“Nissan soffriva. Renault e mi ha venduto”

“Hanno orchestrato una trappola contro di me. Gli autori? I responsabili di Nissan in combutta con la procura giapponese. Quando ho chiesto ai miei avvocati quanto tempo sarebbe stato necessario per il processo, mi hanno detto che ci sarebbero voluti almeno cinque anni prima di ottenere il giudizio. Non mi hanno neanche saputo garantire che avrei avuto un processo equo. A quel punto ho temuto che sarei morto in Giappone. Lasciare il paese era diventato indispensabile”. Nei locali del Sindacato della stampa libanese, a Beirut, Carlos Ghosn racconta la “sua verità”. Parla per due ore e mezza per “lavare la sua reputazione”, gesticola tanto, passa da una lingua all’altra, la voce prima posata, poi sempre più accaldato si tampona la fronte con un fazzoletto.

Ieri è stata la prima volta che il top manager tornava davanti alla stampa dal clamoroso arresto, il 19 novembre 2018, all’aeroporto di Tokyo. Il Giappone lo accusa di diversi illeciti finanziari ma lui si dice innocente: “Sono stato arrestato per non aver dichiarato dei redditi che non erano stati nemmeno confermati dal cda. Non avrei mai dovuto essere arrestato”. Uno alla volta smonta i diversi capi di accusa, proietta alcuni documenti al muro che avanza come prove. Secondo Ghosn tutto è iniziato nel 2017 quando “sono cominciate le perdite a Nissan”. Dall’anno prima, ha spiegato, si stava concentrando su Mitsubishi “in quanto presidente del cda”. Inoltre i vertici di Nissan erano disturbati dall’ingerenza dello Stato francese nell’Alleanza: “Si sono detti che il solo modo per sbarazzarsi dell’influenza di Renault su Nissan dovevano sbarazzarsi di me. Sono stato tradito dal paese che ho servito per 17 anni”. Ghosn bomina tra gli altri Hiroto Saikawa, direttore generale di Nissan, e Masakazu Toyoda, membro del consiglio d’amministrazione. Per Ghosn l’Alleanza Renault-Nissan oggi è una “farsa”. Dal suo arresto “Nissan ha perso 40 milioni di dollari al giorno e la quotazione di Renault è in calo di più di cinque miliardi di euro”. Il top manager dice anche che il mancato avvicinamento con Fiat Chrysler è stato “uno spreco enorme”. Una riunione era prevista nel gennaio 2019. “Era dal 2017 che negoziavo con Fiat Chrysler. Come è stato possibile perdere una tale opportunità?”. Ghosn è arrivato a Beirut il 30 dicembre scorso beffando la sicurezza giapponese: “Sto bene qui, non mi sento prigioniero, posso vedere i miei figli e non sono seguito”, ha detto. Oggi è convocato davanti alla procura libanese in seguito al mandato di arresto spiccato da Interpol contro di lui su richiesta del Giappone. Ma della sua fuga rocambolesca Ghosn non ha voluto parlare ieri. È invece tornato sulle condizioni della detenzione in Giappone: “Ho trascorso 130 giorni in una piccola cella senza finestra. Potevo passare sei giorni senza vedere nessuno e essere interrogato notte e giorno, fino a otto ore di seguito senza avvocato. Ma quelli con cui parlavo volevo solo una cosa: farmi confessare. Mi dicevano: se non confessi ce la prenderemo con la tua famiglia”.

Mail box

 

Il detestabile servilismo dell’Ue nei confronti dell’America

La scellerata uccisione del generale iraniano Soleimani voluta da Trump, come sottolineato dallo stesso Pentagono e dalla Nato, senza neppure avvertire il Congresso, richiedeva un minimo di condanna da parte dell’Europa, la quale corre il rischio si subirne, come già avvenuto per il terrorismo dell’Isis, le relative conseguenze. C’è stato invece un generico richiamo alla prudenza, confermando così l’assenza di una politica estera comune e una sudditanza verso la politica militare americana, che fa il bello e il cattivo tempo disinteressandosi altamente degli interessi geopolitici europei. Questo detestabile servilismo non è d’aiuto neppure al popolo statunitense, anch’esso molto critico nei confronti di presidenti come Trump che costringono il loro Paese a interminabili azioni belliche, con l’inevitabile corredo di vittime e l’espandersi dell’odio antiamericano. Anche per loro vale il detto che è meglio avere amici critici ma sinceri che ipocriti e quindi infidi.

Loris Parpinel

 

Il lassismo e l’indulgenza sono i mali di questo Paese

Quante aziende di un certo livello abbiamo in Italia che producono in attivo e danno ai propri dipendenti quella sicurezza di vita che spetterebbe a ogni lavoratore? Non molte. Il perché le nostre maestranze se e vanno all’estero lo conosciamo, un po’ meno sappiamo della fuga di industrie come la Fiat e le molteplici imprese fuggite o svendute al miglior offerente. Considerando la fine di Alitalia, le disavventure dell’ex Ilva e l’indulgenza verso un’impresa più che sana ma inadempiente come quella dei Benetton, si capisce che qualcosa non quadra. Altra attività redditizia è l’amministrazione di un Paese ormai povero. Il lassismo non va d’accordo con le regole costituzionali d’uguaglianza e l’indulgenza si dispensa solo quando si è capito ed emendato l’errore commesso, altrimenti quello che sta avvenendo in Italia è un degradante situazione che valuta l’errore una norma acquisita e le leggi democratiche un becero giustizialismo.

