“Chi vuole processi brevi mantenga la blocca-prescrizione e faccia così”

Piercamillo Davigo, il governo cerca la quadra sulla prescrizione. È vero che bloccarla dopo il primo grado rende eterni i processi?

Chi lo dice dimentica che fino al 2005, quando arrivò la legge ex Cirielli, i termini di prescrizione erano il doppio degli attuali. I processi erano eterni anche allora? E perché l’allora opposizione promise per 15 anni di cancellare l’ex Cirielli, senza mai farlo?

Dicono anche che bloccare la prescrizione serve a poco perché la gran parte dei fascicoli si prescrive nelle Procure, in fase d’indagine, per colpa dei pm.

Quindi tanto vale far prescrivere anche quei pochi che arrivano a giudizio… Ma che ragionamento è? Negli Stati Uniti, di cui si racconta che avremmo copiato il processo, la prescrizione durante il processo non esiste: si ferma col rinvio a giudizio. E in Europa una prescrizione come la nostra c’è solo in Grecia: tutti barbari tranne noi e i greci? Fra l’altro è già così nel nostro processo civile, pure lunghissimo: appena uno ti fa causa, la prescrizione si blocca. E lì ci sono in ballo questioni ben più delicate di pene pecuniarie o detentive, perlopiù finte: come l’affidamento dei figli minori o cause di enorme valore economico. Se ti vendono la casa all’asta, sarà una conseguenza ben più grave di 500 euro di multa, o no? Il fatto poi che molti processi si prescrivano in mano al pm non dipende dalla sua fannulloneria: i magistrati italiani sono, per le statistiche europee, i più produttivi della Ue.

E da che dipende?

Molti fascicoli arrivano al pm quando manca poco alla prescrizione, perché il reato s’è scoperto anni dopo (per esempio, i reati tributari, il cui accertamento arriva 5 anni dopo la dichiarazione falsa e resta poco tempo per fare indagini e tre gradi di giudizio). E poi la legge fissa criteri di priorità e impone alle Procure di dare la precedenza a certi tipi di reati, così si lasciano in fondo i fascicoli che stanno per prescriversi. Ma, se qualcuno vuol fare la gara tra pm e giudice, al pm non costa nulla vincerla, trasmettendo al tribunale i fascicoli su fatti più remoti per farli prescrivere in mano altrui. La Procura di Roma ha pronti 60 mila processi a citazione diretta, ma il Tribunale di Roma può riceverne solo 12 mila all’anno.

Il presidente delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, dice che la colpa è dei pm, perché in indagine i difensori non possono fare manovre dilatorie.

Non è così, ma fa niente. L’avvocato Caiazza dice pure che è giusto appellare per differire l’esecuzione della pena. Ma, per la Costituzione, la pena ha anche funzione rieducativa: dunque chi ricorre solo per rinviarla differisce la rieducazione dell’imputato. Cioè fa il suo male.

C’è una critica che condivide alla legge Bonafede?

È giusto dire che bloccare la prescrizione non basta. Ma allora bisogna mantenere la riforma Bonafede e usare gli anni che mancano alle prime sentenze con le nuove regole per fare il resto. Cioè per accorciare i tempi dei processi. Così vedremo se chi ora strilla perché durano troppo è sinceramente preoccupato o vuole solo tornare alla prescrizione che uccide 120 mila processi all’anno.

Lei che farebbe per abbreviare i processi?

I processi durano troppo perché se ne fanno troppi. Il sistema accusatorio, adottato dall’Italia nel ’90 scimmiottando malamente quello anglosassone, regge solo se il grosso dei casi non va a dibattimento, ma imbocca uno dei due riti alternativi in cambio di sconti di pena: patteggiamento o rito abbreviato. Oggi li scelgono in pochi perché conviene tirare in lungo e puntare alla prescrizione: meglio niente pena che una pena con lo sconto. Il blocco della prescrizione dopo il primo grado riduce quest’aspettativa e avrà effetti benèfici. Ma c’è un altro motivo per cui si impugna sempre e comunque: rinviare l’esecuzione delle pene. Se uno non le appella, le sentenze diventano definitive ed esecutive già al primo grado. Solo un fesso non impugna la prima condanna: se non lo fa, può finire in carcere; se invece è già in carcere e impugna, può uscire per decorrenza termini. Occorrono filtri alle impugnazioni per eliminare quelle dilatorie e pretestuose, fatte solo per perdere tempo.

Non ci sono già?

Sulla carta, e solo in Cassazione. Ma non bastano. Se il terzo grado è previsto dalla Costituzione solo per le violazioni di legge, bisogna abolire i ricorsi per vizio di motivazione. Che sono il 90%. In America, per impugnare una sentenza, il condannato deve avere il permesso del giudice che l’ha emessa e poi il giudice dell’impugnazione esamina l’appello se lo ritiene. La Corte Suprema Usa esamina un ricorso se lo chiedono almeno 4 giudici su 9. Infatti ne tratta solo 90 casi all’anno. La nostra Cassazione 90 mila. In Francia solo il 40% delle condanne a pena detentiva da eseguire viene impugnato. Da noi, pressoché tutte. Anche nel Regno Unito c’è un filtro rigoroso: molti fascicoli d’appello portano stampata la scritta loss of time, perdita di tempo.

Quindi che fare?

