Il Festival firma contro B. e la Lega toglie il patrocinio

Per anni ha promosso dibattiti e iniziative in favore della Costituzione e col plauso delle amministrazioni pubbliche. Ma adesso l’associazione “Per la Costituzione”, che organizza il Festival Costituzione a San Daniele del Friuli (Udine), ha d’improvviso perso il patrocinio del Comune e rischia anche di dover fare a meno dei finanziamenti regionali a cui accede attraverso i bandi.

La colpa dell’associazione è di aver aderito alla petizione del Fatto contro l’ipotesi di Silvio Berlusconi al Quirinale, rilanciata sul proprio sito. Non appena se ne è accorto, il sindaco leghista Pietro Valent, vicino al presidente di Regione Massimiliano Fedriga, ha sbottato, definendo “inaccettabile” che l’associazione “affronti questo delicato tema attaccando così vilmente uno dei candidati” e revocando il patrocinio al Festival. Paolo Mocchi, presidente dell’associazione, ha però tenuto il punto: “La candidatura di Berlusconi è un’offesa alla dignità della Repubblica e a milioni di cittadini italiani”. Una posizione che vale la pena di mantenere anche a costo di inimicarsi la politica locale.

Colle, la Camera: “Votino pure i deputati positivi”

Il governo è stato impegnato a trovare una soluzione, ma ancora non è chiara quale sia e se ci sarà davvero. La Camera ha approvato – con solo l’astensione di Alternativa – due ordini del giorno presentati da Francesco Lollobrigida (FdI) e Paolo Barelli (FI) per consentire a tutti i 1009 grandi elettori di votare per il Colle anche se positivi o in quarantena. I deputati di Alternativa ieri si sono visti pure respingere dalla Corte Costituzionale il ricorso contro l’obbligo di super Green pass per spostarsi dalle isole col traghetto. Secondo indiscrezioni del ministero della Salute si starebbe lavorando” per far votare i positivi, ma ancora nulla è definito, nemmeno se si tratterebbe di un decreto, un dpcm o un protocollo di sicurezza. “Se una soluzione non arriva entro domani (oggi, ndr) sarebbe anche difficile dargli attuazione”, dice al Fatto una fonte ai vertici di Palazzo che cita l’ipotesi del trasferimento del singolo e positivo con mezzi propri o tramite noleggio di mezzi sanitari fino a Roma, dove verrebbe messo a disposizione un seggio volante.

La mazzetta col morto, i regali alla Fiat, la prova d’amore a San Bettino

Nel 1986-’87 l’Iri vende l’Alfa Romeo. Si fanno avanti la Fiat e, con un’offerta molto più vantaggiosa, l’americana Ford. Nel Psi prevale, giustamente, il partito Ford. Ma Amato rovescia gli equilibri e li porta sulla Fiat, che si aggiudica per un pezzo di pane l’unica azienda concorrente rimasta sul mercato interno. Ricorderà Craxi in un fax molto allusivo inviato nel 1995 ai Cobas dell’Alfa di Arese (parti civili nel processo di Torino a Cesare Romiti per falso in bilancio e finanziamento illecito al Psi): “Amato, come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, si occupò certamente della vicenda, mentre non se ne occupò, che io ricordi, l’intero partito. Di ritorni economici… a partiti o soggetti singoli non so nulla. Certamente non ne ebbe il partito…”. L’allora vicesegretario Psi Giulio Di Donato, davanti ai pm torinesi, dipingerà Amato come uno zerbino ai piedi di Romiti: “La sezione locale e aziendale di Pomiglianod’Arcoera orientata con maggior favore verso la cessione alla Ford. Anche il Pci locale aveva questa posizione, così come i sindacati. Poi venni chiamato dall’on. Amato, che mi disse che la soluzione Fiat era di gran lunga migliore, sotto il profilo politico, dell’opzione Ford”. E Fiat fu.
Debiti e presidenzialismo. Negli anni del governo Craxi (1983-’87) Amato è il più ascoltato consigliere economico- giuridico del premier. E i risultati non si fanno attendere. Nel 1983 il debito pubblico è, tradotto in euro, di 234,1 miliardi; nell’84 è già salito a 284,8, nell’85 a 346, nell’86 a 401,4 e nell’87 a 460,4. Raddoppiato in cinque anni. Siccome – diceva Totò – “il talento va premiato”, dal 1987 all’89 il Dottor Sottile viene promosso a ministro del Tesoro nei governi Goria (di cui è pure vicepremier) e De Mita, che portano il debito al nuovo record di 589,9 miliardi. Un disastro che costringe il governo De Mita a una sanguinosa stangata da 49 mila miliardi per colmare il buco che lo stesso Amato ha contribuito a scavare. Nel 1989 Andreotti torna al governo e Amato al Psi: vicesegretario vicario di Craxi e grande architetto della “Grande Riforma” costituzionale. È lui, al 45° congresso di Milano, quello dei “nani e ballerine” (copyright Rino Formica) e della piramide del geometra Filippo Panseca, a rilanciare il suo pallino di Repubblica presidenziale, con l’elezione diretta del capo dello Stato: un trono su misura per Bettino. Il potere smisurato di Amato nella pochette di Craxi attira invidie e maldicenze. Qualcuno insinua che lo sgusciante “Topolino” flirti con Eugenio Scalfari e il gruppo Espresso–Repubblica-De Benedetti, bestie nere del Capo, alla vigilia della “guerra di Segrate” con Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori.

