L’aereo ucraino schiantatosi al suolo all’alba di mercoledì scorso pochi minuti dopo il decollo dall’aeroporto di Teheran, è stato abbattuto per errore da un missile Tor-1 di fabbricazione russa in dotazione alle forze militari iraniane? L’ipotesi la rilanciano Newsweek e Cbs negli Usa, Teheran parla di “ipotesi senza senso”. Nella Capitale iraniana è arrivato il team di investigatori ucraini per cercare di capire cosa abbia determinato lo schianto del Boeing 737-800 della Ukraine International Airlines, avvenuto subito dopo la vendetta dei Pasdaran contro le due basi militari irachene che ospitano i soldati americani e quelli della coalizione internazionale anti-Isis, tra i quali ci sono anche gli italiani. Il Boeing era diretto a Kiev e trasportava 176 persone, la maggior parte canadesi e iraniane, nessuna delle quali è sopravvissuta. L’ipotesi dell’abbattimento era già stata avanzata sul suo profilo Facebook da Oleksiy Danilov, segretario del Consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa dell’Ucraina. Danilov ha scritto di voci “non confermate” di frammenti di un missile terra-aria nei pressi del luogo dello schianto. Anche il governo britannico ha dichiarato di aver esaminato rapporti “preoccupanti” secondo cui l’aereo potrebbe essere stato abbattuto. Zelensky, giovane capo dello Stato ucraino, ha ricevuto una telefonata di condoglianze dal suo omologo iraniano, Rohani, che gli ha promesso collaborazione totale. Poche ore dopo la tragedia, le autorità iraniane avevano dichiarato che non avrebbero consegnato le scatole nere alla Boeing, essendo una compagnia americana. Qualche ora dopo era arrivata la notizia che queste potranno essere esaminate da organi investigativi internazionali. Ma ancora non è chiaro quali. Oltre a Danilov, un altro ufficiale ucraino che chiede l’anonimato ha rivelato che tra le quattro teorie formulate, quella dell’abbattimento missilistico è la più plausibile per vari motivi: “A bordo c’erano non due, ma ben tre piloti, tutti molto esperti, di cui due con migliaia di ore di volo e uno con un lungo passato nell’aviazione militare. Difficile che si sia trattato di un errore umano anche perché i nostri piloti si formano in parte su un simulatore di volo che riproduce proprio il decollo e l’atterraggio presso l’aeroporto di Teheran, uno dei più difficili da affrontare per la sua ubicazione”. Secondo il funzionario non regge nemmeno l’ipotesi del guasto tecnico o dell’esplosione di un motore “dato che l’aereo può volare con uno solo e perché l’aereo aveva solo tre anni di vita ed era stato revisionato due giorni prima dell’incidente fatale”. Rimangono due altre cause plausibili: una bomba a bordo o la collisione con un drone. Resta il fatto che ancora una volta, nel giro di un lustro, un aereo passeggeri è caduto in una zona interessata da un conflitto. La volta scorsa fu nel 2014 proprio nei cieli in fiamme del Donbass ucraino quando un volo della Malaysia Airlines venne abbattuto da un missile terra-aria probabilmente dai separatisti filo-russi che combattevano contro l’esercito ucraino.
Erdogan e Putin propongono una tregua. Tripoli è favorevole, ma Bengasi dice no
La voce dei padroni si fa sentire in Libia; ed è parzialmente ascoltata, almeno per ora. Putin ed Erdogan dicono ‘cessate-il-fuoco’, a partire da domenica: al-Serraj si adegua; Haftar recalcitra e fa sapere: “Non si può creare uno Stato civile senza l’annientamento totale di queste formazioni: questi gruppi si sono impadroniti della Capitale e godono dell’appoggio di alcuni Stati e governi che forniscono loro droni”: è questa la dichiarazione del portavoce dell’Esercito nazionale libico, Ahmed al Mismari, senza nominare direttamente la Turchia. I Paesi che “sostengono le formazioni a Tripoli”, fanno affluire in Libia “un gran numero di terroristi dal mondo intero per combattere le forze armate libiche”.
Haftar non s’allinea per il momento a Putin, che con l’egiziano al-Sisi è il suo principale referente. “Grazie, Russia, per il sostegno ma non possiamo smettere di combattere il terrorismo”. “Se la tregua entrerà in vigore alla mezzanotte del 12 gennaio dipenderà in gran parte da Haftar, che iniziò l’offensiva” contro Tripoli in primavera, ammette Lev Dengov, capo del gruppo di contatto russo per la Libia: con la tregua in vigore, “sarò molto più facile lavorare e ricomporre i contrasti”.