Come fa la Francia, che non è un Paese barbaro: abolire il divieto di reformatio in peius in appello. Se ti condannano e tu appelli, può toccarti una pena più alta. In Italia non si può. Il che incentiva tutti a provarci: mal che ti vada, non rischi niente, anzi non vai in carcere e magari ti prendi pure la prescrizione. Perché non dovrebbero tentare? Perciò qui patteggiano in pochissimi e negli Usa quasi tutti: lì, se l’imputato si dichiara innocente, sceglie il rito ordinario e poi si scopre che era colpevole, lo rovinano con pene così alte che agli altri passa la voglia di provarci. In Italia puoi patteggiare senza dirti colpevole e poi financo ricorrere in Cassazione contro il patteggiamento che hai concordato.

L’avvocatura non ci sente.

Lo so, ma non c’è nessuna lesione delle garanzie. La reformatio in peius è già prevista per i decreti penali di condanna, emessi dal giudice quando la pena è solo pecuniaria. Se il condannato si oppone, si va a processo e alla fine, anziché la multa, può arrivare la reclusione. Se impugni, lo fai a tuo rischio e pericolo. Dov’è la lesione dei diritti dell’uomo? Li hanno inventati i francesi con la Rivoluzione e la reformatio in peius ce l’hanno eccome.

Però già oggi i ricorsi inammissibili sono dichiarati tali, almeno in Cassazione.

Sì, ma intanto tutti li propongono e si perde un sacco di tempo. La sanzione pecuniaria, 2-6mila euro a imputato, non spaventa nessuno. Anzi, non la paga quasi nessuno: lo Stato incassa solo il 4%, perché gran parte degli imputati non dichiara redditi né ha beni al sole. Basterebbe rendere responsabile in solido l’avvocato. Così, quando il cliente gli chiede di ricorrere, gli fa depositare fino a 6 mila euro e poi, in caso di inammissibilità del ricorso, verserà lui la somma al posto del cliente.

Altri soluzioni?

Nei Paesi di Common Law, c’è il reato di oltraggio alla Corte per chi fa perdere tempo inutile. Basterebbe consentire al giudice di valutare anche le impugnazioni meramente dilatorie per aumentare la pena. Altra cosa: per legge, può emettere la sentenza solo il giudice che ha acquisito personalmente tutte le prove. Se un membro del collegio va in maternità o in pensione o viene trasferito, a richiesta della difesa bisogna riacquisire tutte le prove, anche se ora le Sezioni Unite della Cassazione hanno tentato di arginare questa prassi insensata.

Basta così?

Io rivedrei il patrocinio gratuito a spese dello Stato per i non abbienti. La non abbienza è una categoria fantasiosa, perché molti imputati risultano nullatenenti. Così lo Stato paga i loro avvocati a piè di lista per tutti gli atti compiuti, e quelli compiono più atti possibile per aumentare la parcella. Molto meglio fissare un forfait una tantum secondo i tipi di processo: così gli avvocati perdono interesse a compiere atti inutili. E lo Stato, con i risparmi, può difendere gratis le vittime, che invece la dichiarazione dei redditi la presentano e di rado accedono al gratuito patrocinio.

Anche le notifiche a vuoto agli imputati che non si fanno trovare producono continui rinvii delle udienze.

La legge consente di notificare gli atti al difensore, ma questo può dichiarare di non accettare notifiche. Basterebbe adottare il sistema americano: la prima notifica deve avvenire nelle mani dell’imputato, poi sta a lui andare a vedere le altre nella cancelleria del tribunale. Se non ci va, è colpa sua. Il guaio è che chi tuona contro i processi lunghi in questi anni non ha fatto che allungarli, secondo una regola ferrea: rendere difficile il facile attraverso l’inutile.

La Salò del craxismo. Ma su Mani Pulite troppi luoghi comuni

Alla domanda, cortese, sui rapporti tra realtà storica e invenzione poetica nel film Hammamet, il regista Gianni Amelio reagisce perdendo le staffe. Inveisce contro il Fatto Quotidiano, colpevole di aver pubblicato, a fine ottobre 2019, un articolo dal titolo “Lacrime d’autore (e di Stato) per un Craxi martire”. Non è un film sul Craxi politico, urla Amelio, ma sulla lunga agonia di un uomo di potere che si avvia verso la morte. È la storia, dice, del rapporto tra un padre e la figlia vera (non Stefania ma Anita, come la moglie di Garibaldi); e tra un padre e un figlio immaginato (Fausto, figlio in realtà di un cassiere delle tangenti morto suicida). Ma Amelio ha rifiutato la proposta iniziale che racconta di aver ricevuto da Agostino Saccà (ex socialista e coproduttore del film, insieme a Rai Cinema) di raccontare Cavour.

Non ha nome né è mai nominato, ma è certamente Craxi il personaggio che prende vita sullo schermo, interpretato mimeticamente da un incredibile Pierfrancesco Favino, portentoso ma calligrafico. È Mani Pulite che viene evocata, come un complotto misterioso, realizzato da un giudice anch’egli senza nome, per far fuori un leader di partito rappresentato oniricamente come un ragazzino fiero che spacca i vetri con la fionda e sorride indomito davanti al prete che lo punisce.

Il Craxi senza nome viene raccontato al suo crepuscolo. Nella villa di Hammamet va in scena la mesta Salò del craxismo. I ricordi di una carriera politica ormai spezzata, il rapporto struggente con la figlia, i dolori di una malattia coltivata (“Non voglio dare anni alla vita, ma vita agli anni”) costringono lo spettatore a una pietas dovuta allo sconfitto che ha ormai dismesso la sua arroganza e dimenticata la sua ubris.