Il 27 luglio 1989 Amato scrive un’imbarazzante lettera a Bettino per giurargli eterna fedeltà e piatire altri e più alti incarichi: “Caro Presidente, ti sono molto grato per la tua offerta rinnovata di collaborazione. Sarà al centro della riflessione su cosa dovrò fare da grande. Vorrei intanto pregarti di riflettere tu su una cosa, di cui mi giungono voci (imprecise, ma inevitabilmente tali quando ci sono dubbi e sospetti non affrontati apertamente e lasciati alla perfidia dei corridoi; è stato comunque De Michelis a parlarmene). Cancella l’idea che io sia legato al giro di Repubblica. È infondato. Solo con i loro giornalisti economici, come con quelli degli altri, ho avuto rapporti da ministro del Tesoro. Per il resto, ti ho sempre detto tutto… Ho incrociato Scalfari a qualche rara cena, quasi sempre e cioè due o tre volte a casa di Elisa Olivetti. Non c’è altro. E chiunque capisce che Scalfari, dopo avermi bistrattato quando ero al Tesoro, ha ora usato disinvoltamente la mia uscita per criticare te… Ti auguro solo di avere dagli altri la lealtà assoluta che hai sempre avuto da me e che continuerai ad avere, insieme a una sicura amicizia, qualunque cosa io abbia a fare da grande”.

Funeral Party. Nel 1990 salta fuori una mazzetta di 270 milioni di lire al Psi sull’appalto per la nuova Pretura di Viareggio, passata per le mani dei socialisti locali e approdata almeno in parte nelle casse romane del partito. I compagni viareggini scaricano la colpa su un compagno morto: il senatore ed ex sottosegretario Paolo Barsacchi, che non c’entra nulla ma non può smentirli. Purtroppo per loro è sopravvissuta la vedova, Anna Maria Gemignani, che non intende accettare lo scaricabarile dei compagni vivi. Insomma minaccia di andare dai magistrati per fare nomi e cognomi. Il 21 settembre riceve una chiamata di Amato e, intuendone l’oggetto, aziona il registratore: per 11 minuti e 49 secondi, il vicesegretario Psi la esorta all’aurea virtù del silenzio, con la sua inconfondibile vocetta melliflua. Amato: “Anna Maria, scusami, ma stavo curandomi la discopatia, ma vedo che questa situazione qui si è arroventata… La mia impressione è che qui rischiamo di andare incontro a una frittata generale per avventatezze, per linee difensive che lasciano aperti un sacco di problemi dal tuo punto di vista… Troverei giusto che tu direttamente o indirettamente entrassi in quel maledetto processo e dicessi che quello che dicono di tuo marito non è vero. Punto… Ma senza andare a fare un’operazione … ‘quello non è lui, ma è Caio, quello non è lui ma è Sempronio’. Hai capito che intendo dire? Tu dici che tuo marito in questa storia non c’entra. Questo è legittimo. Ma a Viareggio hanno creato questo clima vergognoso, è una reciproca caccia alle streghe, io troverei molto bello che tu da questa storia ti tirassi fuori”. Gemignani: “Giuliano, io voglio soltanto che chi sa la verità la dica”. A: “Ma vattelapesca chi la sa e qual è. Tu hai capito chi ha fatto qualcosa?”. G: “Io penso che tu l’abbia capito anche te”. A: “Ma per qualcuno forse dei locali sì, ma io non lo so… Ma questo non è un processo contro Paolo, ma contro altri…”. Quel “per qualcuno dei locali forse sì” fa pensare che qualcosa Amato sappia. Ma quando viene convocato dai giudici, che hanno ricevuto il nastro dalla vedova, giura di non sapere nulla. Alla fine comunque la manovra col morto fallisce, grazie anche alla tenacia di Annamaria, che ignora i consigli di Amato. Il 13 dicembre 1990 i veri colpevoli della tangente vengono condannati, e sono tutti vivi: Barsacchi viene scagionato e riabilitato. Quando il Fatto pubblicherà la telefonata e l’audio, Amato scriverà a Repubblica per minimizzare: “Non avevo affatto invitato la signora a non fare i nomi di coloro che le risultavano colpevoli”, ma solo “a non fare i nomi di persone su cui non aveva alcun indizio di colpevolezza, pur di salvaguardare la memoria di suo marito. Il tribunale ne prese atto e finì lì”. Mica tanto. Nella sentenza il Tribunale di Pisa parla anche di lui: la telefonata alla vedova mirava a scongiurare “una frittata, intendendo per tale un capitombolo complessivo del Psi”. E si domanda come mai “nessuno di questi eminenti uomini politici come Giuliano Vassalli (ministro socialista della Giustizia, ndr) e Amato stesso si siano sentiti in dovere di verificare tra i documenti della segreteria del partito per quali strade da Viareggio arrivarono a Roma finanziamenti ricollegabili alla tangente della Pretura”. Non vedo, non sento e comunque non parlo.

