Safilo, l’azzardo finanziario colpisce azionisti e lavoratori

Perdere oltre il 30% del valore di un titolo in soli 30 giorni non è cosa che capita sovente. E soprattutto non capita quando non ci sono segnali evidenti di crisi anzi, la dinamica dei risultati viene sbandierata come in sensibile miglioramento. È successo invece agli azionisti di Safilo. Quelli saliti sul carro del produttore italiano di occhiali con sede a Padova subito dopo i dati dei primi nove mesi del 2019 più che soddisfacenti e pubblicati il 12 novembre scorso. Da lì un potente rally sul listino con il titolo salito del 60% da 1 a 1,6 euro. Poi la doccia fredda il 10 dicembre, appena un mese dopo: nuovo piano industriale con attese sui ricavi futuri ridimensionate.

Subito sono scattate le vendite con l’azione che si è rimangiata tutta la salita tornando velocemente sui livelli da cui era partita la grande illusione. Quasi una beffa, accompagnata il giorno della divulgazione del piano industriale da ripiego dopo una gelata, con conseguenze pesanti sul piano economico-sociale: chiusura dello stabilimento di Martignacco in Friuli, ridimensionamento produttivo negli impianti di Longarone e Padova e ben 700 esuberi: uno su quattro dei lavoratori impiegati in Italia per Safilo sono di troppo.

Una retromarcia che stona con la comunicazione enfatica dei dati dei primi 9 mesi data solo 30 giorni prima, che aveva dato lo sprint alla Borsa. Già perché Safilo, dopo la lunga crisi del passato con perdite di bilancio ininterrotte dal 2015 a tutto il 2018, accompagnate da un poderoso aumento di capitale da 150 milioni sempre nel 2018, pareva aver archiviato la crisi. La novestrale con vendite salite del 5% sui 12 mesi e un margine lordo industriale al 6% del fatturato raccontava di una società rimessa in carreggiata. Certo senza lo sfavillio del concorrente più autorevole, quella Luxottica (oggi fusa con Essilor) che da anni macina con costanza assoluta margini industriali del 20%, tre volte più di Safilo. Ma pur sempre un dato che presumeva una stagione di normalità. E invece ecco la sorpresa: il 10 dicembre dello scorso anno l’annuncio choc. I ricavi al 2020 non saranno nella precedente forchetta tra un miliardo e un miliardo e 200 milioni, ma tra 960 milioni e un miliardo. Niente più Margine operativo sui ricavi tra l’8 e il 10%, ma al 6%. Il livello che già Safilo ha raggiunto a novembre del 2019.

La società ha giustificato la pesante revisione con la fine della licenza Dior, scaduta dopo oltre 20 anni, che però era già stata comunicata a luglio al mercato. Quindi niente di inaspettato. Il che pone una domanda? Se i vertici sapevano avendolo tra l’altro reso pubblico a luglio del mancato apporto futuro della licenza scaduta, perché non comunicare il rallentamento nei fatturati e nei margini già a novembre? Perché aspettare un mese intero, il mese del rally di Borsa di un mercato che si era illuso? Quanto meno un pasticcio a livello di informativa.

Ma quel che pesa, al di là degli azionisti feriti dal rally con perdite, è lo smantellamento industriale in Italia. Una nuova crisi che si va ad aggiungere ai 160 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo. Tanto accanimento non poteva essere risparmiato, in nome di 2 punti in più di margine industriale? In fondo di questo si tratta. Un po’ di profittabilità in più a scapito di un quarto dell’occupazione. Safilo non è oggi in condizioni da richiedere un tavolo di crisi, come invece ha fatto (il conto arriverà anche allo Stato via ammortizzatori sociali). Lo è stata per anni, in passato, quando non riusciva a chiudere i bilanci in utile. Ora quella fase è finita. E soprattutto non è in gioco un equilibrio precario tra costi e ricavi. Anche in passato la redditività industriale c’era, piccola ma c’era. Quindi il problema non è mai stato il costo del lavoro. A mandare in rosso il gruppo per anni sono state in realtà le svalutazioni degli avviamenti, cioè gli acquisti di marchi e attività strapagate, con il senno di poi, rispetto ai risultati ottenuti. Qui i costi industriali c’entrano ben poco. Le perdite passate sono figlie della gestione finanziaria, non certo dell’attività produttiva che fa tuttora margini positivi. Un’altra di quelle crisi figlie dell’insipienza finanziaria. Però la pagano i lavoratori.

Case all’asta, la grande abbuffata dei fondi beffa due volte i creditori

Da qui a 5 anni più di un milione e mezzo di immobili andranno all’asta continuando a mettere in seria difficoltà le famiglie che si ritroveranno a perdere la casa di proprietà e poi a dover continuare a pagare anche la banca creditrice, perché la vendita dell’immobile, a circa un terzo del valore di mercato, non basterà a estinguere il prestito. Ritrovandosi così con gran parte del debito sul groppone e di fatto impacchettato e scagliato nel girone infernale del recupero crediti. La beffa è complessa; vinti e vincitori sono certi. Da una parte gli italiani sul lastrico, anche senza colpa. Dall’altra il sistema bancario che, una volta che si accumulano le rate del mutuo insolute, si affretta a vendere le “sofferenze” ai fondi specializzati che poi affidano a un’altra società la svendita dell’immobile all’asta. Un sistema esploso nel 2018 e 2019 a causa della spinta imposta dalle normative europee agli istituti per liberarsi dei crediti deteriorati. È stato un biennio record in cui sono stati battuti sempre più immobili.

