Il mondo contaminato dalla generazione Prozac

L’idea di avere tantissimo, troppo tempo da un lato, e l’idea di averne poco, pochissimo dall’altro: da un estremo all’altro è passata Elizabeth Wurtzel, prima di non avere più tempo.

È morta il 7 gennaio a Manhattan, per un cancro al seno che aveva intaccato anche cervello e midollo. Aveva 52 anni e un quarto di secolo fa, nel 1994, era venuta alla ribalta letteraria con un testo irriverente ed epocale. Prozac Nation fu il best-seller di una ventisettenne che si permetteva, primo, di scrivere un memoir a ventisette anni, e secondo, di parlare di depressione e trattamento farmacologico nell’America bene.

La temutissima critica del New York Times Michiko Kakutami commentò che a leggere il libro di quell’autrice narcisista, viziata e sopravvalutata veniva voglia di darle uno scossone e di ricordarle che poteva capitare di peggio che crescere a New York negli anni Settanta da una famiglia ebrea e studiare all’Università ad Harvard. Allo stesso tempo però Kakutami riconosceva a Wurtzel di aver scritto un libro unico, dove riusciva a investigare il proprio narcisismo con una dose di autoironia e leggerezza tanto da mettere in secondo piano le parti lagnose e commiserevoli.

E tirava fuori paragoni importanti: Joan Didion, Sylvia Plath, Bob Dylan.

Che esistesse un legame fra letteratura e depressione non era niente di nuovo: da Mark Twain a Charles Dickens, da William Faulkner a Joseph Conrad, da Edgar Allan Poe a Hermann Melville, da Isaac Asimov a Stephen King, la lista degli autori depressi potrebbe occupare intere pagine del quotidiano.

Ma quello che aveva fatto Elisabeth Wurtzel era stato percepire un nuovo slittamento terapeutico in quegli anni: si stava superando l’elemento psicoanalitico con il supporto chimico. Bye bye Freud, cam’n Prozac. Era la medicina, il principio attivo Fluoxetina Cloridato ad avere la meglio sulle sedute sul lettino.

Non era facile ammetterlo: perché la chimica andava bene per aprire le porte della percezione, ma non per mettere dei fermaporta. In Italia Rizzoli pubblicò Prozac Nation due anni dopo traducendo con il titolo La felicità difficile, oscurando l’aspetto sociologico della diffusione del Prozac negli United States of Depression.

Bisognerà aspettare altri due anni perché una punk band di Pordenone (luogo non propriamente ridente, come dimostrano anche i Tre allegri ragazzi morti) abbia successo con un singolo dal titolo Acida e sdogani il tema: erano i Prozac +.

In musica l’importanza di un medicinale salvifico ed equilibratore era già stata intuita dai Nirvana, con Lithium all’interno dell’album Nevermind (1991). Litio o no, Kurt Cobain si era comunque ammazzato due anni dopo.

Erano un’epoca strana, zoppicante, malconcia quegli anni Novanta, timorosi di nuove guerre, sballottati dai lustrini del decennio precedente. Era caduto il Muro di Berlino, la Russia non era più il nemico o il competitor degli americani. Ai muscoli di Rocky Balboa e ai balletti di Madonna si rispondeva con jeans che strisciavano a terra e maglioni extralarge e dei tuffi nel cesso alla Trainspotting.

Ribelli negli anni 70, consumisti negli anni 80, disorientati e depressi all’inizio dei ’90.

Nel 1998 Elizabeth Wurtzel pubblicò un secondo libro: Bitch, mai tradotto in italiano: cinque saggi in cui dà voce alle grandi donne che dovrebbero stare dietro ai grandi uomini, da Zelda Fitzgerald e Margaux Hemingway fino a Hillary Clinton. Il risultato è una silloge di neofemminismo, con l’autrice che posa nuda nella copertina del libro (di spalle sulla copertina rigida, di lato sul tascabile).

Del 2001 è More, Now, Again sulla dipendenza da Ritalin, la droga contenente metilfenidato che viene prescritta a chi ha un deficit dell’attenzione.

Ma il grande spolvero è lontano. Wurtzel frequenta la facoltà di legge a Yale, si laurea, scrive ancora per qualche rivista (anche di David Forster Wallace, che nel frattempo si è suicidato), si sposa.

Scopre che suo padre non è il suo vero padre, ma stavolta non ha più il tempo per raccontarlo in un nuovo memoir.

Di lei si è detto che era una Sylvia Plath in un video di Mtv, una Virginia Woolf sotto speed, sempre qualcun’altra in combinazione con qualcosa. Forse perché quella combinazione la proponeva la prima copertina del suo esordio: una giovane depressa di talento, una ragazza che tremava e raccontava se stessa, con l’aiuto di una piccola pillola.

Da Tolstoj al nazismo, i destini d’Europa si decidono al bagno

Baden Baden è il nome di un noto gruppo indie pop francese, scelto un po’ per il suono del toponimo, un po’ perché nella località termale tedesca il 29 maggio 1968 Charles de Gaulle incontrò in segreto i suoi generali, mentre per le strade di Parigi infuriavano le proteste e si contemplava la repressione militare.

