Al “suocero” Verdini bruciano il ritratto di Matteo: sono ladri, nessuna minaccia

Nessun atto intimidatorio nei confronti di Matteo Salvini, ma uno sfregio di due ladri, probabilmente stranieri di etnia rom, che dissentono dalle idee del leader della Lega. L’aneddoto misterioso, e per certi versi inquietante, di incenerire il quadro di Salvini con un accendino durante il tentativo di furto nella villa fiorentina dell’ex senatore e “suocero” Denis Verdini va, quindi, considerato un gesto politico.

È questa l’ipotesi emersa dalle indagini del Comando Provinciale di Firenze sull’effrazione di inizio dicembre nella villa di Pian dei Giullari, sulle colline di Firenze. Al momento, vengono smentite le voci di una possibile minaccia nei confronti di Salvini e di Verdini che negli ultimi mesi ha subito un altro furto nella sua abitazione al Galluzzo. Chi vuole intimidire non mette a soqquadro una casa, è il ragionamento degli investigatori che in queste ore stanno stringendo le maglie sui ladri. Tutto risale a inizio dicembre quando il custode di casa Verdini si accorge che qualcuno è entrato nella dépendance di Pian dei Giullari che non è dotata di un impianto d’allarme. I ladri sono entrati nel mini appartamento forzando una finestra, ma non hanno trovato nulla di prezioso: nelle due stanze ci sono solo un letto, qualche mobile e una grossa tv difficilmente trasportabile. Così, prima di andarsene a mani vuote, sono stati attratti da un quadro che ritrae Francesca Verdini e il compagno Salvini, rappresentato con tinte azzurre e una camicia bianca. I ladri hanno preso un accendino e annerito la faccia dell’ex ministro leghista. Poi, prima di fuggire, si sono anche bevuti del limoncello: le tracce sui due bicchieri sono ora oggetto di analisi per ricavare il dna dei due malfattori.

Al momento si esclude che quello di inizio dicembre possa essere stato un atto intimidatorio nei confronti di Salvini o Verdini: il furto è molto simile ad altri che avvengono di frequente in quella zona sulle colline di Firenze. Che i ladri siano entrati nella casa dell’ex sherpa berlusconiano potrebbe essere solo una casualità.

Da Conte a Sala, l’orizzonte trash dei social (e sticazzi!)

Da quando la politica è stata sopraffatta dalla comunicazione e gli spin doctor hanno scalzato i Padri del pensiero, i social media, nella loro sconcertante fatuità, sono l’unica attendibile dimensione di esegesi del pensiero dei nostri rappresentanti. La superficie è la loro cifra etica; l’effimero il loro orizzonte; il trash il loro codice. Atti e parole sono troppo gravosi, e anche i tweet stanno diventando impegnativi. Salvini insegna: perché cucinare una lepre in salmì quando al pubblico basta propinare cibo spazzatura? Instagram è il social d’elezione per chi vuole mostrarsi al passo coi tempi, lo specchio perfetto per il narcisismo del nulla. Di seguito un florilegio delle recenti opere dei più instancabili produttori di facezie, luoghi comuni, banalità e solipsismi della propaganda digitale.

Raschiare il fondo dei cassetti. Il 6 gennaio compare sull’Instagram di Giuseppe Conte la foto in bianco e nero di un bimbo su una bici. Didascalia: “Frugando tra i cassetti di una vecchia scrivania mi è capitata questa foto di cui avevo perso il ricordo. Nonostante gli anni trascorsi riconosco due elementi che non mi hanno mai abbandonato: la passione per la bicicletta e la tenacia che mi induce a non fermarmi mai”. Solidarietà al presidente del Consiglio, a cui lo spin doctor Rocco Casalino, per aumentare il consenso di cui gode (dovuto anche alla sobrietà finora dimostrata), deve essersi introdotto in casa nottetempo in cerca di foto private a cui agganciare didascalie frivole e autocentrate mentre è in corso una guerra Usa-Iran.

Al servizio del cittadino. Il sindaco di Milano Beppe Sala pubblica la foto di una tazza di cappuccino: la schiuma del latte è stata ricamata dal barista in modo da riprodurre il volto di Giuseppe Sala.

Parenti presentabili. Renzi pubblica una foto di sé stesso con le nonne “Maria e Anna Maria, rispettivamente 99 e 89 anni”, entrambe sconosciute alle procure.

Avere il polso. Salvini del periodo esistenzialista (dolcevita di lana e giacca di velluto): “Ancora una splendida domenica a voi da Rimini, Amici! Che tempo fa da voi?”. Il 24 novembre in Italia era allerta rossa per alluvioni e frane; a Venezia l’acqua alta ha raggiunto il picco storico di 140 cm, con metà del centro storico allagato e perdite incalcolabili.

La mossa del pinguino. Beppe Sala pubblica una video-gag di sé stesso col copricapo da Babbo Natale mentre gioca a curling insieme ai comici Geppi Cucciari, Giovanni e Giacomo. Lanciando la pietra sulla pista ghiacciata scivola rovinosamente a pancia in sotto come i pinguini dei cartoni animati. Il fermo immagine di Sala a pelle di leone viene riprodotto con garrula allegrezza su tutti i social. Il motivo del video è l’augurio “per un magico Natale”; non risulta che sia stato girato nell’ambito di una manifestazione di beneficienza per bimbi malati, l’unico motivo che avrebbe giustificato il ridursi in tale stato.

Padroni a casa nostra. Foto di tavolata con parenti; il soggetto è impegnato nel taglio di una lasagna: “Un Capodanno passato insieme a chi si ama è il miglior modo per terminare l’anno passato… Specie se intorno ad una tavola rigorosamente Made in Italy”. Salvini? No, Teresa Bellanova.