Omero Muzzu

 

Dipendenti pubblici e privati: la disparità è insopportabile

Nelle imprese con mille dipendenti questi ultimi godono di garantismi equiparabili ai dipendenti pubblici (intoccabili nei secoli), per esempio in caso di crisi aziendale possono fruire di uno “scivolo” alla pensione con ben 5 anni di anticipo. Viceversa restano nel tritacarne i dipendenti delle realtà aziendali medio-piccole (la grande maggioranza), in cui puoi trovarti inguaiato se hai superato i 55 anni: troppo anziano per un altro posto, troppo giovane per l’agognata pensione. Per i primi un morbido scivolo, per i secondi la dura salita. È la solita Italietta inetta… e insopportabile.

Fabio Baldrati

 

Prescrizione, che delusione l’avvocato Pisapia

Caro Direttore, è da quando nacque il Fatto Quotidiano che leggo i suoi editoriali. Ma possibile che il Pd vada dietro alle stupidate di un Pisapia così efficacemente smascherato dal suo editoriale? Ed è possibile che il conduttore di Stampa e Regime a Radio Radicale, che spende tante parole per tutti i “pisapii” contrari alla prescrizione, non abbia avuto oggi il buon gusto di riferirne ampiamente? Ma Pisapia avrà il coraggio e la faccia di provare a smentirla? Se non lo fa, rischia veramente di fare la figura del quaquaraquà.

Palmiro Filippo Bini

 

Sullo scacchiere mondiale l’Italia non conta più nulla

L’Italia è stata cancellata dall’elenco dei Paesi da ascoltare in caso di crisi internazionali. Non conta più nulla in Libia (dove per decenni è stata il Paese straniero più influente), non conta più nulla in Medio Oriente (dove per decenni ha svolto importanti compiti di pace), non conta più nulla in Europa (dove le decisioni vengono prese a Parigi ed a Berlino). Ascoltare le flebili voci di Conte e Di Maio che dicono banali ovvietà (“Siamo contro la guerra e per il dialogo”…) è penoso, mentre altri Paesi (Usa, Iran, Turchia, Russia) agiscono. Purtroppo il nostro ministro degli Esteri è troppo occupato a tenere insieme i suoi sanculotti allo sbando e non ha tempo per occuparsi di questioni internazionali; per lui le elezioni in Emilia-Romagna sono più importanti degli scontri in Libia…

Gianluigi De Marchi

 

La Sanità è al collasso e i medici persino aggrediti

Sono vergognose le intemperanze contro i medici a opera di persone esasperate dalle condizioni della Sanità: non sanno con chi prendersela in un Paese in cui i commercialisti fanno spot per certificare che la burocrazia ha raggiunto un livello di complessità che neppure i sacerdoti egizi coi geroglifici avevano avvicinato.

Vareno Boreatti

 

Le lotte interne stanno sfibrando i 5 Stelle

Una maledizione sembra essersi abbattuta sui 5 Stelle con polemiche interne senza sosta, insieme a un masochistico cupio dissolvi. Chissà se saranno capaci di far fronte comune, reagire e non lasciarsi sopraffare da miserevoli lotte interne. Di dar prova di maturità e intelligenza. Governo, comuni di Roma e di Torino sono sfide esaltanti che richiedono unità, sincera e reciproca solidarietà. Come è possibile che non riescano a esserne pienamente degni?

Salvatore Giannetti

 

Ilva, è il buonsenso che manca in questa drammatica storia

Vi scrivo a proposito delle tante vertenze industriali, dei problemi della futura gestione del siderurgico e dei tagli all’occupazione, il tutto condizionato dal grave problema dell’inquinamento. Il quartiere Tamburi è diventato sempre più invisibile: una casa vale meno di 30.000 euro. Perciò gli abitanti, che sono riusciti a ottenere a gennaio la condanna dello Stato italiano dalla Cedu chiedono la chiusura dell’acciaieria. Purtroppo è noto che ciò costituirebbe un danno incalcolabile al sistema industriale e all’economia nazionale. È possibile che nessun interlocutore abbia mai pensato a un modo efficace per separare le “cause” dell’inquinamento dall’“effetto”, cioè dai danni alla salute di chi abita nel rione? Perché nessuna autorità ha mai pensato alla semplice soluzione di allontanare le famiglie che, per anni, sono state costrette a subire le emissioni? Mediante indennizzi e rimborsi spese, non è lapalissiano offrire a questi esasperati cittadini la possibilità di scegliersi la casa in zona salubre? È il buonsenso la risorsa di cui il Belpaese ha bisogno.

Umberto Ruggiero

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri nell’occhiello dell’articolo “Bretella Gavio, a Lucca crollano pezzi di ponte” abbiamo scritto per errore che sono coinvolti i vertici di Telt, che nulla ha a che fare con la vicenda: si occupa infatti della linea ferroviaria Torino-Lione e non di autostrade. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

FQ

Su Di maio un inutile gioco al massacro

Luigi Di Maio non ha il nostro preventivo sostegno e nemmeno un nostro acritico apprezzamento. Non lo conosciamo e non abbiamo mai discusso con lui. Dubitiamo anche che sia stato opportuno ricoprire l’incarico di ministro degli Esteri, sia per l’inesperienza passata, ma soprattutto per il fatto di ricoprire già quello di Capo politico del M5S.