I numeri. Nel primo semestre del 2019, secondo i dati più attendibili forniti dalla Astasy (un soggetto privato legato al gruppo Gabetti), i lotti oggetto di aste immobiliari sono stati 152.708, in aumento rispetto alle 128 mila pubblicazioni registrate 12 mesi prima. Ma in tutto il 2018 si sono accumulate 245.100 esecuzioni immobiliari, il 19,46% solo in Lombardia, di cui il 78% ad uso residenziale. Un incremento del 24% che significa ben 836 immobili posti all’asta ogni giorno. I pignoramenti degli ultimi cinque anni hanno coinvolto almeno 1,2 milioni di italiani. Fra loro ci sono anche tanti figli che ereditano i guai dei genitori, attività commerciali travolte dalla crisi, lavoratori autonomi che hanno il torto di ammalarsi. Quando la vasa entra nel girone delle esecuzioni immobiliari, soprattutto se non si trova nelle grandi città, finisce per perdere oltre la metà del valore. Il 55% è, infatti, lo sconto medio con cui le società immobiliari acquistano all’asta gli immobili per poi rivenderli a prezzi di mercato. Anche le organizzazioni criminali approfittano del sistema come meccanismo perfetto per pulire il denaro sporco, dal momento che non sono previste verifiche antiriciclaggio.

I valori in gioco. Nel 2019 il valore a base d’asta complessivo degli immobili messi in vendita è stato di 25 miliardi di euro. Ma il probabile valore reale – quello che sarebbe stato oggetto di compravendita nel libero mercato – si dovrebbe attestare a poco meno di 34 miliardi di euro. Tutta colpa dei ribassi d’asta che subiscono gli immobili: circa il 55%. Mai così tanto dal 2015, quando è entrata in vigore la legge 132 voluta dal governo Renzi con lo scopo di abbreviare l’iter delle aste – ora dura un anno – e facilitare il recupero dei crediti alle banche. Le aste andavano spesso deserte e ingolfavano i tribunali e si è pensato di accelerare le procedure di vendita applicando da subito uno sconto. “Ma cinque anni dopo, si può affermare che sia stato un intervento sciagurato”, spiega Giovanni Pastore, uno dei fondatori dell’associazione Favor debitoris che aiuta le famiglie indebitate. Dopo la riforma, lo stesso immobile che valeva 100 mila euro, battuto fino ad allora a 110 mila, viene ora svenduto a 35 mila euro, contro i 55 mila euro pre-riforma. Una volta conclusa la vendita, si deve anche detrarre un 30% dall’importo per pagare le spese a mediatori, consulenti e periti. “Il debitore è come il maiale per i contadini, non si butta via niente. E poi quel debito residuo viene a sua volta venduto, con una valutazione di circa l’1% del valore nominale, alle società di recupero credito, specializzate nello spolpare le ossa”, commenta Pastore.

Il caso. Un dramma vissuto da Giovanni Milesi, un imprenditore bergamasco, che per il ritardo di 60 giorni di due rate di mutuo si è visto strappare via la casa del valore di un milione. Immobile venduto all’asta a 110mila euro e ora messo sul mercato dal neo acquirente, un compratore francese, a 450mila euro. Un prezzo che un giudice non ha considerato vile, perché lo scopo della vendita all’asta è ripagare il debito alla banca che per il signor Milesi ammonta ancora a 117mila euro. Come sintetizza Mirko Frigerio, ad di Astasy, “è un circolo vizioso burocratico per cui la giustizia è chiamata a essere giudice e boia dei debitori”.

Fondo Salva casa. Ora, dopo anni di abusi di un mercato surreale e speculativo, arriva una speranza per le famiglie. Nella manovra 2020 è stata inserita una norma proposta dal presidente della commissione Bilancio, Daniele Pesco (M5S) che introduce il fondo Salva casa che dà la possibilità di creare delle società con “finalità sociale” che, grazie alla collaborazione di associazioni e Onlus, potranno acquistare case e crediti dalle banche. Ma al posto di cacciare le persone e vendere gli immobili all’asta, potranno consentire alle famiglie di continuare ad abitarli. Per ora però non si conoscono ancora i dettagli operativi e i nominativi delle società coinvolte. L’operazione ruota intorno a una società di cartolarizzazione, ossia quel tipo di società che si finanzia sul mercato emettendo obbligazioni e con le risorse raccolte compra dalle banche o da altre società crediti con immobili a garanzia. Ma in questo caso le società acquisteranno i debiti delle famiglie remunerando gli investitori, cioè le banche, che bloccheranno l’azione legale. Il proprietario della casa potrà così corrispondere alla società di cartolarizzazione un canone di affitto e allo stesso tempo avrà la possibilità, se ne è in grado, di comprare nuovamente l’appartamento a un prezzo molto vicino a quello pagato dalla stessa società di cartolarizzazione a finalità sociale. Rimanendo fino ad allora nella propria casa.