Chiamata in abisso. “Nonostante le difficoltà attraversate, Venezia si è rimessa subito in piedi”. Didascalia a foto di Giorgia Meloni ritratta ridente nell’atto si scattarsi un selfie con alle spalle laguna e campanile di San Marco.

Uomo comune. Dario Nardella si selfa insieme alla moglie con San Marco alle spalle: “Con Chiara in questa città romantica, misteriosa, spettacolare. Venezia è sempre Venezia”. E scommettiamo pure che è magica, che è una bomboniera e che è bella ma non ci vivrebbe.

Spensierata. Consueto book fotografico della deputata Maria Elena Boschi: “Qualche giorno di relax in Oman con gli amici fra mare e deserto per festeggiare il nuovo anno. Da domani si ricomincia con ancora più energia perché sono molte le sfide…”. Questo reddito di cittadinanza che consente agli sfaticati di vivere una vita in vacanza.

Bambini scudi umani. “Prendendo in braccio la mia principessa, tutti gli insulti e le minacce contro di me scompaiono d’incanto. Vi voglio bene Amici”. Tre giorni prima che cadesse il governo per colpa sua, il difensore dei “bambini rubati di Bibbiano”, quello che quando gli si fa notare che usa la figlia tuona: “Fuori i bambini dalla politica!”.

Dio se ci manca. Faccione di Renzi scottato dal sole d’alta quota: “Il decennio che si chiude mi ha regalato tante soddisfazioni professionali”. Cento di questi 4%, Matteo.

Ok. Luigi Di Maio pubblica un selfie con la fidanzata sfondo mare: “Ho passato qualche giorno nel Cilento, tra Palinuro e dintorni. Volevo far vedere questi posti a Virginia, che non aveva mai conosciuto (sic). Vi consiglio di andarci, il Cilento va visto tutto”. Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, un gigantesco “esticazzi!” tenea dietro al baleno.

Sempre avanti. “A tutti gli italiani, con profondo affetto, l’augurio di un bellissimo 2020 nel quale si realizzino tutti i desideri, i sogni, le speranze… Che questo sia l’anno di un cambiamento vero. Per costruire un futuro migliore”. Il sorridente Berlusconi di oggi brinda alzando il calice; alle sue spalle, un ritratto del Berlusconi sorridente del 1994 vestito alla stessa maniera ma con meno capelli. Maurizio Cattelan sta ancora lì a attaccare le banane al muro con lo scotch.

Pubblicano foto dei figli minorenni, ripresi di viso o di spalle: Matteo Renzi, Dario Franceschini, Giuseppe Conte, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Paola De Micheli.

Hanno fatto da testimonial ai Nutella Biscuits: Matteo Salvini, Matteo Renzi, Giorgia Meloni.

Premio miglior account Instagram a Lorenzo Guerini: zero foto, zero seguiti e la scritta Ancora nessun post.

Conte, un successo a metà: arriva Haftar, ma Serraj no

Quando alle 15 e 30 il generale della Cirenaica, Khalifa Haftar, varca le porte di Palazzo Chigi per incontrare il premier Giuseppe Conte, l’Italia appare essersi rimessa in gioco nella crisi libica. Negli stessi minuti trapela la notizia che Al Serraj, premier del governo riconosciuto di Tripoli, arriverà alle 18 e 30. Segno anche di un’equidistanza del nostro Paese, che finora ha sostenuto ufficialmente Serraj. Doveva essere il risultato di un’intensa attività sia a livello diplomatico, che di intelligence. Ma passano un paio d’ore e Serraj annulla la visita. Lo sforzo riesce a metà. Sfuma il tentativo di Conte di giocare un ruolo di svolta. La “gelata” è delle 17 e 20, con la dichiarazione alla tv al-Ahrar dell’ambasciatore libico all’Ue, Hafed Ghaddur, che informa che Serraj non arriverà. L’interpretazione che si fa strada è l’irritazione nei confronti di Conte che avrebbe ricevuto prima Haftar. Ma Gaddur la spiega così: “Non ci possono essere dialoghi o incontri con il criminale di guerra Haftar”. Raccontano fonti diplomatiche di voci incontrollate sia in Italia che in Libia, secondo le quali Conte aveva intenzione di far incontrare i due. Cosa che non è mai stata nelle sue intenzioni. Ma Serraj, davanti alla sola eventualità (a quel punto non sarebbe neanche potuto tornare a Tripoli) avrebbe scelto di non venire a Roma. Ad aggiungere tensione e incertezza, è circolata in tarda serata la notizia addirittura di un rapimento dello stesso premier libico da parte di alcune milizie, voce poi smentita. Nel pomeriggio, Haftar comunque aveva continuato a parlare con Conte: il vertice durerà tre ore. Il generale della Cirenaica spiega nuovamente la situazione militare sul terreno, peraltro lamentandosi della presenza di Erdogan. Conte gli fa presente che gli stessi Erdogan e Putin stanno chiedendo un cessate il fuoco, gli rappresenta l’orrore dell’attacco all’Accademia militare, gli paventa il rischio di una nuova Mogadiscio. In mezzo a tutte le rivendicazioni del Generale, incassa perfino un “mi fido di te Giuseppe”. Ma a Palazzo Chigi si lavora per “recuperare” Serraj: una telefonata con il premier è prevista nelle prossime ore.

