C’era bisogno dell’agiografia di San Bettino?

L’articolo firmato da Marco Travaglio sul film Hammamet, che racconta il cosiddetto “esilio” di Bettino Craxi in Tunisia, induce a riflettere sul senso del cinema quando si avventura a ricordare personaggi controversi. In questo caso non è in discussione l’interpretazione di Pierfrancesco Favino, in stato di grazia, forse ancora più di quando ha interpretato il boss Tommaso Buscetta nel film di Marco Bellocchio Il traditore. Né è in discussione la regia di Gianni Amelio, uno dei nostri migliori registi.

La questione è un’altra: è possibile raccontare la biografia di un malandrino senza cadere nell’agiografia? Lo stesso quesito si è posto all’uscita del film Il divo su Giulio Andreotti, firmato da Paolo Sorrentino, che a molti è parso più un peana che una critica alle sue imprese, come l’appoggio ad alcune consorterie in odore di mafia. Anche all’uscita dei film di Martin Scorsese sui protagonisti appartenenti alla criminalità italoamericana molti si sono chiesti se non fosse latente l’omaggio da parte di un regista cresciuto in una strada di Little Italy, Elizabeth Street, dove di mafiosi ne poteva incontrare tutti i giorni, magari dovendo stringergli la mano. Lo stesso The Irishman, il suo film per Netflix, ripropone l’antica querelle: critica o tributo alle gesta dei gangster più efferati? Come non appassionarsi alle imprese di Robert De Niro o del suo mentore Joe Pesci, un formidabile interprete che anche quando ammazza e fa ammazzare ti induce a pensare solo a quanto è bravo e non a quanto è scellerato.

Qualcosa di simile è accaduto anche quando, alcuni fa, in Germania è stato realizzato un film sugli ultimi giorni di Hitler. Titolo La caduta. Protagonista un meraviglioso Bruno Ganz, scomparso da poco. Così bravo, così credibile, così appassionato, che alla fine pensi a Hitler come a uno psicopatico che avrebbe avuto bisogno di cure anziché trovare la morte nel bunker. Delle gesta del leader del Partito socialista, Travaglio ha dipanato una sequela impietosa e non mi sembra ci sia da discutere. Si tratta di fatti, date e avvenimenti che ormai appartengono alla storia. Il problema è se il cinema, nel momento in cui si cimenta con personaggi reali, sia in grado di essere obiettivo oppure no. Ho avuto occasione parecchi anni fa di conoscere Bettino Craxi nel suo regno romano all’Hotel Raphael, quando insieme a un suo sodale, Massimo Pini (che conoscevo in quanto editore di un mio libro), mi fu proposto di realizzare un film sul Partito comunista di allora, ovviamente critico, che sarebbe servito al Psi per farne buon uso.

Venivo dal successo di un film satirico e impietoso sulla Democrazia Cristiana, Forza Italia! (sceneggiato da Antonio Padellaro e Carlo Rossella) e l’idea del leader socialista era di fare altrettanto nei confronti del Pci. Risposi “no grazie”, non perché pensassi che alcune esecrabili gesta di quel partito non meritassero un film, ma perché non sono solito lavorare per conto terzi.

Anni dopo, quando Craxi era ormai fuori dai giochi, mi fu proposto da alcuni suoi amici di realizzare un film sull’esilio tunisino. Di nuovo rifiutai per le stesse ragioni. Ora il film è stato fatto e secondo me è comunque un bene, perché serve a discutere su un personaggio, che di certo non è passato inosservato. Anche in questo caso l’attore che lo interpreta è così bravo che mentre lo guardi non ti viene in mente che si tratta comunque di un politico fuggito per non farsi processare. Craxi si autoassolve, sostenendo con fierezza che se ha rubato ha fatto né più né meno come tutti gli altri colleghi seduti in Parlamento. Aggiungendo che, stando così le cose, non si sarebbe fatto giudicare da tribunali altrettanto corrotti o corruttibili. Mio Dio, ma vi sembra la giustificazione di uno statista? È come se approvassimo un ladro o un assassino che si oppone all’arresto perché in giro ci sono molti altri simili a lui.

Soltanto il welfare argina la povertà

Si esce commossi e indignati dalla proiezione di Sorry We Missed You, un film che, come tutte le opere di Ken Loach, è capace di elevare una piccola storia privata a livello di tragedia universale. Il film racconta la condizione umana e familiare di un lavoratore incappato nella morsa della gig economy, che riporta indietro le lancette della storia inchiodando un operaio nella condizione disperata che il proletariato subiva prima di Gramsci, prima di Taylor, prima ancora di Marx. Ma nessuna recensione del film, che io sappia, ha fatto notare ai lettori che quel livello di sfruttamento, consentito dalle leggi anglosassoni, sarebbe oggi impossibile in Italia grazie al “decreto Dignità” che impedisce a un lavoro spietato di valicare i limiti dell’umana tolleranza.

