine russa. L’interrogatorio, durato un paio d’ore con l’aiuto di un interprete, è stato subito secretato. L’inchiesta, dunque, prosegue e tra pochi giorni la Procura dovrà mandare al giudice per le indagini preliminari la richiesta di proroga per indagare altri sei mesi. In quel documento, di certo, ci saranno i nomi di Savoini, Meranda e Vannucci.

Art. 18, Jobs act, numeri a caso e Renzi in festa: ma che è il 2016?

Che malinconia! Ieri mattina, per qualche decina di minuti, pensavamo di essere tornati indietro di qualche anno, tipo all’inizio del 2016: Matteo Renzi e l’Italia col segno più, i famigli del capo che s’imbrodano sui social sventolando un articolo che dimostra “coi numeri” che la real casa di Rignano è la miglior cosa capitata all’Italia da quando l’uomo inventò il cavallo. Il manufatto in questione è stato prodotto dal CorSera al fine di irrorare “scientificamente” il seguente assunto filosofico: ancora a pensare all’articolo 18 state… noiosi! A tal fine, il giornale ci informa che i licenziamenti (sommando “economici” e “disciplinari”) sono calati dall’introduzione del Jobs Act con relativa abolizione del reintegro per chi venga cacciato senza giusta causa. Ora, come una legge che voleva rendere più semplici i licenziamenti possa aver contribuito al loro calo è mistero gaudioso se non buffo. Il CorSera non ce lo spiega, né ha pensato – ammesso che una o due variabili possano spiegare tutto – a controllare se per caso nello stesso periodo non siano aumentate altre forme di cessazione del rapporto di lavoro: tipo la fine del contratto per quelli a termine, esplosi dopo il decreto Poletti (marzo 2014) e oggi in calo, probabilmente a causa del decreto Dignità (luglio 2018). Vabbè, non si può avere tutto: ci basta, comunque, questo tuffo nel recente passato col segno più e per l’aderenza del lascito renziano ai numeri ci accontenteremo di misurare – diventasse legge – la distanza tra la soglia di sbarramento elettorale del 5% e il risultato di Italia Viva.

Mail Box

 

Craxi andrebbe ricordato con un targa a San Vittore

Caro Travaglio, credo che potrebbe essere giusto “ricordare” Craxi con una piccola lapide apposta su un muro del carcere di San Vittore, con brevi indicazioni su come ha evitato il soggiorno in quel luogo con la sua fuga ad Hammamet. Ricorderei, anche, sempre, la distruzione del Psi in cui militavano anche persone oneste. Grazie per gli articoli sul Fatto.

Marcella Denegri

 

L’inesistente consenso del Partito socialista

Egregio direttore, complimenti per l’articolo relativo a Craxi di ieri. Ricorderei ancora un aspetto: la fantomatica “onda lunga socialista”, che avrebbe dovuto sovvertire ogni ordine, nel momento apicale del successo arrivò appena al 14 per cento. Vero che allora anche spostamenti decimali erano considerati importanti, ma il mythos che continuano a ri-raccontarci ha come scopo la narrazione di una azione che fu anche di successo popolare, ma nei fatti neanche quella fu.

Leopoldo De Luca

 

Bettino, Benito e gli altri: l’arcitaliano ama l’uomo forte

“Non era un santo, gli piacevano le donne, è stato mal consigliato, ma ha fatto anche tante cose buone”. Prendiamo questa dichiarazione e applichiamola a ogni uomo che ha avuto i “pieni poteri” disastrando il Paese e troveremo il giudizio arcitaliano. Che copre con clemenza senile la vergogna della cronaca. Valeva per Mussolini, ma calza anche per Craxi. Soprattutto ora, grazie a un film che vira sul recupero sentimentale di un personaggio che ha contribuito al degrado economico ed etico del Paese. No, Craxi era carico di nefasto narcisismo politico da vivo e ora che è morto merita solo rispetto per la sua salma, non per le sue depredazioni. Che hanno incubato e sviluppato uno stile politico, fondato sullo spregio della sobrietà e della critica, ereditato nella megalomania del berlusconismo, del renzismo e ora nel salvinismo. Tutti “uomini forti” che hanno indebolito il Paese, guidando in uno Stato di ebrezza.

Massimo Marnetto

 

È inaccettabile che esistano ancora “sudditi” nel 2020

La notizia dell’intenzione espressa da Henry e Meghan di “affrancarsi” dalla Corte e di vivere un’esistenza autonoma ha riportato al centro delle cronache, non solo mondane, i reali d’Inghilterra. La cosa che dovrebbe farci riflettere non è la scelta del secondogenito di Lady D e della di lui consorte, ma il fatto che nel 2020 esistano ancora re e regine, nobili e plebei, sovrani e sudditi. Ecco, proprio questo lo trovo inconcepibile: come può un cittadino del XXI secolo accettare l’idea di essere considerato “suddito”? Non dovrebbe suonare strano che un Windsor decida di guadagnarsi la vita lavorando, dovrebbe essere inaccettabile che il resto della famiglia continui a vivere nell’agio per “diritto di nascita”.