La Russia, precisa Dengov, “sta lavorando perché tutte le parti si uniformino” alla richiesta di Putin e di Erdogan e “smettano di combattere”. L’iniziativa dei due leader dovrebbe “porre fine alle voci” che la Russia stia con Haftar: “Il nostro obiettivo principale oggi è cercare una soluzione pacifica”, sostiene Dengov. Una sottolineatura che forse indispone il generale. Da parte turca, invece, non si rinuncia a un po’ di retorica nazionalista, con l’arrivo a Tripoli dell’avanguardia delle truppe turche lì destinate: “I soldati turchi sono dove i nostri antenati scrissero la storia solo per mettere fine all’ingiustizia e all’oppressione. Abbiamo raccolto un invito del Gna”, dice Erdogan. Spesso le ore che precedono un cessate-il-fuoco sono molto cruente, perché ognuno cerca d’arrivare alla tregua nella posizione migliore.
La giornata di ieri è stata fitta di combattimenti. Ci sono stati raid aerei, lanciati dall’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) del generale Haftar contro l’Accademia dell’aeronautica a Misurata, centro di milizie islamiche tradizionali sostenitrici del Gna di al-Serraj e che recentemente si sono opposte alla missione dei ministri degli Esteri europei, in odore di equidistanza tra al-Serraj e Haftar.
Il ministero della Sanità libico ha invece detto a una emittente vicina al Gna che due paramedici sono rimasti uccisi e cinque feriti in un raid aereo condotto dalle forze di Haftar su al-Wishka, località a sud di Misurata. L’aeroporto di Mitiga è l’unico funzionante nella capitale libica: lì, sarebbero dovuti scendere mercoledì i ministri degli Esteri dei quintetto europeo (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia ed Ue), se la loro missione non fosse abortita. Lo scalo è stato oggetto tra mercoledì e giovedì di raid da parte dell’aviazione di Haftar, con il supporto dell’aviazione degli Emirati Arabi Uniti. Lo riferisce sul proprio sito The Libya Observer. Smentite le incursioni delle milizie di Haftar vicino all’aeroporto e al centro di Misurata. Secondo la stessa fonte, a Sirte le forze di Haftar starebbero arrestando quanti nel 2016 aiutarono unità di al-Serraj a cacciare dalla città i jihadisti dell’Isis. La città è stata presa da Haftar a inizio settimana grazie al cambio di campo di una brigata salafita-madkhalita, la 604.
Debole e preda turca: perché Serraj non s’è più fermato a Roma
Siccome la politica estera a volte è ridotta a un’agenzia di viaggi, strette di mano di qua e fotografie posate di là, ieri un sussulto ha agitato Roma. C’era un aereo di una compagnia di nazionalità libica che trasportava in Italia un esponente del governo di Fayez al-Serraj. A bordo c’era Fathi Bishaga, il ministro dell’Interno un tempo reputato il terzo uomo per riannodare la Tripolitania con la Cirenaica, convenuto in Italia per incontrare l’ambasciatore americano a Tunisi e non per temperare il risentimento di Tripoli con gli italiani per la visita di mercoledì a Palazzo Chigi del generale Khalifa Haftar, causa della mancata sosta, sempre dal premier Giuseppe Conte, di Serraj di ritorno da Bruxelles.
Bishaga è un interlocutore rilevante del governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale e in agenda ha appuntamenti romani con i ministri Luciana Lamorgese (Interni) e Luigi Di Maio (Esteri).
Il dialogo fra Roma e Tripoli non s’è interrotto neanche per una notte e il pasticcio con Serraj va attributo non soltanto agli errori di protocollo e di comunicazione di Chigi, ma soprattutto alla spiccata debolezza interna di Serraj e all’asfissiante influenza che i turchi di Erdogan esercitano su Tripoli. Haftar e Serraj, che mercoledì hanno accettato l’invito di Conte, sapevano di sbarcare a Roma nel medesimo pomeriggio e che non erano previsti faccia a faccia o sorrisi stile Camp David. Quando la notizia del doppio vertice, però separato, s’è diffusa tra gli alleati di Tripoli, Serraj non è riuscito a sopportare le pressioni – dei gruppi di Misurata e in particolare dei turchi – che gli hanno imposto di non andare per non fare il fantoccio e il secondo di Haftar. La competizione di Ankara con Roma è giustificata da comuni interessi economici e geopolitici. E poi ci sono dissapori freschi. I turchi si sono infuriati per le proteste italiane dopo l’attacco ai curdi in Siria.
Appena le acque fra Roma e Tripoli si calmeranno però, in pochi giorni, Conte avrà il bilaterale con Serraj. In ostinata coerenza con se stesso, rientrato dal colloquio di tre ore col premier Conte, il generale Haftar, che da aprile muove le truppe con i mezzi emiratini da Bengasi (Cirenaica) verso la Tripolitania, con droni altrui ha sganciato bombe sull’aeroporto di Tripoli e poi a Misurata, dove ci sono circa trecento militari italiani a difesa di un ospedale che, seppur in allerta, restano in missione, tant’è che ieri hanno ricevuto rifornimenti dall’Italia. I seguaci di Haftar si sono divertiti anche a diffondere una notizia fasulla sul rapimento di Serraj atterrato a Tripoli, ma gli ordigni sganciati più tardi sulla capitale erano veri.