Stessa sorte sta toccando al Reddito e alla Pensione di Cittadinanza. Il primo gennaio 2019, benché il Rei fosse in vigore da dodici mesi, vi erano ancora 4.917.000 italiani in povertà assoluta, cioè – secondo la Treccani – privi dei “mezzi indispensabili alla mera sussistenza dell’individuo”. Il 60% di questi poveri non erano in grado di lavorare perché minori o inabili. Il restante 40% era composto da disoccupati e occupati sottopagati. Oggi 2,5 milioni di poveri fruiscono del reddito o della pensione di cittadinanza: sono ancora poveri, ma non più poveri assoluti. Tra loro vi sono 200mila invalidi e 400mila minori.

Raggiungere i poveri e assisterli è un’operazione difficilissima: in Germania, dopo dieci anni dall’introduzione del reddito di cittadinanza, sono riusciti a scovare solo il 60% dei poveri. In Italia, dopo i primi nove mesi del Reddito e della pensione di cittadinanza, già 2,5 milioni di destinatari (pari al 50% del totale) ricevevano il beneficio.

I media si sono soffermati con cinica e compiaciuta insistenza sui pochi casi di furbetti che sono riusciti a truffare l’Inps ottenendo il beneficio senza averne i requisiti. Formigli ha dedicato un’ora intera di Piazzapulita al caso di una signora della famiglia Spada che è riuscita ad avere dal Comune i documenti necessari per percepire il reddito. Ma non ha detto che, su 1.532.000 domande presentate da altrettanti nuclei familiari, l’Inps è riuscita a esaminarne la quasi totalità a tempo di record, scartandone scrupolosamente il 36%. Nella stessa trasmissione Alan Friedman, dimostrando una completa ignoranza in materia, ha sostenuto che il Rei di Gentiloni era molto meglio del Reddito di cittadinanza. Ebbene, nei suoi primi sette mesi il Rei è riuscito a raggiungere solo 1,4 milioni di persone erogando per ogni nucleo familiare un importo medio mensile di 293 euro. Invece il Reddito di cittadinanza, nei suoi primi sette mesi, ha raggiunto 2,4 milioni di persone con un importo medio di 481 euro. È difficile comprendere il motivo per cui Formigli, che pure dirige una trasmissione attenta ai problemi sociali, sia impegnato in una crociata denigratoria nei confronti del Reddito di cittadinanza.

Un’accoglienza altrettanto sbilenca da parte dei media è ora riservata ai dati Istat che certificano una leggera risalita del tasso di occupazione. Negli anni compresi tra il 2001 e il 2017 la nostra politica occupazionale è stata a dir poco demenziale. Nel 2001 il nostro tasso di occupazione era del 57,1%. Si misero all’opera parlamentari del Pd e socialisti pentiti, subdolamente neo-liberisti e tra il 2001 e il 2017 dettero mano a una polveriera normativa: fu varata la legge Biagi, furono istituiti, tolti e rimessi i voucher, fu ridotto il cuneo fiscale, fu abolito l’articolo 18, fu azzerata l’Irap, il solo Jobs Act costò 16,7 miliardi. Valanghe di soldi mollati alle imprese, centinaia di migliaia di ore di scioperi, conflitti d’ogni genere furono investiti per trasformare l’Italia nel Paese europeo con maggiore flessibilità contrattuale nel settore privato, con crescente flessibilità nel settore pubblico, con un costo complessivo del lavoro attestato intorno alla media europea. Ebbene, in questi diciassette anni l’occupazione è salita dal 57,1 al 58,4. Molto più dell’occupazione è aumentata la componente precaria della forza lavoro. Ichino, uno degli artefici di questa impresa, ebbe la faccia tosta di pubblicare il libro Il ritorno del lavoro.

Dietro questa spirale floscia vi era la presunzione che, per debellare la povertà, basta la crescita. Prima Reagan e poi Bush padre misero in atto le idee degli economisti Kuznets e Laffer secondo cui occorre abbassare le tasse ai ricchi sia per incoraggiarli a investire sia per scoraggiarli a evadere il fisco; poi la loro maggiore ricchezza sarebbe automaticamente sgocciolata fino ad alleviare la condizione dei poveri (trickle-down). Invece la storia ha dimostrato che, senza welfare, il numero dei poveri aumenta anche là dove cresce la ricchezza, perché chi la sa produrre non la sa distribuire, e viceversa. Dunque, se si vuole evitare che la povertà si traduca in conflittualità e che la conflittualità tracimi in violenza, occorre uno stato sociale: per la tranquillità dei ricchi, oltre che per la sopravvivenza dei poveri.