Ma raccontare il craxismo da Hammamet è come raccontare il fascismo da Salò, pur senza l’estrema ferocia della guerra: affidandosi alle sole parole dell’eroe sconfitto, finito, ammalato, abbandonato. Eppure neanche Amleto si spiega senza le colpe e gli intrighi della vita in Danimarca. E Hammamet non si può capire senza Tangentopoli e senza Mani Pulite.

Ma Tangentopoli non si può spiegare soltanto con il “così facevano tutti”, né con l’Italia “diventata quinta potenza del mondo”. Ci sono anche le opere pubbliche dai costi decuplicati, l’ingordigia dei partiti, il giro d’affari della corruzione stimato attorno ai 10 mila miliardi di lire all’anno, l’indebitamento pubblico che porta il Paese alle soglie di un crac argentino. Non si può spiegare Mani Pulite con un nebuloso complotto antisocialista, forse reazione a una Sigonella ricostruita dal nipotino con un aeroplanino e i soldatini sulla spiaggia; e con il Pci salvato dai giudici; e con le confessioni estorte in cambio della libertà. Tutti i più triti (e falsi) luoghi comuni su Mani Pulite prendono vita sullo schermo, con l’ipocrisia della citazione, senza che il regista li faccia propri: spiega feroce al cronista del Fatto di aver usato due diversi formati sullo schermo, il 16:9 e il 4:3, perché fosse chiaro che la sua era una rappresentazione, che la responsabilità di ciò che dice è tutta del Craxi che parla e ricorda e inveisce, di aver offerto allo spettatore le dichiarazioni del Presidente “quasi virgolettate”.

Realtà storica, dunque, o citazione poetica? La domanda resta senza risposta, il film sospeso, la storia confusa e irrisolta.

“Miliardi di tangenti per uso personale sottratti al partito”

Bettino Craxi muore il 19 gennaio 2000 da latitante ad Hammamet con due condanne definitive (5 anni e 6 mesi per corruzione Eni-Sai, 4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito Metropolitana milanese), due in appello (3 anni per i finanziamenti illeciti di Enimont, 5 anni e 6 mesi per corruzione da Enel) e un’altra annullata dalla Cassazione con rinvio ad altro appello (5 anni e 9 mesi per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano nello scandalo del conto Protezione); la prescrizione l’ha appena salvato in appello dopo una condanna a 4 anni in Tribunale per le mazzette di Berlusconi dai conti All Iberian; e gli altri processi in corso in primo grado – per le bustarelle dell’autostrada Milano-Serravalle (corruzione) e della cooperazione col Terzo mondo, nonché per frode fiscale sui proventi delle sue varie tangenti – sono dichiarati “estinti per morte del reo”. Se fosse tornato in Italia, sarebbe finito in carcere per un bel pezzo o, viste le sue condizioni di salute, agli arresti in ospedale.

Eni Sai. Nel 1992, la Sai di Salvatore Ligresti e l’Eni del craxiano Gabriele Cagliari si accordano per dar vita a una società mista che gestisca i contratti assicurativi di tutti i dipendenti del gruppo petrolifero. Per liberarsi dei concorrenti (anzitutto l’Ina), Ligresti sborsa ai partiti una mega-tangente di 17 miliardi di lire. Quando lo arrestano, dopo breve latitanza, confessa al pm Fabio De Pasquale di aver trattato personalmente con Craxi e Cagliari per il Psi e col tesoriere della Dc Severino Citaristi. Poi i due partiti si spartirono la gigantesca torta.

All Iberian. Tra gennaio e ottobre del 1991 Craxi, che ha appena imposto alla riottosa Dc la legge Mammì per riformare il sistema radiotelevisivo su misura del monopolio privato della Fininvest, riceve sui suoi conti svizzeri 23 miliardi di lire in più tranche da Silvio Berlusconi. I soldi partono dalla All Iberian, capofila della Fininvest offshore. E questa volta non vanno al Psi, ma personalmente al suo segretario. La sentenza d’appello che conferma i reati ma li dichiara prescritti, sulla scorta delle testimonianza dei vari prestanome di Craxi, stila una lunga lista delle spese private di Bettino con il bottino sui conti svizzeri gestiti dal fido Giorgio Tradati: “Craxi dispose prelievi non soltanto per pagare gli stipendi dei redattori dell’Avanti!… Ma anche per altre, più prosaiche destinazioni: sia a fini di investimento immobiliare (l’acquisto di un appartamento a New York), sia per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tivù (di cui era direttrice generale Anja Pieroni, legata a Craxi da rapporti sentimentali) un contributo mensile di 100 milioni di lire. Lo stesso Craxi, poi, dispose l’acquisto di una casa e di un albergo [l’Ivanhoe, nda] a Roma, intestati alla Pieroni”. Alla quale Craxi faceva pagare anche la servitù, l’autista e la segretaria. Dagli atti risultano poi “operazioni immobiliari: due a Milano, una a Madonna di Campiglio, una a La Thuile”. E una villa e un generoso prestito di 500 milioni per il fratello Antonio (seguace del guru Sai Baba) e per sua moglie Sylvie Sarda. Poi vengono le spese di Raggio, che nel 1993 svuotò i conti esteri di Craxi (con 40 miliardi di lire) su sua richiesta e fuggì in Messico con la contessa Francesca Vacca Agusta. Una quindicina di miliardi – dice lui – li bruciò per “il mantenimento della sua detenzione” in Messico e della sua latitanza in Centroamerica, durata poco meno di due anni: 235.000 dollari tutti in un colpo “per un’amica messicana”; e una Porsche, acquistata in saldo a Miami. Il resto – assicura – rimase nella disponibilità di Craxi, a parte alcune spese che Bettino gli aveva commissionato: l’acquisto di “un velivolo Sitation del costo di un milione e mezzo di dollari”, un piccolo “mutuo personale” da Raggio (circa 800 milioni), le parcelle degli avvocati e “bonifici specificatamente ordinati da Craxi in favore di banche elvetiche”: inclusi 80 milioni di lire “in pagamento del canone relativo a un’abitazione affittata dal figlio di Craxi (Bobo, nda) in Costa Azzurra”. A Saint-Tropez, Bobo “aveva affittato una villa nell’ottobre-novembre ’93, per sottrarsi al clima poco favorevole creatosi a Milano”. Anche lui, a suo modo, esule. Insomma – scrive il Tribunale – i conti di Craxi servivano “alla realizzazione di interessi economici innanzitutto propri”: “Craxi è incontrovertibilmente responsabile come ideatore e promotore dell’apertura dei conti destinati alla raccolta delle somme versategli a titolo di illecito finanziamento quale deputato e segretario esponente del Psi. La gestione di tali conti… non confluiva in quella amministrativa ordinaria del Psi, ma veniva trattata separatamente dall’imputato tramite suoi fiduciari, così da mettere in difficoltà Balzamo… Significativamente Craxi non mise a disposizione del partito questi conti”.