Fiat, Amato sicuro. Nel 1992, dopo aver regalato nel 1987 l’Alfa Romeo alla Fiat a prezzi di saldo, lo Stato prepara un altro dono al gruppo Agnelli-Romiti: 3 mila miliardi di fondi pubblici per il nuovo stabilimento di Melfi, in Basilicata. I retroscena li racconterà l’allora vicesegretario Giulio Di Donato al gup Francesco Saluzzo nel processo Romiti. Gup: “Le è mai capitato di parlare con Balzamo (lo scomparso tesoriere del Psi, ndr) dei canali di finanziamento del partito?”. Di Donato: “Mah, in maniera molto generica: Balzamo non rivelava le fonti del finanziamento, né di quello lecito né di quello non lecito. Credo che lui avesse un rapporto di questa natura con il vicesegretario vicario Amato”. G: “Lei cosa sa di contatti con Romiti?”. D: “Un mese e mezzo prima delle elezioni (dell’aprile ’92, ndr) ci fu una visita di Romiti al quinto piano di via del Corso… Penso che abbia parlato con Craxi e con Amato. Balzamo mi disse 48 ore più tardi che dopo quell’incontro i rapporti di sostegno finanziario dalla Fiat erano molto migliorati (il 12 marzo 1992, arrivò su un conto estero del Psi una mazzetta Fiat di 4 miliardi, ndr)”. G: “Romiti con chi aveva rapporti, nel Psi?”. D: “Più che direttamente col segretario, penso con Amato. Dico questo perché, sulla strategia degl’investimenti della Fiat nel Mezzogiorno, io espressi perplessità e ho trovato sempre un contraddittorio in Amato e in Acquaviva… L’ultima grande questione che ha impegnato a livello politico è stato l’investimento di Melfi… circa 3 mila miliardi. Nel ’92 la situazione si era bloccata… Ci voleva un rifinanziamento con nuova legge di Bilancio”. G: “Ci furono pressioni della Fiat sul governo?”. D: “Da Fiat presumibilmente ce ne sono state: doveva costruire lo stabilimento e doveva incassare i soldi… Ricordo che si è discusso di questo problema con Amato: io ero perplesso. Dicevo che gli investimenti nel Mezzogiorno avevano finanziato grandi complessi industriali che non avevano creato indotto, e si erano risolti nelle solite cattedrali nel deserto. Amato invece aveva una considerazione completamente diversa: ‘Sì, vabbè, ma si deve realizzare, si deve fare’…”. E i soldi arrivarono: quelli del contribuente, alla Fiat; quelli della Fiat al Psi.

(2-continua)

“Siamo messi male… e io resto alla finestra”

Presidente è pronto?

(Silenzio) Sono alla finestra.

Ha il telefono sempre

occupato.

(Ride) Non sono consultazioni.

Sette anni fa prese molti voti nel nostro quesito sul Colle.

(Tono austero) Ripeto: sono alla finestra e aspetto cosa può accadere.

(Nel 2015 Giancarlo Magalli conquistò migliaia di preferenze sul fattoquotidiano.it

, tanto da vincere la classifica del presidente della Repubblica più desiderato dai lettori. Quelle migliaia di voti non si fermarono al web, ma trovarono una preferenza nel segreto dell’urna. “Quella storia mi ha divertito molto”).

Fu un grande exploit.

È che i cittadini non ne potevano più di sentire certi nomi, sempre gli stessi. E alcuni di quei nomi ci sono pure dopo sette anni.

Tipo?

Prodi e Amato.

Ora c’è pure Berlusconi.

È un bell’indicatore di quanto siamo alla disperazione.

Mario Draghi…

In teoria mette tutti d’accordo.

In teoria.

Con lui al Colle si tornerebbe alle elezioni.

Suo compagno di scuola.

(Ci pensa) Siamo in una situazione assurda: è come se avessimo un solo antifurto per proteggere o la casa o il negozio.

Un po’ limitante.

È brutto, ma in questo momento c’è la sensazione che in Italia ci sia un solo uomo.

Un Mattarella-bis?

Ha rifiutato in tutti i modi.

A suo tempo si diceva lo stesso di Napolitano.

Sì, però Mattarella non è un ragazzino, non può reggere sette anni; stiamo peggio del 2015.

Draghi lo sente?

Ogni tanto ci scambiamo dei messaggi: mi farebbe piacere rivederlo, ai tempi di scuola avevamo un bel rapporto.

Già da studente aveva un certo successo…

Non era un secchione, non stava con la mano sul foglio per impedire di copiare; (pausa) vinceva tutte le gare di sport.

Altri “quirinabili”: Casini…

(Silenzio) Mi dica gli altri…

Pera…

(Silenzio)

Veltroni…

(Silenzio)

Franceschini…

(Il silenzio non si interrompe).

Ancora nomi?

Casini è per tutte le stagioni, ma lo reputo perbene; mentre conosco Veltroni sin da bambino.

Con lei non ne scappa uno.

La mamma di Walter lavorava con me in Rai: a volte restavamo in ufficio fino a tardi, così le chiedevo di mangiare una pizza: “Non posso, c’è mio figlio”. “Portiamo anche lui”. E scendeva un Walterino di appena nove anni, già con gli occhiali.

Una donna al Colle?

Ce n’è una di valore? Le quote rosa le trovo offensive: se c’è un nome importante, condivisibile, sono d’accordo, ma non a priori.

Una certezza sul Colle…

Che nel caso non sarei contento di Berlusconi presidente. Eppure nel 1994 l’ho votato.

Cos’è cambiato?

Nel 1994 ho barrato sul simbolo basandomi sul suo passato da imprenditore e oggi dico di “no” con lo stesso parametro: giudico i successivi 28 anni.

Prodi, Bersani o Bindi: i lettori scelgono l’anti-B.

In due giorni abbiamo raccolto circa 30 mila indicazioni di voto nel nostro “toto-Quirinale”. Il sondaggio tra i lettori ha messo in lizza due liste di nomi, quelli che circolano nel “palazzo” e gli outsider. In 21.382 hanno indicato preferenze sulla prima lista, il 75,7 per cento del totale, mentre sulla seconda si sono espressi in 27.130 pari al 96 per cento del totale. Segno tangibile della preferenza per nomi esterni al solito circolo istituzionale. Tra i quali comunque spicca Romano Prodi, già candidato del centrosinistra nel 2013 e travolto dai 101 franchi tiratori del suo stesso schieramento, seguito da Sergio Mattarella e poi, molto vicini tra loro, Anna Finocchiaro, Paola Severino e Mario Draghi.