Quando si può far del bene con poco

Il pur giovine Giuseppe Brescia, forte della laurea in Scienze dell’educazione, ha un posto di rilievo nel Parlamento italiano: presidente della commissione Affari costituzionali della Camera. Tra i molti oneri che l’alto incarico gli ha portato in sorte c’è anche la presentazione a sua firma di una proposta di legge elettorale a base proporzionale con soglia di sbarramento nazionale al 5% ispirata a quella in vigore in Germania, motivo per cui ora in giro la chiamano “Germanicum”. Brescia, che pure ha la geografia nel cognome, non ha del tutto apprezzato la cosa. Ma come? – s’è detto – C’è stato il “Mattarellum” da Mattarella e persino il “Rosatellum “ da Rosato a non dire del “Porcellum” da Calderoli… e io niente? “Bisognerebbe chiamarlo ‘Brescellum’, io lo preferirei, sarebbe meglio. Io sono ottimista, bisogna esserlo”, s’è sbilanciato col pensiero positivo ieri a Un giorno da pecora (Radiouno). Giustamente il nostro – che non ha fatto il militare a Cuneo, ma ha vissuto qualche mese in Australia (poi lasciata perché era “estremamente consumistica” e invece “io non sono di estrazione capitalista”) – nutre la legittima ambizione di permeare di sé, se non il mondo, almeno la cabina elettorale. Fosse per noi lo accontenteremmo: se si può fare del bene con così poco perché rifiutarsi?

Attaccò Gratteri, Lupacchini rischia il posto

Ha accusato il Procuratore di Catanzaro anti ’ndrangheta, Nicola Gratteri, via telecamere, di condurre inchieste “evanescenti” e per questo, ma non solo, il Procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, potrebbe essere trasferito dal Csm per incompatibilità ambientale.

Ieri, la Prima commissione del Csm, presieduta da Sebastiano Ardita, ha votato all’unanimità la procedura e già lunedì Lupacchini sarà sentito dalla Prima con il suo avvocato Ivano Lai, che assicura: “Il Pg con serenità si sottoporrà alle domande del Csm”. Lupacchini ha anche chiesto che la seduta sia pubblica, dovrà decidere il Csm se acconsentire.

Contemporaneamente, la Prima Commissione, su richiesta di Magistratura Indipendente, Area e del laico M5S, Gigliotti ha aperto una pratica a tutela di Gratteri per le dichiarazioni di Lupacchini e per quelle della deputata del Pd Enza Bruno Bossio che aveva definito l’operazione di Gratteri uno “show” destinato a finire “in una bolla di sapone come il 90% delle sue indagini”, con lo scopo di “colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi”.

Dopo i 300 arresti di dicembre chiesti e ottenuti dal procuratore Gratteri, Lupacchini aveva rilasciato una dichiarazione su Tgcom24 che ha determinato la decisione della Prima: “I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa, che evidentemente è più importante della Procura generale. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della Procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade e cioè l’evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della Procura distrettuale di Catanzaro stessa”. Cioè il Procuratore generale accusa pubblicamente il procuratore del suo distretto di condurre inchieste basate sul nulla e di non averlo informato.

Secondo la Prima commissione ci sono gli estremi per valutare un trasferimento per incompatibilità ambientale perché Lupacchini avrebbe espresso un giudizio su inchieste su cui dovrà esserci una valutazione di merito di giudici; formula un giudizio su un magistrato su cui, per funzione, deve vigilare come su tutte le altre toghe del distretto. Il Procuratore generale fa anche parte, come membro di diritto, del Consiglio giudiziario, il “Csm locale”, che concorre alla valutazione professionale dei magistrati e alla loro nomina per incarichi direttivi o semi direttivi. Proprio per questo ruolo, è il ragionamento della Prima, con tale comportamento Lupacchini potrebbe aver compromesso la sua immagine di imparzialità in quel distretto. Lunedì non sarà contestata, però, solo l’intervista ma anche, ci risulta, la pubblicazione sulla pagina Facebook del Pg di una petizione contro la decisione dei giudici disciplinari del Csm di trasferimento cautelare a Potenza, come giudice civile, del procuratore Eugenio Facciolla di Castrovillari (distretto di Catanzaro), messo sotto inchiesta a Salerno dopo aver ricevuto un fascicolo dal procuratore Gratteri.

Calabria, il cugino mafioso imbarazza il candidato M5S

Dopo lo scandalo della casa parzialmente abusiva, il candidato del M5S a presidente della Calabria finisce al centro di un’altra polemica che, adesso, rischia di condizionare le elezioni regionali del 26 gennaio. Il docente universitario Francesco Aiello è cugino di primo grado del boss Luigi Aiello, ucciso a Soveria Mannelli il 21 dicembre 2014 nella faida del Reventino tra gli Scalise e i Mezzatesta.

Per la Dda di Catanzaro, Luigi Aiello era uno ‘ndranghetista che faceva parte del “gruppo storico della montagna”. Detto lo “Sceriffo”, secondo i pm, il cugino del candidato era affiliato alla cosca Mezzatesta ed era in grado di ordinare omicidi e fare estorsioni. Quella di Luigi Aiello è stata una carriera criminale in cui non si è fatto mancare nulla: tra il 1982 e il 1983, infatti, è stato condannato per omicidio preterintenzionale, rapina, furto, detenzione illegale di armi e tentata estorsione.