Metropolitana Milanese. Una delle mangiatoie più fruttuose per i partiti, e soprattutto per Craxi e il suo Psi, è quello degli appalti (regolarmente truccati) della Metropolitana milanese. Lì a ritirare le sue mazzette (quasi sempre il 50, talvolta il 25% del totale) è l’amico architetto-faccendiere Silvano Larini. Che confessa al pm Antonio Di Pietro: “Dal 1987 alla primavera ’91, ho avuto modo di ricevere 7 o 8 miliardi e ogni volta… li ho portati negli uffici di Craxi in piazza Duomo 19, depositandoli nella stanza a fianco della sua… Posavo la borsa o il plico sul tavolo e la Enza (Tomaselli, la segretaria di Craxi, nda) lo ritirava.. Ero io a confezionare il pacchetto, utilizzando buste marroncine. A volte le posavo sul tavolo della segretaria, a volte le lasciavo sul tavolo della camera di riposo di Bettino”.

Conto Protezione. Lo stesso Larini, dopo la latitanza, confessa al pool Mani Pulite il ruolo avuto in un vecchio scandalo emerso dalle carte della P2 e rimasto insoluto: quello del conto svizzero “Protezione”, aperto da lui nel 1980 per ricevere un versamento di 7 milioni di dollari provenienti dall’Eni, passati per il Banco Ambrosiano e destinati al Psi grazie ai buoni uffici di Gelli, su indicazione di Craxi e del suo vice Martelli.

Enimont. La più grande tangente della storia d’Europa è quella di 140 miliardi di lire pagata ai partiti dalla Ferruzzi di Raul Gardini per lo scioglimento di Enimont, la joint venture fra Eni e Montedison, fra il 1991 e il ’92. E anche lì Craxi fa la parte del leone: i giudici gli contestano quasi 11 miliardi (7,5 per lo scioglimento di Enimont più 3,4 per le elezioni del 1992). Interrogato in aula al processo Cusani da Di Pietro il 17 dicembre 1993, Craxi confessa: “A me personalmente non hanno dato una lira. Ma sia il gruppo Ferruzzi, sia la Montedison hanno versato contributi all’amministrazione del partito. Ero al corrente della natura non regolare dei finanziamenti al mio partito. L’ho capito da quando portavo i pantaloni alla zuava!”. Poi estrae di tasca un bigliettino: “Dopo la morte di Vincenzo Balzamo, venne fuori questo foglietto scritto a mano, con le entrate da società ed enti. Lui scrive che in quattro anni ha raccolto 186 miliardi. Circa 50 miliardi all’anno”. Ovviamente fuorilegge.

Manzoniano e non “Divo”. Il Bettino del tramonto assomiglia all’Innominato

Che senso ha cercare la più stretta rassomiglianza fisica – cinque ore di trucco e due di strucco – col personaggio senza fare poi il nome del personaggio stesso? E che senso ha virgolettare, con formato 4:3 anziché il restante 16:9, le prese di posizione politica di un personaggio senza nome? E che senso ha però fare il nome della località della sua latitanza/esilio e farne addirittura il titolo?