Tra gli outsider spicca invece Pier Luigi Bersani seguito da Rosy Bindi, Gustavo Zagrebelsky, Piercamillo Davigo e Liliana Segre.

Il nostro “toto-Quirinale” ovviamente non ha nessuna presunzione scientifica, ma esprime solo un orientamento dei nostri lettori, come dimostrano anche i nomi degli outsider che spaziano da esponenti storici del mondo democratico e ulivista ai protagonisti delle principali campagne da noi sostenuti sui temi della Costituzione e della giustizia.

Romano Prodi guida l’elenco dei nomi istituzionali con il 25,17 per cento e dietro di lui, distanziato, c’è il presidente uscente, Sergio Mattarella, con il 14,21 per cento delle preferenze. Il nome di Anna Finocchiaro è circolato più volte, nella quota delle donne, e incontra il favore del 10,76 per cento dei partecipanti al sondaggio seguita, un po’ sorprendentemente, da Paola Severino con il 9,52 per cento mentre Draghi è quinto con il 9,04 per cento. Altro nome che ha una significativa quota di consensi, sia pure minima, è quello di Elisabetta Belloni, già segretario generale della Farnesina e promossa da Draghi alla guida dell’Intelligence. Marta Cartabia è al 5,70 per cento seguita da Luciano Violante al 5,55, poi Silvio Berlusconi che ottiene il 4,92 per cento mentre Letizia Moratti, Marcello Pera, Franco Frattini, Elisabetta Casellati e Pier Ferdinando Casini oscillano tra l’1 e il 2 per cento.

Pier Luigi Bersani, con il 21,53 per cento dei voti, guida la lista degli outsider, così definiti perché nessuno ne ha mai avanzato la candidatura nelle segreterie di partito.

L’ex segretario del Pd, del resto, alla stima trasversale del mondo politico unisce un risentimento interno al Pd di cui quei 101 franchi tiratori contro Prodi nel 2013 furono una dimostrazione. Lo segue con il il 15,09 per cento un’altra democratica-prodiana, ulivista ante litteram, Rosy Bindi, il cui nome è circolato ma senza convinzione. Terzo, con il 14,86 per cento, Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, sempre in prima fila nelle battaglie a difesa della Costituzione, ultimamente nel 2016 contro il referendum voluto da Matteo Renzi.

Dietro di lui, il magistrato Piercamillo Davigo con l’8,64 per cento, presenza nota sulle colonne del Fatto che sopravanza di poco la senatrice Liliana Segre, 6,81 per cento, già proposta da una petizione del Fatto prima che lei, cortesemente, declinasse (comprensibilmente) la candidatura. Un altro magistrato, Nicola Gratteri, segue con il 6,56 per cento poco sopra la combattiva costituzionalista Lorenza Carlassare al 5,34 per cento. Poi troviamo Corrado Augias con il 5,26 per cento, e un altro magistrato, Nino Di Matteo , con il 4,26 per cento seguito da un ex collega, Gian Carlo Caselli, che ottiene il 3,99 per cento. Paolo Maddalena, candidato dagli ex 5 Stelle di Alternativa c’è è al 3,31 e poi in fondo si trovano Fabiola Giannotti, il Nobel Giorgio Parisi e la giornalista Sandra Bonsanti.

I risultati del sondaggio sono presentati all’interno del nostro talk politico Quirinal Tango che è già andato in onda martedì 18 gennaio e tornerà oggi con Antonio Padellaro e Marco Travaglio, e poi da lunedì 24 gennaio tutti i giorni, alle 17, fino all’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

B. resiste a Salvini e fa rimandare il vertice di destra

Lui, il candidato in pectore, se potesse non li vedrebbe e sentirebbe più fino a lunedì, giorno della prima chiama, per decidere da solo il da farsi: andare alla conta in Aula (quasi impossibile) o ritirarsi e intestarsi un altro nome. Loro, i due “giovanotti” che smaniano per fare i kingmaker, se potessero, invece andrebbero a citofonargli a villa San Martino pur di dirgli: “Silvio non hai i numeri. Adesso tocca a noi”. Ma c’è ancora da salvaguardare una coalizione e quindi, per il momento, quella nel centrodestra è una guerra di nervi. Ieri Silvio Berlusconi ha deciso che oggi non arriverà a Roma e che quindi il vertice del centrodestra, decisivo per la sua candidatura e per la partita del Quirinale, è stato rimandato. Entro il fine settimana, ma ieri sera dal partito azzurro facevano sapere che potrebbe addirittura non tenersi. La motivazione ufficiosa è che non avrebbe senso, per Berlusconi, sciogliere la riserva a una settimana dal quarto scrutinio. Quella più realistica è che l’ex Cavaliere nelle ultime ore abbia preso contezza di non avere i voti per essere eletto. L’operazione “scoiattolo”, come anche ieri ha ribadito il telefonista Vittorio Sgarbi, d’altronde si è fermata e la war room dei capigruppo per andare alla caccia dei voti non si è mai insediata. Dunque, adesso Berlusconi sta seriamente pensando di fare un passo indietro. E qui sta il busillis.