Il turco Recep Tayyip Erdogan e il russo Vladimir Putin, che in Libia sono su opposte fazioni, il primo con Tripoli e l’altro con Bengasi, in pubblico hanno chiesto la tregua per domenica, ma Haftar l’ha già respinta e anche se fosse più di una illusoria intenzione né Serraj e né Haftar possono garantire il cessate il fuoco perché l’immensa e intricata Libia va oltre il loro controllo.
Agli europei, per intenderci tedeschi e italiani e non i francesi, rimane la chimera di una conferenza di pace a Berlino e la sensazione di aver completato il riscaldamento che prelude all’ingresso in campo. Al Quirinale apprezzano l’iniziativa del governo italiano che s’adopera assieme ai tedeschi di Angela Merkel.
Per l’Europa, uscita da uno stato catatonico sulla guerra in Libia e non dalle ambiguità francesi, che assecondano Haftar e tengono contatti con Serraj, il percorso diplomatico ha due livelli: 1. cercare un accordo con chi fornisce armamenti, mercenari e denaro a Tripoli e Bengasi, cioè russi, sauditi, emiratini, qatarioti, egiziani e turchi senza dimenticare i Paesi che confinano a ovest del territorio libico; 2. allargare il confronto ai gruppi di potere che infuocano la Libia all’ombra di Serraj e Haftar, le milizie, le tribù. Già la spiegazione è troppo complessa, figurarsi la pratica. Non c’è alternativa. Perché l’altra opzione è l’intervento militare. I risultati del 2011 con Gheddafi scoraggiano.
Libia, Minniti come inviato per blindare pure il governo
Un italiano inviato speciale per la Libia: ad annunciarlo era stato il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, lo scorso 17 dicembre, dopo la sua missione nel Paese, dal generale della Cirenaica, Khalifa Haftar e dal premier del governo di Tripoli, Serraj. La decisione era stata presa insieme al premier Giuseppe Conte. Che non a caso ieri l’ha ribadita in un’intervista al Foglio. La rosa dei possibili candidati, date le competenze richieste, è molto ristretta.
Anzi, l’unica figura che parrebbe avere sia un’investitura generale, sia il physique du rôle è Marco Minniti. L’interessato (che ha fatto un’intervista a La Stampa martedì, per dire la sua sul dossier libico) ostenta ignoranza rispetto alla pratica che lo riguarda. Da bravo comunista non si espone, ma che la Libia sia una delle sue principali passioni è un dato insindacabile. Nel governo Renzi aveva la delega ai servizi servizi segreti, in quello Gentiloni è stato ministro dell’Interno, con esplicita delega sulla Libia. E con il compito preciso di tenere i rapporti anche con Haftar. Due ruoli centrali. Perché non è un mistero per nessuno che buona parte della politica in Libia la gestiscono i servizi segreti. E poi, a inaugurare la politica di stop agli sbarchi era stato lo stesso Minniti dal Viminale. Con voci – sempre smentite – che lui i trafficanti li pagava. Sempre lui nel dicembre 2017 aveva portare a Roma i capi delle tribù libiche. L’ex ministro in più di un’occasione ci aveva tenuto a dire che con Serraj l’Italia non poteva non firmare un accordo con lui perché era rappresentante della comunità internazionale, ma che il rapporto con Haftar era altrettanto forte.
A lanciare ufficialmente la candidatura di Minniti è stato martedì il socialista, Frans Timmermans su Repubblica.
Ancora. In questi giorni, la necessità di tenere aperto un canale con Haftar è riconosciuto da tutti, anche in Europa. Mentre si parla della necessità di rinvigorire la missione Sophia. Che vedeva l’Italia protagonista con Minniti al Viminale.
A Bruxelles, il dossier non è ancora ufficialmente sul tavolo. Anche perché prima bisogna definirla la missione europea, che vista da lì sembra particolarmente difficile, per le rivalità tra Italia e Francia. Ma il nome di Minniti circola. Così come circola alla Farnesina. E nel Pd di governo. D’altra parte, in questo momento il più vicino a Giuseppe Conte nella gestione dei dossier internazionali è il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Minniti come inviato speciale sarebbe un altro modo per il premier di blindarsi sul fronte dem.
Certo, a quel punto il ruolo di Di Maio verrebbe ridimensionato. Ma questo per il premier potrebbe non essere uno svantaggio. Negli ultimi mesi, non sempre la coabitazione tra i due – anche in politica estera – è stata semplice. Sia per le posizioni variegate dentro i Cinque Stelle sia per una discreta rivalità rispetto anche alla rispettiva visibilità. Gli animi sono particolarmente surriscaldati dopo l’incontro saltato con Serraj, con sospetti incrociati sulla fuga di notizie sugli incontri con i due protagonisti della crisi libica. Il premier ha convocato Di Maio per un colloquio sui Libia e Iraq. Guerini (in collegamento telefonico) è intervenuto sulla parte dell’Iraq (aveva una telefonata in contemporanea con l’omologo tedesco). Nessuna ipotesi di ritiro per quanto riguarda i contingenti italiani. Fatta salva la sicurezza. Anche di questo ha parlato ieri Conte nella telefonata (di circa un’ora) con il presidente iraniano, Rohani. Da Palazzo Chigi fanno filtrare che al centro del colloquio ci sono state le relazioni bilaterali e la sicurezza. L’Italia voleva essere sicura del gradimento della presenza italiana in Iraq. Cosa che avrebbe ottenuto. Una (parziale) garanzia rispetto al rischio di essere un obiettivo di attacchi.