Quei regali di Leonardo al Qatar per ottenere la maxi-commessa

Leonardo ha regalato 19 elicotteri al Qatar per ottenere il via libera all’acquisto di altri 28 elicotteri del valore di 3 miliardi. Come se, per vendere una trentina di Ferrari, il gruppo Fca donasse 20 Giuliette più tre Jeep più due conducenti sempre a disposizione in Europa, più il rimborso delle spese, più altro ancora, sempre “senza costo addizionale per il cliente”.

I benefit sono stati aggiunti a seguito di una fitta corrispondenza che Il Fatto ha potuto visionare. A leggere le lettere ultimative dei qatarini sembra che, a un passo dalla firma del contratto più importante dell’anno, Leonardo sia stata messa con le spalle al muro dalla controparte. La firma del contratto da parte dell’ad Alessandro Profumo è avvenuta il 14 marzo 2018 durante il Salone dell’aeronautica Dimdex a Doha alla presenza dell’allora ministro della Difesa, Roberta Pinotti. L’affare è stato comunicato come uno dei grandi successi della gestione Profumo, che tra pochi mesi si giocherà la riconferma. I qatarini hanno comprato 16 elicotteri Nh90 TTH ad assetto terrestre, prodotti da Airbus (valore stimato per le sole ‘macchine’: 579 milioni) più dodici Nh90 NFH per missioni navali, prodotti da Leonardo (564 milioni) più decine di optional e servizi annessi elencati nel contratto fino a un valore totale di 3 miliardi. Nella relazione finanziaria al 31 dicembre 2018, Leonardo afferma che l’incremento del 30% del totale degli ordini (fino a 15,1 miliardi rispetto a 11,6 del 2017) è “principalmente dovuto all’acquisizione del contratto NH90 Qatar per 3 miliardi”. Non è stata mai comunicata da Leonardo però la parte free concessa al Qatar per ottenere il ruolo di prime contractor al posto dei francesi di Airbus che compongono con Leonardo il consorzio NHIndustries che produce gli elicotteri. Gli olandesi di Fokker hanno una piccola quota.

Il benefit maggiore è stato concesso il 26 febbraio 2018, due settimane prima della firma, con una lettera del capo divisione elicotteri Gian Piero Cutillo: 16 elicotteri H125 da addestramento, che saranno pagati da Leonardo (non ancora consegnati) e fabbricati da Airbus. Il valore di questo ‘dono’ è stimato in 80 milioni di euro. Poi ci sono i tre elicotteri AW109 uso VVIP, cioè trasporto di personalità importanti, prodotti da Leonardo. Il valore? Altri 19,5 milioni. Più l’allestimento interno ed esterno per VVIP (‘personaggi molto molto importanti’). Più la messa a disposizione di 2 piloti a spese di Leonardo in Europa. I tre elicotteri AW109 scarrozzeranno nei cieli come un taxi gli esponenti VVIP qatarini, a spese di Leonardo. Gli elicotteri sono già stati consegnati a novembre a Tessera, vicino a Venezia, in una cerimonia segreta alla presenza dei vertici di Leonardo.

Ci sono poi decine di altre voci garantite at no additional cost nei contratti, come i 20 milioni e 650 mila euro di fondo spese per gli allievi qatarini o il follow up gratuito con costi di resident team e management e amministrazione a carico di Leonardo. I benefit ‘prezzati’ nell’allegato al contratto visionato dal Fatto superano i 120 milioni di euro più altre voci senza prezzo, ma di valore certamente minore. I generali qatarini nelle loro missive di gennaio-febbraio 2018 condizionavano chiaramente la firma per la commessa alla concessione dei benefit. Il 26 gennaio 2018, dopo un incontro con gli italiani, il generale di Brigata Mishwat Faisal Al Hajr presidente del comitato per l’acquisizione degli elicotteri, chiede a Profumo di scrivere una “lettera formale chiara e diretta in inglese semplice senza zone grigie” che aderisca alle condizioni delle tre pagine allegate. La “Lista dei benefit confermati” (che non contiene ancora i 16 elicotteri H125 ma include i tre AW109) è accettata da Gian Piero Cutillo, capo della divisione elicotteri, con lettera dell’8 febbraio 2018. Al generale Al Hajr non basta: chiede che firmi Profumo e ‘non altre persone’. L’amministratore accetta e scrive il 12 febbraio: “Desideriamo firmare la lettera di intenti il 13 febbraio con lo scopo di firmare il contratto durante il Dimdex 2018 (Salone dell’aeronautica militare che si tiene in Qatar a marzo, ndr) se approvato”.

Il 18 febbraio il generale Al Hajri chiede un “aggiornamento sulla questione chiaramente stabilita con il Ceo di Leonardo, Alessandro Profumo, durante il suo incontro col vicepremier-ministro della Difesa”. Il generale ribadisce la “chiara richiesta dei 16 H125”. Finalmente il 26 febbraio Cutillo scrive al Qatar che “Leonardo accetta la fornitura dei 16 H125 nella configurazione richiesta” ovviamente free of charge, ma senza supporto e manutenzione. Non basta. Un anno dopo la firma del contratto, il 22 marzo 2019, c’è l’ultima lettera di Fabio Castiglioni, capo della divisione forniture elicotteri che, in cambio dell’impegno dei qatarini di chiudere alcune questioni controverse, impegna Leonardo a fornire altri benefit come “8 istruttori in Qatar, militari o con un background militare, se il cliente è d’accordo”. In pratica Leonardo potrebbe pagare militari italiani che vadano a Doha a istruire gratis per loro i qatarini o impiegare piloti civili alla bisogna. Castiglioni poi promette altro: corsi, manuali di volo e persino due modellini in scala 1:10 degli Nh90 “per il Qatar National Day”. Senza contare tre anni di supporto e mantenimento degli Aw109 da fine 2019.