Scontata la pena (11 anni), non si è mai allontanato dagli ambienti criminali: il nome dello “Sceriffo” compare nell’inchiesta “Reventinum” del 2019, coordinata dal procuratore Nicola Gratteri. Se non fosse stato ammazzato, probabilmente Aiello sarebbe finito di nuovo in carcere perché sospettato di aver partecipato, come “specchietto”, all’omicidio di Daniele Scalise, rientrante anche questo nella faida del Reventino in cui nell’agosto 2016 è stato ucciso pure l’avvocato di Lamezia Terme Francesco Pagliuso al quale lo “Sceriffo” portava le “ambasciate” del boss Domenico Mezzatesta, all’epoca latitante.

Tra il candidato del M5S Francesco Aiello e il cugino boss non c’era solo un rapporto di parentela, dovuto al fatto che erano figli di due fratelli. Lo “Sceriffo”, infatti, frequentava casa dello zio. Imprenditore nel movimento terra, Luigi Aiello avrebbe effettuato diversi lavori con la sua impresa proprio nella famosa abitazione di Carlopoli, finita sulla stampa per l’abuso edilizio che sarebbe stato commesso dal padre del docente universitario. Ci sarebbero anche alcune foto dello cugino a bordo di un mezzo cingolato intento a lavorare sulla linea dell’acquedotto. Foto risalenti alla fine degli Anni 90 quando Francesco Aiello aveva più di 30 anni.

Certamente non è un reato essere parente dello ’ndranghetista ma è comunque imbarazzante per l’aspirante governatore definito dal deputato Paolo Parentela “il candidato ideale per condurre la rivoluzione necessaria” in Calabria: “Non ho nulla a che vedere con mio cugino. – commenta lo stesso Francesco Aiello – Non posso scegliere i parenti. Posso scegliere come vivere, chi frequentare e chi escludere dalla mia vita”.

Non la pensa così il senatore Nicola Morra il quale, appresa la notizia che Aiello è cugino di un affiliato alla ‘ndrangheta, va su tutte le furie e annuncia il suo disimpegno per le regionali: “Non darò alcun sostegno alla lista”.

Secondo il presidente della Commissione antimafia, “occupare gli spazi di cui ha parlato il procuratore Gratteri di recente è fondamentale, ma farlo con le persone giuste è un obbligo morale per chi fa politica attiva. Mi sarei aspettato dal candidato Aiello maggiore pubblicità e trasparenza sulle sue parentele”.

“La faida del Reventino – aggiunge Morra – è stata una faida sanguinaria e visti i precedenti di Luigi Aiello, cugino del candidato, e lo scalpore mediatico sulla questione dell’abitazione di Francesco Aiello, avrei preferito sapere tutto com’è nel diritto di ogni elettore. Avremmo preferito sapere, appunto, che parte dei lavori per quell’abitazione oggi al centro di polemiche furono eseguiti da suo cugino. Avere omesso queste informazioni credo non sia affatto corretto”.

La seconda stoccata Morra la indirizza al deputato Parentela: “Spero che il coordinatore di queste elezioni regionali non ne fosse a conoscenza, anche se gli obblighi di prudenza in questa terra impongono per chicchessia accertamenti approfonditi. Questo è uno dei motivi per cui non ho partecipato e non parteciperò alla campagna elettorale. Terrò ben lontana la mia persona da questa vicenda, in quanto ho un ruolo istituzionale da onorare. L’altro motivo per cui non darò alcun sostegno alla lista è il metodo di composizione: ridursi all’ultimo minuto ti fa scontrare con problemi che non hai il tempo di affrontare e risolvere. Mi spiace dirlo, ma stiamo rischiando di gettare alle ortiche un discreto patrimonio che a fatica abbiamo costruito in una regione così difficile e largamente occupata dalla ‘ndrangheta. Dire che si sia operato con leggerezza è un eufemismo”.

Bombardare su Bibbiano costa 6.500 euro

Ancora una volta Matteo fornisce l’input e Lucia segue. Già ai tempi delle Europee Salvini ideò una campagna elettorale su Facebook tutta dedicata ai minorenni: post a pagamento in cui i protagonisti negativi erano per lo più persone di colore coinvolte in fatti di cronaca. Adesso Borgonzoni, candidata a presidente dell’Emilia-Romagna, ripete: quasi 6.500 euro investiti sul suo profilo social negli ultimi giorni per sponsorizzare alcuni messaggi. Una pratica ormai diffusa tra i politici dei diversi schieramenti: Facebook permette di pianificare una campagna di annunci sponsorizzati scegliendo di mostrarli solo a uomini e donne di una certa zona geografica, di una certa fascia di età e con certi interessi. Nel caso della leghista però è il contenuto che colpisce.

