Altro che assolto, anche Papa è prescritto

Se all’epoca dei fatti fosse stata in vigore la riforma Bonafede – e stiamo parlando di circa 10 anni fa – che ferma la clessidra della prescrizione alla sentenza di primo grado, la millantata assoluzione in secondo grado nel processo P4 di Alfonso Papa sarebbe stata invece una condanna. E non la prescrizione che in effetti è stata. E non ci sarebbe stata la fake news dell’assoluzione annunciata al mondo tramite lanci di agenzia AdnKronos, che riportavano le dichiarazioni dell’ex pm di Napoli ed ex deputato Pdl autoproclamatosi vittima di malagiustizia, ricordando il clamoroso arresto che subì nel 2011 da parlamentare in carica.

A ribadirci la verità ci hanno pensato le 46 pagine di motivazioni che la seconda sezione della Corte d’Appello di Napoli ha depositato poco prima di Natale. Spiegano il dispositivo letto in aula il 25 settembre dal presidente Vincenzo Alabiso che ha cancellato la condanna a 4 anni e 6 mesi di Papa in primo grado, dichiarando l’estinzione per prescrizione di alcuni reati nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta “centrale del ricatto” di Papa e altri indagati tra cui Luigi Bisignani, che patteggiò 19 mesi.

La sentenza ha confermato per l’ex pm, difeso dagli avvocati Carlo Di Casola e Giuseppe D’Alise, l’assoluzione piena da altre imputazioni. Più altre prescrizioni maturate in un lungo processo nel corso del quale, secondo la procura, Papa avrebbe avuto “un comportamento ostruzionistico e dilatorio”. La prescrizione almeno in un caso è arrivata in extremis, nel giugno 2019. Tre mesi prima del verdetto.

Si tratta dell’accusa di 319 quater, induzione indebita, contestata a Papa ai danni di Alfonso Gallo, un imprenditore delle centrali elettriche. Così era stata riformulata l’originaria imputazione di concussione, scritta dai pm Francesco Curcio ed Henry John Woodcock, sui rapporti tra il parlamentare e l’uomo d’affari, che ha ritirato in appello la costituzione di parte civile.

I giudici la riassumono così: Papa, grazie a notizie riservate ottenute anche da un carabiniere, prospettando un coinvolgimento di Gallo in inchieste giudiziarie, si propose come colui che poteva risolvergli i problemi, “il tutto finalizzato al conseguimento di alcune utilità: un orologio Cartier, soggiorni in albergo di lusso e la stipula di un contratto di consulenza fittizio” per un’amica dell’imputato. Gallo acconsentì, versò anche 6.000 euro a un’associazione di Papa e gli elementi raccolti nel processo, tra cui le dichiarazioni dei testi, le ricevute dei versamenti e le copie dei contratti “hanno pertanto provato senza alcun dubbio il rapporto sinallagmatico insorto tra Gallo e Papa determinato dalla posizione di supremazia di quest’ultimo e l’accondiscendenza del primo che si risolveva nella dazione delle controprestazioni”.

La Corte colloca l’inizio della sudditanza al 2009. È l’anno in cui Gallo avrebbe ricevuto rassicurazioni da Papa sulla società Luminosa e i progetti di Fortore. “Per il favor rei, non essendoci una data precisa, il reato non può che collocarsi al gennaio 2009”.

Dunque “risulta estinto per intervenuta prescrizione alla data del giugno 2019 (comprese le sospensioni per un totale di mesi 6 e giorni 25)”. Altro che assoluzione.

Prescrizione, il lodo Conte: stop più lungo ai condannati

Che fosse per la maggioranza un vertice sulla prescrizione maledettamente complicato era già chiaro da quando il Pd, alla vigilia, si era affidato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte come il deus ex machina capace di togliere dalla maggioranza giallorosa la rogna della prescrizione nonostante le posizioni di M5s e Pd siano state finora inconciliabili: da un lato i pentastellati che non hanno voluto sentir parlare di modifiche alla legge Bonafede che ha introdotto il blocco della prescrizione dopo la sentenza del primo grado, dall’altro il Pd che si è sempre rifiutato di parlare di altre riforme che garantiscano tempi ragionevoli del processo se non si introduce la prescrizione processuale, cioè tempi stabiliti per appello e Cassazione, pena la ripresa della prescrizione.

Conte la quadra ai limiti dell’impossibile l’ha dovuta presentare due volte. Il suo primo tentativo è stato respinto da Pd e Italia Viva. Tanti i momenti di tensioni e lunghi minuti in cui Conte si è appartato con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per discutere su come uscire dallo stallo. E così c’è stata una seconda mediazione di Conte che ha fatto dire al Pd: “Ora se ne può parlare. Rivediamoci”.

Bonafede all’uscita di Palazzo Chigi assicura: “Non ci saranno isole di inmpunità. La riforma rimane. Fatti passi avanti . C’è stato un input inportante del presidente del Consiglio per accelerare la riforma del processo penale in modo da avere una ragionevole durata del processo”.

La seconda mediazione di Conte, quella che ha evitato il fallimento conclamato del vertice, è stata quella di fare una distinzione tra i condannati e gli assolti in primo grado. Per i condannati Conte prevede l’applicazione della legge Bonafede così com’è: cioè blocco della prescrizione. Punto e basta. Per gli assolti in primo grado, invece, ci sarebbe la prescrizione processuale come vuole il Pd e come prevedeva già la legge Orlando, superata dalla riforma Bonafede.