A Leonardo abbiamo chiesto se la commessa, al netto di queste forniture gratuite, rimanga redditizia. La risposta è stata: “Il contratto NH90 Qatar rappresenta uno dei maggiori successi di Leonardo nel settore elicotteristico” anche “per il ruolo assunto di prime contractor del maggior programma elicotteristico sviluppato in Europa”. E i benefit? Per Leonardo sono “prassi per contratti governativi di questo tipo”. Anche perché “i 16 elicotteri H125 prodotti da Airbus rappresentano una quota minima rispetto alla componente ‘core’ del programma basato sui 28 NH90”. Ma se i doni superano i 120 milioni, a quanto assomma la parte del contratto da 3 miliardi che spetterà solo a Leonardo all’interno del consorzio con Airbus? “La quota di competenza di Leonardo è superiore al 40%”, spiegano da Leonardo giurando che “il programma è sicuramente profittevole per l’Azienda, anche nel lungo periodo”. E la mancata comunicazione sui benefit? È dovuta al “necessario e consueto rispetto del principio di riservatezza definito a livello contrattuale su richiesta del cliente anche per evidenti motivi di sicurezza”.

Lo spot elettorale di Zaia e Brugnaro: “Tra sei mesi il Mose potrà funzionare”

Quasi miracolosamente il Mose è pronto da entrare in funzione tra sei mesi in caso di emergenza per salvare Venezia dall’acqua alta. L’annuncio è stato dato ieri con una certa enfasi dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e dall’assessore regionale all’ambiente Roberto Marcato, al termine di un incontro che si è tenuto in Prefettura a meno di due mesi dall’acqua altissima del 12 novembre. Peccato che le alte maree tra sei mesi non ci saranno. L’estate risparmia da sempre la città, sommersa invece dal flagello del turismo di massa.

Per trovare statisticamente le prime acque alte importanti bisognerà arrivare a ottobre. Basta scorrere l’elenco dei 25 livelli più alti dal 1923 a oggi : i mesi a rischio sono novembre, dicembre, febbraio, ottobre e aprile.

Alzare le paratoie mobili alle bocche di porto della Laguna di Venezia potrebbe quindi servire tra dieci mesi, non prima. È per questo che le dichiarazioni dei politici sembrano un’avvisaglia di campagna elettorale, considerando che nel 2020 si rinnovano le amministrazioni del capoluogo e della Regione. Il governatore leghista Luca Zaia e il sindaco “fucsia” hanno da tempo raggiunto un’intesa se non di mutua assistenza, almeno di non belligeranza. E questo, nonostante il 13 novembre, a mollo con gli stivaloni in piazza San Marco, Silvio Berlusconi abbia indicato in Brugnaro un ottimo leader di visione nazionale per il centrodestra.

Tra una decina di giorni, il nuovo commissario unico del Mose, Elisabetta Spitz, annuncerà il cronoprogramma. Nessun miracolo, non dovrebbe discostarsi di molto da quanto già previsto dal Consorzio Venezia Nuova: dal 2019 inizio gestione con impianti provvisori, collaudo funzionale entro il 30 giugno 2020, impianti definitivi e inizio della gestione. Il termine per la consegna rimane a dicembre 2021.

Un’altra partita è quella della gestione operativa. Chi deciderà quando alzare le dighe nella fase transitoria e quando il Mose sarà finito? Comune e Regione hanno chiesto di non essere tagliati fuori. “Con il pieno funzionamento – ha detto Brugnaro – si deciderà chi sarà il responsabile della gestione”. Poi, con prudenza ha aggiunto: “L’opera resta a carico dello Stato a cui spettano le decisioni. Regione e Comune non hanno potere esecutivo”.

Ilva, resta acceso l’altoforno: Mittal non ha più scuse

Prorogare la facoltà d’uso dell’Altoforno 2 dell’ex Ilva di Taranto serve a bilanciare diritto alla salute e diritto al lavoro e non può esserci condizionamento degli errori del passato dato che “a oggi i rischi trascorsi sono inesistenti e non devono pesare sull’attuale giudizio”. È quanto hanno scritto i magistrati del Tribunale del Riesame di Taranto nell’ordinanza con la quale, ribaltando la decisione del giudice di primo grado Francesco Maccagnano, hanno concesso ieri ai commissari straordinari altri 14 mesi di tempo per ultimare l’ultima prescrizione imposta dalla procura ionica nel 2015, quando l’impianto venne sequestrato a causa della morte di Alessandro Morricella. Una decisione che oltre a scongiurare l’ipotesi di nuovi cassintegrati, sbriciola uno dei pilastri sul quale Arcelor Mittal aveva basato la sua istanza di recesso del contratto per la gestione del siderurgico tarantino.