Questo episodio manca dal libro di David Clay Large, L’Europa alle terme, che ripercorre tramite le vicende di una decina di stazioni termali di area tedesca alcune tappe della storia culturale e politica del continente. Fino al XIX secolo il taglio è aneddotico: l’infausto amore senile del 73enne Goethe per l’adolescente Ulrike von Lewetzow (rinominata “Pandora”) nella boema Marienbad, il suo incontro con Beethoven a Teplitz, gli eccessi gastronomici ed erotici del futuro re Edoardo VII d’Inghilterra a Bad Homburg, le danze piccanti di Lola Montez proprio a Baden Baden, nel cui casinò (frequentato da Nerval, Disraeli, Offenbach e mille altri) si dissanguarono sia Tolstoj che Dostoevskij – entrambi poi aiutati da Turgenev, che nella zona visse frequentando anche il salotto di Clara Schumann.

Luoghi di ozio e di peccato, centri diplomatici e politici (a Bad Ems si decise la guerra franco-prussiana del 1870; Francesco Giuseppe nel ’14 dichiarò guerra alla Serbia da Bad Ischl, dove aveva conosciuto Sissi), snodi della vita mondana dell’Europa: le terme di Germania, Austria e Boemia erano pronte a contendersi i clienti associando ai trattamenti idroterapici (spesso di dubbia efficacia) soggiorni in grandi alberghi favolosi, agguerrite équipe di nutrizionisti, un’offerta senza pari di giochi d’azzardo (la Roulettenburg di cui parlerà Dostoevskij nel Giocatore) e con l’andar del tempo anche spettacoli teatrali e musicali di livello – da Liszt gran seduttore di dame a Berlioz che vi presentò i Troyens, da Wagner (che per poco non scelse Baden Baden anziché Bayreuth per il proprio tempio) fino a Brecht e Kurt Weill.

Baden Baden è un luogo simbolo: il suo precoce sviluppo turistico si deve alla tenacia e all’intuito della famiglia francese dei Bénazet; ricco di memorie letterarie (da Twain a Zweig), il libro di Large scorda il romanzo che meglio narra la frenesia imprenditoriale del business termale, ovvero Mont-Oriol di Maupassant (1886). Il business era nuovo, ma l’idea di una “fonte dell’eterna giovinezza” (come recitava e recita ancora lo slogan dell’austriaca Bad Gastein) è antica quanto la celebre tavola del Jungbrunnen di Cranach il Vecchio (1546), in cui uomini e donne affrontano la piscina in promiscua nudità integrale – un’usanza sorprendente per il fiorentino Poggio Bracciolini (che nel 1416 la constatò di persona a Baden e la descrisse in una pagina memorabile), e ancor oggi non banale per chi entra nelle modernissime spa del grande Nord.

Dopo la messa al bando del gioco d’azzardo da parte del Kaiser Guglielmo nel 1872 e i progressi della medicina, le località termali dovettero reinventarsi, aprendosi alla borghesia, investendo nella diagnostica di avanguardia e nell’idroterapia specifica (non generici trattamenti ricostituenti, ma per esempio cateteri psicrofori per tonificare l’uretra, o refrigeratori rettali per rafforzare l’intestino), e proponendosi come centri sportivi (dall’ippica allo sci), scali per Zeppelin, complessi commerciali dotati di negozi di prim’ordine, o ancora – sarà il loro destino fino alle convention di Bad Godesberg e Davos – centri congressi.

Uno dei temi di Mont-Oriol è l’antisemitismo, questione che Large affronta nella parte meglio riuscita del libro: se la segregazione degli ebrei come clienti e gestori di alberghi e stabilimenti rimase un elemento accessorio fino alla I guerra mondiale, fu con la crescita e l’avvento del nazismo che le vie, le pietre e la natura stessa di molte stazioni termali mutarono in modo irreversibile – dopo la II guerra, tra le macerie, ci saranno le sovvenzioni delle casse malattia della Germania Ovest, l’effimera grandeur di Gastein con lo spregiudicato investitore Tomek, o il lento declino della Cecoslovacchia comunista.

Riparato a Baden Baden all’indomani di una burrascosa separazione, Alfred de Musset scrisse a George Sand che nella località termale trovava solo “il rumore della vita”: forse per questo, nel cuore del Novecento, due film decisivi e diversissimi scelsero questa ambientazione per scavare invece nel silenzio o nel chiasso di esistenze scompaginate al tempo del declino: L’anno scorso a Marienbad di Resnais e Otto e 1/2 di Fellini.

“‘L’uomo perfetto’? Quello da costruire”

“L’uomo perfetto non esiste, ma credo si debba tentare di riprodurre in questa vita la realtà meravigliosa delle favole”. A parlare, e a sognare, è Gianclaudio Caretta, classe 1993, un tarantino che ha cominciato come autista del soccorso stradale notturno ed è finito – “ma in questo mestiere non si finisce mai di imparare” – calcando palcoscenici e set. Da domani al 26 gennaio sarà al Teatro de’ Servi a Roma (e poi in una tournée che farà tappa anche a Milano, Trento, Napoli) per interpretare il robot Robbi nella commedia “L’uomo perfetto” scritta da Maura Graiani e Riccardo Irrea per la regia di Diego Ruiz. Al suo fianco, Milena Miconi e Nadia Rinaldi.