Il premier, in un primo momento aveva proposto tempi processuali codificati più stringenti per Appello e Cassazione e , nel caso di mancato rispetto di quei tempi, il blocco della prescrizone sarebbe rimasto per tutti ma ci sarebbero state delle sanzioni disciplinari “automatiche” per i magistrati . Per il Pd e Italia Viva era inaccettabile che la prescrizione restasse sempre e comunque bloccata per il primo grado, di qui la seconda mediazione con la differenza tra condannati e assolti di primo grado, molto a rischio di costituzionalità. E ancora da valutare da parte della maggioranza.

Insomma tutto è ancora in salita anche non c’è più un muro impenetrabile. Il Pd registra che “si è aperta una fase nuova” ma non rinuncia alla proposta di legge che ha presentato – per cui ha chiesto l’abbinamento al testo del forzista Enrico Costa, attualmente all’esame della commissione Giustizia della Camera – e che introdurrebbe i tempi processuali: 2 anni o 2 e mezzo per l’appello, se particolarmente complesso, 1 anno per la Cassazione.

La discussione potrebbe tenersi solo la settimana prossima. Dal 20 gennaio, le sedute di Commissione sono sospese in vista delle Regionali in Emilia Romagna del 26 gennaio. Quindi, tutto sarebbe rimandato a dopo il voto amministrativo nell’ulteriore tentativo che si trovi una via d’uscita per la maggioranza. Ieri con Bonafede che non vorrebbe toccare lo stop della prescrizione dopo il primo grado in nessun caso, è d’accordo Piero Grasso di Leu, ex procuratore nazionale antimafia che non vorrebbe più parlare di prescrizione “perché non è il vero problema della lungaggine dei processi”, ma vorrebbe discutere delle altre riforme per risolvere la lungaggine dei tempi della giustizia.

Queen Elizabeth può fare San Matteo Martire

La decisione ora è nelle mani della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati: è lei che dovrà dire se il voto sull’autorizzazione a procedere richiesto dai magistrati di Catania che vorrebbero processare Matteo Salvini per la gestione dei migranti trattenuti a bordo di Nave Gregoretti, si dovrà svolgere per forza il 20 gennaio. Oppure, accogliendo la richiesta della maggioranza giallorosa, se si potrà posticipare la decisione a una data successiva alle elezioni in Emilia-Romagna. Una scelta tutta politica, perché i termini previsti dal regolamento del Senato non sono perentori. Il presidente della Giunta per le autorizzazioni, Maurizio Gasparri, conta di confermare il calendario e la data del 20 per il voto. Così come l’intero centrodestra a partire dal diretto interessato, Salvini. Che ieri sospettando che i giallorosa non vogliano farlo passare per vittima proprio nell’ultima settimana di campagna elettorale, l’ha messa giù dura: “Hanno paura di perdere la faccia, sono senza onore e senza dignità”.

In attesa che la presidente del Senato riveli le sue intenzioni, il M5S ha già fatto sapere a Gasparri che non è lui a decidere sul calendario. Ma l’attenzione è tutta sulla Casellati e sull’ipotesi che possa sconfessare la decisione presa all’unanimità dalla capigruppo martedì scorso, in cui si è decisa la pausa dell’attività parlamentare nell’ultima settimana prima delle Regionali.

Nel caso in cui non dovesse essere assecondata la richiesta di rinvio della Giunta, la maggioranza chiederà comunque di mettere la questione ai voti. Una volta risolta la faccenda “procedurale”, si tratterà di affrontare le contestazioni a Salvini, accusato di sequestro aggravato di persona.

Ieri Gasparri, che oltreché presidente della Giunta è anche relatore del caso Gregoretti ha presentato la sua proposta che va nella direzione di negare l’autorizzazione a procedere: un documento di 15 pagine in cui viene enfatizzata la piena sovrapponibilità con il precedente di nave Diciotti in cui un anno fa Palazzo Madama riconobbe a Salvini di aver agito per il perseguimento di un preminente interesse nazionale. Ma Gasparri ha pure sottolineato la corresponsabilità del premier Conte nella gestione dei 131 migranti a bordo della Gregoretti, più di quanto abbia fatto lo stesso Salvini nella sua memoria difensiva. Se il capo della Lega si era limitato a citare il premier una sola volta, Gasparri lo chiama in causa in 25 passaggi. “L’immediatezza della presa in carico della vicenda (della Gregoretti, ndr) da parte della Presidenza del Consiglio rende inverosimile l’ipotesi di un’azione individuale di Salvini che operò invece in un contesto di compartecipazione operosa dell’esecutivo”. Una compartecipazione che, secondo Gasparri, si deve dedurre anche “dalla mancanza di qualsivoglia esternazione in quei giorni da parte di Conte atta a criticare le scelte di Salvini e a prenderne le distanze”.