I post dedicati ai ragazzi e ragazze tra i 13 e i 17 anni hanno un solo tema: Bibbiano. Il paese in provincia di Reggio Emilia dove quest’estate è esplosa l’inchiesta del procuratore Marco Mescolini sul presunto malaffare nella gestione degli affidi di bambini. “Nell’ultima settimana di campagna elettorale tornerò a Bibbiano, è una roba che grida vendetta al mondo” ha rivendicato Salvini nel suo tour parmense. Le “camere dell’eco” sono il fenomeno per cui si fanno circolare sui social determinati messaggi a discapito di altri: in questo modo sulla pagina social compariranno notizie e commenti che contribuiranno ad amplificare una visione univoca ed acritica su un argomento.

“Sta plagiando i minori con l’odio, ecco cosa si è ridotta a fare la Borgonzoni. I minori vanno tutelati e non tirati in mezzo in modo becero nella campagna elettorale” attacca Paolo Calvano, segretario regionale del Partito Democratico. “In questi giorni molti minorenni emiliano-romagnoli si sono visti comparire sul loro Facebook, foto e video della Borgonzoni che lucrava sulle inchieste di “Bibbiano” seminando odio. Una strategia elettorale perversa. Continuano a mettere in mezzo i bambini, esponendoli a spot pubblicitari pieni di odio e facendo leva sulle fragilità delle loro famiglie. Dovrebbero vergognarsi, ma non lo faranno perché sono assetati di potere e pronti a tutto. Anche a strumentalizzare in modo becero i bambini”.

Di recente il social network di Mark Zuckerberg ha aperto sulla trasparenza rendendo verificabile quanto i politici, gli enti, le aziende spendono e per chi: la pagina per controllare è la “libreria inserzioni”. Uno degli ultimi post dedicato (targhettizzato) ai minorenni da Lucia Borgonzoni è quello del 4 gennaio: “PD contro le telecamere di sorveglianza. Mi pare una posizione assurda e incomprensibile”.Meno di 100 euro l’investimento.

Altro post per i 13/17enni è quello sul governatore attuale Stefano Bonaccini, che avrebbe rinunciato a un incontro proprio a Bibbiano, come riportato dai giornali di Reggio Emilia. Più corposo l’investimento, tra i 200 e i 299 euro, e con un solo obiettivo, quello del target giovane. D’altronde Salvini stesso qualche settimana fa ha detto ai suoi candidati di “usare Bibbiano come una clava”.

A Latina il pentito del clan: “Nostri i voti di Lega e Fd’I”

Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera. Nicola Calandrini, senatore di Fratelli d’Italia. Matteo Adinolfi, europarlamentare della Lega. Ma anche l’ex tesoriere alla Camera e un’ex consigliera regionale di Fdi. Il 7 gennaio i loro nomi sono risuonati nell’aula del Tribunale di Latina, pronunciati da un pentito chiave del processo al clan sinti Di Silvio, parenti dei Casamonica, a cui i magistrati della Dda di Roma contestano l’associazione mafiosa.

Martedì la voce di Agostino Riccardo, un tempo legato al gruppo dei Travali e poi passato ai Di Silvio, ha colmato gli omissis che nelle carte dell’inchiesta “Alba pontina” condotta da Luigia Spinelli e Claudio De Lazzaro coprivano i nomi dei politici e ha confermato i contatti con gli esponenti della politica pontina. Cui l’organizzazione avrebbe garantito visibilità e voti. “La mia prima campagna elettorale abbiamo fatto diventare noi Travali a Pasquale Maietta assessore al comune di Latina. Fu candidato e prese mille voti”, ha ricordato Agostino in videocollegamento con l’aula da una località protetta. Ex golden boy del centrodestra pontino, coinvolto nel 2016 nell’inchiesta “Olimpia” e nel 2018 finito agli arresti in “Arpalo”, il commercialista era entrato in consiglio comunale nel 2007 e nel 2011 era diventato titolare del Bilancio. Nel 2013 l’approdo alla Camera. In quelle elezioni “il primo della lista di Fratelli d’Italia era Giorgia Meloni, il secondo Fabio Rampelli e il terzo Pasquale Maietta. L’onorevole Rampelli fu minacciato per dimettersi da secondo della lista”, ha scandito Riccardo, gettando una luce sinistra su quanto avvenne ai piani alti di via della Scrofa nelle ore successive al voto: la leader e il vicepresidente della Camera, candidati in prima e seconda posizione nelle circoscrizioni Lazio 1 e Lazio 2, optarono per la prima e per Maietta – terzo nella seconda lista – si spalancarono le porte di Montecitorio. “Non conosco nessuno di questi personaggi – commenta Rampelli al Fatto – quella fu una scelta politica: in quel territorio ottenemmo il 10% e non potemmo non premiarlo con un seggio”.