Caretta, ci vuol far credere che le donne, non riuscendo a trovare l’uomo perfetto, si accontentano di un robot?

Costruito da una fantomatica “Newman corporation”, che ha trovato il modo di soddisfare i desideri femminili. Robbi parte dalle mansioni domestiche – lavare, stirare, cucinare, rispondere al telefono, scopare – per diventare un confidente, un amante.

Con ironia, immagino.

È una commedia dolce-amara, il genere che più mi si addice. Si ride ma si riflette. Anche perché il mio personaggio ha degli sviluppi, inizia pian piano a diventare esigente.

Non crede che, nell’epoca del #MeToo, raccontare che le donne cercano ancora il principe azzurro vi esponga alle critiche?

Le donne sono giustamente arrabbiate per i comportamenti maschili. La violenza è un tema di cui mi occupo personalmente: con Il giorno più bello (di Valter D’Errico, ndr) abbiamo vinto numerosi premi e recentemente ho recitato su Rai Uno un monologo: la lettera di Carmine Ammirati alla sua mamma, morta per mano dell’ex compagno a Torre Annunziata nel 2015. Sono dalla parte delle donne e, anzi, in questa commedia vogliamo concedere loro tutto ciò che desiderano.

L’uomo perfetto esiste?

No, come non esiste la donna perfetta. Ma si può trovare il partner perfetto per se stessi. È solo una questione di incastri.

Lei nella vita avrebbe dovuto fare tutt’altro.

A Taranto avevo cominciato a lavorare nella carrozzeria di famiglia poi, per caso, feci la comparsa in un cortometraggio. Respirai il set, me ne innamorai. Da quella scintilla capii che l’unica strada per realizzare il mio sogno era trasferirmi a Roma e iniziare a studiare.

Tanta gavetta?

La gavetta non finisce mai. Franco Nero, con cui ho diviso il ruolo da protagonista in Ed è subito sera, mi ha confermato che nel nostro mestiere non esiste l’età giusta per ritenersi “arrivati”.

E, dunque, visto che ha ancora 27 anni, con quale regista vorrebbe lavorare?

Con Paolo Genovese, e ovviamente la mia risposta esula dal periodo che lui sta vivendo. Ma amo il suo genere narrativo.

Sul palco retromarcia su Rula e sui social tiro al(la) Pavone

Habemus Rula(m). Dal comignolo di Viale Mazzini è uscita la fumata bianca: il conclave ha trovato la quadra per la presenza a Sanremo della giornalista.

La Jebreal parteciperà dunque al Festival con un monologo contro la violenza sulle donne, tema a lei caro anche perché sua madre, vittima di abusi, morì suicida. Non è ancora chiaro se Rula sarà affiancata da special guest come Michelle Obama o Oprah Winfrey, la cui presenza all’Ariston difficilmente sarebbe pro bono. Si avrà l’ufficialità sugli ospiti (tra le dieci co-conduttrici dovrebbe esserci anche Lady Ronaldo, Georgina Rodriguez) nel Cda del 14 gennaio, giorno della conferenza di presentazione del Festival. Ma già ieri la consigliera Rita Borioni (Pd) ha espresso soddisfazione: “Viene ristabilito un minimo principio di equità e di non discriminazione”, ha dichiarato al Fatto, sottolineando che “il problema vero è che se ne è dovuto parlare per una settimana”.

Per porre fine allo specioso caso-Jebreal si è dovuti ricorrere a un vertice a tre: l’ad Rai Salini, la direttrice della rete ammiraglia De Santis (contraria sin dall’inizio all’invito alla reporter) e lo scombussolato Amadeus. Ma al tavolo sedeva anche, irritualmente, un convitato scomodo come il superagente Lucio Presta, abituato da sempre a non fare lo spettatore neutrale, soprattutto quando c’è Sanremo di mezzo e un presentatore suo assistito. Tutti, alla fine del summit, erano ben consci dell’urgenza per l’amministratore delegato di procedere alle nuove nomine (il Pd preme per trasferire Stefano Coletta da Rai3 al comando di Rai1, la grana è riempire le caselle alle direzioni dei Tg); avranno ripensato alle puntate precedenti della loro elettrica trattativa. Riassunto: all’indomani della giubilazione di Baglioni come “dittatore artistico”, Teresa De Santis immagina un festival “corale e celebrativo” per l’edizione 2020, la N.70 della rassegna. E valuta che l’unico candidato timoniere possa essere un volto dell’azienda di provata affidabilità e lungo chilometraggio come Amadeus. Peccato che Fabrizio Salini sia di parere contrario, e lanci messaggi ad Alessandro Cattelan, che però ha il problemuccio della targa Sky. È l’estate 2019: Ama trova una sponda in Fiorello, che si spende per l’amico. Ma prima di ricevere la designazione dalla direttrice di Rai1, il conduttore dei Soliti ignoti invia una lettera a Salini in cui si dice pronto a “fare un passo indietro”, non sentendo attorno a sé l’unanime consenso dei maggiorenti Rai. Come sia, l’ipotesi Cattelan evapora, e Amadeus comincia faticosamente a setacciare tra più di duecento canzoni quelle da portare in Riviera: 20? 22? Alla fine, dopo il pasticcio delle anticipazioni su Chi e Repubblica, diventano 24, con l’aggiunta fuori busta di Tosca (ha un pezzo di gran qualità, candidabile per il Premio della Critica) e di Rita Pavone, ripescata dal Pleistocene, con un brano, Niente (Resilienza ’74), che già nel titolo pare un calzante inno generazionale per la terza età.