La mancata convocazione del vertice serve al leader azzurro per prendere tempo. I suoi fedelissimi continuano a far sapere che anche ieri Berlusconi, anche se da Arcore, è stato tutto il giorno al telefono a chiamare parlamentari (“perché non ci devo provare?” dice), ma i suoi consiglieri stanno provando a convincerlo che è il momento di fermarsi: Gianni Letta gli sta proponendo di intestarsi l’elezione di Draghi, Marcello Dell’Utri vorrebbe il Mattarella bis per congelare tutto. Lui al momento non ha ancora deciso anche perché chi ci ha parlato spiega che si vede ancora come l’unico nome per il Colle: Mattarella non è disponibile, è infuriato con Draghi perché “in questi mesi non mi ha mai chiamato” e non vuole sentir parlare di altri nomi di centrodestra. Berlusconi potrebbe diventare il Jep Gambardella di Arcore: non solo partecipa alla festa, ma ha il potere di farla fallire. Soprattutto perché il leader di Forza Italia sta facendo balenare l’ipotesi di non decidere prima di domenica, o addirittura di mercoledì alla vigilia del quarto scrutinio.

Da qui il nervosismo di Salvini e Meloni che lo pressano per vedersi e prendere in mano la situazione. Il leghista ieri ha riunito vicesegretari e capigruppo e ha fatto sapere che “il vertice si farà entro la settimana” e che “aspettiamo la scelta di Berlusconi”. Anche Fabio Rampelli (FdI) pressa l’ex Cavaliere: “Non può candidarsi senza verificare i numeri con gli alleati”. Giorgia Meloni invece ha presieduto l’esecutivo di FdI comunicando che “se venisse meno la disponibilità di Berlusconi” sarebbe pronta a fare un nome alternativo su cui trovare “una convergenza più ampia”. O Mario Draghi (che a Meloni piacerebbe molto) o un esponente dell’area “culturale di centrodestra, anche non proveniente dalla politica”. Ipotesi a cui sta lavorando da giorni anche Salvini che adesso dovrà provare ad anticipare Berlusconi con una mossa per evitare che si arrivi a domenica, vigilia della prima votazione, senza una linea precisa.

Il “piano a” del leghista è quello di indicare un nome di centrodestra “di alto profilo” su cui trovare la convergenza di Matteo Renzi (con cui c’è già un accordo) e soprattutto di Giuseppe Conte, che con Salvini condivide l’idea di voler lasciare Draghi a Palazzo Chigi. Per questo i nomi più probabili, in queste ore, sono quelli di Maria Elisabetta Alberti Casellati (in pole), Pier Ferdinando Casini, Letizia Moratti e Marcello Pera. Nella Lega sostengono anche che il segretario abbia una carta coperta da giocare lunedì. Se non ci fossero le condizioni, a quel punto il leghista potrebbe virare su Draghi che viene spinto dal fronte del Nord: oltre a Giancarlo Giorgetti anche Massimiliano Fedriga sponsorizza l’ascesa del premier al Colle. Negli ultimi giorni Salvini è stato più cauto sul veto nei confronti del premier ma, in cambio del suo sostegno, chiederebbe il ministero dell’Interno (per se o per il suo fedelissimo Nicola Molteni) e l’ingresso del suo vice Lorenzo Fontana.

“Fidarsi di Matteo”: il 5S costretto a bere i mojito

Li avevamo lasciati nell’Aula del Senato, un martedì di agosto, tre anni fa. Uno, premier, in piedi ai banchi del governo; l’altro, suo ministro dell’Interno, seduto alla sua destra. Irrimediabilmente divisi dagli “interessi personali e di partito” che il segretario della Lega aveva miscelato nei mojito del Papeete.

Rieccoli, Giuseppe Conte e Matteo Salvini. Non c’è un’immagine altrettanto efficace a immortalare il loro ritorno, ma il campo da gioco del Quirinale è sufficientemente illuminato di gialloverde per vedere che il capo politico dei 5 Stelle ha dovuto cedere al paradosso: fidarsi un’altra volta del fu Capitano. Tutto pur di non dare “pieni poteri” a quel Mario Draghi che ci crede tantissimo.

Al quarto giro di boa di questa spericolata legislatura, il Movimento che aveva giurato “mai più con Salvini” ha trovato nel Carroccio l’unico alleato che può salvarlo dalla condanna di portare Draghi al Colle. Non il Pd, con cui pure va preservato il fragile equilibrio, che all’ex numero 1 della Bce ha già spianato la strada. Non Forza Italia e il suo ingombrantissimo leader che non si decide a cedere il passo. È rimasta la Lega, che ai 5 Stelle ha promesso di trovare un nome altro, alto, a cui consegnare le chiavi del Colle, liberandoli dall’angoscia del voto anticipato.

Giuliano Amato, Franco Frattini, Pier Ferdinando Casini, Letizia Moratti, perfino Giulio Tremonti, nel cui vecchio ufficio, lunedì, Salvini ha incontrato l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Conte, Riccardo Fraccaro. La lista degli ingredienti potrebbe proseguire a lungo. Ma il punto è che sono tutti ad alta digeribilità. Ovvero che il Movimento, terrorizzato dal sì a Draghi che aprirebbe la complicatissima trattativa per il quarto governo in quattro anni, è pronto a virare su personalità gradite al centrodestra e solo Matteo Salvini può aiutarli a portare l’ambasciata.

Conte lo ha messo nero su bianco già una settimana fa, quando ha elencato le “tre ragioni” per le quali ha aperto un “canale diretto” con la Lega e che si possono riassumere così: no a Berlusconi, no a Draghi, cerchiamo insieme un terzo nome. “Il trasloco del premier al Colle non lo reggiamo”, ripetono i 5 Stelle. Che – se sottoposti al sempre verde gioco della torre: “Casini o elezioni?”, “Frattini o elezioni?, “Amato o elezioni?” – mandano giù calici che un tempo erano veleno.