Nel racconto del testimone centrale dell’inchiesta, insieme all’altro pentito Renato Pugliese, i clan diventano così potenti da spostare centinaia di voti in poche ore. Almeno secondo Riccardo, che martedì ha fatto il nome di Gina Cetrone, oggi in “Cambiamo” di Giovanni Toti ma nel 2013 candidata alla Regione con Fdi: “Ma non fu eletta perché all’ultimo momento ci fu uno scambio di voti – ha raccontato il pentito – Praticamente i 500 voti che sarebbero andati a Gina Cetrone dalla curva del Latina Calcio… (…) essendo presidente del Latina Calcio, Pasquale Maietta ci mandò a di’ che ‘sti 500 voti li dovevamo gira’ a Nicola Calandrini. Infatti i 500 voti della curva li girammo a Nicola Calandrini”. “Non posso escludere che Maietta abbia richiesto a terzi e quindi anche nell’ambiente calcistico, di votare per me alle regionali”, ha commentato il senatore. Ma “escludo di aver avuto conoscenza della presunta mediazione”.

Quello che secondo i testimoni era il metodo per verificare che le preferenze andassero a chi di dovere è descritto nelle carte: gli uomini dei Di Silvio portavano le persone al seggio e poi si facevano consegnare le schede timbrate per confrontare a urne chiuse i numeri tra i voti promessi e quelli effettivamente arrivati. Tutto ricostruito nell’ordinanza alla base dell’inchiesta che nel giugno 2018 decapitò il presunto clan con 20 arresti. Secondo l’accusa, poi, il gruppo si occupava dell’affissione dei manifesti dei politici che pagavano e garantiva loro che non fossero coperti da nessuno.

È il servizio che, racconta Riccardo, il gruppo avrebbe fornito a Matteo Adinolfi. Dopo una vita in An, nel 2016 l’attuale eurodeputato della Lega era tornato in consiglio comunale sotto le insegne di “Noi con Salvini”. A lui l’organizzazione portò “sia visualizzazione che voti. Prese 500 voti”, ha detto il pentito. E 48 ore dopo l’esponente leghista ha diramato una nota “per negare con forza la veridicità di tali affermazioni”.

La deposizione continuerà il 24 marzo, ma oggi il Pd ha convocato una conferenza stampa a Roma. Evocativo il titolo: “Parlateci della mafia” .

Meghan come Wallis, la maledizione yankee di Buckingham Palace

Zoom sul fatidico di Instagram dell’8 gennaio, quando gli ingrati Harry e Meghan hanno comunicato il clamoroso addio – certo, in modo obliquo – alla potente e opprimente famiglia reale. Capace però di fare affari d’oro, e portare nelle casse dello Stato britannico un indotto di quasi due miliardi di sterline. Tanto che viene soprannominata The Firm. La Ditta.

Una mossa scellerata, hanno strepitato i tabloid, a cominciare da The Sun che ieri, in prima pagina titolava a caratteri cubitali “Megxit”, “exclusive: Palace Bombshell”, la Regina descritta come “triste”, Carlo e William “furiosi”… Una pioggia di tweet si è subito abbattuta su Meghan Markle, vista come la strega divorziata che ha sedotto e manipolato il principe Harry: “Ma come si permette?”. Quasi tutti gli opinionisti la crocifiggono, difendendo a spada tratta la povera Regina tradita e offesa. I due si sono sposati nemmeno due anni fa con un matrimonio da favola – privilegio dei re d’Inghilterra – e la trattano in questo modo? Sa di orgoglio e pregiudizio, la feroce reazione della stampa filomonarchica. Ma Harry e Meghan assicurano che non è andata così, che hanno preso la decisione di vivere lontano dalla corte “dopo numerosi mesi di discussioni”. Un “exit” del genere non è che faccia bene alla salute di un Paese alla vigilia di una Brexit assai più drammatica. Quel che non ha gradito l’establishment è l’aver umiliato tradizioni e istituzioni, senza ricorrere alla mediazione dell’ufficio di pubbliche relazioni del Palazzo. Senza avvisare il principe Carlo, papà di Harry, che avrebbero dato la notizia in Rete. Senza confidarsi col fratello William, e su questo chissà quanto si ricamerà. Per non parlare di “Granny”, la nonna, la regina Elisabetta II che in fondo è la monarca per grazia di Dio, colei che ha retto per decenni le sorti di una sghangherata e litigiosa stirpe, travolta da mille scandali, l’ultimo, quello del figlio Andrea coinvolto nell’ignobile caso Epstein. Pensavano forse di commuovere l’opinione pubblica, affermando di voler lavorare ed essere indipendenti. I duchi di Sussex, nelle poche righe del loro messaggio online, hanno lasciato trapelare il disagio nei rapporti delle gerarchie familiari; hanno svelato quanto gli pesasse la vita impacchettata – seppure dorata – di una corte dai vincoli anacronistici. Macché. Qualcuno vi ha letto invece il disprezzo nei confronti delle regole da seguire, verso gli obblighi del cerimoniale: ne erano ampiamente a conoscenza e l’avevano accettato, fidanzandosi ufficialmente. Col senno di poi, rivedi certi sguardi non proprio amichevoli della cognata Kate, moglie di William, il fratello “buono” (Harry no, uno scavezzacollo viziato che si era persino travestito da Hitler…).