Via le firme dal referendum.Sgambetto forzista a Salvini

Da almeno 24 ore è diventata una corsa contro il tempo. Con molti ostacoli e diversi colpi di scena. Perché solo oggi alle 15, se non addirittura lunedì, si saprà se l’obiettivo di presentare in Cassazione la richiesta di referendum per confermare il taglio dei parlamentari con il sostegno di almeno 64 senatori, come prevede la Costituzione, sarà stato centrato. E soprattutto se lo sarà con il soccorso della Lega che non ha mai perso l’occasione di intestarsi la sforbicata che riduce a 600 il numero degli eletti. E che ora invece sembra costretta a sporcarsi le mani. Per rimpiazzare quanti tra i forzisti di rito “carfagnano” prima avevano firmato per chiedere la consultazione popolare e poi si sono sfilati all’ultimo, tentando di tirare uno scherzetto da niente a Salvini. Costretto a “metterci la faccia” in una battaglia ad alto tasso di impopolarità, ma che agevola, almeno secondo i suoi conti, la fine anticipata della legislatura.

Quel che la Lega dà per certo è che con la richiesta di referendum formalizzata entro il 12 gennaio (in realtà c’è tempo fino al 13) da parte di almeno un quinto dei componenti di una Camera (in questo caso il Senato), un inciampo del governo che si dà per sicuro, convincerebbe tutti ad andare dritti alle urne. E che dovrebbe agevolare pure il referendum che abolisce la quota proporzionale del Rosatellum che vuole Salvini e su cui il 15 gennaio si esprimerà la Consulta. La trappola leghista è pronta a scattare grazie a un’esca golosa per la maggior parte degli altri partiti: la prospettiva, pendente la procedura referendaria, di tornare alle urne per eleggere anche nella prossima legislatura un Parlamento a pieni ranghi. E cioè com’è oggi, con quasi mille seggi in palio. Una vera manna per chi il taglio voluto dai 5 Stelle lo ha appoggiato, ma obtorto collo quando in realtà lo vorrebbe allontanare il più possibile.

Proprio l’effetto che si ottiene con la richiesta di referendum che intanto sposta in là la data in cui la riforma del taglio dei seggi sarà confermata dagli elettori. Se nel frattempo poi si tornerà alle urne prima della consultazione, il taglio non si applicherà per la legislatura entrante ma per quella dopo.

Il timore di Salvini per la verità non riguarda tanto il numero delle poltrone che fanno gola, certo, pure a lui. Ma la prospettiva che l’immediata entrata in vigore della riforma (ossia il 12 gennaio in assenza della richiesta del referendum confermativo), possa stabilizzare la legislatura. E che a quel punto, con meno posti a disposizione, tutti, specie chi mette in conto un calo drastico alle urne, si convincano a mantenere in vita quella attuale fino alla scadenza naturale nel 2023.

Ma Salvini se vuole giocarsi questa carta, dovrà sudarsela. I senatori vicini a Mara Carfagna (Massimo Mallegni, Franco Dal Mas, Laura Stabile e Barbara Masini) hanno infatti deciso di ritirare le loro firme a sostegno dell’iniziativa referendaria. Per costringere a venire allo scoperto la Lega che, ragionano gli azzurri che non vogliono morire sovranisti, finora “il lavoro sporco” l’ha fatto fare a Forza Italia. Talmente schiacciata su Salvini da arrivare ad assecondarne ogni desiderata, compreso quello di firmare in massa a Palazzo Madama per il referendum che serve a lui. Per la verità dalle parti del Carroccio, l’iniziativa di Carfagna e i suoi viene liquidata come “una manovra di avvicinamento al governo”, di cui l’azzurra giura di volersi tenere alla larga.

In questa partita non stanno con le mani in mano neppure i 5 Stelle e il Pd che ieri hanno trovato un’intesa di massima sulla legge elettorale, un proporzionale con soglia si sbarramento al 5 percento e diritto di tribuna per i piccoli. Il Germanicum offrirebbe garanzie sul fronte della rappresentanza anche con un Parlamento più ridotto nei seggi. Se è vero che tra i 7 senatori dem che avevano sposato inizialmente la causa del referendum, è in corso da ieri una riflessione. Che potrebbe portarne almeno un paio a ritirare la firma che serve per posticipare il taglio degli eletti. E a complicare la vita a Salvini.

L’era Di Maio in crisi. Il capo verso l’addio alla guida dei 5 Stelle

Il capo a cui pesa maledettamente esserlo stavolta è davvero vicino all’addio. Presto, forse prima del voto del 26 gennaio in Emilia-Romagna. Cioè prima della possibile, ennesima frana elettorale. Luigi Di Maio potrebbe lasciare la carica di capo politico dei Cinque Stelle attorno al 20-21 di questo mese, appena eletti i nuovi facilitatori regionali del Movimento. Innanzitutto, perché non vuole subire il milionesimo processo politico per il probabile, pessimo risultato del M5S in Emilia-Romagna, dove i 5Stelle sono spettatori della sfida all’ultimo voto tra Pd e Lega. Un 4-5 per cento nelle urne per il Movimento sarebbe disfatta e per lui l’abituale ritorno nel ruolo di unico imputato, della sconfitta. Soprattutto, Di Maio è stanco degli infiniti problemi e delle mille battaglie interne.