Il concetto è ben chiaro a Conte e pure a Luigi Di Maio. Ma per l’ex premier c’è un motivo in più per tornare a parlare a quella Lega con cui l’ex capo politico va regolarmente a mangiare la pizza: lo scalpo di Draghi va portato all’assemblea dei gruppi parlamentari, la stessa a cui, pochi giorni fa, Conte ha promesso di fermare la corsa del Migliore e di far proseguire quella della legislatura. “Se venisse qui a dirci di votare Draghi, dovrebbe dimettersi – gli mandano pizzini – se chiude un accordo con Salvini e ci porta un altro nome, ha vinto”. Tornare a fidarsi del leghista, quindi. La domanda resta: quanti mojito si farà, da qui a lunedì, Matteo?

Giallorosa, Letta allo scoperto: vuole Draghi. Ma Conte dice no

Adividere i giallorosa sul Quirinale, cioè a tenere per ora distanti Giuseppe Conte ed Enrico Letta, è Mario Draghi. L’attuale premier, che per salire al Colle dovrebbe superare due ostacoli mica piccoli. Innanzitutto, gli umori altalenanti di Silvio Berlusconi, che medita di ritirarsi dalla corsa a favore dell’ex Bce, ma che potrebbe anche optare per un Mattarella bis. E poi la stasi sull’eventuale governo del dopo, per cui è tutto ancora fermo. “E come lo fai in pochi giorni un nuovo esecutivo con una maggioranza così”? riflette un grillino. Un altro nodo in un oceano di problemi per Conte, che ieri mattina riceve nella sua casa romana Letta e Roberto Speranza (LeU). E che lo dice senza sfumature: “Non riesco a tenere i miei gruppi parlamentari, si spaccherebbero”. È una verità evidente. “Su Draghi salteremmo per aria, il grosso dei nostri vuole votare a prescindere per Mattarella” ribadisce un maggiorente del M5S. Ma Letta sostiene che ormai tutto porti lì, all’elezione del premier. Anche perché se Berlusconi si facesse da parte, è la convinzione diffusa tra i giallorosa, difficilmente lascerebbe spazio a un altro nome del centrodestra.

Ma Conte in riunione insiste sul no. “Giuseppe, ma tu altri nomi ne hai?” gli chiede ancora Letta. E la risposta non può che essere un no. Una carta vera l’ex premier non l’ha mai avuta. Butta lì, raccontano, il nome di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ma più che altro come possibile candidato di bandiera dei giallorosa nelle prime tre chiame. Soprattutto, rilancia: “Va cercato un nome di alto profilo con il centrodestra”. Ma “non Giuliano Amato o Franco Frattini” precisa l’avvocato. Profili che pure affiorano, nella discussione. Come nei colloqui che i tre hanno di continuo. Tanto che un big del Pd ore dopo osserverà: “Conte non dice solo no a Draghi, ma a ogni compromesso”.

In questo clima, i tweet identici dei tre leader appaiono più che altro il segno della spaccatura. Tanto è vero che “fonti M5S” prima escludono Draghi, poi si correggono. E lo stesso Conte – che nel pomeriggio vede anche Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) – al Tg3 precisa: “Nessun veto a Draghi, ma va garantita la continuità dell’azione di governo”. Parole che al Nazareno notano. Perché per Letta è importante non aver avuto un veto sul premier. Anche se poi, nell’incontro con le capigruppo, Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, emerge chiara la consapevolezza che il capo dei 5Stelle non controlla i gruppi. La certezza è che secondo l’avvocato bisogna tenere aperto il filo con Matteo Salvini: ammesso che anche lui non stia dissimulando, per coprire la virata su Draghi. Nome che per Luigi Di Maio non era la prima soluzione, ma che non vuole escludere, anzi. Certo, “Luigi teme che venga giù tutto, quindi spera ancora in un piano b” giura un dimaiano.

Di questo parla per oltre un’ora alla Farnesina proprio con Conte, che partecipa all’intitolazione di una sala del ministero a David Sassoli. Ma la visita a Di Maio ha un valore fortemente simbolico. Il capo riconosce che vuole e deve parlare con l’altro vertice del M5S. Un confronto in cui Di Maio esorta Conte a proporre agli altri partiti “un patto di legislatura”, anche per tenere calmi i parlamentari. Tutti e due sanno e si dicono che su Draghi non ci sono i numeri nel M5S. Ma il ministro fa capire che non bisogna precludersi alcuna strada. Nel frattempo, le trattative sul governo sono a un punto morto. La quadra non si vede. Gli occhi di tutti, a partire dai dem, sono puntati sulle mosse di Salvini (“ce lo ha un nome di centrodestra, che possiamo votare anche noi?”, si chiedono). E su Matteo Renzi.

Torna a circolare un’idea, Pier Ferdinando Casini. Il primo nome del leader di Iv, proposto a Salvini, che il Pd voterebbe. E che non dispiacerebbe, raccontano, neanche a Conte (che in serata riunisce la cabina di regia del M5S). Se Casini venisse eletto da tutti, Draghi dovrebbe rimanere dov’è.