Ma il susseguirsi di attacchi contro di lui, la derisione costante e la tiritera che vorrebbe l’Italia ormai fuori dalla grande politica internazionale per colpa del leader pentastellato è divenuta insopportabile. Come se, poi, l’Italia avesse mai giocato un ruolo di primo piano a livello internazionale. Stretta tra l’alleanza atlantica, fedele serva di Washington, si è solo ritagliata uno spazietto di manovra mediorientale dosando un po’ di filo-arabismo con l’alleanza indistruttibile con Israele: tutto qui. Fino all’avventura europeista imboccata senza ragionare.

Ora si rimprovera a Di Maio di tutto: di fare “inutili fatiche” in giro per il Mediterraneo (Mattia Feltri su La Stampa), di lasciare “tracce di confusione” sulla politica estera (Massimo Franco sul Corriere della Sera), di perseguire inutilmente “il dialogo” dove il dialogo non c’è (Daniele Raineri sul Foglio). Basterebbe il colpo a effetto di ieri a Palazzo Chigi per smentire l’incapacità dell’Italia di seguire una bussola. Portare a Roma Khalifa Haftar (al Serraj si è ritirato all’ultimo minuto), vale al governo un riconoscimento di competenza evidente.

Ma il punto va oltre questa contesa e oltre le rispettive esibizioni di forza da parte dei vari schieramenti. Il punto riguarda l’Europa tutta e la capacità di stare sullo scacchiere internazionale, soprattutto se, nel caso attuale dell’Italia, non si voglia perseguire una politica estera basata sui militari. Perché se è vero che la Turchia e la Russia possono vantare dei successi è solo perché hanno deciso di inviare truppe. Se è questo che si chiede al governo italiano lo si faccia apertamente senza chiamare in causa competenze o inesperienze pretestuose.

Se poi si avesse la pazienza di spulciare le agende degli altri ministri europei si scoprirebbe che la Libia non è certo in cima ai pensieri di tutti. Prendiamo la Francia. Il ministro degli Esteri, certamente di grande esperienza e competenza, Jean-Yves Le Drian, si è occupato di Libia solo negli ultimi due giorni, come Di Maio. A dicembre la sua agenda lo vede a colloquio con il ministero georgiano, poi nella conferenza sulle Comore, a colloquio con il ministro giapponese, in viaggio verso Praga, impegnato sull’Ucraina, poi nel meeting con il nuovo responsabile Esteri della Ue, Josep Borrell, per passare a questioni di governo francese, della Nato, dell’Organizzazione mondiale della Sanità, occuparsi del Laos fino all’ultimo viaggio del 2019: in Messico, certo non in Libia.

Guardiamo invece gli impegni di Josep Borrell: viaggio a Bratislava per il vertice Osce, una serie di incontri con i vari ministri degli Esteri (Grecia, Francia, ) poi il ministro del Kirghizistan, il Segretario generale della Nato, il ministro del Tagikistan, del Giappone, della Corea del Sud, della Thailandia, del Vietnam, della Cambogia e della Cina in vista del vertice Europa-Asia di dicembre, dove sono in ballo rilevanti questioni commerciali. Solo il 7 e 8 gennaio Borrell si è occupato di Libia, insieme a Di Maio. Il quale si sta sobbarcando un tour del Mediterraneo, non sappiamo quanto fruttuoso, ma comunque all’insegna del ruolo di ministro che gli è proprio.

La situazione è stata ben inquadrata, invece, dal quotidiano francese Le Monde che a proposito della Libia, qualche giorno fa, parlava di “disastro geopolitico” in corso. “L’Europa ha le sue divisioni – scriveva l’autorevole giornale – in particolare tra Francia e Italia privandosi così di qualsiasi azione efficace”. E a proposito di Macron, nei confronti del quale il quotidiano non nutre certo un’avversione, si notava che “se il volontarismo di Emmanuel Macron era a un certo punto benvenuto, si è poi accompagnato a un gioco poco limpido, se non opaco, della Francia a vantaggio di Haftar che ha imballato la mediazione diplomatica”. In questo gioco, va aggiunto, la Francia è stata surclassata dalla Russia e, come scriviamo nelle pagine internazionali, ci sarebbe proprio la Francia dietro la mancata venuta di al Serraj.

La politica estera è una questione complessa, fatta di rapporti di forza che si costruiscono nel tempo. L’Italia raccoglie oggi il peso costruito negli ultimi venti anni, fatti di emarginazione, crisi e cecità soprattutto nei confronti del Mediterraneo. Che ieri Roma sia stata sotto i riflettori dovrebbe far riflettere chi commenta e analizza giusto per il piacere di farlo.

Antimafia, non era “L’Ora” di chiudere

L’8 maggio 1992, poco prima dell’assassinio di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, chiudeva per sempre il quotidiano palermitano L’Ora, coraggioso giornale antimafia, unica voce di sinistra in Sicilia e tra le non molte nel Paese. La sua cancellazione dopo 92 anni di storia, decisa da una società editoriale del Pds (Partito democratico della sinistra, erede del Pci), non ha estinto però l’amore per quel giornale da parte dei palermitani e dei giornalisti che lo animarono. Lo dimostra intanto la recente intitolazione di una via della città siciliana: “via Giornale L’Ora”. E a forte testimonianza del legame mai sciolto, neppure adesso, c’è il libro L’Ora. Edizione Straordinaria, il romanzo di un giornale raccontato dai suoi cronisti, appena pubblicato dalla Regione siciliana, che raccoglie i ricordi di quasi cinquanta ex redattori.