La solitudine del capo e le pressioni

Il capo è molto solo, con i gruppi parlamentari che continuano a perdere pezzi (ieri sono usciti altri due deputati, Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri) e che non gli rispondono più, divisi in gruppetti, agitati da rancori vecchi e nuovi. E gli pesa moltissimo il confronto con due interlocutori obbligati. Quello con il garante e fondatore Beppe Grillo, che ha un’altra visione da lui su quasi tutto, tanto da avergli imposto il governo con il Pd. E soprattutto il rapporto con Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio che gli deve sembrare un Moloch, e che di certo per lui è una pietra di paragone pesante come una montagna. Ma c’è anche altro, ci sono le fortissime pressioni dei maggiorenti, molti anche di governo, che vogliono le sue dimissioni. Un pressing che nelle ultime ore si è fatto bombardamento. “Lo vogliono spingere verso la porta” conferma un dimaiamo. E il capo è davvero vicinissimo a quel passo di lato di cui aveva parlato per la prima volta pochi giorni fa il Foglio, datandolo per la fine di febbraio. Il suo staff aveva smentito tutto poche ore dopo. E ieri sera ambienti vicini al ministro, sentiti dal Fatto, hanno nuovamente negato (“falso”). Ma la strada del 33enne di Pomigliano d’Arco dovrebbe essere davvero quella, confermano al Fatto più fonti qualificate. E porta all’addio al ruolo di capo politico che si era dato con Statuto nel dicembre 2017, con la benedizione di Davide Casaleggio e il sì pragmatico di Grillo (e la ratifica degli iscritti sul web). Una carica della durata di cinque anni, rinnovabile per un altro mandato.

La struttura prima del passo di lato

Di certo prima dell’addio Di Maio vuole lasciare al M5S una nuova, definitiva organizzazione, con la scelta dei facilitatori regionali. Nei suoi piani, gli iscritti dovrebbero votare un elenco da cui poi sarà lui, ancora capo, a scegliere i nomi finali. Ma molti big contestano questa soluzione, come il vicepresidente del Parlamento europeo, Fabio Massimo Castaldo (“Così l’elezione è un processo calato dall’alto”). Un altro segno del malessere che si dilata. Trasferito nero su bianco ieri dai senatori che a Palazzo Madama hanno presentato un documento in cui chiedono “la non sovrapposizione tra incarichi di governo e organizzativi”, cioè tra la figura del capo politico e ruoli di governo. A Di Maio lo hanno detto anche ieri sera, nell’assemblea congiunta. E lui ha tenuto il punto, la posizione. Ma è pronto a scegliere la Farnesina. Forse solo quella, perché le indiscrezioni raccontano che lascerebbe anche il ruolo di capo delegazione dei 5Stelle nell’esecutivo Conte. Facendo posto al ministro dello Sviluppo economico, l’ex capogruppo in Senato, Stefano Patuanelli: stimato dai parlamentari e da Conte, in ottimi rapporti sia con Grillo che con Casaleggio. Ma il vero nodo sarà l’avvenire del M5S.

Il dopo, tra Statuto e organo collegiale

E il primo passo dopo le dimissioni, da Statuto, sarebbe l’arrivo di un reggente, ossia del membro più anziano del Comitato di garanzia (l’organo di appello del Movimento). Ossia il viceministro all’Interno Vito Crimi, storicamente vicino ai Casaleggio. Ma dopo di lui? “Adesso serve finalmente un organo collegiale”, insiste una fonte. Una segreteria politica, quella che Di Maio ha sempre respinto come un calice troppo amaro. Anche se c’è un problema: Grillo, che ha sempre definito fallimentare l’esperienza del Direttorio, l’organo a cinque creato quando Gianroberto Casaleggio era ancora in vita. “Ma non c’è altra strada”, ripetono dal M5S. Però come e con chi comporlo? Proprio Grillo, il Garante, avrà un ruolo fondamentale. Perché per abolire la figura del capo politico è necessario cambiare lo Statuto. E non sarà indolore. Poi, ovviamente, bisognerà decidere chi inserire: ammesso che Grillo e Casaleggio non cerchino un altro capo. Ma al momento nessuno lo vede. Alessandro Di Battista, di nuovo in rapporti gelidi con Di Maio dopo l’espulsione di quel Gianluigi Paragone a lui vicino, è in Iran. Roberto Fico è il presidente della Camera. E altre opzioni hanno carenza di carisma o di consenso interno (se non entrambe). Però è un nodo che va sciolto in fretta.

Il ruolo del Garante e del premier

Anche se tutte le parti in causa negheranno un suo coinvolgimento diretto, Giuseppe Conte avrà un grande peso. È lui, assieme a Grillo con cui si sente ormai di continuo, il traghettatore del M5S nel centrosinistra. L’habitat naturale dei 5Stelle secondo i “contiani” del Senato che ieri nel documento hanno invocato la collocazione “stabile” del M5S proprio lì, “nell’ambito delle forze progressiste”. Chiedendo inoltre “un organismo collegiale democraticamente eletto”, e mordendo al cuore Casaleggio, sulla piattaforma Rousseau: “La piattaforma viene percepita come una realtà esterna, un corpo estraneo al Movimento. La gestione dei dati sensibili e dei quesiti e tanti altri aspetti vanno posti sotto il controllo del M5S ed effettuati con metodo democratico”. Perché c’è una diffusa insofferenza verso l’erede di Gianroberto, che con Di Maio aveva costruito un asse forzato quanto evidente. Un altro pilastro che balla, nel Movimento che si appresta a cambiare capo. E a entrare in una nuova fase, con gli Stati generali già fissati per marzo, che si terranno a Torino. Un congresso che potrebbe essere lo snodo per i 5Stelle senza pace.