Sul sito della presidenza iraniana si riportano le parole di Conte (“L’Italia ha fatto tutto il possibile per ridurre le tensioni e promuovere la pace e la stabilità nella regione”) e la richiesta dello stesso Rohani (“La Ue dovrebbe essere indipendente dalle politiche statunitensi”).
Il premier continua la sua attività diplomatica: l’agenda è in via di perfezionamento, ma tra lunedì e martedì dovrebbe andare in Turchia, negli Emirati e in Egitto. Quello che invece è saltato (ora sarebbe in agenda per martedì), è il vertice di stamattina con maggioranza e opposizione sulla politica estera. Con il centrodestra che accusa Conte di una gestione fallimentare del dossier libico, non è il momento migliore.
“Ora cambieremo la Fornero, però Quota 100 non si tocca”
“Il lavoro cresce? Merito delle politiche che abbiamo attivato in favore dell’occupazione stabile. E i 72 mila inattivi in meno sono il segnale che il Reddito di cittadinanza sta funzionando”. Nunzia Catalfo, ministra del Lavoro, nel commentare i dati Istat che registrano un aumento dell’occupazione, rivendica: “Con il Reddito, persone che finora non cercavano lavoro si sono attivate rivolgendosi ai Centri per l’impiego”.
La ministra è convinta che le questioni sociali siano un’“anima” del governo. Subito dopo questa intervista ha un appuntamento con il ministro del Mezzogiorno, Provenzano, per un progetto di sostegno alle donne: “Ma ho lavorato volentieri con il ministro della Salute, Speranza, sulla sicurezza e anche con Teresa Bellanova e Luciana Lamorgese sul caporalato”.
Eppure sul Reddito ci sono moltissime critiche.
Il Reddito si pone l’obiettivo di dare sostegno a chi un reddito non ce l’ha. E in questa direzione ha ottenuto i risultati prefissati. Noi interveniamo, ad esempio, su famiglie in cui il 42% ha dei bambini, una platea di 2,7 milioni di persone che attualmente prendono il reddito.
Ma vi rimproverano di non aver attivato a sufficienza i posti di lavoro
Abbiamo dovuto ricostruire la Direzione delle politiche attive per il lavoro, che era stata abolita e ora vogliamo creare un Osservatorio che, collegato alle Regioni, monitori il mercato del lavoro nei diversi settori produttivi ed elabori politiche in grado di fronteggiare le grandi trasformazioni in corso.
Quali sono gli obiettivi?
Si partiva dagli 8.000 operatori dei Centri per l’impiego e abbiamo investito 2 miliardi per aggiungerne 11.600. Le Regioni hanno le risorse per assumere, ma finora solo undici hanno attivato i bandi pubblici per le assunzioni. Stiamo monitorando questo processo e abbiamo interlocuzioni continue con le Regioni per finalizzarlo. Soprattutto, vorremmo lavorare sulla formazione che è decisiva.
Il ministro Speranza ha parlato di revisione del Jobs Act. Pensa vada rivisto?
Nel decreto Dignità siamo intervenuti sulle tutele aumentando i mesi di indennità per il lavoratore. L’esigenza di intervenire è emersa anche dalla sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo e irragionevole il meccanismo rigido e automatico di quantificazione della indennità risarcitoria sulla base dell’unico parametro dell’anzianità di servizio.
Ma lei ripristinerebbe l’articolo 18?
Non sic et simpliciter, ma rivedendo la sanzione in caso di licenziamento illegittimo sulla base della stessa sentenza della Consulta.
Pensate a un disegno di legge sul salario minimo?
Fosse per me lo farei con un decreto. Anche l’Europa si muove in questa direzione. Peraltro il Commissario europeo al Lavoro, Nicolas Schmit, punta a una direttiva che potrebbe essere accompagnata da una raccomandazione.
Quali sono i punti chiave?
Collegare il salario minimo ai contratti collettivi più rappresentativi e, laddove i contratti sono troppo bassi, stabilire una soglia minima, attuando l’articolo 36 della Costituzione. Sono inoltre favorevole alla proposta dei sindacati di detassare la quota di aumento salariale in caso di rinnovo del contratto.
È d’accordo su una legge sulla rappresentanza sindacale?
Ci sono tre proposte attualmente in discussione. È un lavoro che sta facendo il Parlamento a cui daremo tutto il sostegno.