Il doppio vertice doveva arrivare dopo giornate febbrili per tenere insieme i dossier Iran e Libia. Non a caso il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ribadisce che l’Italia non ha intenzione di ritirare i militari italiani dall’Iraq, pur con toni meno netti dei giorni scorsi (“Ogni possibile soluzione sarà affrontata insieme alla coalizione, con un approccio flessibile”). Il fatto che l’Italia sia il secondo contingente dopo gli Usa in Iraq è anche elemento di pressione su Trump per cercare di portarlo a impegnarsi sulla Libia. Mentre si punta ancora alla Conferenza di Berlino, Conte ha in agenda un viaggio imminente in Medio Oriente.
Nel suo giro di ieri a Bruxelles, prima dell’incidente di Roma, Serraj era stato piuttosto rigido, ripetendo a tutti (dal presidente del Consiglio europeo, Michel a quello dell’Europarlamento, Sassoli, all’Alto rappresentante per la politica estera, Borrell) che il premier legittimo è lui e che ha il diritto di difendersi come meglio crede. E aveva mostrato contrarietà rispetto all’invito a Haftar in Europa. Vista dalla Ue, la soluzione pacifica appare difficile, anche perché Italia e Francia non marciano congiunte. Sempre ieri, il ministro degli Esteri, Di Maio, al Cairo per una riunione con i colleghi di Egitto, Grecia, Cipro e Francia non firma una dichiarazione congiunta ritenuta “troppo dura” nei confronti di Tripoli. Conte (che in serata sulla crisi internazionale si confronta con il presidente Mattarella) convoca per domani un vertice di maggioranza su Iraq e Libia con i capigruppo di maggioranza e opposizione. Se il Pd appare compatto nel sostenere la linea del governo, M5s sè più ondivago. E tra fine gennaio e inizio febbraio ci sarà il voto del Parlamento sulle missioni estere. Salvini, dopo il mancato arrivo di Serraj, comunque, non perde l’occasione per dare del “pericoloso incapace” al premier.

La Francia gioca da sola e spariglia la tattica di Roma

Un aereo di servizio italiano, per un paio di ore, martedì ha aspettato a Tripoli l’imbarco per Bruxelles di Fayez Al-Serraj, il primo ministro libico, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale e sempre più precario per l’avanzata da oriente del generale Khalifa Haftar di Bengasi, la “capitale” della Cirenaica.

A Bruxelles era in agenda un vertice straordinario – l’ordinario era previsto in Libia – tra i ministri esteri di Italia, Francia, Germania e Regno Unito con il suggello istituzionale di Josep Borrell, lo spagnolo che guida la politica internazionale europea.

I francesi hanno una predilezione per il generale e non la rinnegano pur consci del legame ormai vitale tra il medesimo Haftar e i russi di Vladimir Putin. Per spirito di competizione con gli italiani che si muovono in sincrono con la Germania di Angela Merkel per imbastire un simulacro di pace con la conferenza di Berlino oppure per non suscitare irritazione in Cirenaica, chissà, martedì Parigi ha bloccato la partenza di Serraj con gli italiani perché Haftar non era ancora disponibile a volare a Bruxelles.

Così l’aereo è rientrato a Ciampino e il ministro Luigi Di Maio e i colleghi tedeschi, francesi, inglesi si sono ritrovati a discutere con i libici assenti. Ieri Roma ha reagito con un’abile operazione di diplomatici e di intelligence e ha organizzato la doppia visita a Palazzo Chigi di Haftar e Serraj. Il presidente di Tripoli in missione a Bruxelles, però, ha cancellato la tappa con Giuseppe Conte perché offeso – attenzione all’emotività in una vicenda di guerra – dalla precedenza concessa al generale di Bengasi. Il capolavoro italiano s’è trasformato in un piccolo incidente con Tripoli.

Roma s’è svegliata dal letargo libico e riscontra le consolidate divisioni europee. Stavolta il governo di Conte segue le strategie di Berlino e, di conseguenza, gli attriti con Parigi sono naturali. La voce francese è quella che stecca, perché italiani e tedeschi hanno raccolto il consenso degli spagnoli e degli alleati nord europei di Berlino. Serraj è un presidente debole e resiste con il sostegno dei miliziani di Misurata, ma l’Europa non l’ha aiutato con la blanda condanna dell’offensiva militare di Haftar che ha causato centinaia di morti. Il vuoto europeo ha incentivato l’ingresso dei turchi di Erdogan al fianco di Serraj. A dieci mesi dall’annunciata e mai considerata realistica conquista di Tripoli, il generale Haftar va in battaglia con il supporto di emiratini e mercenari russi. E dunque l’Europa, che rinnova l’appello all’embargo delle armi, non può aspirare a una tregua senza stringere accordi con chi arma o, leggi la Turchia, spedisce soldati. Escluso un intervento militare, cosa offrono italiani e tedeschi ai libici? Per fare la pace gli interlocutori indispensabili sono Serraj e Haftar, ma per durare la pace ha bisogno di un terzo uomo, qualcuno che non sia inviso a Bengasi come Serraj e a Tripoli come Haftar. Serraj è il rampollo di una famiglia influente e benestante di Tripoli, ma è un politico modesto e non è riuscito mai a imporre il suo carisma e poi l’accusano di trascorrere troppo tempo a Londra con i parenti; la guerra scatenata impedisce al generale Haftar qualsiasi relazione con i gruppi di potere di Misurata e di Tripoli. Un terzo uomo che prenda la redini del governo e includa la Cirenaica è la soluzione più complessa e più logica per gli italiani e i tedeschi. Per un periodo s’è pensato a Fathi Bishaga, il ministro dell’Interno. La ricerca del nome è un esercizio frivolo, ora conta indicare un percorso e persuadere le fazioni in lotta. Nessuno ha interesse a spezzare la Libia con la Tripolitania a ovest e la Cirenaica a est e chi lo fa dimentica il Fezzan, l’altra immensa regione. Può accadere soltanto con un fallimento del sistema statale e la presenza di banconote illegali è un pericolo. Il venti per cento dei dinari che circolano tra i libici sono stampati in Russia per la Cirenaica di Haftar, il resto a Londra per la Tripolitania. In Libia la guerra è diffusa, ma la struttura economica – niente oltre il petrolio – al momento regge in discreta salute.