Amato e le prove d’amore

Nel 1986-’87 l’Iri vende l’Alfa Romeo. Si fanno avanti la Fiat e, con un’offerta molto più vantaggiosa, l’americana Ford. Nel Psi prevale, giustamente, il partito Ford. Ma Amato rovescia gli equilibri e li porta sulla Fiat, che si aggiudica per un pezzo di pane l’unica azienda concorrente rimasta sul mercato interno. Ricorderà Craxi in un fax molto allusivo inviato nel 1995 ai Cobas dell’Alfa di Arese (parti civili nel processo di Torino a Cesare Romiti per falso in bilancio e finanziamento illecito al Psi): “Amato, come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, si occupò certamente della vicenda, mentre non se ne occupò, che io ricordi, l’intero partito. Di ritorni economici… a partiti o soggetti singoli non so nulla. Certamente non ne ebbe il partito…”. L’allora vicesegretario Psi Giulio Di Donato, davanti ai pm torinesi, dipingerà Amato come uno zerbino ai piedi di Romiti: “La sezione locale e aziendale di Pomiglianod’Arcoera orientata con maggior favore verso la cessione alla Ford. Anche il Pci locale aveva questa posizione, così come i sindacati. Poi venni chiamato dall’on. Amato, che mi disse che la soluzione Fiat era di gran lunga migliore, sotto il profilo politico, dell’opzione Ford”. E Fiat fu.
Debiti e presidenzialismo. Negli anni del governo Craxi (1983-’87) Amato è il più ascoltato consigliere economico- giuridico del premier. E i risultati non si fanno attendere. Nel 1983 il debito pubblico è, tradotto in euro, di 234,1 miliardi; nell’84 è già salito a 284,8, nell’85 a 346, nell’86 a 401,4 e nell’87 a 460,4. Raddoppiato in cinque anni. Siccome – diceva Totò – “il talento va premiato”, dal 1987 all’89 il Dottor Sottile viene promosso a ministro del Tesoro nei governi Goria (di cui è pure vicepremier) e De Mita, che portano il debito al nuovo record di 589,9 miliardi. Un disastro che costringe il governo De Mita a una sanguinosa stangata da 49 mila miliardi per colmare il buco che lo stesso Amato ha contribuito a scavare. Nel 1989 Andreotti torna al governo e Amato al Psi: vicesegretario vicario di Craxi e grande architetto della “Grande Riforma” costituzionale. È lui, al 45° congresso di Milano, quello dei “nani e ballerine” (copyright Rino Formica) e della piramide del geometra Filippo Panseca, a rilanciare il suo pallino di Repubblica presidenziale, con l’elezione diretta del capo dello Stato: un trono su misura per Bettino. Il potere smisurato di Amato nella pochette di Craxi attira invidie e maldicenze. Qualcuno insinua che lo sgusciante “Topolino” flirti con Eugenio Scalfari e il gruppo Espresso–Repubblica-De Benedetti, bestie nere del Capo, alla vigilia della “guerra di Segrate” con Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori.

Il 27 luglio 1989 Amato scrive un’imbarazzante lettera a Bettino per giurargli eterna fedeltà e piatire altri e più alti incarichi: “Caro Presidente, ti sono molto grato per la tua offerta rinnovata di collaborazione. Sarà al centro della riflessione su cosa dovrò fare da grande. Vorrei intanto pregarti di riflettere tu su una cosa, di cui mi giungono voci (imprecise, ma inevitabilmente tali quando ci sono dubbi e sospetti non affrontati apertamente e lasciati alla perfidia dei corridoi; è stato comunque De Michelis a parlarmene). Cancella l’idea che io sia legato al giro di Repubblica. È infondato. Solo con i loro giornalisti economici, come con quelli degli altri, ho avuto rapporti da ministro del Tesoro. Per il resto, ti ho sempre detto tutto… Ho incrociato Scalfari a qualche rara cena, quasi sempre e cioè due o tre volte a casa di Elisa Olivetti. Non c’è altro. E chiunque capisce che Scalfari, dopo avermi bistrattato quando ero al Tesoro, ha ora usato disinvoltamente la mia uscita per criticare te… Ti auguro solo di avere dagli altri la lealtà assoluta che hai sempre avuto da me e che continuerai ad avere, insieme a una sicura amicizia, qualunque cosa io abbia a fare da grande”.

Funeral Party. Nel 1990 salta fuori una mazzetta di 270 milioni di lire al Psi sull’appalto per la nuova Pretura di Viareggio, passata per le mani dei socialisti locali e approdata almeno in parte nelle casse romane del partito. I compagni viareggini scaricano la colpa su un compagno morto: il senatore ed ex sottosegretario Paolo Barsacchi, che non c’entra nulla ma non può smentirli. Purtroppo per loro è sopravvissuta la vedova, Anna Maria Gemignani, che non intende accettare lo scaricabarile dei compagni vivi. Insomma minaccia di andare dai magistrati per fare nomi e cognomi. Il 21 settembre riceve una chiamata di Amato e, intuendone l’oggetto, aziona il registratore: per 11 minuti e 49 secondi, il vicesegretario Psi la esorta all’aurea virtù del silenzio, con la sua inconfondibile vocetta melliflua. Amato: “Anna Maria, scusami, ma stavo curandomi la discopatia, ma vedo che questa situazione qui si è arroventata… La mia impressione è che qui rischiamo di andare incontro a una frittata generale per avventatezze, per linee difensive che lasciano aperti un sacco di problemi dal tuo punto di vista… Troverei giusto che tu direttamente o indirettamente entrassi in quel maledetto processo e dicessi che quello che dicono di tuo marito non è vero. Punto… Ma senza andare a fare un’operazione … ‘quello non è lui, ma è Caio, quello non è lui ma è Sempronio’. Hai capito che intendo dire? Tu dici che tuo marito in questa storia non c’entra. Questo è legittimo. Ma a Viareggio hanno creato questo clima vergognoso, è una reciproca caccia alle streghe, io troverei molto bello che tu da questa storia ti tirassi fuori”. Gemignani: “Giuliano, io voglio soltanto che chi sa la verità la dica”. A: “Ma vattelapesca chi la sa e qual è. Tu hai capito chi ha fatto qualcosa?”. G: “Io penso che tu l’abbia capito anche te”. A: “Ma per qualcuno forse dei locali sì, ma io non lo so… Ma questo non è un processo contro Paolo, ma contro altri…”. Quel “per qualcuno dei locali forse sì” fa pensare che qualcosa Amato sappia. Ma quando viene convocato dai giudici, che hanno ricevuto il nastro dalla vedova, giura di non sapere nulla. Alla fine comunque la manovra col morto fallisce, grazie anche alla tenacia di Annamaria, che ignora i consigli di Amato. Il 13 dicembre 1990 i veri colpevoli della tangente vengono condannati, e sono tutti vivi: Barsacchi viene scagionato e riabilitato. Quando il Fatto pubblicherà la telefonata e l’audio, Amato scriverà a Repubblica per minimizzare: “Non avevo affatto invitato la signora a non fare i nomi di coloro che le risultavano colpevoli”, ma solo “a non fare i nomi di persone su cui non aveva alcun indizio di colpevolezza, pur di salvaguardare la memoria di suo marito. Il tribunale ne prese atto e finì lì”. Mica tanto. Nella sentenza il Tribunale di Pisa parla anche di lui: la telefonata alla vedova mirava a scongiurare “una frittata, intendendo per tale un capitombolo complessivo del Psi”. E si domanda come mai “nessuno di questi eminenti uomini politici come Giuliano Vassalli (ministro socialista della Giustizia, ndr) e Amato stesso si siano sentiti in dovere di verificare tra i documenti della segreteria del partito per quali strade da Viareggio arrivarono a Roma finanziamenti ricollegabili alla tangente della Pretura”. Non vedo, non sento e comunque non parlo.