Proprio tra questi racconti, tra queste memorie, si ripropone di nuovo la domanda che, dal maggio del ’92, arrovella chi visse quei giorni: perché chiusero L’Ora? Si domandano per esempio, gli ex redattori Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza: “Perché la fine del piccolo, agguerrito, formidabile giornale L’Ora proprio in quella stagione di capovolgimenti politico-istituzionali?”. Forse perché, aggiungono, “era il testimone scomodo dei passaggi che di lì a poco portarono alle stragi?”. Vincenzo Vasile, che diresse L’Ora negli ultimi mesi di esistenza del quotidiano, sollecitato da Lo Bianco e Rizza, risponde: “Ne sono convinto: d’altra parte abbiamo chiuso poco prima del ‘botto’ di Capaci e l’inizio di una stagione che, forse, con quel giornale aperto sarebbe potuta andare diversamente”. Un altro ex cronista, Gaetano Perricone, afferma: “La sensazione beffarda e amarissima, che resta più che mai viva dopo quasi trent’anni, è che al giornale L’Ora, al ‘mio’ giornale, sia stata chiusa la bocca proprio nel momento in cui tante delle sue battaglie e inchieste stavano per diventare cronaca giudiziaria di questo Paese”. A quasi trent’anni dalla chiusura del giornale che fu di Vittorio Nisticò, di Mauro De Mauro, di Felice Chilanti, di Mario Farinella, di Leonardo Sciascia, di Cosimo Cristina e di Giovanni Spampinato (due cronisti uccisi come De Mauro), l’interrogativo sulle ragioni della sua decapitazione da parte del Pds, in quella fase particolare dell’assalto politico-mafioso allo Stato, restano. È vero, certo, che i giornali, come si sa, sono spesso comprati e venduti. Non c’è nemmeno più L’Unità di Antonio Gramsci, se è per questo. Eppure la serrata del giornale di Palermo, che neppure la mafia di Luciano Liggio e compari era riuscita a fermare con le bombe alla tipografia, rimane un mistero. Si trattò di uno dei tanti clamorosi errori della sinistra, di un sinistra miope e suicida, come potrebbe sembrare?

Aveva ragione Enzo Sellerio (lo rammenta Franco Nicastro nel libro), che in quei giorni gridava: “Quei cretini di Roma devono capire che qui a Palermo c’è una gran voglia di giornale”?. Oppure ci fu dell’altro da mettere in conto? Si palesò, in realtà, un mistero tutto italiano, uno dei tanti, proprio nei giorni che precedettero le stragi di Capaci e via D’Amelio. Volevano davvero chiudere la bocca a quel piccolo e agguerrito giornale, e qualcuno si prestò all’opera, magari non rendendosi conto di ciò che si stava facendo?

Milano e il design, la grande lezione di Perry King

Perry King, designer di grande raffinatezza, se n’è andato silenziosamente, in punta di piedi, nei giorni delle feste. Milano dovrebbe ricordarlo con gratitudine, perché Perry è una delle prove che Milano è davvero una delle capitali europee del design e della cultura visuale. Gli oggetti da lui disegnati, dalla rossa Valentine (con Ettore Sottsass) alla lampada Jill (con Santiago Miranda) sono a tutti gli effetti “italian design”. E poco importa che lui sia nato e abbia studiato nel Regno Unito. Nel 1964 arriva in Italia e comincia a lavorare per la Olivetti di Ivrea, dove nascevano le macchine per scrivere più belle del mondo, e non solo quelle.

“Ho voluto venire in Italia”, raccontava, “affascinato da immagini come quelle di Elea, il grande computer prodotto da Olivetti e presentato nel 1959. Sottsass aveva disegnato una specie di armadio da moltiplicare all’infinito, con grandi lastre di alluminio lucido che avevano il compito di nascondere ciò che Sottsass considerava allora la presenza inquietante della macchina elettronica”.

Con Sottsass, Perry King collabora a realizzare la Valentine, diventata la macchina per scrivere più nota al mondo. Poi diventa design coordinator del Servizio di corporate image di Olivetti, disegna caratteri a punti, libri, poster.

Inizia a lavorare insieme a Santiago Miranda con cui, nel 1976, fonda lo studio King-Miranda Associati. Che coppia: un britannico e uno spagnolo: ma a tutti gli effetti milanesi, protagonisti del design italiano, negli anni in cui il design italiano si faceva a Milano ed era, semplicemente, il design. Con Enzo Mari e Achille Castiglioni, Marco Zanuso e Richard Sapper, Gae Aulenti e Cini Boeri, Mario Bellini e Alessandro Mendini. E tanti altri.

Con Santiago Miranda, Perry King ha firmato lampade di successo (prodotte da Arteluce Flos) come la Jill e la Wall, la Mantis e la Donald, la El e la Triana. E poi i sistemi d’illuminazione per spazi pubblici Halley ed Expanded Line, la luce da soffitto Aurora, le sedute per ufficio Air Mail (prodotte da Marcatrè). I due avevano come firma una doppia mano un po’ escheriana. Proprio loro sono stati chiamati in Giappone per realizzare un locale dal nome e dal sapore italiano, “Sogno A”, a Tokyo, dove hanno usato dura lavagna nera e marmo di Carrara bianco.