La riesumazione di Pel di Carota a Sanremo, quasi mezzo secolo dopo l’ultima apparizione, ha innescato la dinamite dei social, lì dove Rita si era instancabilmente spesa al fianco del sovranismo, con neppure troppo velate nostalgie mussoliniane. Una carica di insulti che difficilmente le gioverà al momento dei televoti (e che potrebbe danneggiare anche il favorito Anastasio, schieratosi anche lui dalla parte di Salvini). Al netto delle schermaglie da barricata (ieri la controffensiva della Pavone è stata una citazione da Chaplin: “Preoccupati più della tua coscienza che della tua reputazione, quello che gli altri pensano di te è problema loro”), l’ex Giamburrasca potrebbe anche pagare il flop come conduttrice scelta da Freccero per Rai2: affidarle il racconto dell’anniversario di Woodstock non si è rivelata un’idea brillantissima.

Una trovata formidabile sarebbe invece invitare all’Ariston i Pearl Jam: la leggendaria band grunge sarà in concerto a Imola il 5 luglio, e non dovrebbe essere impossibile convincerla a uno spot promozionale a Sanremo. Dove troverebbero la loro “nemica” Pavone, che mesi fa tuonò su twitter contro il frontman Eddie Vedder, “responsabile” di aver attaccato, all’Olimpico, Salvini e il suo diktat sui porti chiusi. La risposta social dei Pearl Jam fu tombale: “Chi cazzo è Rita Pavone?”. Nel Sanremo helzapoppin’ che ci attende, un faccia a faccia tra Vedder e l’interprete di Resilienza ’74 sarebbe una pagina di storia.

Roman Vlad, il compositore che fu capace di unire le arti

Pochi giorni fa, il 29 dicembre, è caduto il centenario della nascita di Roman Vlad, morto a Roma nel settembre 2013. Vlad è stato uno dei grandi uomini di cultura a partire dagli anni Quaranta, soprattutto in Italia: è stato uno dei domini della vita musicale e della cultura musicale. Per capire l’uomo, al tempo stesso romano e cosmopolita, occorre rievocare un’epoca che non esiste più e della quale in buona parte si è perso il ricordo. Il meraviglioso Mondo di ieri di Stefan Zweig è una rievocazione alla quale pensare, ma attinente per lo più all’ambiente ebraico di Vienna prima dell’invasione nazista. Qua ci troviamo in un campo analogo e più vasto.

Nacque a Cernauti in Bucovina. La Prima guerra mondiale era appena terminata, e una serie di confini e Stati artificiali sconvolse un secolare equilibrio con le devastanti conseguenze che sappiamo. Roman passa ufficialmente per romeno, ma se fosse nato solo cinque anni prima sarebbe stato suddito austro-ungarico, come si vede dalle basi della sua cultura. In realtà quella vastissima zona era fatta di etnie a volte nemiche da secoli, ma per lo più atte a una convivenza e una penetrazione reciproca con straordinarî risultati. Nobile per ambo le parti, Vlad aveva qualcosa di polacco, di ucraino e di ungherese, oltre che di romeno. Così si può capire come fosse uno straordinario poliglotta; il suo italiano era perfetto e raffinato, con una lieve patina esotica che non avresti saputo identificare. Così si può capire come un ragazzo diciannovenne, solitario in un corridoio del Conservatorio di Santa Cecilia (s’era già diplomato nel suo paese), riflettesse mestamente su di un suo incerto futuro, visto che i posti erano tutti assegnati, in mano alcune partiture di Schönberg e Bartók.

Il felice caso volle che in quel momento passasse Alfredo Casella, e notasse quella musica da noi non ben radicata. Lo porta in commissione, gliele fa eseguire perfettamente (Vlad era un rifinitissimo pianista, e poi compositore), e gli trovano un posto soprannumerario. Furono comunque anni terribili, tra l’occupazione tedesca e i cambi di regime della Romania. Solo nel 1951 divenne cittadino italiano.

Vlad è stato uno dei nostri più grandi direttori artistici: paragonabile solo a Francesco Siciliani. Ha diretto il Maggio Musicale Fiorentino e la Scala. Riccardo Muti ha tre padri spirituali, Vincenzo Vitale (il “nostro” Maestro), Vlad e Siciliani. Vlad lo assunse al Maggio come direttore musicale senza neanche fargli un’audizione, perché capì quale personalità direttoriale avesse di fronte.