Nelle 21 pagine di motivazioni, i giudici hanno disposto che i commissari provvedano entro il 19 agosto 2020 all’automazione della cosiddetta Mat, la Macchina a tappare, entro il 19 settembre all’attivazione del campionatore automatico della ghisa ed entro 19 gennaio 2021 all’automazione “Macchina a forare”. Non solo. Entro le prossime sei settimane, Ilva in amministrazione straordinaria dovrà garantire l’utilizzo agli operai dei cosiddetti “dispositivi attivi” cioè indossabili dagli operatori e in grado di avvisarli per tempo, con segnalazioni acustiche e luminose, in modo da favorire l’allontanamento immediato dal campo di colata in caso di anomalie nel processo produttivo. In più passaggi dell’ordinanza, il Riesame ha evidenziato come la decisione del collega Maccagnano non poteva essere condivisa. Accogliendo integralmente le richieste di Ilva in As, il collegio ha annullato l’ordinanza con la quale era stata negata la nuova proroga e nella quale si riteneva il rischio per gli operai ancora troppo alto. Ed è invece proprio per ridurre al massimo quel rischio che secondo il collegio concedere la nuova proroga è quasi doveroso: “trattasi di macchinari – si legge infatti nel documento – che, finendo per escludere la presenza umana nei luoghi ove trovò la morte Alessandro Morricella, porteranno (in concorso con tutte le altre prescrizioni già adempiute) all’ulteriore riduzione del rischio per i lavoratori dell’altoforno n. 2, entro i limiti di legge”. Anche per il Riesame, come sostenuto dagli avvocati Angelo Loreto e Filippo Dinacci, il giudice Maccagnano avrebbe sostanzialmente frainteso le conclusioni delle relazioni e non avrebbe tenuto in debita considerazione neppure la relazione presentata dal custode giudiziario Barbara Valenzano, sulla base della quale la stessa procura per due volte ha espresso parere favorevole alla proroga. “Il Tribunale – si legge – non condivide le valutazioni del Giudice monocratico, nonostante l’indubbia consistenza dell’impianto motivazionale della relativa ordinanza” nella quale sarebbero state “trascurate o non valutate correttamente dal giudice” le ultime azioni compiute da Ilva in As per adeguarsi alle prescrizioni imposte dalla procura. In particolare il Riesame ha aggiunto che nel provvedimento con cui ha negato la proroga “mancano i riferimenti alla relazione tecnica del Custode del 5.12.2019, nonostante fosse stato il medesimo giudice a sollecitarla prima di decidere”. Ma c’è di più. L’ex Ilva di Taranto, secondo i giudici, “non deve scontare in questa sede il disastro ambientale per cui è imputato in altre procedure”.

L’Afo2, quindi, non si spegne, evitando il collasso anticipato dell’Ilva (e la Cassa integrazione per 3500 operai, già prospettata da Mittal). La decisione facilita la strada alla trattativa in corso tra Mittal e il governo per far restare i franco-indiani nel siderurgico tarantino. Trattativa che deve trovare una soluzione fine di gennaio in vista della sentenza del contenzioso civile al tribunale di Milano fissata per il 7 febbraio. Grande soddisfazione è stata espressa dalla struttura commissariale, che ha sempre mantenuto la sua fiducia nella magistratura.

Nemo propheta in patria: l’amara storia dell’ex ministro

Prima il dovere: all’ex ministro Lorenzo Fioramonti va dato atto di essersi dimesso come aveva annunciato in caso non gli avessero concesso tre miliardi per scuola e università (com’è noto, anziché le risorse, ora sono raddoppiati i ministeri). Ieri, in due dense pagine su Repubblica, il nostro ha invece spiegato il suo addio al M5S. Non maramaldeggeremo sulla tardiva scoperta della natura non democratica dei 5 Stelle (“non è ammesso il dissenso”) o dei difetti della piattaforma Rousseau (“inadeguata, costosa, farraginosa”), quanto sui veri, vorremmo dire filosofici, motivi del dissidio: “Ci sono quattro governi che hanno preso a modello i miei lavori accademici, le mie proposte: Scozia, Finlandia, Nuova Zelanda, Islanda. Quattro giovani donne coraggiose”, “sono loro i veri leader, non certo Trump e Putin”, “donne che stanno cambiando il mondo”. E lo fanno, ovviamente, nell’unico modo possibile: dando retta a Fioramonti, a cui è ignota l’espressione patronage. E in Italia invece? “Non potevo più fare la statuina da esibire” (?). Ora, il nostro – pur nella consapevolezza che nemo propheta in patria – valuta un futuro politico lanciando il gruppo “Eco” per promuovere “l’ecologia dell’economia” (?): “Se attorno a Eco si creeranno le condizioni per tirare fuori l’Italia dalle sabbie mobili della politica credo che sia un dovere restare”. Noi, pur deferenti al senso del dovere, ci permettiamo di segnalare all’ex ministro un’espressione romana adatta ai casi in cui l’offerta stenti a incontrare la domanda: Lorè, magna tranquillo.

Mail Box

 

Incidenti stradali, le pene dovrebbero essere più severe

Il numero degli incidenti nei quali i pedoni perdono la vita sta crescendo a dismisura: sia quelli sulle strisce pedonali che quelli a bordo strada. Gli ultimi casi emblematici: sei morti e undici feriti in Alto Adige, la ragazza uccisa a Mestre, le due ragazze sedicenni uccise a Roma. Almeno su due casi su tre alla guida c’era un giovane con tasso elevato di alcol o sostanze stupefacenti ingerite prima di mettersi al volante. Oggi attraversare le strisce pedonali significa vivere momenti di angoscia. La stragrande maggioranza degli automobilisti, con arroganza e tracotanza, ti sfreccia davanti come bolidi. Credo che la pena massima prevista per omicidi stradali debba essere raddoppiata e portata definitivamente a 20 anni. Così come la patente che andrebbe revocata, con divieto di ottenerla di nuovo prima che siano trascorsi almeno 15 anni.