È favorevole alla riduzione dell’orario di lavoro o lo considera un tabù?
Sono favorevole, ma ad alcune condizioni: investire in Sviluppo e Ricerca, poi in formazione, perché questa aiuterebbe moltissimo l’incremento di produttività. Se avremo fatto questi passi a quel punto potremo pensare di ridurre l’orario.
Manterrete Quota 100 sulle pensioni?
Ai cittadini dobbiamo dare delle certezze, esiste una sperimentazione e non può essere revocata.
Ma il problema della riforma delle pensioni se lo pone?
Direi che è una delle nostre priorità massime. Abbiamo istituito le due commissioni, sui ‘lavori gravosi’ e sulla ‘separazione tra assistenza e previdenza’. Inoltre ho intenzione di formare una Commissione di esperti per la riforma definitiva della legge Fornero.
In che direzione?
Prima leggeremo i dati e poi capiremo come riuscire ad aiutare i lavoratori ad andare prima in pensione, soprattutto in relazione ai lavori gravosi.
Da chi è composta la commissione?
Sicuramente dal Mef e dall’Inps, dalle parti sociali, in primis i sindacati. E poi da alcuni esperti.
Ha già in mente dei nomi?
Ci sono figure come Stefano Giubboni, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Perugia, Roberto Riverso, consigliere della Corte di Cassazione o Giovanni Geroldi, già ordinario di Scienze delle Finanze all’Università di Parma ed ex direttore generale della previdenza al ministero del Lavoro. La insedieremo a gennaio.
“Niente multe, i Benetton vanno cacciati”
Giancarlo Cancelleri, viceministro M5S alle Infrastrutture, il Pd fa filtrare l’ipotesi di una maxi-multa ad Autostrade come alternativa alla revoca della concessione. La ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli dice che Aspi finora ha offerto troppo poco. Quindi si può trattare con i Benetton?
No, non è una questione di soldi. Non siamo di fronte a una persona che fa un’infrazione e con una multa si ravvede. Sono stati commessi atti gravi, falsificati report, manutenzioni mai fatte; sono morte persone a Genova e Avellino. Va revocata la concessione.
Non c’è accordo nella maggioranza. Renzi dice che non voterà la conversione del Milleproroghe con la norma che affida ad Anas la rete e rende più facile la revoca riducendo il maxi-indennizzo inserito in concessione ai tempi di Berlusconi.
Ci sono divisioni e c’è un dibattito in corso, ma l’argomento ‘così scappano gli investitori internazionali’ è falso, una scusa per non decidere. Questi sono contratti totalmente sbilanciati a favore del privato e va dato il segnale che chi ha gestito beni dello Stato in maniera irresponsabile va punito: un Paese serio fa così, nessuno può spaventarsi per questo.
Il M5S vuole nazionalizzare Autostrade?
Assolutamente no. Non siamo contrari, beninteso, ma a imprenditori seri possiamo riaffidare la concessione. Anas può subentrare come soluzione ponte, in attesa di una gara che garantisca giusti profitti, ma anche giusti investimenti. Per i dipendenti di Aspi si troverà una soluzione temporanea in attesa che vengano assorbiti dal nuovo concessionario. Anche il tema del debito di Aspi sarà affrontato.
Il Pd vorrebbe invece trattare con i Benetton.
Ieri la De Micheli ha smentito l’ipotesi della maxi-multa, ne prendiamo atto con soddisfazione. Per noi negoziare è impossibile. La revoca non ha più motivo di attendere. Il 31 dicembre sono crollate due tonnellate di soffitto nella galleria dell’A26, nessuno si è fatto male per miracolo. Non si viaggia in sicurezza. Quanti morti dobbiamo attendere? Il Pd deve avere il coraggio di prendere l’unica decisione che può essere presa.
Però in questi mesi un negoziato c’è stato, con uomini del governo e di Autostrade…
Se ne parla molto, qualcosa c’è stato evidentemente, ma non arrivano informazioni chiare. La realtà è che non si capisce su cosa si debba trattare. Due mesi fa, quando furono chiusi i viadotti Fado e Pecetti in Liguria, ho chiesto ad Autostrade di mandarmi i documenti che attestavano i controlli e gli interventi di manutenzione fatti nei 5 anni precedenti. Ho ricevuto come risposta che i dati relativi agli ultimi interventi erano disponibili per il ministero. Su quelli vecchi non mi hanno mai più risposto, poi è uscito che non li avevano mai fatti.
Può cadere il governo su questo tema?
Non cade. Ci sarà il consenso per avviare la revoca e avere il giusto paracadute per le soluzioni collaterali. Anche Conte ha sempre parlato di ‘caducazione’ della concessione. Mi aspetto che sia convocata una riunione politica nei prossimi giorni in cui verrà presa la decisione. Entro comunque la fine del mese.
La norma del Milleproroghe permette anche di indennizzare le società di Vito Bonsignore per il progetto dell’autostrada Ragusa Catania, bocciato dal ministero. Perché questo regalo all’ex ras Dc?