Di Vlad al quale ero legato da intenso affetto, non sono stato allievo direttamente: ma indirettamente la mia formazione gli deve moltissimo. La sua cultura letteraria e nelle arti figurative gli consentiva di mettere in rapporto le arti come un unico complesso. Adolescente, ascoltavo coll’attenzione dello scolaro fiducioso le sue trasmissioni alla radio e alla televisione. Senza testo preparato, seduto al pianoforte, affrontava temi fondamentali o extravaganti. Conosceva tutto il repertorio musicale. È stato uno dei migliori amici di Stravinskij: gli era sempre a fianco quando era in Italia, e su di lui ha scritto un libro di capitale importanza. La diffusione della cultura musicale, cinque decennî fa, era assai maggiore di oggi: egli ne è stato uno dei grandi artefici.

Una sola cosa non sono riuscito a dirgli, perché la scopersi dopo la sua fine; e il figlio Alessio, mio fraterno amico, non voleva crederci finché non ce l’ho portato. La tomba del suo antenato Vlad III, detto “l’impalatore” (1431-1476), principe di Valacchia, si trova a Napoli, nel chiostro della basilica di Santa Maria La Nova: coll’orgogliosa insegna gentilizia del drago a bocca spalancata. Per attirare i turisti la chiamano “la tomba di Dracula”.

Hip hop, tutto quello che le radio non suonano

La fotografia annuale degli album e dei singoli più venduti – dati della Fimi, Federazione discografici italiani – evidenzia in modo inequivocabile una frattura enorme tra ciò che ci propinano le radio e quello che realmente compriamo o ascoltiamo in streaming. La narrazione radiofonica da anni inserisce in rotazione brani dei cosiddetti big, i soliti noti: Laura Pausini, Ligabue, Zucchero, Jovanotti, Eros Ramazzotti, Biagio Antonacci (dati rilevati da Ear One). Eppure a guardare la lista dei primi cento singoli e album venduti in Italia (pubblicata ieri) si può notare come i nomi che guidano il mercato discografico italiano sono altri.

La rivoluzione, già iniziata l’anno scorso con l’esplosione dell’hip hop italiano in classifica, prosegue premiando Ultimo con l’album più venduto nel 2019 (Colpa delle favole) e piazzando Peter Pan al quarto posto e Pianeti undicesimo. Salmo è secondo combinando le uscite di Playlist e la sua versione Live e pure terzo insieme ai sodali della Machete (Dani Faiv, Tha Supreme, Nitro e altri) con Mixtape 4. Salmo ha dichiarato che per registrare Mixtape 4 ha rifiutato di partecipare a X Factor: la scelta è stata tutt’altro che azzardata, dato che mai un album di collaborazioni aveva conquistato un piazzamento così alto. Il rap vince a mani basse anche con Marracash al quinto posto seguito da Fedez al settimo e Tha Supreme all’undicesimo, la vera rivelazione dell’anno. Per trovare uno dei presunti big bisogna scendere al sesto posto con Ligabue, fermo al disco di platino (50.000 copie tra vendite e streaming contro i tre di Ultimo e i due di Salmo e i due della Machete) o Elisa al diciottesimo o Mina e Fossati al ventiquattresimo. Lontani dalle vendite di qualche anno fa, soprattutto Cesare Cremonini con il suo Best fermo al numero 33 e Jovanotti con Jova Beach Party addirittura al 35, Zucchero al 39 ed Eros Ramazzotti al 62. Eppure se guardiamo i venti brani più suonati dai network scopriamo che l’italoamericana Lp con Girls Go Wild è al primo posto nonostante non figuri tra i 100 singoli più venduti o ascoltati in streaming. Pensare Male dei Kolors & Elodie è al numero 76 dei singoli più venduti/ascoltati del 2019 ed è quinta nelle radio; Maradona Y Pelè firmata da The Giornalisti è nona in radio e al numero 38 dei più venduti. Anche Tiziano Ferro fatica per adesso a superare il platino mentre va considerato positivo lo stesso risultato di Marco Mengoni. Ma l’attenzione della radio ai soliti noti riguarda anche gli artisti stranieri: Ed Sheeran spremuto come una saponetta dai network fatica a piazzare il nuovo album al 46 posto e Madonna risulta addirittura al 67; anche i Coldplay al momento sono fermi al disco d’oro (25.000 copie).

Chi è allora il vero vincitore? Sicuramente Ultimo, uno dei pochissimi nuovi cantautori trasversali, capace di attrarre un pubblico adulto e arrivare al primo posto su Spotify. E poi l’hip hop italiano capitanato da Salmo e seguito da Coez, Fedez, l’outsider Lazza (quattordicesimo), Capo Plaza, Sfera Ebbasta (con la coda delle vendite di Rockstar), Rkomi, Mamhood, Luchè, Gemitaiz & Madman, Night Skinny, Izi tutti nella top 30. Carl Brave piazza tre album nella top 50 mentre va bene anche la “new wave” italiana tra il rock di Gazzelle e il minimalismo di Calcutta. Sono i Queen gli unici ad essere nella top ten tra gli stranieri, la sorpresa Billie Eilish è al 15 e a seguire l’onorevole piazzamento di Bruce Springsteen al numero 21 con il convincente Western Stars, senza dubbio il miglior album dell’anno, ignorato dai network. Ovviamente nelle radio non c’è traccia di quello che piace realmente ai ragazzi: Yoshi della Machete nonostante sia al numero 14 dei singoli più venduti non figura nei primi 100 radiofonici, idem Il cielo nella stanza di Salmo; per trovare Ultimo bisogna scendere alla posizione numero 63. È sempre bello di Coez – brano più ascoltato su Spotify dell’anno e secondo singolo più venduto – in radio è trentunesimo; Una volta ancora di Fred Palma con Ana Mena – singolo più venduto per la Fimi – è cinquattottesimo. Per colmare il gap nel nostro paese la strada è ancora lunga, potrebbe aiutare l’inserire nelle rilevazioni le visualizzazioni di YouTube, da quest’anno conteggiate negli Stati Uniti su Billboard: pochi lo sanno ma è il mezzo più utilizzato per ascoltare una canzone, altro che le radio.