Franco Petraglia

 

Servono più rispetto e igiene nei controlli in aeroporto

Due gennaio, io e mia moglie all’aeroporto di Malpensa: siamo entrambi quasi ottantenni, ma ai controlli abbiamo avuto un po’ di disagi e una assoluta mancanza di considerazione per la nostra età. Nel mio trolley c’è lo stretto necessario: schiuma da barba, rasoio, collutorio e dentifricio entro i limiti dei 100 ml, sempre passati regolarmente, eppure uno dei controllori me lo fa aprire e svuotare. Sono stato costretto a poggiare sul banco pigiama e indumenti intimi. Quello che non riesco a descrivere, probabilmente perché il mio animo lo rifiuta, è stato l’atteggiamento quasi da bimbo dispettoso e sardonico che questo signore ha tenuto nei miei confronti… Può avere forse influito l’aver fatto notare poco prima – con molto garbo – l’assoluta inosservanza delle più basilari norme igieniche quando ci hanno fatto togliere le scarpe facendocele poi porre nei cestelli dove tutti noi passeggeri poniamo anche giacche e cappotti, sciarpe e borsette?

Raffaele Pisani

 

Perché all’Ariston si parla solo di “canzonette”?

La polemica sulla presenza della giornalista Rula Jebreal a San Remo nasconde il vero tema in ballo: il Festival deve essere solo un’occasione di spensieratezza musicale o si può approfittare della grande audience per lanciare temi sociali? In realtà, quest’ultima scelta ha iniziato a farsi strada da anni, con i monologhi fischiati di Crozza e quelli sempre più accettati di Bisio, Littizzetto e altri. Ora la destra vuole il ritorno alla pura evasione, senza i guasta-feste che rompono l’incantesimo sonoro scaccia-pensieri. Magari con una riflessione sulla disparità di genere o sulla violenza contro le donne, come sembra vorrebbe fare la Jebreal. Io apprezzerei questi gavettoni di realtà per spezzare il torpore della lunga sauna musicale e per riattivare la circolazione. Di pensieri diversi.

Massimo Marnetto

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile redazione, siamo i “Vfp 1 Dimenticato”, un gruppo di ragazze che hanno svolto o svolgono il servizio militare volontario in ferma prefissata. Vi contattiamo in merito all’articolo sull’esclusione dei 445 giovani idonei con riserva del concorso della Polizia di Stato, pubblicato sul Fatto del 4 gennaio a firma di Paolo Frosina. Volevamo esprimere il nostro disappunto perché il contenuto dell’articolo non racconta il reale stato dei fatti. Infatti ci vengono riconosciuti presunti “privilegi” anagrafici, e non solo, goduti in fase concorsuale in qualità di Vfp. L’articolo lascia intendere che i partecipanti civili, a differenza dei pari provenienti dalla vita militare, dopo il Ddl Semplificazioni, non abbiano goduto dell’elevazione di età e della possibilità di poter partecipare con il titolo di scuola media inferiore. Per prima cosa è bene spiegare che al concorso in oggetto potevano partecipare tre categorie normate, con numeri di partecipanti propri alla categoria: 1. civili; 2. militari in servizio come Vfp1”; 3. militari in servizio e in congedo come Vfp1 e Vfp4. Questo significa che in termini concorsuali si sono formate tre graduatorie ben distinte e separate con punteggi propri di idoneità e di scorrimento graduatorie. Con il Ddl Semplificazioni sono state apportate modifiche riguardanti il limite di età e il titolo di studio per tutte e tre le categorie (non solo per i civili). L’unica differenza tra civili e Vfp resta la possibilità per i Vfp di vedere innalzato il limite di età in misura equivalente agli anni di servizio prestati per un massimo di tre anni. Tale possibilità non è di recente introduzione ma è in vigore nei concorsi Interforce dal 2005 e non è stata modificata dal decreto Madia. Quindi, scrivendo che i nostri colleghi civili sono stati i soli ingiustamente esclusi dagli scorrimenti/assunzioni a causa di un “Ddl beffa” e che invece, per i partecipanti militari, questi nuovi requisiti non valgono, si sta fornendo ai lettori un’informazione errata.

Francesco Lupo, Andrea Precenzano, Antonio Resistente, Serena Coletto, Paolo De Angelis

 

Prendo atto che per civili e militari esistano graduatorie distinte, cosa che ignoravo. Chiedo scusa per l’imprecisione. Tuttavia, mi sembra che il dato di fatto resti: con il servizio militare il limite di età per entrare in polizia può essere innalzato fino a 29 anni e, quindi, non vale la limitazione a 26 prevista recentemente per i civili.