Ogni giorno vengono estratti 1,2 milioni di barili di greggio, sono lontani i quasi 2 milioni col regime di Gheddafi, ma i proventi della compagnia nazionale Noc, con sede a Tripoli e buoni contatti con Haftar, confluiscono in abbondanza nella banca centrale libica che paga gli stipendi e pure la pensione del generale di Bengasi. Haftar controlla l’ottanta per cento dei pozzi di petrolio che vengono sfruttati dal governo di Serraj. Sarà che l’oro nero è il collante che tiene unite Tripoli e Bengasi e l’italiana Eni lo può spiegare al mondo, ma è la garanzia più esplicita che gli americani, impegnati altrove e assenti in territorio libico, hanno preteso da Haftar: non fermare la produzione. E il generale non l’ha fermata.

Istanbul, Putin ed Erdogan a tutto gas: “Cessate il fuoco al fronte da domenica”

Se ci riescono pure questa volta, diventeranno i maghi del cessate-il-fuoco del XXI secolo: dopo avere disinnescato, a risultati turchi conseguiti, lo scontro militare nel Kurdistan siriano, acceso dall’intervento turco in funzione anti-curda, i presidenti russo Vladimir Putin e turco Recep Tayyip Erdogan chiedono “un cessate-il-fuoco in Libia a partire dalla mezzanotte di domenica 12 gennaio”. Gli antagonisti libici Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar daranno loro retta? Putin ed Erdogan hanno senz’altro più peso che l’Italia o l’Ue o l’Onu, visto che li foraggiano in armi ed equipaggiamenti, non solo con buone parole. Entrambi non vogliono che la crisi abbia una soluzione militare e ne incoraggiano una politica. La richiesta dei due leader è stata annunciata dal ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, dopo un Vertice turco-russo a Istanbul. Cavusoglu, che ieri sera aveva visto il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio, assicura che la Turchia continuerà i suoi sforzi con “il partner russo” e tutte le parti in Libia per “stabilire una pace permanente” nel Paese. Detto da chi ha appena mandato proprio ieri 35 uomini per sostenere una parte contro l’altra. I due leader hanno pure parlato delle tensioni fra Teheran e Washington e dicono di lavorare per stemperare le tensioni e per avviare, con le arti della diplomazia, una de-escalation. L’occasione del Vertice fra Erdogan e Putin, giunto a Istanbul da Damasco, è stata l’inaugurazione del gasdotto TurkStream, da ieri ufficialmente operativo. Alla cerimonia del “giro della valvola” c’erano pure il premier bulgaro Boyko Borisov e il presidente serbo Aleksandr Vucic: tutti e quattro i leader hanno dato il via insieme alle forniture. Erdogan ha detto: “Il TurkStream, per cui abbiamo fatto molti sforzi con i nostri amici russi, è progetto d’importanza storica sia per le nostre relazioni che per la mappa energetica”. Il serbo Vucic ha sottolineato il rilievo del gasdotto per il suo Paese, che ne è attraversato per 403 chilometri e che ne ricaverà certezza di approvvigionamento energetico. Chi non mostra molto entusiasmo è la Commissione europea, che – fa sapere – “intende applicare tutte le norme energetiche comunitarie pertinenti a tutti i gasdotti sul territorio Ue senza discriminazioni” (ma pure senza benevole condiscendenze).

Il gasdotto TurkStream fornirà gas russo alla Turchia e all’Europa meridionale e sud-orientale tramite due condutture parallele: corre per 930 km partendo dalla regione di Krasnodar in Russia lungo il fondo del Mar Nero fino alla costa turca e risale poi l’Europa via Bulgaria e Balcani. La nuova infrastruttura consente al gas russo d’arrivare ai suoi destinatari senza passare dall’Ucraina, privando d’una leva d’azione il governo di Kiev. Gasdotti come strumenti d’approvvigionamento energetico, ma anche come canali di collegamento politico e militare: pegni d’alleanze, non solo d’opportunità commerciali. La storia del TurkStream lo dimostra: l’attuale progetto discende dal SouthStream, annullato nel 2014. Sospeso, sia pure temporaneamente dopo l’abbattimento di un caccia russo da parte turca nel novembre 2015, l’idea divenne operativa un anno più tardi, dopo un miglioramento del clima fra Turchia e Russia.

La cerimonia di Istanbul segue di una settimana una analoga ad Atene: il 2 gennaio Grecia, Cipro e Israele avevano siglato l’intesa per costruire il gasdotto EstMed: una risposta al TurkStream e pure all’espansionismo turco nel Mediterraneo e all’intesa tra Turchia e Libia sulla zona economica esclusiva marittima (Zee), che pretende d’inglobare i campi petroliferi offshore ciprioti. Il patto di Atene, firmato alla presenza dei premier israeliano Benjamin Netanyahu e greco Kyriakos Mitsotakis e del presidente cipriota Nicos Anastasiades, prevede anche misure di difesa del condotto, che dovrebbe portare verso l’Europa il gas naturale dalle acque territoriali d’Israele e Cipro.

Teheran, raid “telefonato” per salvare l’onore sciita

“Sembra che l’Iran abbia indietreggiato”, ha detto il presidente Trump non appena si è aperta a Washington la conferenza stampa indetta per commentare l’attacco missilistico che la notte scorsa Teheran ha lanciato contro due basi militari in Iraq, tra cui quella di Erbil (capitale della regione autonoma curda nel nord dell’Iraq) dove sono di stanza oltre ai militari statunitensi anche i soldati italiani, ancora parte della coalizione anti-Isis sul campo. Trump ha potuto mostrare soddisfazione innanzitutto perché nessuno dei soldati statunitensi è stato colpito e le basi hanno subito danni minimi. Nonostante i vertici del regime islamico sciita iraniano degli ayatollah avessero presto diffuso la notizia di 80 morti, non si sono registrate vittime. Ma, data la censura mediatica imposta dal regime, molti iraniani continueranno a credere che la vendetta fatale promessa dal Gran ayatollah Ali Khamenei all’indomani dell’omicidio del generale Suleimani, sia stata enorme ed efficace.