Rosarno dieci anni dopo: nuovi invisibili sempre più ricattabili

Passati esattamente dieci anni dalla rivolta dei braccianti stranieri di Rosarno, lo sfruttamento e il caporalato sono fenomeni ancora presenti nella Piana di Gioia Tauro. Non hanno la stessa ferocia e le stesse dimensioni di quello che tutti hanno conosciuto nel 2010, quando un gruppo di immigrati si sfogò prendendo d’assalto la città, ma non sono nemmeno stati debellati.

Anche se non c’è più la baraccopoli di San Ferdinando, i problemi abitativi sono ancora tutti lì. Perché non tutti tra quelli che erano “ospiti” di quell’indegna sistemazione oggi hanno trovato un posto nelle nuove strutture. I decreti Salvini, con l’abolizione della protezione umanitaria, hanno poi creato nuovi invisibili, divenuti per questo ancora più ricattabili. Questo racconta chi in quei territori vive e fa sindacato.

Chi in Italia si lamenta seguendo il mantra “i nostri terremotati sono in tenda mentre gli immigrati sono in alberghi di lusso” non è mai passato da quelle zone della Calabria. Ad accogliere gli africani addetti alle raccolte di agrumi è una tendopoli. “Sicuramente meglio di una baracca – fa notare Celeste Logiacco, segretaria Cgil della Piana di Gioia Tauro – ma pur sempre un ricovero d’urgenza temporaneo”. Non è una soluzione che riesce a garantire un tetto ai 3.500 lavoratori coinvolti. “Con i decreti Salvini – aggiunge Logiacco – i permessi sono applicabili a una minoranza molto ristretta. Tra quelli che avevano un permesso umanitario, chi aveva un lavoro regolare e non in scadenza è riuscito a ottenere la conversione, molti altri sono in attesa dell’esito della richiesta o in prossimità di scadenza”.

Di positivo c’è che, da quando i fatti del 7 gennaio 2010 hanno portato alla luce le condizioni della filiera delle arance, è aumentata la sensibilità, è arrivata la legge nazionale contro il caporalato del 2016 e una legge della Regione Calabria. Il (lento) cambiamento è anche nell’atteggiamento degli stessi immigrati: “Prima erano restii a rivolgersi ai sindacati, ora sono loro che si avvicinano quando giriamo con i furgoncini”, dice Rocco Borgese, segretario locale della Flai. L’attenzione delle forze dell’ordine, le tante cause di lavoro e le nuove norme hanno influito positivamente: “Prima – aggiunge Borgese – a fronte di un contratto da 102 giornate, i lavoratori si ritrovavano i contributi pagati per due o tre. Adesso se ne trovano più di cinquanta”. Secondo il radar del sindacato, sono diminuiti i casi di paghe da 25 euro al giorno (anziché 37, come dice il contratto), con i 5 euro da restituire al caporale. “Questa forma esiste ancora – avverte – ma son cambiate molte cose”.

Le ragioni economiche dello scontro Usa-Iran

I Paesi che si affacciano sul Golfo Persico custodiscono più della metà delle riserve mondiali di petrolio e controllano lo Stretto di Hormuz, arteria attraverso la quale passa un quinto del greggio mondiale. Negli ultimi mesi il settore petrolifero è stato teatro di uno scontro feroce tra Arabia Saudita e Iran. L’omicidio del generale Soleimani deve essere inquadrato anche in questo contesto. L’Iran è stato uno dei fondatori dell’Opec nel 1960. Sotto lo scià ha dato un contributo fondamentale allo choc petrolifero del 1973 che quadruplicò il prezzo del petrolio. Nel 1978, l’Iran produceva il massimo storico di oltre 6 milioni di barili di petrolio al giorno, poco meno dell’Arabia Saudita, primo esportatore mondiale.

La Rivoluzione islamica nel 1979 ha marginalizzato l’Iran nello scenario petrolifero mondiale. Tra isolamento, sanzioni ripetute, tentativi di apertura brevi e contraddittori, l’Iran ha ritrovato un ruolo di primo piano solo con il rilancio dell’Opec negli anni 2000, grazie all’asse con il Presidente venezuelano Chávez.

L’episodio che fa da cornice alla situazione attuale è il calo dei prezzi del greggio nel 2014 (da più di 100 a meno di 40 dollari al barile), assieme all’ascesa della produzione di petrolio shale americano e alle pressioni ambientaliste alla riduzione dell’utilizzo delle fonti di origine fossile. La combinazione è stata letale per i petro-Stati. Il Venezuela si avvita nella peggiore crisi economica e sociale dall’inizio del 900, così come l’Ecuador, l’Algeria, la Libia, l’Iraq. I Paesi in apparenza più solidi, le monarchie del Golfo forti di riserve finanziarie accumulate nel tempo delle vacche grasse, sono state costrette a misure senza precedenti come dimostra la vendita di una quota di Aramco, le società del petrolio saudita, attraverso la quotazione in Borsa.