Epperò scatta in noi un déja-vu, quando Harry e Megan, dicono di rinunciare al ruolo di “senior members” della famiglia reale. Negli ultimi mesi, infatti, più volte avevano confessato di sentirsi vittime della pressione mediatica. Alle regali orecchie di Elisabetta avrebbe dovuto suonare un campanellino d’allarme. Perché così si lamentava, e non a torto, lady Diana, dopo la ostacolata separazione da Carlo e il suo allontanamento dalla corte. E per questa dannazione, ci ha rimesso la vita. Pure l’irrequieta Sarah Ferguson si ribellò al conformismo di corte, rivendicando libertà e ostentando una sensualità ritenuta eccessiva dalla regina. Che visse giovanissima la vicenda di suo zio Edoardo VII, perdutamente innamorato di Wallis Simpson, una mondanissima (e scostumata per i Windsor) divorziata nordamericana – come Meghan – al punto da cedere lo scettro al fratello Giorgio, papà di Elisabetta. E poi, l’irrequieta sorella Margaret, collezionista di amori proibiti, al centro delle cronache mondane, e di litigi furiosi per via del Royal Marriages Act. La storia si ripete. E pure il bailamme scandalistico. Piers Morgan è il più acceso critico di Meghan (e di Harry): “Chi cazzo pensano di essere? Ho visto alcune buffonate reali vergognose ai miei tempi, fatte per pura arroganza, avidità e irriverenza, ma nulla ha eguagliato il loro comportamento (…) Io li spedirei di nuovo alla vita da comuni mortali”. E li accusa di volere Hollywood coi soldi del padre, di sfruttare “quando onoreranno il Regno Unito con la loro stimata presenza”, la sontuosa dimora di Frogmore Cottage donata dalla Regina e restaurata coi soldi dei contribuenti. Si attende una nuova puntata.

Gli isolazionisti a oltranza: ai Tory non piace l’Erasmus

La notizia: durante il processo di approvazione definitiva dell’accordo di divorzio dall’Ue, i parlamentari britannici hanno votato contro la continuazione in automatico dell’Erasmus plus, programma per lo scambio di studenti e insegnanti che è uno dei fiori all’occhiello dell’Unione europea.

Grande e immediata l’indignazione per quello che è sembrato, a seconda dei punti di vista, un gesto di autolesionismo del Parlamento, un aperto atto di ostilità verso la Ue, una miope presa di posizione ideologica verso un programma che l’anno scorso ha portato nel Regno Unito quasi 32 mila studenti di 27 Paesi europei e in Europa più di 16 mila britannici. E la fine di una utopia, con tweete articoli allarmati di intellettuali o comuni cittadini che all’Erasmus devono apertura culturale, amicizie, rapporti di lavoro o d’amore. È davvero la fine degli scambi fra studenti europei e britannici? Non è ancora detto: Westminster per ora ha bocciato una clausola, presentata dagli europeisti Lib-Dem, che avrebbe imposto al governo di inserire la partecipazione all’Erasmus nei futuri negoziati su Brexit. Partecipazione che va comunque rinegoziata, visto che l’uscita dall’Ue la farebbe automaticamente decadere. Ma per il momento non cambia nulla, con le borse per il 2020 già assegnate e l’impegno reciproco di Ue e Regno Unito di far terminare il progetto ai vincitori. Il sottosegretario per l’Università e la ricerca, Chris Skidmore, ha subito sdrammatizzato: “Il voto alla Camera non mette fine e non impedisce al Regno Unito di partecipare all’Erasmus Plus. La partecipazione farà parte dei futuri negoziati con l’Ue. Noi restiamo aperti, diamo grande valore agli scambi internazionali di studenti”.

E un portavoce del dipartimento per l’educazione ha dichiarato, ieri, che “Il governo è determinato a continuare la relazione accademica fra Uk e Ue, estendendola anche al nuovo ciclo del programma Erasmus+ [2021-2027] se è nel nostro interesse. Il voto di ieri non cambia questo approccio”. Si vedrà in sede di negoziati. Una possibilità è che, come già fanno altri stati non membri Ue, Londra debba pagare per garantirsi la partecipazione ai progetti europei. E in quel caso, visto il prestigio internazionale delle università britanniche, potrebbe rivalersi a caro prezzo per garantire la reciprocità. Comunque vada, l’indicazione politica c’è, ed è poco rassicurante. Contro quella clausola hanno votato 344 parlamentari contro 254: tutti i conservatori contro tutta l’opposizione. La conferma che la maggioranza parlamentare uscita dalle ultime elezioni, per la Brexit, abbraccia un’idea isolazionista del Paese, in cui gli scambi con l’Europa non sono una priorità. È la stessa maggioranza che ha votato contro il ripristino del ricongiungimento familiare per i bambini rifugiati non accompagnati.