Dai dati oggettivi si può invece riscontrare l’esatto contrario. Come ha sottolineato il presidente americano sono stati fondamentali per evitare vittime “gli avvertimenti preventivi che hanno funzionato molto bene”. Prima di lanciare i missili di fabbricazione iraniana, gli ayatollah hanno infatti avvisato il premier uscente iracheno, Madhi, loro stretto alleato che, a propria volta, ha avvisato gli americani in ossequio alla apparente alleanza che ancora lega gli Stati Uniti a Baghdad e per l’enorme debolezza in cui versano le stesse autorità irachene accusate da mesi da migliaia di manifestanti di aver reso il paese un feudo di Teheran. Grazie alla solerte soffiata, permessa di fatto dagli stessi iraniani avendola recapitata al depotenziato e ambiguo Mahdi, gli ayatollah hanno tentato di salvare la faccia in casa dopo l’annientamento del numero 2 del regime e, allo stesso tempo, hanno provato a risolvere l’escalation con Washington con una rappresaglia del tutto rituale e senza effetti collaterali. L’Iran infatti sa bene di non potersi permettere di rischiare di innescare una risposta più dura e “sproporzionata” da parte americana, come già annunciata dal presidente Trump. Questo, escludendo ancora una volta di voler muovere guerra aperta all’Iran, è tornato a rievocare nuove sanzioni economiche punitive contro l’Iran. Un avvertimento questo che si trasformerà molto probabilmente in realtà a stretto giro di posta perchè le sanzioni riesumate dalla Casa Bianca l’anno scorso contro Teheran hanno severamente messo in difficoltà il Paese dando a Washington l’impressione di essere efficaci almeno a scatenare una rivolta di massa, anche se non un cambio di regime, la massima aspirazione degli Usa. “Le nuove sanzioni economiche punitive resteranno in vigore finché l’Iran non cambierà comportamento. Per troppo tempo le nazioni hanno tollerato le azioni destabilizzanti dell’Iran in Medio Oriente. Questi giorni sono finiti”, ha tuonato il presidente americano che ha concluso l’incontro con i giornalisti appellandosi al popolo iraniano: “Mi rivolgo al popolo e ai leader dell’Iran: vogliamo che abbiate un grande futuro, che meritate. Gli Stati Uniti sono pronti ad abbracciare la pace con tutti coloro che la ricercano”. Durante la conferenza stampa, The Donald ha inoltre smentito di voler ritirare le truppe americane dall’Iraq.

Per quanto riguarda il disastro (176 morti) dell’aereo di linea appartenente alla compagnia di bandiera ucraina avvenuto in concomitanza con il lancio dei missili, l’Iran ha fatto sapere che non consegnerà le scatole nere perché, pur appartenendo all’Ucraina airlines, il vettore era un Boeing, cioè un aereo costruito dall’omonima società americana. La macabra coincidenza tra l’attacco missilistico e la caduta sul suolo iraniano del Boeing, secondo alcuni esperti sarebbe invece l’effetto collaterale del lancio di missili. Uno di questi avrebbe colpito per sbaglio l’aereo. Un fatto da verificare, ma per non incorre in problemi di questa natura alcune compagnie da domani eviteranno la rotta che passa sui cieli iraniani.

Donald, Rula e Rita: i tuttologi in tv come Lawrence d’Arabia

“Bono Cina bono Giappone”: tra missili e stragi in Medio Oriente e con la guerra sull’altra sponda del Mediterraneo, il dibattito politico televisivo italiano sembra un celebre film di Alberto Sordi, Il Moralista, dove nessuno sa davvero nulla ma tutti parlano di tutto con prosopopea da Foreign Office e citazioni orecchiate. Sbalzati in un altrove ostile, direttamente dal cortile delle ultime chiacchiere sul governo morente ma che non si decide a morire, i nostri opinionisti per caso dopo un po’ si rimpannucciano comodi nel consueto schema domestico. Da una parte gli emuli muscolari di Matteo Salvini, quelli che Trump ha fatto bene, che Soleimani era un macellaio e quando ce vo’ ce vo’.

C’è perfino chi non esita a evocare scenari apocalittici e la terza guerra mondiale come lavacro per tanta empietà (in attesa di andare a cena). Hanno di fronte quelli che: ma dove sta l’Europa, ma dove sta l’Onu? Che predicano il dialogo (Bono Iran bono Donald). Che deplorano, signora mia, l’eterna irrilevanza della politica estera italiana. Fino a quando le due correnti di pensiero trovano l’approdo comune nel dileggio di Luigi Di Maio. Che come ministro degli Esteri non sarà un De Gasperi, ma che viene messo alla berlina per la sua stessa esistenza, che evidentemente non riscuote la necessaria approvazione sotto il profilo estetico, meno che mai diplomatico. Forse perché fotografato “all’aeroporto di Madrid con fidanzata, sneakers e barba incolta mentre il mondo s’infiamma a sua insaputa” (La Stampa).