La firma dell’accordo sul nucleare, il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) entrato in vigore nel gennaio del 2016, aveva dato una speranza alla leadership iraniana.

Società internazionali, come la major petrolifera francese Total, si erano impegnate, ad esempio, a investire nel South Pars, il più grande giacimento di gas naturale al mondo che l’Iran condivide con il Qatar. L’obiettivo era aumentare la produzione di idrocarburi in un momento di calo dei prezzi. Gli investimenti, non solo nel settore petrolifero, avevano consentito una crescita significativa dell’economia.

Dopo l’elezione di Trump, e l’applicazione della nuova strategia della maximum pressure, gli Stati Uniti si ritirano nel maggio del 2018 dal Jpcoa, teoricamente per rinegoziare l’accordo nucleare in termini più vantaggiosi. Allo stesso tempo varano sanzioni per impedire a società petrolifere e finanziarie di vari Paesi di acquistare greggio iraniano; per poi rafforzarle ulteriormente nel maggio del 2019 estendendole a tutti i Paesi del mondo, inclusa la Cina che da sola importa la metà del greggio iraniano. Gli investimenti internazionali in Iran si bloccano, con buona pace per la strategia di aumento della produzione.

L’Iran non trova più clienti ufficiali per il suo petrolio ed è costretto a ricorrere a sconti, mercato nero, baratti e altre diavolerie varie. Lo strangolamento contribuisce a gettare il Paese in una crisi economica senza precedenti in tempo di pace con un calo dell’economia stimato dal Fondo monetario internazionale nel 9 per cento del Pil per il 2019 e un’inflazione che rischia di toccare quota +30 per cento. Teheran si vede costretta a una mossa suicida per qualsiasi petro-Stato: l’aumento di quasi il 50 per cento del prezzo della benzina (imposto lo scorso novembre). Scoppiano sommosse popolari: la più grave minaccia al regime da quarant’anni, con decine di morti e migliaia di arresti.

Cosa può fare la leadership islamica per evitare il collasso economico di uno Stato che ancora dipende dalla vendita di greggio per il 30 per cento delle sue entrate? Può fare tre cose.

Essere molto creativa sul piano della vendita di petrolio. Approntare un’economia di guerra, riducendo importazioni e diversificando. Minacciare gli altri Paesi produttori di petrolio alleati degli Stati Uniti: “Se non ci fate giocare al mercante di petrolio, facciamo saltare il banco”. Il regime iraniano sta applicando tutte queste strategie insieme. Così vanno letti i recenti attacchi alle petroliere nel Golfo, nonché il clamoroso bombardamento di Abqaiq in Arabia Saudita, l’impianto petrolifero più grande al mondo, capace di trattare oltre 7 milioni di barili al giorno (tre volte la produzione totale iraniana).

Dopo gli attacchi sono evidentemente cominciati negoziati sottobanco tra iraniani e sauditi, vuoi per l’assenza di efficaci strumenti di deterrenza saudita, vuoi perché, nel momento in cui Aramco veniva quotata, i sauditi avevano tutto l’interesse a tutelare gli impianti ed evitare che un cane sciolto potesse destabilizzare gli accordi sulla produzione tra Opec e Russia (Opec Plus).

La reazione statunitense va nel senso di impedire i pur complicati negoziati tra sauditi e iraniani.

Alla leadership iraniana non resta che continuare a vendere petrolio sottocosto e minacciare gli impianti degli alleati statunitensi nel Golfo. Nel breve termine questo potrebbe portare ad aumenti del prezzo del greggio (considerando la destabilizzazione dell’Iraq e le sanzioni imposte sia all’Iran che al Venezuela). È più probabile, però, che i prezzi non cambino di molto e che si aprano in compenso maggiori spazi per produttori, come Stati Uniti e Russia, lontani dal Golfo Persico.