Non sono problemi di poco conto, ma contraddizioni esibite del film stesso: Hammamet non è Nixon, JFK o (George) W. (Bush), ovvero Craxi, e non è Il Divo o Il Caimano, ovvero Cinghialone o Ghino di Tacco, e nemmeno Vice per Dick Cheney ossia Vizio per Craxi stesso. Né nome, né soprannome, né qualità, solo località, giacché premette Gianni Amelio non è “un film ‘su Craxi’”, ancora, “non volevo fare una biografia” e “meno che mai un film che desse ragione o torto a qualcuno”. Che cos’è Hammamet? Esiste al di fuori e al di là della prova capitale, tra trucco protesico e calco attoriale, di Pierfrancesco Favino? Ci sono altri personaggi, dalla figlia Stefania detta però Anita (Livia Rossi) al figliol altrui però sempre prodigo Fausto (Luca Filippi, boh), che abbiano non si dice autonomia, ma almeno aggetto per sottrarsi all’ombra del padre padrone Bettino? No, l’unica eccezione – a riprova del magnifico interprete che è – si deve a Renato Carpentieri, nel completo di lino di un “avversario politico ma mai nemico” di Craxi: una pastasciutta da dividere e un dialogo, tra “rimpasto” e “magna magna”, da ascrivere a cosa migliore del film. Il resto è reminiscenza manzoniana: non l’“Ei fu” del Cinque maggio napoleonico, ma L’Innominato. Il personaggio immaginario – appunto, immaginario – dei Promessi sposi che “non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto” e che, con Giovanni Pozzi, “né sopravvive alla storia né scompare entro la storia”. Insomma, se si fa prima a dire ciò che Hammamet non è, rimane un problema: Bettino Craxi, all’anagrafe Benedetto Craxi, chi era costui? Carneade, davvero? Il cinema dei padri e dei figli di Amelio prova a ri-Colpire al cuore – da lì dice il regista viene lo sciagurato Fausto – ma il rischio è sensibile: fare di un innominato un padre della patria. In contumacia.

Restituzioni, nuove regole per calmare i parlamentari

Ora per calmare i parlamentari pensano anche a cambiare qualcosa, cioè a un nuovo sistema per le restituzioni. Un metodo misto, con una parte basata sulle rendicontazioni e un’altra con una parte fissa, a parziale sollievo degli eletti. “Ma non sarà semplice convincere Casaleggio”, ammettono dai Cinque Stelle, dove da giorni si sono avvitati sui soldi, un’altra faccia del malessere che in meno di un mese ha portato sei parlamentari a uscire dal M5S. E c’entrano le restituzioni, eccome, ma non sono l’unico grano in un rosario di problemi.

Però l’urgenza ora è tamponare ragionando anche sulle regole per le restituzioni: sgradite anche a moltissimi di quelli che hanno pagato, figurarsi agli altri. Per questo qualcuno dai piani alti del M5S aveva anche proposto le rate, per i grillini ancora indietro con le restituzioni. Una dilazione, per dare un segnale di pacificazione e non perdere altri pezzi. Ma nella riunione di martedì a Roma i tre probiviri hanno difeso le regole, un totem che tanti attivisti non vogliono vedere sporcato. Così non ci saranno rateizzazioni, per gli oltre 40 parlamentari che non hanno ancora effettuato tutti i versamenti nel 2019. Ma sono 28-30 a rischiare un brutto dazio, cioè la sospensione o l’espulsione. E la differenza la faranno i dieci giorni dall’avvio dei procedimenti disciplinari, quelli in cui si potranno presentare controdeduzioni, e nei quali si potranno versare le mensilità arretrate per salvarsi. Ma non solo. “Gli eletti sotto procedura dovranno dimostrare buone intenzioni e comportarsi con rispetto” spiegano dal Movimento. Tradotto, basta dichiarazioni polemiche o, peggio, video critici. Ergo, chi tornerà a battagliare nei prossimi giorni potrà dare per scontata l’espulsione, “anche se in base ai criteri di partenza dovesse essere sospeso”. Perché hanno stabilito delle griglie, i probiviri. Per chi è indietro per non più di tre mensilità arriverà solo un avvertimento, mentre per chi non paga da molti mesi è in arrivo una sospensione. Dall’anno in poi senza pagamenti, sarà cartellino rosso.

Martedì i capigruppo di Camera e Senato, Davide Crippa e Gianluca Perilli, hanno chiesto “comprensione”. Ma qualche espulsione arriverà. E il primo della lista è il senatore pugliese Alfonso Ciampolillo, che non versa da un anno e mezzo, e che ieri ha attaccato il premier Giuseppe Conte: “La magistratura sta finalmente facendo luce sullo scandalo del gasdotto Tap: Conte con le sue ridicole minacce di penali deve solo chiedere scusa ai cittadini pugliesi e a quelli che ha offeso con la sua supponente ipocrisia”. E sembra un addio al M5S. In bilico resta anche Mario Giarrusso, che ieri ha detto ad Affaritaliani.it: “Non lascio il Movimento”. Si spera di recuperarlo all’ultimo minuto. Ma ci sono almeno un altro paio di senatori che ballano tra sospensione e cacciata.

Un bel problema, visto che a Palazzo Madama la Lega punta a reclutare altri grillini malpancisti. Quindi una minaccia concreta per la maggioranza, che in Senato si regge su numeri risicati. Poi c’è la Camera, con quattro deputati a fortissimo rischio, Andrea Vallascas, Flora Frate, Nadia Aprile e Andrea Acunzo. Ma sono sulla graticola anche Dalila Nesci e Andrea Colletti. A margine, le chiacchiere su un nuovo sistema per le restituzioni, di cui si dovrebbe discutere anche oggi in un’assemblea congiunta con Di Maio. Con i parlamentari che chiedono di pagare una cifra fissa, e i vertici che temporeggiano e ventilano modifiche. Anche se Casaleggio fa muro. E non è affatto un dettaglio.