Ed ecco invece che nella processione talk di ex ministri e tuttologi, ciascuno ci tiene a mostrare un aplomb molto più adeguato rispetto a un ministro nato a Pomigliano, e dunque abusivo: si disegnano strategie, si srotolano mappe, si piazzano contraeree, come tanti piccoli ardimentosi Lawrence d’Arabia. Senza rendersi conto che ricercare uno scenario di deterrenza o di sopraffazione, oppure soltanto un filo logico, nel labirinto decisionale psicopatico che dalla Casa Bianca al Pentagono minaccia di bombardare i siti archeologici, come in un videogioco, e che annuncia il ritiro delle truppe dall’Iraq (salvo poi doppiamente smentirsi), ma come si fa? Senza parlare dello scatolone libico dove un generale con mascella da parata prova a buttare a mare un grigio travet mosso da fili invisibili, mentre Russia, Francia e Turchia si giocano ai dadi colossali riserve di energia. Con il sultano Erdogan intenzionato a puntare sul ritiro dei militari italiani per poi acquisire a spese dell’Eni le concessioni per l’estrazione di gas e petrolio in Tripolitania. Di come sarà garantita in futuro la nostra sopravvivenza energetica e in che modo si riuscirà a evitare un nuovo esodo biblico dal Maghreb direttamente sulle nostre coste: questa è la vitale posta in gioco su cui dovremmo essere informati.

Mettendoci di fronte alla scomoda verità sull’attuale ruolo italiano nel conflitto Teheran-Washington. Che non c’è per un semplice motivo: più che rinchiudersi in un bunker come i nostri soldati a Erbil non possiamo fare (e in attesa che si arrivi all’auspicato ritiro del contingente). Ma ecco che i nostri esperti per caso tornano a pascolare su terreni più familiari. Le elezioni in Emilia-Romagna (altro che Iran). E a Sanremo tu stai con Rula o con Rita?

Gli italiani dentro i bunker, mentre Berlino valuta il ritiro parziale delle sue truppe

La sicurezza dei militari, prima di ogni altra cosa. La necessità di non vanificare il lavoro fatto contro l’Isis, in secondo luogo. Nella fibrillazione seguita all’attacco iraniano alle basi in cui sono di stanza i soldati della coalizione internazionale, il lavoro di governi e vertici degli apparati militari impegnati in Iraq si muove lungo queste due direttrici. Non hanno fatto morti i 22 missili lanciati da Teheran nella notte tra martedì e mercoledì contro obiettivi occidentali, ma non si può rischiare nulla. E il rischio è reale, perché mentre la selva di cruise e balistici a corto raggio pioveva su Ain Al Asad ed Erbil, gli italiani che nella struttura curda addestrano le forze irachene alla lotta contro le milizie jihadiste hanno avuto salva la vita rifugiandosi nei bunker. “La sicurezza dei nostri militari è la priorità assoluta”, ha detto in mattinata il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, dopo aver sentito l’omologo iracheno Al Shammari. “In questo momento è indispensabile agire con moderazione e prudenza”, ha proseguito il titolare di via XX settembre. Che al Tg1 delle 20 ha potuto affermare con tutto il sollievo del caso: “Le misure di sicurezza hanno funzionato”. Ma la situazione nel paese dopo l’eliminazione di Qassem Soleimani resta difficilmente prevedibile.

Per tutta la giornata nelle stanze di via XX settembre si sono susseguite riunioni: sul tavolo le opzioni sul futuro degli oltre 600 italiani agli ordini del generale Paolo Attilio Fortezza, dopo lo spostamento deciso martedì dei 40 uomini di stanza nel compound “Union 3”, nel centro di Baghdad, verso altri luoghi più sicuri della capitale e il Kurdistan.

Con tutto il dispositivo delle missioni tricolori nell’area che è stato posto sotto sollecitazione: dall’uccisione del capo delle brigate Al Quds anche i contingenti impegnati in Libia, Afghanistan e Libano sono in stato di prontezza massima. Nell’incertezza in cui la mossa di Donald Trump ha gettato i ministeri della Difesa di mezza Europa, le operazioni di ridislocamento delle forze proseguono. E inevitabilmente l’assetto delle missioni avviate nel 2014 contro i miliziani di Abu Bakr Al Baghdadi muta. Quasi impercettibilmente, ma muta. Berlino, che martedì aveva annunciato lo spostamento di 35 soldati, continua a valutare la possibilità di un ritiro parziale delle proprie truppe. “Abbiamo raggiunto un accordo con la coalizione internazionale perché le forze non essenziali non siano sottoposte a rischi inutili”, ha detto il ministro della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer. I tedeschi hanno già lasciato la base di Taji in direzione Giordania, mentre vengono preparati piani per quello che la la presidente della Cdu ha definito “un possibile ritiro parziale” di soldati da Erbil. Anche la Danimarca sposterà “temporaneamente” in Kuwait i due terzi dei 130 uomini impiegati nella missione “Inherent Resolve” di addestramento delle forze locali in chiave anti-Daesh (in italiano “Prima Parthica”). E in territorio kuwaitiano la Spagna ha trasferito 10 militari schierati nella “Nato Mission Iraq”, cui partecipa anche Roma.

Al ritiro al momento l’Italia non pensa. “Ogni soluzione sarà affrontata insieme alla coalizione”, ha detto Guerini. Che con scarso realismo ad uso del pubblico del tg ammiraglio della Rai ha proseguito: “Abbiamo sconfitto il terrorismo”. Un fatto resta: lo Stato islamico che fino alla caduta di Mosul allungava ombra e attentatori sull’intera Europa è ridotto a un pulviscolo di gruppi jihadisti che cercano di sopravvivere e riorganizzarsi. Per questo “anche se alcune sacche di resistenza continuano a permanere, sarebbe un errore vanificare i risultati raggiunti”.