Mauro Chiostri

 

Prescrizione, la durata dei processi è una scusa

L’Italia è attanagliata da ciclopici problemi, la criminalità, l’immondizia, il debito pubblico, i ponti che crollano… Nonostante ciò vi sono ancora politici che strillano, con ostinazione e virulenza, contro la legge, morale e sacrosanta, che blocca la prescrizione, come se fosse una questione di vita o di morte per lo Stato. Ma questi politici non hanno altro da fare, di utile, durante il giorno? Non hanno ancora capito quanto espresso in modo chiaro e semplice da esperti commentatori (il direttore Marco Travaglio, il giudice Davigo…), che il supposto pericolo del blocco della prescrizione, cioè la durata eccessiva dei processi, non esiste, e che, comunque, ci sono tanti altri modi per evitare tale pericolo? Che tali politici ammettano che, in realtà, loro non vogliono velocizzare i processi (non gli interessa un fico secco), ma, al contrario, vogliono il proscioglimento con la prescrizione, senza accertamento della responsabilità penale.

Piero Angius

 

La violenza verbale è ignobile, ma anche la “melassa gentile”

Martedì sera, da Floris, Lilli Gruber si lamentava di come il linguaggio violento della politica ci avrebbe presto portato alla barbarie e auspicava un ritorno alla “politica gentile”. Quella “politica gentile” che in questi anni ci ha tolto diritti, lavoro, sanità… Questo è forse meno violento di uno sproloquio in Tv? Senza voler giustificare linguaggi truculenti, francamente mi sento molto più a mio agio ad affrontare la violenza diretta e palese piuttosto che quella celata (in malafede) nel formalmente corretto e nella “melassa gentile”.

Andrea Fagnoli

 

Diritto di replica

Una precisazione relativa all’articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano mercoledì, riguardo al progetto residenziale di Corte Verde firmato dall’architetto Stefano Boeri – Boeri Architetti in partnership con Arassociati e studio AG&P. Il nome corretto del progetto è Bosconavigli e interviene esclusivamente sull’area di San Cristoforo seguendo i principi di Forestazione Urbana che da tempo contraddistinguono l’operato dello Studio. L’intervento sull’area di via dei Ciclamini non è curato da Stefano Boeri Architetti ma da altri professionisti.

Elettra Zadra, Pr, Stefano Boeri Architetti

Quotidiani. Meglio occuparsi di politica estera sempre, non solo se c’è la guerra

 

Caro direttore, uno storico latino, dopo la distruzione di Cartagine sulle cui rovine i vincitori sparsero il sale, scrisse una frase lapidaria: “Fecero un deserto e lo chiamarono pace” (la pace della morte). È ciò che avviene ormai da decenni in Mesopotamia e che potrebbe oggi allargarsi (vedi la Libia, il Medio Oriente…) fino alle più estreme e catastrofiche conseguenze come lo scontro fra potenze nucleari (non dimenticando che Israele ha la Bomba e che altre atomiche possono forse essere “trovate sul mercato”). Il leader della prima potenza militare, gli Usa, sta agendo da totale irresponsabile, come ha dimostrato ampiamente nei campi cruciali per la sopravvivenza del pianeta (ambiente, clima, guerre economiche, dazi…): oltretutto, potrebbe anche essere rieletto l’anno prossimo, vista la debolezza-inesistenza di un buon candidato democratico finora. Perché il giornale non dedica più spazio (e analisi qualificate, per esempio di Mini) alle questioni internazionali così pressanti e allarmanti piuttosto che restare schiacciato sulle questioni interne, con le solite e sfibranti tiritere dei soliti scandali (Renzi, Boschi, Autostrade, prescrizione, liti…)? Per carità, tutte inchieste sacrosante e necessarie, specie con la stampa mainstream faziosa o schierata a protezione dell’establishment politico-economico… Ma qualche pagina in più sugli Esteri e in meno sugli Interni forse gioverebbe. Buon lavoro.

Marzio Campanini

 

Per chi, come me, si occupa di esteri da circa venti anni, le sue parole sono musica. E infatti, in questi giorni, le nostre pagine si sono animate delle grandi questioni internazionali come mai nei giorni passati. La sua sollecitazione è quindi giusta, anche se spesso di politica internazionale si parla solo quando è in corso una guerra. Eppure è evidente a tutti che la Politica è innanzitutto globale e che ogni scelta condotta all’interno degli Stati nazionali è sovradeterminata da decisioni che vengono prese in altri luoghi e ad altri livelli. La stessa rappresentanza politica è fortemente messa in torsione da questa realtà. Nei quotidiani facciamo fatica a stare al passo con questa realtà. Qui al “Fatto” qualcosa di nuovo abbiamo prodotto. I lettori avranno notato le due pagine stabili, pubblicate il Lunedì, che riprendono le inchieste o le analisi del quotidiano francese “Mediapart”, uno dei migliori in circolazione in Europa. Stiamo per far partire una stabile collaborazione con il “Financial Times” e con altre testate. Non appena sarà pronto (manca poco), il nostro nuovo progetto digitale, costruiremo altri appuntamenti in tal senso. L’impegno ce lo metteremo tutto.