Colto, ironico e sornione, Perry King viveva Milano come la sua città, benché si sentisse cittadino del mondo e viaggiasse molto per lavoro, tenendo conferenze e lezioni al Royal College of Art di Londra, al Politecnico di Milano, alla University of Central England, alla Glasgow School of Art, alla University of Arts di Londra.

I finanzieri e i manager italiani non sono poi stati all’altezza della cultura, dell’immaginazione, dell’innovazione che avevano nei loro uffici e nelle loro fabbriche. La Olivetti di Adriano è naufragata, molte altre aziende sono state chiuse o vendute a imprenditori stranieri. Gli imprenditori italiani si sono spesso dimostrati più che altro “prenditori”, e dissipatori di ricchezza e sapere.

La Milano che è possibile vedere nella bella mostra esposta in questi mesi a Palazzo Morando è molto cambiata. Hanno vinto il marketing, il food, lo storytelling. Le solide basi gettate negli anni Cinquanta e Sessanta da chi produceva industria e sapere si sono assottigliate. Se ancora qualcosa resiste, è merito di uomini come Perry King, milanese per scelta e d’adozione che la sua città non dovrà dimenticare.

 

Rita Pavone, di Sanremo e dell’Italia resta “Niente”

A proposito dell’affaire Rita Pavone (“Sempre più in alto!”, direbbe Mike) due sono le possibilità. L’indomita cantante di protesta del Ballo del mattone e del Geghegè è stata veramente chiamata a Sanremo “in quota sovranista”, in segno di gratitudine per i suoi tweet filo salviniani. A quel punto, c’è poco da dire. Povero Festival di Sanremo, divenuto terra di lottizzazione. Povero Amadeus, costretto a inchinarsi ai diktat della politica. Povera politica, ridotta a dare ordini a Amadeus. Povero Salvini, ridotto ad appoggiare Rita Pavone, era quasi meglio la Cuccarini. Ma come in ogni intrigo internazionale, c’è una seconda ipotesi. Rita è stata selezionata per ragioni artistiche; dopo tutto è più nota come cantante che come spin doctor della Nuova Destra. Amadeus l’ha voluta perché ha un’idea dello show nazional-popolare, dal cast variegato, composto da “insoliti noti”, e l’ha messa tra i big giocoforza; nella categoria “Giovani” non si poteva. Se è così, poveri social. Ancora una volta hanno confermato la loro ossessione per i vip, la loro voglia di apartheid criptofascista, la loro sostanza sottoculturale. Può davvero la partecipazione al Festival di Sanremo di Rita Pavone diventare una polemica nazionale? E può davvero l’opinione pubblica schierarsi a prescindere pro o contro il formidabile brano Niente (Resilienza ’74)? Inguaribili ottimisti, per anni abbiamo pensato che Sanremo fosse lo specchio dell’Italia. Ci sbagliavamo. È l’Italia lo specchio di Sanremo.

Ignorata dalla manovra, l’università inizia la rivolta

Lasciato con in mano un pugno di mosche anche da questa legge di Bilancio, il mondo universitario sfogherà oggi in piazza tutta la propria rabbia. Dopo che a Natale Lorenzo Fioramonti si è dimesso da ministro dell’Istruzione (i due nuovi incaricati, rispettivamente per la Scuola e l’università, ancora non hanno giurato) in polemica per le scarse risorse ottenute, sulla stessa scia un esercito di ricercatori precari su cui da anni si reggono gli atenei italiani, manifesterà in almeno una decina di città italiane. Le attuali leggi li costringono a lavorare “a scadenza” anche per dodici anni, prima di raggiungere l’incerto traguardo. E pure questa occasione per dare un po’ di ossigeno, con nuovi finanziamenti, e riordinare le norme è andata persa.

La protestaè stata lanciata dai Ricercatori Determinati di Pisa, e all’appello hanno risposto al Flc Cgil, l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (Adi) e Link. La manovra ha stanziato meno di 1,5 miliardi per scuola e ricerca, ma più di metà servirà per il rinnovo del contratto, un passaggio obbligato. I promotori della mobilitazione chiedono invece 1,5 miliardi, strutturali e solo per l’università, per recuperare quanto perso con l’arrivo della crisi nel 2008. Più del miliardo che chiedeva Fioramonti in autunno. Secondo un’indagine dell’Adi, nel 2018 il personale accademico è stato formato da 47.561 persone con contratto stabile (i professori ordinari e associati) e 67.428 a tempo determinato (assegni di ricerca, borse di studio e ricercatori). La trafila per diventare docente può essere molto lunga. Dopo i tre anni di dottorato, in genere si passa all’assegno di ricerca, poi un contratto da ricercatore di tipo A, triennale ma rinnovabile per altri due. Il penultimo passaggio è ricercatore di tipo B, sempre di tre anni con la possibilità alla fine di ottenere il titolo di professore associato. “Bene che vada – si legge nella lista delle rivendicazioni – oggi un giovane ricercatore può concludere questo percorso intorno ai quaranta anni”.