Trump, un bowling verso l’atomica

“I più pericolosi terroristi del mondo sono i gloriosi United States of America” scrivevo sul Fatto del 5 marzo del 2019 (Altro che Isis, i terroristi più pericolosi sono gli americani) ribadendo un concetto già espresso altre volte. L’assassinio, con un drone, di Soleimani, leader dei pasdaran, numero tre della gerarchia iraniana dopo Ali Khamenei e Rouhani, avvenuto in Iraq violando quindi anche la sovranità di quel Paese, ne è l’ennesima conferma.

Un atto terrorista in piena regola. Il governo degli Stati Uniti lo motiva sostenendo che Soleimani stava preparando attentati contro siti di “interesse americano”. Un processo alle intenzioni in linea con la teoria Bush della “guerra preventiva” che abbiamo visto dove ci ha portato. Teoria a cui in questo caso mancavano anche le premesse perché nel recente aggravarsi della tensione fra Stati Uniti e Iran, non certo voluta dagli iraniani, i pasdaran non avevano messo in atto gravi provocazioni, il che è un dato di fatto, confermato tra l’altro, dal generale Mini che ha dichiarato al nostro giornale: “Sono anni che Teheran non mette a segno attentati o azioni eclatanti contro gli Usa”. Al contrario erano stati gli Stati Uniti a dare inizio alla bagarre con un raid contro una base di un gruppo filo-iraniano in Iraq, uccidendo 25 miliziani, fatto che è all’origine dell’assalto, due giorni dopo, alla protettissima ambasciata americana a Baghdad. L’assassinio di Soleimani è un fatto inaudito nella storia recente, e forse anche meno recente, nel rapporto fra Stati perché, come ha scritto Pino Arlacchi sul Fatto, introduce “l’assassinio politico palese, e al massimo livello, come strumento accettabile delle relazioni internazionali, anche di quelle ostili”. Anche i senatori democratici Bernie Sanders ed Elizabeth Warren hanno definito il blitz Usa “un assassinio” e non credo lo abbiano fatto solo per propaganda elettorale. E la Speaker della Camera Nancy Pelosi ha affermato che Trump non può dichiarare guerre a suo piacimento senza una preventiva autorizzazione del Congresso. È un Presidente, non un dittatore. È stato eletto democraticamente, ma il metodo democratico non garantisce nulla sulla qualità degli eletti, a qualsiasi livello. Scrive Tocqueville in La democrazia in America: “Quando voi entrate nell’aula dei rappresentanti a Washington, restate colpiti dall’aspetto volgare di questa grande assemblea”. Non voglio dire che tutte le leadership dei Paesi democratici occidentali corrispondano alla descrizione di Tocqueville. Angela Merkel e le premier dei Paesi scandinavi sono qui a smentirlo. Ma Donald Trump è di quello stampo, a cominciare dalla volgarità e da una qualsiasi coerenza nella sua politica. Il decidere, dopo aver tentennato, il raid di venerdì fra una buca e l’altra di un campo da golf dove stava giocando può essere emblematico. Forse lo ha deciso perché ha centrato una buca altrimenti avrebbe soprasseduto.

Il Segretario di Stato Mike Pompeo (per il quale bisognerebbe rispolverare Lombroso) ha avuto la sfrontatezza di rimproverare gli alleati europei per non aver plaudito al crimine.

Le conseguenze.

1. Il Parlamento iracheno ha votato una risoluzione per l’espulsione di tutti i contingenti stranieri dall’Iraq. Questi contingenti erano stati chiamati in Iraq dal governo di Baghdad per sconfiggere l’Isis. Una richiesta d’aiuto molto pelosa che ricorda parecchio da vicino quelle fatte all’Unione Sovietica dopo la rivolta ungherese del 1956 e quella cecoslovacca del 1968 per aiutare i governi “amici”.

2. Ricompattamento, se ce ne fosse stato bisogno, fra Iran e la popolazione sciita dell’Iraq che rappresenta i due terzi di quel Paese.

3. Indebolimento in Iran della fazione più moderata e progressista, che fa capo a Rouhani, a favore dell’ala più radicale. Anche qui l’intero Iran si ricompatta perché a prevalere oggi c’è un solo sentimento che unisce tutto il Paese: l’odio antiamericano.

4. Una delle poche cose buone fatte da Obama, insieme a Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania (il noto “5 più uno”) era l’accordo sul nucleare iraniano. Trump, pur di sminuire il suo predecessore, prima è uscito formalmente dall’accordo e adesso lo ha sostanzialmente distrutto con l’assassinio di Soleimani. Il governo iraniano ha affermato che non ha più nessun obbligo di rispettare quell’accordo e che imboccherà la strada della fabbricazione dell’Atomica, anche se, per il momento, probabilmente nel tentativo di non inimicarsi anche gli altri firmatari, continua ad accettare le ispezioni dell’Aiea. Il possesso di un’Atomica come deterrente diventa una necessità di fronte alle minacce di Trump (“non esiteremo a reagire anche in modo sproporzionato”) come dimostra anche l’atteggiamento molto più soft del governo americano nei confronti del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, che un paio di bombette atomiche le possiede. Lo stesso motivo indurrà molti altri Paesi, anche quelli che hanno firmato il Trattato di non proliferazione, a comportarsi di conseguenza. E con un mondo pieno di Atomiche una guerra nucleare, fra vari Stati in conflitto fra di loro, non sembrerà più così remota.