S’è prescritta la verità

Il guaio del dibattito sulla prescrizione, come su ogni aspetto della giustizia, è che i politici e gli opinionisti che se ne occupano sono perlopiù dei totali incompetenti. L’altra sera, a Dimartedì, mi sono permesso di ricordare che la legge Bonafede riguarda la prescrizione durante il processo: infatti la blocca dopo la sentenza di primo grado, per evitare che scatti in appello o in Cassazione. E la prescrizione nel processo riguarda i colpevoli, non gli innocenti: se il giudice ritiene l’imputato innocente, ha l’obbligo di assolverlo, non di prescriverlo. Apriti cielo! Ieri mi sono beccato le lezioncine del Foglio, convinto che io pensi che gl’innocenti “sono tutti colpevoli non ancora scoperti”. Ma anche del Riformatorio, con la rediviva Maiolo. E di quel variopinto carrozzone di garantisti all’italiana formato da ignoranti patentati, come forzisti, leghisti, pidini, renziani e radicali liberi, e da competenti in malafede, che sanno benissimo come stanno le cose ma preferiscono ignorarlo per motivi di bottega, come molti esponenti dell’avvocatura. Tutta gente che non merita risposte: come diceva Arthur Bloch, “non discutere mai con un idiota, la gente potrebbe non notare la differenza”. Ma queste scemenze girano per il web e arrivano all’orecchio dei nostri lettori, che poi sono gli unici che m’interessano: un chiarimento mi pare obbligato.

La prescrizione nel processo è diversa da quella nelle indagini preliminari. Qui il pm investiga sull’esistenza del reato e sulla sua attribuzione agli indagati, prima di esercitare l’azione penale (cioè di chiedere il rinvio a giudizio). Se poi, mentre indaga, il reato si prescrive, molla lì e chiede l’archiviazione per prescrizione, senz’accertare o attribuire il reato. Tant’è che l’indagato prescritto non può rinunciare alla prescrizione. Se invece il pm chiede il rinvio a giudizio e il giudice lo accorda, l’indagato diventa imputato nel processo. E lì (art. 129 comma 2 del Codice di procedura penale), “quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”. Cioè: anche se il reato è prescritto, se il giudice è convinto che l’imputato sia innocente, ha l’obbligo di assolverlo. Se invece dichiara la prescrizione, è perché ritiene che sia colpevole o non esistano motivi sufficienti per assolverlo. Ancor più stringente è l’accertamento di colpevolezza di una prescrizione in appello o in Cassazione.

È quella che, grazie alla legge Bonafede, non esiste più. E riguarda indubitabilmente i colpevoli: se la Corte d’appello o la Cassazione dichiarano la prescrizione, condannano pure l’imputato a risarcire il danno all’eventuale parte civile e a pagare le spese processuali. Può mai esistere un innocente condannato alle spese e al risarcimento delle vittime? Ma vittime di chi e di cosa, se fosse innocente? Infatti la giurisprudenza della Consulta e della Cassazione è piena di sentenze che dichiarano la colpevolezza dell’imputato prescritto. Ultimo caso, la sentenza della Cassazione del 28.3.2019 n. 28911: “Come affermato dalla Corte costituzionale, tra le sentenze di proscioglimento che possono rivestire un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato che, ‘ancorché privo di effetti vincolanti’, è idoneo a pesare comunque ‘in senso negativo su giudizi civili amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto’ ben può rientrare anche la sentenza di prescrizione”. Tantopiù quando scatta per l’effetto dimezzante delle attenuanti generiche (riservate al colpevole: l’innocente non ha nulla da attenuare). Non solo: la vittima può usare la sentenza di prescrizione per fare causa civile all’imputato e farlo condannare a risarcire gli altri danni. Perciò l’imputato può sempre rinunciare alla prescrizione, per essere giudicato oltre i termini nella speranza di essere assolto. E può ricorrere contro la prescrizione per ottenere l’assoluzione nel merito.
Lo sapevano persino i due prescritti più famosi d’Italia: Berlusconi e Andreotti. Il primo, nove volte prescritto, si spacciava ogni volta per assolto, ma intanto sapeva benissimo di non esserlo: infatti non rinunciava mai alla prescrizione (mica fesso), ma impugnava regolarmente le sentenze di prescrizione per essere dichiarato innocente (sempre respinto con perdite). Il secondo, assolto in primo grado e mezzo prescritto in appello per associazione per delinquere con Cosa Nostra, mentre l’avvocata Bongiorno berciava “Assolto! Assolto! Assolto!”, la invitava amorevolmente a ricorrere in Cassazione per ottenere l’assoluzione: lo sapeva anche lui che prescrizione e assoluzione sono l’una l’opposto dell’altra. E l’aveva letta anche lui la sentenza d’appello sul “reato commesso fino alla primavera del 1980”. Purtroppo, anche per lui, la Cassazione confermò la prescrizione: cioè la sua colpevolezza di mafioso doc fino al secondo incontro col boss Bontate per discutere del delitto Mattarella. Persino lui, padre costituente, ricordava quello strano articolo 54 che impone a chi ricopre pubbliche funzioni “il dovere di adempierle con disciplina e onore”. E sapeva benissimo che non c’è alcun onore nel prendere la prescrizione per reati infamanti come la mafia. Infatti, se un magistrato accetta la prescrizione per un reato grave anziché rinunciarvi, viene subito sottoposto a procedimento disciplinare per esser punito almeno dal Csm. La qual cosa dovrebbe valere anche per i politici. Che invece si aggrappano alla prescrizione come se non fosse un’onta indelebile, ma un diritto inalienabile ed esclusivo. Vergogniamoci per loro.