La responsabilità per quella concessione va ricercata negli atti presi una quindicina di anni fa. La realtà è che Bonsignore aveva un progetto e una concessione, con tutte le autorizzazioni. Nel giro di poco si può partire col cantiere, atteso da 40 anni. Per non pagare nulla dovevamo rifare l’intero progetto e se ne riparlava nel 2030. La norma del Milleproroghe dice che vanno pagati solo gli oneri di progettazione, che è quello che faremo.
Autostrade offre sempre meno, caos nel governo
Sul dossier Autostrade è il momento del caos. La concessionaria di Atlantia non offre abbastanza per dare margine di azione a quanti nel governo, dal Pd a Palazzo Chigi, sono pronti a sostituire la revoca della concessione con un’intesa con la holding controllata dai Benetton. Per ora restano solo gli avvisi a mezzo stampa che rendono la revoca sempre più vicina.
Ieri la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli (Pd) ha detto a Repubblica che Autostrade ha offerto troppo poco come indennizzo per le vicende del ponte Morandi di Genova: “Ci saremmo aspettati una riduzione significativa delle tariffe ai caselli, senza modificare il piano di maggiori investimenti per la manutenzione”. Nel primo pomeriggio ha poi smentito l’ipotesi di una “maxi multa” al posto della revoca fatta circolare dai dem mercoledì sera e che ieri ha fatto infuriare i 5Stelle.
Aspi non ha replicato. L’uscita della ministra svela ufficialmente quel che tutti sanno e hanno finora negato: sono mesi che sottotraccia si tenta la via dell’appeasement con Autostrade. Il problema, tornando all’inizio del pezzo, è che i Benetton offrono solo briciole: al Fatto, per capirci, risulta che già nell’autunno 2018, pochi mesi dopo il crollo del Ponte Morandi e l’avvio della procedura di “caducazione” della concessione (copyright Giuseppe Conte), Autostrade fece pervenire agli uffici del ministro Danilo Toninelli – che si rifiutava di sedersi al tavolo con la società – l’offerta di un indennizzo intorno ai 3 miliardi, più investimenti aggiuntivi per 2 miliardi in cambio della cessazione delle ostilità. Caduto il governo gialloverde, è partito il tavolo vero e proprio, seguito dai capi di gabinetto delle Infrastrutture, del Tesoro e di Palazzo Chigi, Roberto Chieppa, Luigi Carbone e Alberto Stancanelli. Dall’altra parte i manager di Autostrade, come l’ad Roberto Tomasi e il capo dell’area legale Amedeo Gagliardi, l’uomo che davanti ai pm di Avellino ha ammesso che l’ex ad Giovanni Castellucci ancora influenza le strategie difensive del colosso autostradale.
Oggi, invece, Aspi è ferma a un indennizzo di poco superiore al miliardo di euro, più la rinuncia alle pretese sui costi della ricostruzione del ponte Morandi (600 milioni) e una riduzione dei pedaggi del 5%: meno di quanto offerto nel 2018 e meno del taglio strutturale chiesto dal governo.
La realtà è comunque drammatica. Il taglio delle tariffe vale un calo di circa 180 milioni di fatturato l’anno, una miseria per Aspi. Quei ricavi, peraltro, vanno usati per le manutenzioni di cui necessita la rete, in gran parte arrivata alla fine del suo ciclo vitale (molte opere sono degli anni 60) e dopo due decenni di compressione degli investimenti che hanno fatto la fortuna degli azionisti di Atlantia, Benetton in testa. L’unica alternativa concreta sarebbe quella di rinunciare a buona parte del miliardo annuo di profitti che la concessionaria incassa, destinandoli all’ammodernamento della rete: un’ipotesi impensabile per Autostrade e per questo si è arrivati agli avvertimenti cifrati.
Il Pd fa sapere che è pronto a ogni ipotesi, i renziani di Italia Viva che faranno le “barricate” contro la revoca (“l’Italia non può segare il ramo su cui è seduta, perderemmo ogni credibilità verso gli investitori internazionali”). Da Palazzo Chigi arrivano rumors – rilanciati ieri da Dagospia – sul fatto che Giuseppe Conte revocherà la concessione prima delle Regionali del 26 gennaio. Il premier non ha smentito e lo scenario è considerato probabile anche dal pd. Ieri una prima discussione c’è stata nella riunione tra i capi delegazione dei quattro partiti di maggioranza, senza esiti. L’istruttoria avviata dalle Infrastrutture sulle responsabilità di Autostrade è chiusa: manca la relazione finale, che De Micheli dovrà inviare a Palazzo Chigi e condividere con gli altri ministri. Solo allora verrà presa una decisione.