Sardine, il doc su due mesi di piazza

Le Sardine fanno il pallone è il titolo del documentario che prende spunto dalla canzone che Fabrizio De André scrisse con Ivano Fossati nel 1996 (Le acciughe fanno il pallone). E proprio da Genova parte il reportage in chiaro da domani su Loft (www.iloft.it) ideato da Cinzia Monteverdi e Marco Travaglio e scritto da Matteo Billi, Shadi Cioffi e Duccio Forzano con la regia di quest’ultimo. Trenta minuti circa per raccontare quel vortice che le “6.000 Sardine”, partendo da Bologna, hanno creato in meno di due mesi. Le testimonianze e le immagini raccolte nel capoluogo ligure, a Napoli, Milano, Torino e Roma ci restituiscono quello che fino a oggi è stato questo fenomeno spontaneo nato in Rete con scarsissimi mezzi e che ha riacceso le speranze di tanti che si sono allontanati in questi anni dalla partecipazione di piazza. Ci sono i volti e le voci di persone scese in strada per stringersi contro l’estrema destra. Senza bandiere di partito e senza insulti.

Nel documentario realizzato dal Fatto Quotidiano e Loft Produzioni lo raccontano tre persone: Edgardo, Chiara ed Ehsan. Seguiti nella loro vita quotidiana, fino alla loro partecipazione per la grande manifestazione del 14 dicembre in piazza San Giovanni a Roma. “Io ho fatto parte dei Girotondi prima, del Popolo Viola poi e ovunque c’era da manifestare per un po’ di civiltà o contro delle derive, io c’ero – racconta Edgardo, pensionato di 68 anni –. Questa cosa mi sembra molto diversa, per tantissimi motivi. Il motivo principale è che le Sardine stanno raccogliendo un popolo molto ampio, non è solo quello dei delusi della sinistra, è una massa molto più grande: donne e uomini che non ne possono più”. La sua storia si intreccia con quella di Chiara, ingegnere di 35 anni: “Riempire una piazza di persone non è una soluzione al sovranismo di destra. Può essere però un terreno fertile per far nascere qualcosa di contrastante e positivo: spero che le Sardine diventino poi un partito”. “Trovo molto ossessiva questa tendenza a evitare colori, bandiere e nomi, perché se davvero vogliamo essere liberi, allora – continua Chiara – dobbiamo essere capaci di portare il nostro contributo sempre e comunque a prescindere dalle nostre bandiere e colore”.

Infine l’obiettivo si concentra su Ehsan, un ragazzo pachistano di 24 anni che vive a Poggio Mirteto (in provincia di Rieti), in Italia dal 2000. Praticante musulmano, laureato in Scienze infermieristiche, tanti mestieri per andare avanti, dal 2018 è cittadino italiano. “Per me le 6.000 Sardine rappresentano l’unione e l’inclusione fra i diversi. Ecco, vado in strada con e per le Sardine perché credo nell’uguaglianza. Quale istanza vorrei portassero avanti e sulla quale i governi si sono incagliati? Lo Ius soli. È impensabile nascere in uno Stato e non avere i documenti di quello Stato: quella norma garantirebbe a tante persone una dignità di diritti pari a tutti i suoi coetanei. Se le Sardine formassero un partito – conclude –, darei il mio voto a loro”.

È la più votata su Rousseau, ma il M5S non la candida

Con 184 preferenze su Rousseau, Rosella Cerra è stata la più votata in Calabria. La sua candidatura al Consiglio regionale doveva essere una formalità. Quei 184 voti lasciavano presagire un posto da capolista. Ma così non è andata. Insegnante di Lamezia Terme e da anni attivista del Movimento, infatti, Cerra non compare nella lista presentata il 28 dicembre a sostegno del candidato presidente Francesco Aiello.

Sono passati più di dieci giorni e ancora Cerra non sa perché il suo nome, dopo l’ottimo risultato tra gli iscritti calabresi, sia stato escluso dal capo politico Luigi Di Maio e dai vertici del Movimento. Eppure l’insegnante, su richiesta di alcuni parlamentari calabresi, ha dato il suo contributo alla stesura del programma del M5S, soprattutto nella parte relativa ai temi ambientali.

Stanca di non ricevere risposta, Rosella Cerra ha scritto a tutti: dalla Casaleggio Associati all’associazione Rousseau passando per Di Maio e l’ex ministro Danilo Toninelli. A loro ha chiesto un “chiarimento formale” per “l’infamante pregiudizio subito”.

“Tale scelta oltre che poco rispettosa per gli attivisti tutti – aggiunge Cerra – risulta umiliante per la mia persona e socialmente diffamatoria”. Una scelta che “non trova riscontro nelle decisioni dello stesso movimento nelle recenti tornate elettorali”. Nel 2015, infatti, l’insegnante è stata candidata come capolista alle Comunali di Lamezia Terme mentre nel 2018, sulla piattaforma Rousseau, è risultata candidata supplente al Senato per la Calabria. In quell’occasione, gli altri “supplenti” del M5S sono stati poi effettivamente candidati alle politiche, mentre lei è stata esclusa a vantaggio di Silvia Vono, poi passata a Italia Viva.

Nessuno dei referenti calabresi del Movimento 5 Stelle contattati dal Fatto è stato è in grado di addurre motivazioni valide all’esclusione di Rosella Cerra.

“Un altro ras delle tessere”. Panico tra i dem romani

Un pacchetto di tessere online e un “banco alimentare” natalizio che suscita sospetti, riaprono una vecchia ferita in una delle aree più complesse della Capitale. Il Pd a Roma è in subbuglio per quello che accade nei circoli di Tor Bella Monaca e Tor Vergata. A (ri)accendere la miccia l’iniziativa di Loris Scipioni, nipote di Marco Scipioni, già presidente del Municipio VI cacciato nel 2015 con otto consiglieri e assessori dall’allora reggente Matteo Orfini e dal suo subcommissario Gennaro Migliore, ai tempi della moralizzazione dopo l’inchiesta “mafia capitale”.