Riposi in pace, amen

Complice il film Hammamet di Gianni Amelio, è ripartita la rumba per la beatificazione del fu Bettino Craxi. Che poi, in realtà, è l’ennesimo, disperato tentativo dei politici ladri purtroppo viventi di autosantificarsi. Da vent’anni le provano tutte per cancellare le sentenze che lo issavano sul trono di Re di Tangentopoli (breve promemoria a pag. 4-5). Ora, fallita l’Operazione Amnesia, si contentano di farci credere che sì, magari Craxi rubacchiava, ma fu comunque un grande politico moderno, uno statista europeo, un padre del riformismo e un leader innovatore. Ora, anche volendo giudicare l’ex segretario del Psi ed ex premier al netto delle mazzette (50 miliardi di lire scovati nel ’93 da Mani Pulite sui suoi conti svizzeri, per tacere degli altri rimasti intatti in giro per il mondo), quello che emerge è un concentrato dei vizi e dei malvezzi della peggior politica, corresponsabile primario dei disastri che la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità.

Durante i quattro anni del suo governo (1983-87) il debito pubblico passò da 400 mila a 1 milione di miliardi di lire e il rapporto debito-Pil dal 70 al 92%, di pari passo con l’impazzimento della spesa pubblica e dell’abusivismo selvaggio (anche grazie al suo mega-condono edilizio). Per il resto, il “riformismo” craxiano è una lunga galleria di orrori. In politica interna: la trattativa con le Br per liberare Moro contro la fermezza del fronte Dc-Pci-Pri; l’opposizione a ogni risanamento dei carrozzoni delle Partecipazioni statali, gestiti dai boiardi craxiani (Di Donna, Bitetto, Cagliari, Necci…) come vacche da mungere a spese dello Stato con passivi miliardari; la feroce lottizzazione della Rai, l’attacco ai giornalisti e persino ai comici scomodi (da Alberto Cavallari a Beppe Grillo) e, sotto la presidenza di Enrico Manca, la pax televisiva con la Fininvest; i due decreti ad personam del 1985-’86 per neutralizzare le ordinanze dei pretori che pretendevano di far rispettare la legge all’amico Silvio e, nel ’90, la legge Mammì, monumento al monopolio della tv privata; l’ostilità alle poche privatizzazioni giuste e necessarie (come quella della Sme, che produceva panettoni di Stato con voragini nei conti pubblici, tentata dall’Iri di Prodi nel 1985; e quella dell’Alfa Romeo, che Prodi nell’86 voleva vendere alla Ford, mentre Craxi preferì regalarla alla Fiat); l’assalto alla Mondadori tramite l’apposito B., col contorno di tangenti ai giudici; l’ingaggio come consulente giuridico del giudice corrotto Renato Squillante, che garantiva i socialisti da indagini e arresti.

E , in compenso, i primi attacchi politici ai migliori magistrati e i progetti piduisti per assoggettare le procure al governo. Il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati per intimidire quelli che già allora stavano scoprendo le mazzette craxiane. Il proibizionismo sul consumo delle droghe leggere, che portò all’assurda legge Vassalli-Iervolino. Le prime picconate alla Costituzione in nome di una “Grande Riforma” cesarista, affidata al fido Giuliano Amato e poi ripresa anni dopo da Berlusconi. La gestione satrapica del partito, con congressi plebiscitari e antidemocratici (quando Norberto Bobbio, nel 1984, denunciò la “democrazia dell’applauso” dopo la rielezione per acclamazione di Craxi al congresso di Verona, questi lo zittì sprezzante: “Quel filosofo ha perso il senno”). Il nepotismo sfrenato, che lo portò a piazzare il giovane figlio Bobo al vertice del Psi milanese e il cognato Paolo Pillitteri a sindaco di Milano. La repressione di ogni dissenso interno, culminata nella cacciata di Codignola, Bassanini, Enriques Agnoletti, Leon, Veltri e altri, bollati nell’81 come “piccoli trafficanti della politica” e accusati di intelligenza col nemico (il Pci di Berlinguer) per aver osato sollevare la questione morale sullo scandalo Ambrosiano. Le porte spalancate a “nani e ballerine” dell’assemblea socialista. Le candidature in Parlamento di statisti del calibro di Gerry Scotti e Massimo Boldi. E, tutto intorno al Capo, preclari figuri da museo Lombroso come Larini, Mach di Palmstein, Tradati, Troielli, Raggio, Giallombardo, Parretti, Fiorini, Chiesa &C.. Senza dimenticare i traffici con Gelli e Calvi e i rapporti persino con l’entourage di Epaminonda. Tutti personaggi piuttosto lontani dalla tradizione “riformista”, tant’è che nella “Milano da bere” si diceva che il Psi era passato “da Turati a Turatello”.