Salvatore Cannavò

Un “Paragone” da utilizzare per colpire il M5S

Pluralismo è da sempre parola chiave che giustifica il dissenso. Visto l’abuso che se ne fa, tuttavia, occorre chiarire guardando la Storia e la filosofia. Sembra una questione semplice: la democrazia di un partito si misura dal dissenso consentito alla minoranza. Fine della discussione? Per niente. La Storia mostra che il glorioso Partito socialista di Turati, per dire, espulse Mussolini perché dissentì schierandosi per la guerra. Espellere si deve, quando i principi vengono traditi. Ma veniamo alla microstoria. Si arrampica sugli specchi, Paragone, e tira in ballo il pluralismo. La verità è che le norme dei 5Stelle dicono che la fiducia al proprio esecutivo va votata; Paragone non l’ha fatto; è fuori dal Movimento. Punto. Pluralismo non significa anarchia (lo sapeva Berlinguer: nel Pci ci si scontrava: Amendola, Ingrao, Pajetta… ma il “centralismo democratico” imponeva che all’esterno si tenesse una posizione unitaria). Senza disciplina e sguardo lungo è il caos e si fa il gioco degli avversari: all’inizio molti non seppero calcolare il peso di quanti cavalcavano la violenza fascista (agrari, grande industria, esercito…), e tuttavia non era impossibile vedere che “un certo mondo” voleva-approvava quelle azioni. La Storia è piena di complicità e strumentalizzazioni. Scendiamo più in basso (infinitamente più in basso), alle nostre piccole storie: oggi chi approva l’azione di Paragone? Cui prodest? Chi utilizza il senatore che ha cercato la propria espulsione? In breve: leggere Repubblica (“M5S, disgregati verso la meta”, 3 gennaio), vedere che lo spazio concesso a Paragone serve per colpire i 5Stelle, dice che è in atto (e non da oggi) un’operazione che va oltre l’ex leghista.

Bisogna assestare il colpo definitivo al M5S (questo l’obiettivo); assestarlo in ogni direzione, attribuendo (anche) assurde responsabilità a Di Maio per la gestione della crisi iraniana. Difficile non vedere che l’obiettivo è sempre lo stesso: demolire i 5Stelle. Che Paragone si presti, sbandierando il pluralismo, si capisce; che ci caschi anche Di Battista (“Paragone è più grillino di tanti altri”) è grave e incomprensibile. Davvero il M5S sta tradendo il proprio programma? “Prima delle elezioni, tu chiedi consensi in nome dell’ambiente, della giustizia, delle tasse. Poi ci sono gli altri”, scrive Ainis, “che hanno altre priorità… E allora dovrai venirci a patti, perché è questa la grammatica della democrazia parlamentare” (Repubblica, 5 gennaio). Insomma, l’atteggiamento da “anime belle” non va bene. Hanno conseguenze certi candori. Con Sartre: “Si è sempre responsabili di quello che non si è saputo evitare”. Anche perché, guardando gli atti del governo, il M5S sta raccogliendo ottimi risultati: il taglio dei parlamentari; il carcere per i grandi evasori; la nuova legge sulla prescrizione; il reddito di cittadinanza. La “Spazzacorrotti” dice di un senso della giustizia di fronte al quale Paragone dovrebbe inchinarsi: Paragone, grillino col “Movimento vincente”, appena è andato in crisi è tornato leghista: “Tutto si potrà dire, meno che non sia coerente col suo trasformismo” (Delbecchi). Questa è la verità. Il resto sono manovre di chi ha perso di vista le battaglie che il Movimento ha fatto e farà: anzitutto togliere le concessioni ai Benetton: i giornaloni spieghino perché, nonostante i disastri, li difendono. Infine: se molti politici e affaristi, incistati nel sistema, remano contro i 5Stelle utilizzando Paragone (e Di Battista che tra non molto diverrà l’eroe di certi giornali), è perché sentono che i valori del Movimento confliggono con la politica di un passato duro a morire. Nelle elezioni politiche, dove l’attenzione dei cittadini è massima, si metteranno sulla bilancia “gli atti legislativi” voluti dai 5Stelle e le chiacchiere di quanti – non sempre in buona fede – hanno remato contro. Parleranno i fatti. E alla fine gli elettori capiranno.