“Con gli attuali livelli di reclutamento e tassi di abilitazione – spiegano i promotori – stimiamo che solo il 6,5% degli attuali assegnisti potrà ambire a una posizione strutturata, mentre più del 93% sarà espulso dal sistema universitario, il 27% dei quali al termine di un contratto da ricercatore di tipo A”. Ecco perché la richiesta è di una semplificazione, con accorciamento dei tempi per dare modo a chi non ce la fa di ricollocarsi quando è ancora abbastanza giovane. In pratica, propongono un contratto unico per chi ha finito il dottorato, della durata di quattro anni.

Sul piano numerico, l’obiettivo è aumentare di 20 mila gli attuali posti nelle università. Nel frattempo, un piano di stabilizzazione dei precari “storici”, che permetta ai ricercatori di tipo A, con determinati requisiti, di poter convertire la loro posizione in ricercatori di tipo B, oltre a procedure riservate per gli assegnisti. Non mancano le richieste in favore degli studenti, a partire da 200 milioni da destinare al diritto allo studio (la legge di stabilità ne ha stanziati 31 aggiuntivi per le borse di studio).

Anche i precari degli enti pubblici di ricerca (che comunque non saranno coinvolti nella manifestazione di oggi) sono rimasti molto delusi dalla manovra, che non ha portato nuove risorse per completare il percorso di stabilizzazioni iniziato nel 2018 (con il solo Cnr che ha quasi 900 precari storici ancora in attesa).

I mille rivoli che prosciugano la formazione

Due miliardi e mezzo spesi nella formazione professionale nel 2018, ma pochi effetti a lungo termine per l’avviamento al lavoro in più della metà dei casi. La formazione professionale continua a essere in Italia il rifugio di fondi regionali ed europei sui quali però spesso prevale la mala gestione, la frammentazione e l’assenza di lungimiranza: si mette una pezza alle emergenze e non si migliora il sistema in modo strutturale.

Nelle settimane scorse abbiamo raccontato il caso della Sicilia, dove ancora migliaia di persone – rimaste senza lavoro dopo il fallimento di enti che per decenni hanno gestito la formazione professionale – attendono di far valere i propri diritti e di essere o ricollocati o mandati in pensione. Oggi, si può allargare lo sguardo e guardare cosa succede e come funziona il sistema nel resto d’Italia. Secondo un recente studio realizzato dal Cnos Fap (ente salesiano che si occupa proprio di formazione) nel 2018 sono stati destinati a questo capitolo 2,4 miliardi di euro, di cui quasi 1,3 sono stati spesi per le politiche formative e 1,1 per le Politiche attive del lavoro. Lo studio ha mappato 328 avvisi, di cui 184 per la formazione e 144 per l’inserimento.

In generale, la spesa è cresciuta rispetto al 2017, quando gli avvisi erano stati 238 avvisi per 2,1 miliardi di risorse complessive. Il 65% delle risorse per la formazione, a sua volta, è stato destinato all’Istruzione e formazione professionale, all’Istruzione e formazione tecnica Superiore (Its) e all’alta specializzazione tecnica offerta dalle Fondazioni ITS. Il resto è andato alla formazione continua, permanente o agli interventi a supporto. In generale, la formazione si struttura praticamente così: una parte di studio nell’ente, una parte in azienda.

Il problema è che manca una visione organica e di lunga durata. Lo studio evidenzia che “il sistema fatica a darsi una logica di sistema universale e sempre aperto per rispondere alle esigenze di tutti i cittadini nella ricerca del lavoro”. In pratica, gli investimenti restano per lo più legati ad interventi per micro target, spesso di durata limitata nel tempo e soprattutto diversi da Regione a Regione. I bandi, infatti, si dividono tra quelli “a progetto” (40per cento) e quelli “a servizio” (60 per cento), che non prevedono, quindi, un progetto per uno specifico destinatario ma tendono ad organizzare un servizio a cui si può accedere su base di standard individuati dall’Amministrazione Regionale con una maggiore garanzia di durata nel tempo e di efficienza. Molte Regioni hanno quasi esclusivamente bandi a progetto: sono il 100 per cento in Campania, Emilia-Romagna, Molise, Umbria, provincia di Trento e Veneto a cui si può aggiungere il 93 per cento della Calabria e il 96 per cento del Friuli-Venezia Giulia. Opposta Bolzano, che ha un 97 per cento di finanziamenti sulle attività a servizio, il più alto in Italia.

Non c’è una differenza nord- sud. La scelta dell’ottica di servizio è primaria anche in Basilicata (87 per cento), Lombardia (89 per cento) e Valle d’Aosta con 91 per cento. “Ha la peculiarità di esser sempre disponibile, non solo quindi per fronteggiare una specifica contingente emergenza – si legge -. Mentre la modalità d’agire a progetto comporta tra l’altro un alto numero di micro-bandi e di istruttorie, che rallentano il processo e aumentano i costi di gestione”.

Manca poi la definizione di un modello di policy univoca su tutto il territorio e che sia stabile nel tempo. “Le Regioni faticano a offrire una filiera professionalizzante completa e articolata – ha spiegato durante il convegno di presentazione alla Camera, Eugenio Gotti ricercatore della società di consulenza PTSCLAS –: basti pensare che l’università professionalizzante (gli ITS) accoglie circa lo 0,7 per cento degli studenti universitari, mentre in Francia e Germania questa percentuale è di circa il 20 per cento”.