In vista del congresso romano del 21 marzo, indetto dal segretario Andrea Casu, Loris ha salutato sulla sua pagina Facebook “oltre 100 cittadini che hanno accolto il mio appello a iscriversi al Pd”, attraverso il sito internet, gettando così nel panico il Pd locale. Il partito in queste zone – con il più alto tasso di criminalità e il più basso reddito pro-capite a Roma – è ormai ai minimi termini, a cinque anni dalla relazione post Mafia Capitale di Fabrizio Barca sui circoli “dannosi”, classificati come “potere per il potere”, cui seguì l’epurazione renziana.

Lo stesso Orfini, alle Politiche del 2018, è arrivato terzo, ben staccato, dietro Lorenzo Fioramonti e alla leghista Barbara Mannucci. L’exploit (per ora presunto) di Scipioni ha messo in allarme gli attuali dirigenti dem, con il segretario Casu che ha girato tutto il dossier alla commissione di garanzia del partito: “Abbiamo gli anticorpi necessari per evitare che possano verificare episodi che niente hanno a che fare con la storia e i principi del nostro partito”, ha dichiarato. Il timore diffuso fra i big del partito, dall’ex ministro Beppe Fioroni all’attuale vicepresidente della Regione Lazio, Daniele Leodori, è che possa “tornare la logica dei capi bastone” nei circoli. Orfini: “Quelli che avevamo allontanato, quelli che hanno disonorato il Pd, hanno annunciato una scalata ostile”.

Scipioni jr spaventa il Pd. Con un passato nei Centocelle Nightmare (noto gruppo di spogliarellisti da stadio che scimmiottava gli americani California Dream Man), negli ultimi tre mesi Loris ha aperto a Tor Vergata un banco alimentare di sostegno alle famiglie indigenti, molto simile a quelli organizzati da CasaPound e da altri gruppi di estrema destra.

“L’iniziativa va avanti da undici anni, chi parla di voto di scambio è in malafede”, assicura lui contattato dal Fatto. E anche la foto scattata insieme a Romolo Casamonica, esponente del clan di Roma Est arrestato nel 2018 per droga, non lo aiuta nei rapporti con l’attuale segreteria. “Ma è di tanti anni fa, dopo uno spettacolo, non potevo sapere chi fosse o come si chiamasse”, dice il 35enne. Risponde agli attacchi dal suo giornale locale What’s Up Media, e spiega al Fatto: “Con l’arrivo di Nicola Zingaretti alla guida del Pd, tanti si stanno riavvicinando al partito, ma purtroppo c’è chi teme di perdere la propria posizione e fa ostruzionismo”. Scipioni fa già parte del Pd: “Almeno credo, la tessera ce l’ho”, scherza. Poi annuncia: “Non so se mi candiderò, non ho in programma nulla, ma di certo non possiamo rimanere ostaggio di un partito che qui non esiste più”.

La guerra nel Pd a Tor Bella Monaca dura da anni. Risale almeno al 2013, quando la scissione fra i gruppi di Marco Scipioni e Fabrizio Scorzoni (che allora “simpatizzavano” rispettivamente per i deputati Umberto Marroni e Roberto Morassut) si consumò in occasione delle primarie cittadine che proiettarono Ignazio Marino al Campidoglio.

Scipioni senior (oggi lontano dalla politica e dalle attività del nipote Loris), in particolare, fu accusato di aver portato a votare immigrati nigeriani e abitanti dei vicini campi rom di Salone e La Barbuta. Situazione verificatasi nuovamente alle primarie dell’8 dicembre 2013 che elessero Renzi.

“Amato” dai clan, ma “salvato” dal centrodestra

Il presidente del consiglio comunale di Perugia, Nilo Arcudi, resterà al suo posto, a meno che non faccia un passo indietro. L’assemblea a maggioranza di centrodestra ieri ha respinto la richiesta di revoca del suo ruolo presentata nei giorni scorsi dalle opposizioni di centrosinistra e votata anche dal M5S: 19 contrari e 8 favorevoli (Arcudi è uscito dall’aula). L’uomo forte eletto con la lista del sindaco Andrea Romizi “Perugia Civica” a metà dicembre era finito nelle carte dell’inchiesta “Borderland” della Dda di Catanzaro sui rapporti tra mafia e politica in Umbria. Il gip Paola Ciriaco, nell’ordinanza di custodia cautelare, parlava di un “sodalizio di riferimento” del boss di ’ndrangheta Antonio Ribecco in grado di “influenzare la politica locale” e in particolare le elezioni 2014 vinte dal centrodestra dopo vent’anni. Nelle intercettazioni era citato anche Arcudi (non indagato), ex vicesindaco di centrosinistra e re delle preferenze con la lista di Romizi alle elezioni di maggio 2019 (1.030 voti). “Nilo lo abbiamo messo noi al Comune” dicevano al telefono due ’ndranghetisti. Nonostante quella che il gip definisce una “campagna elettorale serrata” di Ribecco a favore di Arcudi anche “adoperandosi mediante concessione di prestiti di denaro”, l’impegno non sarebbe stato poi ripagato visto che l’attuale presidente del consiglio comunale di Perugia si sarebbe “dimenticato” dei benefattori che avevano contribuito a farlo eleggere. Arcudi ha sempre negato qualunque tipo di legame. Quando erano emerse le intercettazioni, però era scoppiato anche il caso politico: le opposizioni avevano chiesto le dimissioni ma anche nella maggioranza l’imbarazzo era evidente. Il capogruppo di “Perugia Civica” Massimo Pici aveva chiesto le dimissioni “senza compromessi” di Arcudi e per questo il gruppo aveva attivato i probiviri per cacciarlo mentre il sindaco di Forza Italia Andrea Romizi ha lasciato al suo compagno di lista la libertà di scegliere cosa fare Il Pd, “Italia Viva” e “Rete Civica” dell’ex candidato sindaco Giuliano Giubilei poi hanno presentato la richiesta di revoca: nel consiglio comunale di ieri la maggioranza di centrodestra ha votato contro ma non per una ragione politica, ma tecnica.