P. Fros.

Australia. Gli incendi sono d’origine dolosa (come il surriscaldamento globale)

 

Buongiorno, leggevo distrattamente sui siti di informazione online che molti degli incendi in Australia sono di origine dolosa, oltretutto appiccati da minorenni. La tragedia è sempre una tragedia, è chiaro, ma mi par di capire che – in questo caso – non sia tutta colpa dei cambiamenti climatici, del surriscaldamento globale e altre catastrofi imminenti: l’uomo ci mette sempre il suo zampino e, spesso, fa molti più danni della natura.

Gianna Morosini

 

Gentile Gianna, spesso gli incendi forestali hanno una componente di dolosità dovuta a bravate, squilibrati o interessi economici locali. I cambiamenti climatici, anch’essi frutto dello zampino umano, hanno però un ruolo fondamentale in quanto predispongono le condizioni di infiammabilità della biomassa forestale. In sostanza, un bosco non prende fuoco quando e come vogliamo noi: se c’è sufficiente umidità della lettiera (l’insieme di foglie e rami morti), se ha piovuto a sufficienza nei mesi precedenti, se non fa troppo caldo, se non c’è vento, gli inneschi dei focolai si estinguono da sé oppure il fuoco si propaga lentamente e a fatica, permettendo un efficace spegnimento. Quando invece la siccità è anomala – in Australia stiamo parlando del 40 per cento in meno di precipitazioni nell’ultimo anno – e la temperatura è attorno ai 40 gradi con picchi di 50 – è stato l’anno più caldo da oltre un secolo –, tutta la biomassa si asciuga al punto da diventare estremamente vulnerabile al minimo innesco, incendiandosi come benzina con rapidissima propagazione. Esistono infatti molti indici di rischio d’incendio forestale che considerano proprio i dati meteorologici come elemento predittivo (come il Fire Weather Index o il sistema europeo Eudic). Il riscaldamento globale dunque non fa altro che allungare il periodo in cui le foreste sono vulnerabili al fuoco, da qualsiasi causa esso provenga, naturale, colposa o dolosa, ed estenderlo anche a zone che normalmente non sarebbero esposte perché troppo umide. Inoltre, nel caso dell’Australia, le imponenti colonne d’aria calda sopra gli incendi hanno generato nubi temporalesche dette pirocumuli, non sufficienti a portare benefica pioggia ma in grado di generare fulmini che hanno appiccato nuovi focolai anche a chilometri da quello iniziale: l’incendio produce così un suo tempo che lo favorisce. Solo l’abbassamento delle temperature e l’arrivo di piogge abbondanti sarebbero in grado di far rientrare l’emergenza, ma l’estate australe durerà ancora un buon paio di mesi e il cambiamento climatico la rende più calda e secca.

Luca Mercalli

Trump che chiede i soldi all’Iraq è come il killer che rivuole il proiettile

Chissà con che spirito leggono i giornali e seguono i notiziari i 7.000 (settemila) psichiatri americani che hanno lanciato l’allarme sui comportamenti pubblici di Trump, denunciandone un chiaro disagio mentale. Crisi psicologica acuta, fino al rischio di “atti distruttivi”, che è una brutta diagnosi, soprattutto per uno che se fa un atto distruttivo non è che fracassa i piatti in cucina, ma può far scoppiare un nuovo massacro mondiale. Va bene, mi affido al giudizio di un grande scrittore, Don Winslow sull’attuale presidente: “Dal punto di vista medico non sei in grado di giocare a bingo in una casa di riposo”. Direi che basta.

Eppure, nel profluvio di tweet fitti di punti esclamativi e di maiuscole (qui non serve lo psichiatra, i tweet sono oggettivamente da bimbominkia), dietro il continuo abbaiare, si scorge in filigrana qualcosa di grande, come una soave confessione, di quelle fatte nei momenti di rabbia, e quindi vere.

I soldi. Sì, i soldi che gli americani pompano nel loro progetto iracheno, sono stati, sono e saranno tantissimi, e qualche autorevole studio (come scriveva Giampiero Gramaglia ieri su questo giornale) stima che nel giro di mezzo secolo si arriverà alla cifretta tonda tonda di 6.000 (seimila) miliardi di dollari.

Le reazioni di Trump alle gentili richieste irachene di levarsi dalle palle una volta per tutte si spiegano: come imprenditore ritiene inconcepibile di aver investito finora quasi 2.000 miliardi e doversene andare. Come presidente sa che tutti quei soldi sono un bel pezzo di Pil americano, più ricerca e sviluppo, tecnologie, listini di Borsa che non possono sparire di scena, pena la crisi della più grande industria americana, la guerra.

Soldi, insomma. E così fa un certo effetto vedere le comunicazioni ufficiali via social media del presidente degli Stati Uniti d’America chiedere rimborsi, il vecchio caro “indietro i soldi” dell’investitore che ha rischiato troppo. Che la macchina militare americana sia una gigantesca industria che non si può fermare si sapeva da sempre, ma Trump lo dice senza tante storie, senza girarci intorno: abbiamo investito un sacco di soldi, abbiamo costruito una base costosa, vogliamo il rimborso. Non c’è niente da fare, è l’ésprit del palazzinaro che lo possiede. Sarebbe un delitto se proprio il presidente imprenditore facesse fallire un affare come l’Iraq. Del resto, nessuna economia al mondo potrebbe perdere un investimento di tale stellare entità. Che un presidente sotto impeachment, che perplime gli psichiatri, con le elezioni alle porte, che si gioca il tutto per tutto, possa fare qualcosa di irrimediabilmente cretino è purtroppo nell’ordine delle cose. Ma è grazie alle maiuscole da bulletto e ai punti esclamativi dei suoi sfoghi pubblici che forse si vede oggi con estrema chiarezza di cosa stiamo parlando: un affare da moltimila miliardi di dollari che nacque con Colin Powell (Segretario di Stato dell’Amministrazione Bush) che agitava all’Onu una fiala di polvere bianca, mentendo sapendo di mentire, e con quell’alto bel tomo di Tony Blair che confessava di aver trovato le prove contro Saddam su Internet (ossignùr, ndr).