In politica estera, si ricorda sempre Sigonella, dove nel 1985 Craxi si sarebbe opposto intrepido alla tracotanza di Reagan. In realtà sottrasse al blitz Usa i terroristi palestinesi che avevano appena sequestrato la nave Achille Lauro e assassinato un ebreo paralitico, Leon Klinghoffer, gettandone il cadavere in mare; si impegnò a farli processare in Italia; poi fece caricare il loro capo Abu Abbas su un aereo dei servizi segreti recapitandolo prima nella Jugoslavia di Tito e poi in Iraq, gradito omaggio a Saddam Hussein. Fu l’acme di una politica filoaraba e levantina che portò all’appoggio acritico all’Olp di Arafat (ben prima della svolta moderata), paragonato da Craxi addirittura a Mazzini in pieno Parlamento. Quanto all’europeismo craxiano, basta ricordare l’appoggio dato a regimi sanguinari e corrotti come quelli del tagliagole somalo Siad Barre in cambio di leggendarie ruberie sulla “cooperazione”. E il capolavoro della guerra delle Falkland, nel 1982, quando Bettino si schierò col regime dei generali argentini (quelli che avevano fatto sparire migliaia di oppositori) contro la Gran Bretagna appoggiata da tutto l’Occidente. Ecco quel che resta, al netto delle mazzette, di Craxi. Lasciatelo riposare in pace, ché è meglio.

Giustizia, oggi il vertice Intesa sul proporzionale

Sulla giustizia e in particolare sulla prescrizione al momento l’accordo giallorosa pare lontano (un vertice si terrà oggi a Palazzo Chigi), sulla legge elettorale invece un primo passo c’è già stato: l’Italia, con ogni probabilità, tornerà al proporzionale, il sistema che i costituenti avevano persino pensato di inserire nella Carta e che poi benedissero approvando un ordine del giorno.

Questa la notizia venuta fuori da un incontro di maggioranza ieri pomeriggio, durante il quale però i giallorosa non hanno trovato un accordo definitivo: Liberi e Uguali, peraltro non compatta sull’argomento, non è del tutto d’accordo sul meccanismo che invece per una volta ha messo insieme M5S, Pd e Italia Viva. Questo dissidio ha fatto sì che il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, il grillino Giuseppe Brescia, si prepari oggi a fare quel che sempre si dovrebbe in materia elettorale: depositare un testo in Parlamento su cui far partire il confronto.

“Sarà incardinato lunedì”, spiega lo stesso Brescia, e prevede “un sistema proporzionale con soglia di sbarramento nazionale al 5% e un diritto di tribuna”. Insomma, un sistema tedesco che però garantisca quei partiti che non arrivano alla soglia pur avendo un cospicuo numero di voti. È proprio la soglia al 5%, però, che fa storcere il naso a LeU e, in particolare, alla capogruppo in Senato Loredana De Petris: “Daremo battaglia: alzare la soglia di sbarramento a una percentuale mai vista in Italia significa infliggere un colpo letale alla rappresentanza sia politica che territoriale. In Senato questa roba non ha i numeri”. Meno “battagliero” il suo omologo alla Camera Federico Fornaro: “Per me è molto positivo che si sia scelto il proporzionale, un fatto non scontato, poi sui particolari bisognerà valutare come tutelare tanto la rappresentanza che l’efficienza delle istituzioni”.

In sostanza, LeU dovrà provare a far scendere la soglia (ad esempio al livello attuale, il 3%) o sul meccanismo del “diritto di tribuna”. La cosa non è insensata e non solo perché LeU ha superato solo di un soffio il 3% nel 2018: col taglio di un terzo dei parlamentari la rappresentanza, anche territoriale, rischia di essere assai compressa e una soglia al 5% rischia in ipotesi di escludere liste che hanno ricevuto fino a un milione e mezzo di voti.

I progressi sulla legge elettorale arrivano mentre si sta per definire tanto la questione del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari (le firme dei senatori che lo chiedono saranno consegnate oggi) che quello chiesto da 7 Regioni a guida centrodestra per abolire la quota proporzionale del sistema in vigore, il cosiddetto Rosatellum, e farne un maggioritario puro (la Consulta deciderà sull’ammissibilità il 15 gennaio). Anche l’opposizione non pare troppo unita sulla legge elettorale: nonostante la nota di ieri seri in cui magnifica il maggioritario all’inglese (“chi vince governa, senza giochini di palazzo o ribaltone”), negli incontri coi giallorosa la Lega non ha chiuso al proporzionale (“basta che poi si voti”), mentre Fratelli d’Italia e Forza Italia vogliono almeno conservare almeno il Rosatellum, che obbliga Matteo Salvini a tenerseli in coalizione pre-elettorale.

Sarà più complicato oggi, per i giallorosa, trovare un accordo sulla giustizia. Prova ne sia l’iter del ddl di Enrico Costa (FI), che cancella la riforma della prescrizione Bonafede, in commissione alla Camera: dei 5 emendamenti presentati, l’unico di maggioranza è del M5S ed è abrogativo, ma quello a firma Maurizio Lupi ricalca invece la proposta di legge in materia del Pd. Senza un’intesa di maggioranza, insomma, tra pochi giorni i dem potrebbero trovarsi a dover scegliere tra votare contro se stessi o contro il governo. Il ministro della Giustizia, però, non è preoccupato: la riforma approvata con la legge anti-corruzione – fa sapere – sulla base dei dati 2019 impatta sul 2,2% circa dei processi definiti. Insomma, “ascolterò tutte le proposte, ma la prescrizione come isola d’impunità non esiste più dal 1° gennaio”.

