Perdere oltre il 30% del valore di un titolo in soli 30 giorni non è cosa che capita sovente. E soprattutto non capita quando non ci sono segnali evidenti di crisi anzi, la dinamica dei risultati viene sbandierata come in sensibile miglioramento. È successo invece agli azionisti di Safilo. Quelli saliti sul carro del produttore italiano di occhiali con sede a Padova subito dopo i dati dei primi nove mesi del 2019 più che soddisfacenti e pubblicati il 12 novembre scorso. Da lì un potente rally sul listino con il titolo salito del 60% da 1 a 1,6 euro. Poi la doccia fredda il 10 dicembre, appena un mese dopo: nuovo piano industriale con attese sui ricavi futuri ridimensionate.
Subito sono scattate le vendite con l’azione che si è rimangiata tutta la salita tornando velocemente sui livelli da cui era partita la grande illusione. Quasi una beffa, accompagnata il giorno della divulgazione del piano industriale da ripiego dopo una gelata, con conseguenze pesanti sul piano economico-sociale: chiusura dello stabilimento di Martignacco in Friuli, ridimensionamento produttivo negli impianti di Longarone e Padova e ben 700 esuberi: uno su quattro dei lavoratori impiegati in Italia per Safilo sono di troppo.
Una retromarcia che stona con la comunicazione enfatica dei dati dei primi 9 mesi data solo 30 giorni prima, che aveva dato lo sprint alla Borsa. Già perché Safilo, dopo la lunga crisi del passato con perdite di bilancio ininterrotte dal 2015 a tutto il 2018, accompagnate da un poderoso aumento di capitale da 150 milioni sempre nel 2018, pareva aver archiviato la crisi. La novestrale con vendite salite del 5% sui 12 mesi e un margine lordo industriale al 6% del fatturato raccontava di una società rimessa in carreggiata. Certo senza lo sfavillio del concorrente più autorevole, quella Luxottica (oggi fusa con Essilor) che da anni macina con costanza assoluta margini industriali del 20%, tre volte più di Safilo. Ma pur sempre un dato che presumeva una stagione di normalità. E invece ecco la sorpresa: il 10 dicembre dello scorso anno l’annuncio choc. I ricavi al 2020 non saranno nella precedente forchetta tra un miliardo e un miliardo e 200 milioni, ma tra 960 milioni e un miliardo. Niente più Margine operativo sui ricavi tra l’8 e il 10%, ma al 6%. Il livello che già Safilo ha raggiunto a novembre del 2019.
La società ha giustificato la pesante revisione con la fine della licenza Dior, scaduta dopo oltre 20 anni, che però era già stata comunicata a luglio al mercato. Quindi niente di inaspettato. Il che pone una domanda? Se i vertici sapevano avendolo tra l’altro reso pubblico a luglio del mancato apporto futuro della licenza scaduta, perché non comunicare il rallentamento nei fatturati e nei margini già a novembre? Perché aspettare un mese intero, il mese del rally di Borsa di un mercato che si era illuso? Quanto meno un pasticcio a livello di informativa.
Ma quel che pesa, al di là degli azionisti feriti dal rally con perdite, è lo smantellamento industriale in Italia. Una nuova crisi che si va ad aggiungere ai 160 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo. Tanto accanimento non poteva essere risparmiato, in nome di 2 punti in più di margine industriale? In fondo di questo si tratta. Un po’ di profittabilità in più a scapito di un quarto dell’occupazione. Safilo non è oggi in condizioni da richiedere un tavolo di crisi, come invece ha fatto (il conto arriverà anche allo Stato via ammortizzatori sociali). Lo è stata per anni, in passato, quando non riusciva a chiudere i bilanci in utile. Ora quella fase è finita. E soprattutto non è in gioco un equilibrio precario tra costi e ricavi. Anche in passato la redditività industriale c’era, piccola ma c’era. Quindi il problema non è mai stato il costo del lavoro. A mandare in rosso il gruppo per anni sono state in realtà le svalutazioni degli avviamenti, cioè gli acquisti di marchi e attività strapagate, con il senno di poi, rispetto ai risultati ottenuti. Qui i costi industriali c’entrano ben poco. Le perdite passate sono figlie della gestione finanziaria, non certo dell’attività produttiva che fa tuttora margini positivi. Un’altra di quelle crisi figlie dell’insipienza finanziaria. Però la pagano i lavoratori.