Altro che Iran, sono i Dem a “bombardare” Trump

Mentre il mondo tira un sospiro di sollievo, perché la guerra in Medio Oriente sembra congelata, Donald Trump inizia a preoccuparsi: l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani in Iraq il 2 gennaio, con un drone, si sta rivelando un errore di calcolo. Soprattutto è diventato un regalo ai Democratici che sono riusciti a saldare due storie diverse, la procedura di impeachment (per le pressioni sul presidente dell’Ucraina affinché indagasse su Joe Biden, candidato Dem alle elezioni 2020) con il possibile abuso dei poteri presidenziali nell’operazione Soleimani.

Gli iraniani appears to be standing down, ha detto Trump mercoledì, che si può tradurre con “stanno abbassando le penne”: i razzi sparati nella notte sulle basi militari Usa in Iraq non hanno fatto morti (ma solo perché Teheran ha avvertito in anticipo, trasformando l’attacco in una azione dimostrativa). Trump si considera un grande dealmaker, uno che sa negoziare, e segue sempre lo stesso schema: sorprendere l’avversario con una mossa aggressiva per costringerlo a un compromesso prima considerato inaccettabile. Nonostante la sua reputazione di presidente non-interventista, Trump lo ha fatto molte volte: con il Messico sul trattato commerciale Nafta, con la Cina sui dazi, con la Corea del Nord sul nucleare. Con risultati incerti, o almeno non definitivi. Ora Trump prova a convincere gli americani che con l’Iran è andata bene: nel 2018 si è ritirato dall’accordo Jcpoa negoziato da Barack Obama nel 2015 e che prevedeva una sorveglianza internazionale sul programma nucleare iraniano e un rallentamento nella marcia verso l’atomica, a inizio 2020 Trump ha ordinato l’uccisione di Soleimani e ora gli ayatollah “abbassano le penne”, mentre lui comunque annuncia nuove sanzioni. Missione compiuta, è il suo messaggio. Ma la trappola politica è scattata. La presidente della Camera, Nancy Pelosi, veterana dei Democratici, ha trattenuto il più a lungo possibile il dossier dell’impeachment prima di lasciarlo al Senato, guidato dal fedelissimo di Trump, Mitch McConnell. Ora la Pelosi è pronta a passare il caso al Senato perché i Democratici stanno iniziando una nuova battaglia, quella sulla risoluzione (votata ieri al Congresso, a maggioranza Dem) che ordina al presidente di limitare le sue azioni contro l’Iran a quanto previsto dalla legge. Niente attacchi militari in assenza di dichiarazione formale di guerra o di esplicita autorizzazione del Congresso. Il fronte repubblicano si sta già spaccando sull’Iran: Mike Lee, influente senatore repubblicano dello Utah, si è indignato per il briefing di 75 minuti degli uomini della Casa Bianca al Senato sull’operazione Soleimani. I contenuti sono secretati, ma Lee ha detto che è stato “il peggiore briefing militare in nove anni al Senato”. Sulle stesse posizioni Rand Paul, altro Repubblicano.

All’incrocio tra queste due storie, Ucraina e Iran, c’è John Bolton: l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump è stato tra i primi sostenitori della linea dura con Teheran, su Twitter si è congratulato per l’assassinio di Soleimani. Ma Bolton si è dimesso dal- l’amministrazione dopo violenti scontri con Trump sulla diplomazia parallela condotta dall’avvocato personale del presidente, Rudy Giuliani. Appena Bolton è uscito dalla Casa Bianca, sono scattate le denunce anonime che hanno portato all’impeachment di Trump. I Democratici sono stati a lungo combattuti se convocare o meno Bolton sull’Ucraina, anche al Senato i Repubblicani sono divisi sulla opportunità di ascoltarlo. Ma dopo che lo stesso Bolton ha detto di voler parlare, la politica americana sembra appesa ai verdetti di questo ex ambasciatore (di George W. Bush) all’Onu e commentatore della tv conservatrice Fox News.

Nel frattempo, i candidati democratici alla presidenza osservano un po’ interdetti. Il 3 febbraio inizia il processo delle primarie, in Iowa. La questione Iran dovrebbe favorire i due candidati più moderati e pragmatici in politica estera, Joe Biden e l’ex soldato Pete Buttigieg.

Ma a pochi giorni dal voto, a sorpresa, in testa ai sondaggi dell’Iowa c’è’ il vecchio socialista Bernie Sanders, 22 per cento contro il 21 di Buttigieg.

Sanders è al secondo posto in quelli nazionali, ma dieci punti sotto Biden.

Con l’economia americana che regge e Wall Street che segna nuovi record appena la tensione con l’Iran scende, ai Democratici non resta che seguire la loro unica vera strategia per le Presidenziali di novembre: sperare che Trump combini abbastanza pasticci da perdere una elezione che sembra destinato a vincere.