Lidl e la mancata valutazione del rischio sul luogo di lavoro

La Lidl vince da anni il premio come “migliore ambiente lavorativo”, ma non valuta come dovrebbe il rischio sul luogo di lavoro, nonostante sia obbligatorio per legge dal 2008. I risultati dei Dvr (Documenti di valutazione del rischio) sarebbero, infatti, uguali in tutte le succursali italiane e attesterebbero ovunque un improbabile “basso rischio di magnitudo”. Il j’accuse è di Fabio Lioy, per 18 anni capo filiale del gigante tedesco della grande distribuzione organizzata. Prima di essere licenziato, l’uomo era stato un Rls, un responsabile dei lavoratori per la sicurezza della Cgil. Aveva compiuto sopralluoghi in numerosi supermercati piemontesi e delle regioni limitrofe. Secondo il suo racconto, suffragato da documenti riservati, la Lidl sarebbe strutturalmente impossibilitata a effettuare correttamente la valutazione del rischio. Quasi nessun suo dipendente avrebbe mai visto in faccia un Rspp, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, e in pochissimi avrebbero partecipato agli studi dello stress da lavoro correlato, tassativi dal 2004. “Un Rspp di cui sono a conoscenza dovrebbe gestire, da solo, 5 direzioni regionali, 260 negozi e 5 piattaforme logistiche. Considerando che lo studio dello stress da lavoro correlato andrebbe svolto ogni due anni, e ci vogliono mesi per eseguirlo, gli toccherebbe farne uno ogni due giorni lavorativi: nemmeno Superman”, spiega Lioy. La scoperta dell’intercambialità assoluta tra i report dei Dvr in centinaia di magazzini peninsulari è arrivata anche grazie a un gruppo Whatsapp di Rls sindacali. Analoghe anomalie si riscontrerebbero nelle analisi sullo stress da lavoro correlato. L’Inail parla di sondaggi con la partecipazione dei lavoratori “che invece non vengono coinvolti, e perciò in tutte le sedi lo stress risulta basso”. Lidl Italia replica così: “Redigiamo il documento di valutazione del rischio per ognuno dei nostri punti vendita e per quanto riguarda i Rspp, la Lidl ha incaricato più professionisti in tutto il territorio nazionale per la gestione del servizio. Abbiamo anche istituito l’Ufficio sicurezza sul lavoro e ambiente”.

Grandi opere, altri 28 miliardi spesi senza criterio

“Sei miliardi di opere davvero utili!”. Questo è il titolo di un’immagine pubblicata su Facebook nel luglio scorso dalla comunicazione del Movimento 5 Stelle della Camera e rilanciata su Twitter in questi giorni. A cui si aggiunge una perentoria chiusura: “Altro che Torino-Lione”!, e poi l’elenco delle 5 “grandi opere buone”, tutte ferroviarie. Ora, per la Torino-Lione è stata fatta un’analisi economico-finanziaria che diceva un chiaro “No”. Però riguardo a queste altre, per quattro di esse non è stato consentito fare alcuna analisi al gruppo incaricato da Toninelli, e per una l’analisi è stata negativa, anche se il governo giallo-verde decise di farla ugualmente.

Vediamo sommariamente l’elenco delle opere buone, per le quali le analisi costi-benefici non dovrebbero valere, perché appunto “buone a prescindere”. Sono: la linea Palermo-Catania, il nodo ferroviario di Genova, il Terzo Valico (Milano-Genova), la linea Napoli-Bari, e l’accesso al Brennero, cioè il raddoppio della linea da Fortezza a Verona.

Ora, definire un’infrastruttura “utile” senza mostrare o consentire alcuna analisi o dibattito è esattamente nella logica delle Grandi Opere berlusconiane, cioè è una valutazione arbitraria. Nemmeno si conoscono previsioni di traffico o di costo totale, o il rapporto tra costi e ricavi. Forse tutto è ben nascosto nel sito web delle Ferrovie, ma comunque di difficile accesso e totalmente di parte (figuriamoci se chi deve ricevere dei soldi pubblici dice dei No a qualcosa). Nel merito, mancando i numeri ovviamente si possono fare solo stime a buon senso.

Per la linea Palermo-Catania esiste un’analisi indipendente che dimostra che rimarrà deserta, anche se velocizzata a carissimo prezzo. Non c’è né ci sarà mai abbastanza traffico. Costerà, si stima, non meno di 5 miliardi

Del nodo ferroviario di Genova senza dati nulla si può dire.

Del Terzo Valico Milano-Genova si sa invece tutto: l’analisi ufficiale del ministero dimostra che i benefici sociali sono nettamente inferiori ai costi, anche se si è deciso di finire lo stesso l’opera. Costerà alla fine non meno di 6 miliardi.

Della linea Napoli-Bari fu fatta anni fa un’analisi indipendente con risultati molto negativi, sempre per scarso traffico. Si parla di un costo totale di 7 miliardi.

Della linea Fortezza-Verona si sa solo che è lunga 200 km, e dovrà essere fatta per lunghi tratti in galleria. Una stima di 50 milioni a km sembra ragionevole, quindi un costo totale dell’ordine dei 10 miliardi. Oggi ci passano sulla linea esistente 140 treni al giorno, e ne potrebbe portare 220.

Facendo le somme, una rozza e incompleta stima dei costi totali è dell’ordine dei 28 miliardi, tutti a carico delle scassate casse pubbliche.

Cioè quei 6 miliardi sono i soldi necessari non a finire le opere, ma solo a mandare avanti i cantieri, che in questo modo diventano politicamente inarrestabili, casomai a qualcuno venisse in mente di fare i conti dei benefici sociali per il Paese di queste opere.

Ma uno potrebbe dire: con l’enfasi anche europea per l’ambiente, macchine e camion si sposteranno per forza sulla ferrovia, negli anni futuri. Niente affatto: proprio l’enfasi per l’ambiente accelererà ancora il passaggio a motori sempre meno inquinanti, cosa già in corso da due decenni, rendendo inutile quel (costosissimo) passaggio.

Certo che questi 6 miliardi sono per opere che sono ben altro che il Tav! A occhio sono per sprechi molto maggiori: quello costerà in tutto all’Italia non più di 4 miliardi.