Autostrade, il Pd vuol trattare: “Multa”

La cosiddetta “revoca della concessione” ad Autostrade per l’Italia è ormai un grosso equivoco, che andrà sciolto prima che esploda in faccia alla maggioranza giallorosa. La situazione, specie dopo le ultime indiscrezioni di ieri, è questa: i 5Stelle insistono per la revoca praticamente ogni giorno (ieri è stato il turno del ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli); il Pd invece continua a pensare che con la società controllata dalla Atlantia dei Benetton si debba trattare trovando una soluzione.

È a questo scopo che nel decreto Milleproroghe è stata infilata la famosa norma studiata dai ministeri delle Infrastrutture e Tesoro, guidati dai dem Paola De Micheli e Roberto Gualtieri, che rende più facile la revoca riducendo il maxi indennizzo inserito nella concessione ai tempi di Berlusconi (c’è chi parlava di 20 miliardi), che tanto ha fatto preoccupare i renziani di Italia Viva. È per spostare l’asse comunicativo su questa linea che ieri “fonti di governo” hanno dettato all’Ansa l’ipotesi: “Una maxi-multa nei confronti di Autostrade come possibile alternativa alla revoca per chiudere il dossier sulla concessione di Aspi aperto dopo il crollo del ponte Morandi”.

La proposta fatta arrivare ad Aspi è di fatto già definita ed è sostanzialmente quella già avanzata a Benetton & C. da mesi: un indennizzo alla città di Genova, una riduzione del 5% delle tariffe su tutta la rete, un tetto massimo agli aumenti dei pedaggi (secondo Milano Finanza intorno al 2%) e una remunerazione del capitale realmente investito (che riguarda solo gli investimenti futuri) del 6-7%, in linea col nuovo sistema tariffario voluto dall’Authority dei Trasporti. A spanne, una compensazione che vale circa 3,5-4 miliardi di euro, da mostrare come “multa” imposta ad Autostrade.

Detto della strategia, resta da capire i margini di manovra. I 5Stelle, manco a dirlo, sono contrarissimi e l’ipotesi è già stata bocciata da Di Maio, nonostante non dispiaccia molto al premier Giuseppe Conte. Contraria però è anche Atlantia. La holding controllata dai Benetton finora ha chiuso le porte a qualsiasi ipotesi di riduzione strutturale dei maxi profitti, limitandosi gli indennizzi, ma a cifre assai inferiori. Una chiusura che ha fatto già saltare il tentativo di costringere il governo alla resa col ricatto del salvataggio di Alitalia.

Nel frattempo Autostrade continua a promettere di essere pronta a varare un corposo piano industriale con mega-investimenti e nuovi sistemi per controllare lo stato degli oltre duemila viadotti (su 2800 km di rete): una promessa che vale 13 miliardi di euro nei 18 anni rimasti della concessione. Tutte misure che il nuovo ad Roberto Tomasi ha annunciato in un’intervista al Corriere della Sera con cui ha aperto alla trattativa.

L’ipotesi di un accordo, rilanciata ieri anche dal Sole, ha fatto salire il titolo di Atlantia in Borsa del 3,9%. Vista l’impasse, difficilmente il Consiglio dei ministri di oggi prenderà una decisione (Renzi, peraltro, minaccia già di non votare il “Milleproroghe”), ma di sicuro il dossier sarà affrontato. L’accordo, però, sembra lontano.

 

Quando i dem non erano al bivio dicevano no

Signor direttore, la prego di ospitarmi per una replica in conto terzi. Lei è innocente: ce l’ho con il folle editoriale di Stefano Folli (nomen omen) su Repubblica

di ieri. Fa forse riferimento alla catastrofe ambientale? No. Parla della situazione irachena e mediorientale? No. Gli passa per l’anticamera del cervello di indicare al Pd temi come la distribuzione del lavoro nell’era della tecnologia e della robotizzazione? No. Insomma, Folli evoca le grandi questioni del nostro tempo che il maggior partito riformista italiano dovrebbe affrontare? No.

Per Folli il Pd è “al bivio della prescrizione”. La trincea esistenziale sarebbe la legge Bonafede, distruttiva dello Stato di diritto. Sono sicura che i pazienti in lista d’attesa nella sanità pubblica sono nel panico per questo dilemma: prescrivere o non prescrivere (il reato, non i farmaci)? E che i riders senza tutele sono angosciati dal quesito Fine processo (non giornata sui pedali?).

In Italia si prescrivono 130 mila processi all’anno. Vanno al macero anni di lavoro di magistrati, poliziotti e cancellieri solo perché nel 2005 la legge ex Cirielli doveva consegnare a Berlusconi la prescrizione breve per cavarlo d’impaccio. Nella seduta della Camera del 16 dicembre 2004 si scagliarono contro quella legge Fassino, Pisapia, Finocchiaro e molti altri esponenti del centrosinistra. Tutti votarono contro. Anche perché i procedimenti prescritti lasciano senza giustizia le vittime (come statuito dalla Cedu, organo sconosciuto a Folli che blatera di Stato di diritto). In questi anni cos’è cambiato? Perché la ex Cirielli sarebbe preferibile alla Bonafede? Per nessun motivo al mondo, glielo dico io. Se si elimina il traguardo della prescrizione, il processo è più breve, non più lungo. Nessuno ha interesse a tirarla per le lunghe. E chi sa di essere colpevole, patteggia o sceglie il rito abbreviato e il dibattimento è riservato solo ai processi realmente densi di questioni giuridiche da sbrogliare.