Gli uffici del Comune infatti avevano scritto un parere secondo cui una revoca per ragioni “politiche” e non legate alla funzione svolta da Arcudi come presidente del consiglio comunale sarebbero state facilmente appellabili dal Tar. “Il nostro ‘no’ non è un passo indietro nella lotta alla ’ndrangheta” ha detto durante il dibattito il sindaco Romizi. Alla fine ha votato contro la revoca anche il dissidente Pici che però, nel merito, ha dato ragione alle opposizioni secondo cui “anche se non indagato Arcudi non può restare presidente del consiglio comunale – ha detto la capogruppo Pd Sarah Bistocchi – perché la nostra battaglia rappresenta un chiaro messaggio contro le mafie”.

C’è l’Emilia, il voto sulla Gregoretti va verso il rinvio

Questa mattina la Giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama inizierà a esaminare la relazione di Maurizio Gasparri sulla richiesta dei magistrati di Catania che vorrebbero processare Matteo Salvini per la gestione dei migranti a bordo della nave militare Gregoretti. Ma a tenere banco sarà una questione procedurale. La maggioranza giallorosa è, infatti, intenzionata a chiedere uno slittamento della seduta in cui si dovrebbe decidere sul caso dell’ex ministro dell’Interno leghista accusato di sequestro aggravato di persona: non più il 20 gennaio come da calendario, ma almeno una settimana dopo.

Una richiesta destinata a suscitare polemiche da parte dell’opposizione, che crede che il rinvio sia un pretesto per scavallare la data del voto in Emilia-Romagna: stando al pallottoliere, infatti, la maggioranza ha i numeri per mandare a processo Salvini. Che è decisamente pronto ad accusare i suoi avversari politici di volerlo eliminare per via giudiziaria. Tanto da chiamare già il “suo” popolo alla lotta: “Se mi chiamano a processo, vi aspetto. Spero che trovino un tribunale abbastanza grande”, ha detto ieri durante un comizio in provincia di Parma.

Intanto, in Giunta si annuncia battaglia. Gasparri, cercando di inchiodare la maggioranza al calendario, è tornato a ribadire che resta confermata per il voto la data del 20: “La Giunta deve dare il suo parere all’assemblea entro 30 giorni dalla trasmissione della richiesta dei magistrati. Il calendario non l’ho deciso di testa mia, ma applicando il regolamento del Senato. Se qualcuno vuole posticiparlo deve formulare una richiesta con solide basi tecniche, perchè quelle di natura elettorale non bastano”.

E ieri, su questo fronte, c’è stato un gran lavorio dalle parti della maggioranza. I senatori di M5S, Pd, Italia Viva e LeU si sono riuniti una prima volta dopo la Giunta per le autorizzazioni per poi ritrovarsi anche al termine dei lavori dell’aula. Durante l’incontro del primo pomeriggio si è fatto il conto di quanti saranno in missione nei prossimi giorni e che per questa ragione non potranno presenziare a tutte le sedute che saranno dedicate all’esame del caso Gregoretti: come ad esempio Mario Giarrusso del M5S e Pietro Grasso di LeU che insieme ai componenti della Commissione Antimafia saranno negli Stati Uniti fino al 19 gennaio. Non bastasse, alla questione delle assenze che penalizzerebbero il dibattito su un caso tanto delicato, nel tardo pomeriggio si è aggiunto anche un altro argomento di una certa solidità che depone per lo slittamento del voto su Salvini a una data successiva al 26 gennaio: la capigruppo di Palazzo Madama ha infatti stabilito che dal 20 al 24 gennaio sarà sospesa l’attività dell’aula e delle commissioni in vista della tornata elettorale per le regionali. Subito dopo la comunicazione all’aula si è registrato un certo movimento attorno allo scranno della presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati. Perché c’era chi chiedeva chiarimenti proprio sull’impatto della decisione sulla programmazione del calendario della Giunta. Stamattina verrà posta la questione del rinvio dei lavori dell’organismo che tecnicamente non è una commissione. E sarà battaglia tra chi ritiene che debbano essere sospesi e chi la pensa decisamente all’opposto.

Quanto invece al merito della decisione che riguarda il capo della Lega, restano confermate le previsioni della vigilia: il centrodestra dirà no al processo a suo carico, mentre la maggioranza è orientata ad acconsentire alle richieste dei magistrati di Catania. E a bocciare la proposta di Gasparri che stamattina presenterà una bozza di relazione in cui verranno evidenziati tutti i punti di contatto tra il caso della nave Gregoretti e quello della nave Diciotti. Allora il Senato, un anno fa, decise di negare l’autorizzazione a procedere richiesta dai magistrati nei confronti di Salvini (con il voto dei 5Stelle). Precedente che Gasparri intende far pesare.