Così nacque il grande affare, un investimento a lungo termine, perché si è ormai scoperto che le guerre non conviene vincerle, né perderle, ma farle durare a bassa o media intensità il più possibile, in modo che la grande macchina si perpetui. Una cosa che vale anche per la guerra alla droga al confine su degli Usa, i muri, eccetera eccetera. L’impero che parlava di guerre giuste e umanitarie e di esportazione della democrazia e di buoni e nobili sentimenti al napalm (come al solito), oggi tuona “indietro i soldi”. Ecco, diciamo che Trump fa un po’ di chiarezza, toglie alla faccenda un po’ di quella nebbiolina vergognosa che chiamò “umanitari” persino i bombardamenti.

Rula a Sanremo e il ditino alzato di Checco Zalone

Si capisce che sta per partire il carrozzone di Sanremo dal fatto che sono cominciate le polemiche e già non si contano le cazzate a tema festivaliero che giungono da tutte le parti. L’anno scorso, in mancanza di argomenti migliori, abbiamo parlato per giorni di Achille Lauro, trapper che ha scelto come nome d’arte quello dell’armatore monarchico, accusato di aver portato all’Ariston un inno all’ecstasy (su alcune pasticche c’è scritto Rolls Royce, che era il titolo della canzone). Poi ha vinto il milanese Mahmood, ma Achille Lauro in un quarto d’ora è diventato disco d’oro e tutti hanno cominciato a cantare il suo brano: Rolls Royce è passato in due settimane dall’essere una perversa ode alla droga che manco I’m waiting for the man dei Velvet Underground, alla colonna sonora del Mulino Bianco. Quest’anno le comiche sono iniziate con una polemica di cui “il festival non ha certo bisogno”, come hanno fatto trapelare i vertici Rai non senza un certo sprezzo del ridicolo (all’Ariston si mangiano pane e polemiche da svariati lustri). Ma veniamo a noi: la prima appassionantissima querelle sanremese degli anni Venti riguarda la partecipazione di Rula Jebreal, invitata prima da Amadeus per fare un monologo a proposito della violenza sulle donne e poi invitata a farsi da parte (qui è veramente arduo capire chi avrebbe dovuto infastidire un pezzo contro la violenza sulle donne: forse qualcuno che è a favore e, nel caso, vorremmo tanto che si facesse avanti). Prima che ieri la sua presenza fosse confermata facendo tirare un sospiro di sollievo all’articolo 21 della Costituzione, abbiamo potuto leggere una poderosa intervista rilasciata a Gad Lerner su Repubblica, in cui la giornalista esperta di Medio Oriente si diceva “sotto choc” per la censura (con tutto quello per cui si può essere sotto choc in questo periodo, proprio per Sanremo?).

La tesi è questa: “Qualcuno si è spaventato che venisse offerta una ribalta a italiani nuovi, a persone diverse come me che appartengono a un’Italia inclusiva, tollerante, aperta al mondo, impegnata in missioni di dialogo e di pace. In Rai c’è un brutto clima, e gli attacchi sono partiti da persone vicine a Matteo Salvini”. Salvini però – a forza di dai e dai forse ha capito qualcosa – ha detto subito di non essere per nulla interessato alle conduttrici di Sanremo. “Cosa vuol dire essere italiani? Avere tutti la pelle dello stesso colore e le stesse idee?”, si domanda Rula. Che si risponde parlando al plurale (maiestatis?) e di sé in terza persona (!): “L’Italia che noi sogniamo per i nostri figli è un paese collegato al resto del mondo. È un’Italia in cui c’è posto per Salvini ma anche per Liliana Segre e, se permettete, per Rula Jebreal”. Scopriamo poi la dinamica esatta: aveva disdetto impegni e stava lavorando sodo finché non è arrivata una telefonata in cui veniva pregata di farsi da parte spontaneamente (che bella idea). Tranquillizzando chi la pensava disoccupata, Rula Jebreal ha infine spiegato che stava per volare a New York perché invitata come opinionista nelle trasmissioni sulla crisi Usa-Iran dalla Msnbc (che ora si attacca, évidemment). Onestamente non si sa se ridere o piangere. Diciamo che la Rai riesce sempre a stupirci per la sudditanza alla politica (perfino quando la politica sembra distratta). Ma – come ha detto Checco Zalone a Vanity Fair – “Il problema è la povertà del dibattito. Il ditino moralizzante sempre alzato, ‘questo si può o questo non si può dire’. Il nascere pretestuoso di polemiche inutili e modestissime”. Questa miseria sta condannando i media all’irrilevanza con la complicità di tutti, degli aspiranti censori del servizio pubblico e dell’Italia dei buoni “impegnati nel dialogo, aperti al mondo” etc etc…