De Mita al cinema a rivedere Craxi: “Era proprio lui”
Fila G, posto numero 7. Alle cinque di ieri pomeriggio, nella sala numero 3 del Cinema Nuovo di Lioni, in provincia di Avellino, viene proiettato Hammamet, il film di Gianni Amelio su Bettino Craxi. In quella sala, proprio al posto numero 7 della fila G è seduto Ciriaco De Mita, attuale sindaco di Nusco ma trenta anni fa uno degli uomini più autorevoli della politica italiana che con Craxi ha scritto la storia della Prima Repubblica e proprio per mano di Craxi fu costretto alle dimissioni da presidente del Consiglio. Il visir di Nusco, come tutti lo chiamano suscitando il suo fastidio, è in compagnia di un amico che per tutta la durata del film tiene in mano un quaderno su cui di tanto in tanto annota qualcosa. Nella sala ci sono pochi spettatori, ma l’ex presidente democristiano non passa di certo inosservato, del resto Lioni dista da Nusco poco più di dieci chilometri ed è come essere a casa. Le luci in sala si spengono e lo schermo si illumina. Il film si apre con la celebrazione del 45° Congresso dei socialisti nell’ex fabbrica Ansaldo a Milano. È il 18 maggio 1989, Bettino Craxi viene eletto per la sesta volta segretario con il 92,3% dei voti e nel suo discorso conclusivo il leader del garofano rosso considera conclusa l’esperienza del governo De Mita. Il leader democristiano si dimetterà il pomeriggio seguente.
Quaranta anni dopo, nella sala di un cinema di un piccolo paese di provincia, Ciriaco De Mita rivede e rivive quei giorni lontani. Avvicina la testa a quella del suo accompagnatore e borbotta qualcosa a bassa voce. Gesticola con le mani, puntando spesso il dito contro lo schermo. Poi torna in silenzio e continua a guardare il film, di cui conosce benissimo la storia. Su quella vittoria bulgara già aleggia l’ombra dell’inchiesta giudiziaria che costerà al leader socialista due condanne per corruzione e finanziamento illecito ai partiti e la fuga in Tunisia. Mani Pulite sta per arrivare e il Craxi di Amelio non vuole rendersene conto. In sala, De Mita dice ancora qualcosa al suo amico. Craxi è ad Hammamet ormai, inseguito dalla giustizia e dimenticato dai suoi stessi compagni di partito che non lesinano di raccontare fatti e misfatti del loro segretario ai magistrati. È malato, rischia di vedersi amputare una gamba ma non perde né il suo cinismo né quell’aria da superiorità che lo ha sempre accompagnato. De Mita è sempre seduto in sala, a volte sorride e a volte annuisce con la testa. Ma l’ex presidente del Consiglio resta in silenzio quando, forse inaspettatamente, si ritrova nella sceneggiatura del regista calabrese. Nello schermo si parla proprio di lui. Il suo nome non viene mai pronunciato chiaramente, ma il riferimento al democristiano e all’irpino è chiaro, così come inconfondibile è l’imitazione che Craxi-Favino fa del suo modo di parlare, di quella inflessione singolare che lo porta a conferire alla lettera “t” il suono della “d”. De Mita, seduto in poltrona, non batte ciglio. “Un’imitazione perfetta”, dice all’uscita circondato da un paio di uomini che gli chiedono un commento sul film.
Lui, il sindaco di Nusco, è un po’ restio a parlare. Dribbla con garbo le domande con altre domande. A qualche commento veloce però non si sottrae. Il film gli è piaciuto. Non tutto però. “La prima parte sì, mi è piaciuta – dice – la conclusione non l’ho capita. Ma Craxi era lui, era proprio lui”. Ma chi era Craxi? Un cinico? O una vittima di se stesso, del suo orgoglio e della sua arroganza smisurata, come fa dire Gianni Amelio a uno dei co-protagonisti? “Questa è roba da medici pazzi”, risponde mentre nel suo cappotto grigio sta varcando la soglia del cinema per tornare a casa. Sono passati quarant’anni e a questa domanda neanche De Mita vuole dare una risposta.
“Dopo 5 anni il mio marchio si espanderà in tutta Italia”
Da zero a franchising, in soli 5 anni. Luca Rufini è il proprietario di “By Luk”, panineria della zona Ostiense, a Roma, e pur non avendo mai fatto politica è diventato un simbolo per il Movimento 5 Stelle. Il suo merito è quello di aver avviato un’attività che funziona e che presto si espanderà in altre città d’Italia. Impresa possibile, nel 2015, solo grazie al finanziamento ottenuto dal fondo per il microcredito, ingrossato da sette anni anche dalle restituzioni dei parlamentari 5 Stelle, che lì hanno versato 26 milioni di euro.
Luca Rufini, lei è uno dei volti dei 5 Stelle.
Eppure non li conoscevo neanche. A inizio 2015 ero appena rientrato da due anni in Australia e avevo seguito poco la politica italiana, non ero aggiornato.
È tra quelli che hanno fatto fortuna col microcredito.
A 24 anni sono tornato in Italia con tanta voglia di fare, ma mi mancavano i soldi. Poi venni a sapere di questa possibilità e tramite un consulente del lavoro partecipai al bando per i fondi. So che adesso il sistema è cambiato e anche le persone fisiche possono andare direttamente in banca per le pratiche necessarie.