Non si butta via nulla: Dal Pino eletto presidente in Lega Calcio

La Lega Calcio della Serie A si affida a un manager fortissimo come curriculum e come relazioni sperando che trovi una via d’uscita da una situazione oggettivamente drammatica. Paolo Dal Pino, 57 anni, è stato eletto ieri con la risicata maggioranza di 12 voti su 20. Il 16 dicembre scorso, con il quorum a quota 14, gli stessi 12 voti non gli erano bastati.

La partenza non è delle migliori. Il commissario ad acta Giancarlo Abete, subito dopo il voto, ha commentato: “Non ho parlato con Dal Pino, ma penso che accetterà. Ha ottenuto una maggioranza superiore al quorum, quindi sono fiducioso e convinto che possa accettare”. Polemico l’amministratore delegato dell’Inter Giuseppe Marotta, che parla di elezione arrivata “in modo improvvisato”: “Ci sembrava giusto confrontarci con lui per ascoltare il suo programma e le sue intenzioni, quindi non abbiamo condiviso questa scelta”. In pratica il presidente della Lega Calcio viene eletto come il presidente della Repubblica, niente discussione e voto segreto. Ma la battaglia dietro le quinte è stata rovente, tanto che in extremis il presidente del Torino Urbano Cairo (anche editore del Corriere della Sera e di La7) ha rilanciato la candidatura di Gaetano Micciché, dimissionario due mesi fa dopo le accuse di irregolarità nella sua elezione.

Dal Pino è stato voluto dalla cordata delle piccole squadre guidata dal presidente della Lazio Claudio Lotito contro il sistema delle grandi (Juve, Inter, Milan e satelliti come Sassuolo e Cagliari) di cui è portavoce Cairo. Anche se non espresso, il suo programma coincide con il progetto di una piattaforma televisiva indipendente della Lega che serva a regolare i conti con Sky, attuale padrona dei diritti televisivi. La cordata perdente delle grandi, quella di Cairo, è anche sbrigativamente definita “partito Sky”.

In gioco c’è il destino stesso del calcio italiano. I conti non tornano, e non tornano da anni. Le 20 società di serie A hanno accumulato un debito complessivo attorno ai 4 miliardi che continua a crescere perché i costi superano costantemente i ricavi, e vengono occultati sistematicamente con il sistema delle plusvalenze: se due squadre si scambiano due calciatori alla pari, valutandoli 20 milioni pur avendoli pagati un milione, entrambe segneranno nel conto economico 19 milioni di plusvalenza alla voce ricavi: ricavi fittizi che si traducono sostanzialmente in 19 milioni di nuovi debiti – che però si segnano nello stato patrimoniale e non nel conto economico. Per fermare questa corsa verso il baratro c’è un solo modo, aumentare gli unici ricavi veri, cioè i diritti tv. Ci sono due strade: costringere Sky a pagarli di più oppure riprenderseli e fare una propria piattaforma in grado di fare più soldi distribuendo le partite a diverse tv o siti internet, nazionali e anche locali, e non solo a Sky.

Nessuna delle due soluzioni sembra facilmente realizzabile, anche perché pesa la spaccatura che il voto di ieri sembra aver cristallizzato. Ma Dal Pino è considerato l’unico uomo in grado di fare il miracolo, proprio in forza di un curriculum trentennale quasi tutto nel mondo delle comunicazioni. Oggi è amministratore delegato della Telit Communications, ma ha iniziato alla Fininvest di Silvio Berlusconi, poi dal 1990 si è insediato al gruppo Espresso dove si è distinto come creatore del primo grande sito internet, Kataweb. Alla svolta del millennio Kataweb sembrava pronto alla quotazione in Borsa con la stratosferica valutazione di 6 mila miliardi di lire ottenuta grazie all’appoggio dell’Unicredit di Alessandro Profumo. Proprio perché sembrava diventato l’uomo forte della corte di Carlo De Benedetti, la corte stessa lo ha di fatto espulso, e Dal Pino è andato a dirigere Seat Pagine Gialle dentro il gruppo Telecom Italia allora guidato da Marco Tronchetti Provera. Seat era il contenitore di La7, e così Dal Pino ha imparato come si guida una rete tv. Poi passa a guidare il gruppo telefonico Wind e infine torna a lavorare con Tronchetti che lo manda in America Latina a sovrintendere alle attività di Telecom prima e poi della Pirelli.

In tutti questi anni ha accumulato relazioni e amicizie importanti anche grazie a un certo talento nel non rendersi odioso, qualità rara nei manager di successo. Adesso dovrà sfruttarle tutte per riuscire a riportare alle regole del moderno mercato delle comunicazioni un sistema che ancora vive di duelli tribali.

 

Donne a Sanremo: primo premio alla polemica più idiota di sempre

A Sanremo c’è già un vincitore, ed è il premio alla polemica più idiota del secolo, ovvero quella sulle presenze femminili al prossimo Festival. Tra l’altro, farei notare che l’unico nome femminile a non aver innescato polemiche e che invece le meriterebbe è “Rita”, ovvero il terzo nome del conduttore che per chi non lo sapesse all’anagrafe si chiama “Amedeo Umberto Rita Sebastiani”. Perché Amadeus ha un nome femminile? La madre, al momento di registrarlo, aveva già previsto le rotture di coglioni che avrebbe dovuto affrontare questo povero uomo in occasione del suo primo Sanremo e voleva regalargli una sorta di par condicio anagrafica? Mistero.