Si è sottolineata da molti l’irrilevanza dell’Europa, per non dire dell’Italia, sui vari scenari di guerra. Ma l’Europa non può nulla perché non possiede una forza militare adeguata. Visto che un diritto internazionale non esiste più, che l’Onu non conta più nulla perché è da più di vent’anni, dalla guerra alla Serbia del 1999, che gli americani agiscono contro la sua volontà, anche la Germania democratica dovrebbe avere la possibilità di dotarsi di quest’arma. Nell’attuale situazione non è pensabile che oltre a Stati Uniti, Russia e Cina, l’Atomica ce l’abbiano Pakistan, India, Sudafrica, Israele, Arabia Saudita e non il più importante, e centrale, Paese europeo. Bisognerebbe anche che i Paesi europei che fanno parte della Nato denunciassero questa alleanza preistorica e ne uscissero, perché la Nato altro non è che un organismo al servizio degli americani. “Vasto programma” avrebbe detto De Gaulle. Ma un’Europa politicamente unita, armata e nucleare, con una politica estera comune e il ridimensionamento degli Stati nazionali, è assolutamente necessaria se non vuole soccombere, senza difesa, davanti ai grandi potentati, Stati Uniti, Russia, Cina, India, più la finanza internazionale.

Tutta la politica più recente degli Stati Uniti è anti europea. Per un diktat americano i Paesi europei, a cominciare dall’Italia che con Teheran ha buoni rapporti, non possono avere commerci con l’Iran. Gli Stati Uniti hanno anche decretato sanzioni contro le imprese, fra cui quelle italiane, che partecipano al gasdotto Nord Stream 2 che dovrebbe portare appunto il gas dalla Russia all’Europa e che è particolarmente importante per l’Italia, che su questo fronte energetico è molto debole.

Gli Stati Uniti si comportano come se fossero ancora i padroni del mondo. Ma non lo sono più. Il Novecento è stato il “secolo americano”. Il dopo Duemila apparterrà ad altri.

Harry e Megan sognano la Brexit nella Casa reale

Harry e Meghan, potendo, se la squagliano. O ci provano, perché la regina Elisabetta li ha bloccati sulla porta. Da mesi tirava aria di disimpegno dal peso dei doveri reali, ma la bomba di ieri non se l’aspettava nessuno. Con un post sul profilo Instagram, il Duca e la Duchessa di Sussex hanno annunciato l’incredibile: le “dimissioni” da senior royals, membri altolocati della Casa reale: “Dopo molti mesi di riflessione e discussioni, abbiamo deciso per una transizione, a partire da quest’anno, verso un nuovo ruolo all’interno di questa istituzione. Intendiamo lavorare per diventare indipendenti a livello finanziario, pur continuando a supportare completamente sua maestà la Regina”.

Peccato che poco dopo l’annuncio, sia arrivato il comunicato di Buckingham Palace che ha smentito di aver mai dato l’ok alla coppia: “La discussione con il duca e la duchessa di Sussex è ancora agli inizi. Capiamo il loro desiderio di un approccio diverso, ma queste sono decisioni complesse che hanno bisogno di tempo per essere elaborate”. I due volevano continuare per un po’ a onorare gli impegni in corso con la Corona, il Commonwealth e le iniziative benefiche di cui hanno il patrocinio, ma vivendo stabilmente fra il Regno Unito e il Nord America, anche per “crescere nostro figlio con il rispetto e la comprensione per la tradizione reale in cui è nato, dando contemporaneamente alla nostra famiglia lo spazio necessario per concentrarsi sul nuovo capitolo, che include il lancio di una nuova organizzazione di beneficenza”. Da borghesi? Non esattamente. Harry è pur sempre un principe della Corona britannica, ed è difficile che possa sganciarsi del tutto non solo dai doveri ma dai privilegi connessi, come ricorda sua nonna. Ma la sua insofferenza verso i limiti alle libertà personali imposti ai reali, un tratto ereditato dalla madre Diana, è sempre stata evidente, e la moglie ha fin dall’inizio mal sopportato obblighi e aspettative, tanto che nei mesi scorsi si è parlato di una rottura, probabilmente dovuta proprio al diverso approccio alla Firm, con il fratello maggiore William e la moglie Kate, che quegli obblighi li assolvono da professionisti. A determinare la clamorosa decisione potrebbe essere stata la costante pressione della stampa scandalistica. Lo scorso ottobre, una Meghan provata aveva rivelato di soffrire per l’attenzione mediatica, ringraziando con le lacrime agli occhi l’intervistatore per averle chiesto come si sentisse. Poi aveva portato in tribunale il Mail on Sunday, tabloid che aveva pubblicato una lettera scritta a mano dal padre Thomas Markle, con cui la duchessa ha interrotto i rapporti. Harry si era schierato con la moglie con una dichiarazione senza precedenti: “La mia paura più profonda è che la storia si ripeta. So cosa succede quando qualcuno che amo è mercificato al punto da non essere più trattato o percepito come una persona reale. Ho perso mia madre e ora vedo mia moglie vittima delle stesse potenti forze”. Poi la coppia aveva deciso di infrangere la tradizione trascorrendo le vacanze di Natale in Canada, in una villa da 10 milioni di sterline, con la madre di Meghan Doria Ragland invece che a Sandrigham con la Regina, Carlo e William; uno strappo molto mal tollerato a corte. Infine, l’annuncio di ieri, subito smentito. “Abbiamo in programma di bilanciare il nostro tempo tra il Regno Unito e il Nord America”, riportava il tabloid The Sun. Ma come pensavano di sostenere uno tenore di vita finora garantito dall’appannaggio di milioni di sterline dei contribuenti? Potranno rinunciare alla protezione da 600 mila sterline l’anno? Non è ancora chiaro se pensavano di rinunciare al loro titolo, anche se il fatto che non ne abbiano voluto uno per il figlio Archie suggerisce che sperino di ritirarsi a vita privata. Secondo le parole dei duchi riportate dal Sun “questo equilibrio geografico ci consentirà di crescere nostro figlio facendogli apprezzare la tradizione reale in cui è nato, ma fornendo allo stesso tempo alla nostra famiglia lo spazio per concentrarci sul prossimo capitolo, che prevede il lancio della nostra nuova entità di beneficenza”. Ma non è ancora il momento del “vissero felici e contenti”.