Quanto ottenne di finanziamento?
Dopo aver presentato il mio progetto per la paninoteca e per il lancio del franchising, in circa tre mesi chiudemmo tutto l’iter burocratico e mi diedero 25mila euro, abbastanza per comprare la licenza del locale e fare gli investimenti necessari.
A che condizioni glieli hanno prestati?
Sette anni di finanziamento, dunque me ne restano altri due da coprire. Le rate mensili sono del tutto alla portata, con un interesse di circa il 5 per cento.
Come è cresciuto?
Devo dire che essere citato più volte dai 5 Stelle mi ha fatto una bella pubblicità, la gente si ricorda di quando Di Maio o Di Battista vennero a vedere la paninoteca. Poi io sono uno che studia molto e a cui piace innovare nei condimenti, fare attenzione alla qualità della carne e così via. Pian piano il locale è piaciuto ed è diventato un marchio.
Da esportare fuori Roma?
Abbiamo richieste da Torino, Milano, Bergamo. Ho ricevuto telefonate persino dalla Sicilia.
Quante persone lavorano nel tuo locale?
Al momento siamo in cinque.
Dovrà mettere una targa in onore del microcredito.
Nel mio piccolo spero di poter essere da esempio per qualche giovane imprenditore. Quando ho modo, non perdo occasione per informare gli altri di questa possibilità e mi rendo disponibile anche a dare una mano con la richiesta per il finanziamento.
Sottratti alla Casta 86 milioni, dati a imprese e terremotati
Il totale è di 85,9 milioni di euro. Con più precisione, 85.951.140 euro frutto delle restituzioni dei parlamentari del Movimento 5 Stelle nelle ultime due legislature, una somma in questi giorni oggetto di accuse e ripicche perché qualche eletto ormai da mesi ha smesso di contribuire, denunciando la poca trasparenza. Ancora ieri l’assemblea dei 5 Stelle ha discusso su come cambiare il meccanismo, magari affidandosi a una restituzione forfettaria uguale per tutti, senza però trovare una soluzione.
Ma come sono stati spesi finora i soldi delle restituzioni? Visitando il sito tirendiconto.it si scopre che la maggior parte di quegli 85,9 milioni (47,4) sono fondi non incassati: 42,7 milioni di rinuncia ai rimborsi elettorali per le Politiche del 2013, 3 milioni di rinuncia ai fondi per l’Europarlamento e 1,6 milioni di rinuncia alle indennità di carica.
L’altra grande fetta delle restituzioni è invece andata a un’antica bandiera del Movimento, ovvero il fondo per il microcredito. Stando al M5S, gli oltre 26 milioni versati a questa voce avrebbero finanziato 13 mila imprese, generando oltre 31 mila posti di lavoro. Questi contributi confluiscono in un fondo gestito dal ministero dello Sviluppo Economico che nel 2019 ha erogato 13 milioni di euro. Si tratta di finanziamenti della durata massima di 7 anni concessi a imprese costituite da non più di 5 anni e con un massimo di 10 dipendenti. L’importo massimo è di 25mila euro, estendibili a 35 mila in casi particolari.
Altri 3 milioni sono poi destinati dal M5S al progetto “Facciamo EcoScuola”, lanciato lo scorso ottobre. L’iniziativa sostiene “interventi di messa in sicurezza dei locali, la mobilità sostenibile, l’educazione ambientale”, finanziando progetti presentati dalle scuole e poi votati su Rousseau.
Risale invece al febbraio 2019 l’assegno di 2 milioni di euro in favore della Protezione civile e delle popolazioni colpite da alluvione. Coi soldi donati, i 5 Stelle hanno finanziato un ponte sul torrente Aupa in Friuli, la messa in sicurezza di Zoagli (Genova), la ricostruzione della diga foranea di Sanremo e alcuni lavori a Catania e Caltanissetta. Oltre 1,6 milioni sono invece andati al Fondo di ammortamento dei titoli di stato, creato per alleggerire il debito pubblico (che però viaggia sui 2mila miliardi e mezzo). Ulteriori 2 milioni di euro sono stati destinati a progetti scelti su Rousseau. Ben 969mila euro sono andati al Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile, un’iniziativa del 2016 che coinvolge anche alcuni banche e il governo, con 600 milioni di euro in 6 anni destinati a chi è escluso dalla scolarizzazione. Altri 600 mila euro vanno invece a supporto delle famiglie delle forze dell’ordine (50 mila euro sono stati donati alla vedova del brigadiere Mario Cerciello Rega, ucciso a Roma la scorsa estate), mentre 441 mila euro sono stati versati ai centri contro la violenza sulle donne. È del 2013, invece, un bonifico di 420 mila euro per ricostruire la palestra di una scuola media di Mirandola (Modena) distrutta dal terremoto del 2012. I fondi arrivano dalle donazioni avanzate dal tour elettorale.