Partiamo dall’inizio. I primi di dicembre, nella lista di papabili vallette, qualcuno fa il nome di Chiara Ferragni. Apriti cielo. Se Amadeus avesse detto: “Conduco Sanremo, ma quest’anno non voglio fiori sul palco, solo piante di marijuana”, sarebbe successo meno casino. Il Codacons interviene con un comunicato durissimo: “Pronti a denunciare se la Rai ingaggerà la Ferragni come valletta. Non è un modello adatto. È stata oggetto di numerose denunce con riferimento all’utilizzo che la stessa fa su Instagram del proprio figlio, utilizzato a scopo commerciale…”.

Ora, a parte che ragionando con gli stessi parametri la prima azienda della storia ad aver sfruttato i bambini a scopi commerciali al limite è la Rai con lo Zecchino d’oro, Chiara Ferragni, in realtà, a livello simbolico rappresenta un modello femminile molto più positivo di tante altre figure evanescenti che sono apparse su quel palco negli anni. Non è la valletta straniera con cui il conduttore dovrebbe improvvisare gag idiote sull’italiano maccheronico parlato dalla modella di turno, non è la moglie di, l’assistita dalla scuderia di, la miracolata da. Chiara Ferragni, con tutti i difetti del caso, è la prima e l’unica imprenditrice italiana ad aver creato un impero sul web tramite i social e ad avere una fama internazionale grazie ai social, senza cognomi altisonanti e partenze agevolate da compagni famosi o risorse economiche importanti. È una self (e selfie) made woman, e sebbene non sia il riferimento intellettuale del Bloomsbury Group né la stella polare del neo-femminismo, direi che rispetto alle tante modelle senza storia e senza voce che hanno ripetuto con voce robotica battute patetiche sulla pastasciutta o hanno cantato “O sole mio” con l’intonazione del camionista ubriaco, siamo nel futuro.

Scartata l’ipotesi Ferragni è venuto fuori il nome Rula Jebrael. Israeliana di origini palestinesi naturalizzata italiana, la povera Rula ha appena scoperto che la striscia di Gaza, al confronto con Sanremo, è un giardinetto zen. Vista come una temibile minaccia dalla fazione sovranista, il suo nome è stato in forse per intere, lunghissime giornate in cui ci si interrogava con timore su quali minacciosi contenuti avrebbe potuto veicolare quella spaventosa macchina della propaganda che è Rula Jebrael. Una donna impegnata, pensante, che potrebbe decidere di lanciare da Sanremo messaggi straordinari, rivoluzionari, destabilizzanti quali “basta campagne xenofobe” e neppure facilmente liquidabile con “cesso” o “culona inchiavabile”, è davvero una mina vaganti che merita censura o almeno prudenza.

“Sanremo non è luogo per parlare di politica!”, si tuona in questo sciagurato paese, mentre il conduttore Ricky Gervais dal palco dei Golden Globe dice a Tim Cook, seduto in prima fila, che “Apple sfrutta i bambini cinesi e agli attori lì presenti che loro non si pongono domande sulle aziende per cui lavorano, che lavorerebbero per chiunque, pure per l’Isis se avviasse un servizio di streaming e che quindi non devono fare discorsi politici durante i ringraziamenti ma piuttosto andare affanculo. Ecco. E a noi fa paura Rula Jebreal. Non solo. A quel punto le si impone la cosa più sessista che si possa imporre a una donna: stabilire i confini del suo pensiero e circoscriverli in un’area rassicurante, trasversale: “Se vuoi fare Sanremo puoi parlare solo di donne”, le si spiega. Fossi al posto di Rula direi sì e una volta sul palco, in diretta, darei fuoco al manichino di Trump. O mi toglierei la maschera in lattice e sarei Carola Rackete. E darei ad Amadeus dell’islamofobo perché il suo nome d’arte significa “Che ama Dio”. Farei rimpiangere a tutti di non aver chiamato la Murgia al posto mio.

Ma non finisce qui. Perfino la presenza di Rita Pavone a Sanremo fa paura. Lei perché troppo “sovranista”. Del resto “Viva la pappa col pomodoro” oggi sembra la didascalia di un selfie qualunque di Salvini, ne convengo. Ed è a quel punto, dopo lo stillicidio delle inutili, ennesime polemiche sulle donne a Sanremo, che Amadeus ha capito. Ha capito che a noi va bene Diletta Leotta, così preoccupata per l’emancipazione femminile da cancellare sulla sua bacheca i commenti di chi le dice “rifatta” e di lasciare intatte le gare pecorecce tra chi le dedica il complimento più volgare. Va bene la fidanzata di Ronaldo Georgina nota per essere la fidanzata di Ronaldo Georgina. Va bene la fidanzata di Valentino Rossi Francesca Sofia Novello nota per essere la fidanzata di Valentino Rossi Francesca Sofia Novello. Su di loro nessuna polemica. Nessuna polemica sul fatto che le cantanti donne siano 7 su 24 (l’anno scorso 6), che gli autori del Festival siano quasi tutti uomini (forse ci sarà una donna, l’anno scorso c’era una donna su 11 autori), che i padroni di casa siano quasi sempre uomini e così via. Insomma, le polemiche su Sanremo in fatto di presenze femminili sono come le canzoni a Sanremo: non vince mai quella più meritevole.