Fiat, Amato sicuro. Nel 1992, dopo aver regalato nel 1987 l’Alfa Romeo alla Fiat a prezzi di saldo, lo Stato prepara un altro dono al gruppo Agnelli-Romiti: 3 mila miliardi di fondi pubblici per il nuovo stabilimento di Melfi, in Basilicata. I retroscena li racconterà l’allora vicesegretario Giulio Di Donato al gup Francesco Saluzzo nel processo Romiti. Gup: “Le è mai capitato di parlare con Balzamo (lo scomparso tesoriere del Psi, ndr) dei canali di finanziamento del partito?”. Di Donato: “Mah, in maniera molto generica: Balzamo non rivelava le fonti del finanziamento, né di quello lecito né di quello non lecito. Credo che lui avesse un rapporto di questa natura con il vicesegretario vicario Amato”. G: “Lei cosa sa di contatti con Romiti?”. D: “Un mese e mezzo prima delle elezioni (dell’aprile ’92, ndr) ci fu una visita di Romiti al quinto piano di via del Corso… Penso che abbia parlato con Craxi e con Amato. Balzamo mi disse 48 ore più tardi che dopo quell’incontro i rapporti di sostegno finanziario dalla Fiat erano molto migliorati (il 12 marzo 1992, arrivò su un conto estero del Psi una mazzetta Fiat di 4 miliardi, ndr)”. G: “Romiti con chi aveva rapporti, nel Psi?”. D: “Più che direttamente col segretario, penso con Amato. Dico questo perché, sulla strategia degl’investimenti della Fiat nel Mezzogiorno, io espressi perplessità e ho trovato sempre un contraddittorio in Amato e in Acquaviva… L’ultima grande questione che ha impegnato a livello politico è stato l’investimento di Melfi… circa 3 mila miliardi. Nel ’92 la situazione si era bloccata… Ci voleva un rifinanziamento con nuova legge di Bilancio”. G: “Ci furono pressioni della Fiat sul governo?”. D: “Da Fiat presumibilmente ce ne sono state: doveva costruire lo stabilimento e doveva incassare i soldi… Ricordo che si è discusso di questo problema con Amato: io ero perplesso. Dicevo che gli investimenti nel Mezzogiorno avevano finanziato grandi complessi industriali che non avevano creato indotto, e si erano risolti nelle solite cattedrali nel deserto. Amato invece aveva una considerazione completamente diversa: ‘Sì, vabbè, ma si deve realizzare, si deve fare’…”. E i soldi arrivarono: quelli del contribuente, alla Fiat; quelli della Fiat al Psi.

(2-continua)

Cannito: “Porto in Italia il western storico di ‘7 spose per 7 fratelli’”

“Un western-musical à la Quentin Tarantino, cinico ma ironico, pensato soprattutto per le famiglie”. Luciano Cannito, regista e coreografo, usa queste parole per descrivere 7 Spose per 7 Fratelli, il suo ultimo lavoro in scena a partire da oggi fino al 6 febbraio al teatro Brancaccio di Roma. Tratto dall’omonimo film di Stanley Donen del 1954, si tratta di uno spettacolo ambizioso per produzioni, nomi in ballo e, se vogliamo, anche per le sfumature nei toni rispetto alla versione originale. Oltre a Cannito, i cui lavori sono andati in scena da Los Angeles a Hong Kong, fra i protagonisti troviamo l’inedita coppia formata dagli attori e comici Diana Del Bufalo e Baz (al secolo Marco Bazzoni); l’orchestra dal vivo è invece affidata alla direzione del maestro Beppe Vessicchio, un nome che non ha bisogno di presentazioni, mentre la scenografia e i costumi sono curati da Italo Grassi e Silvia Aymonino, due artisti di esperienza internazionale. “Rispetto alle precedenti versioni teatrali arrivate in Italia e a molte che ci sono oggigiorno – spiega Cannito – abbiamo voluto ridurre al minimo l’uso della tecnologia, ricostruendo tutto in maniera reale come se fosse un set cinematografico”.

A cambiare, a differenza delle altre trasposizioni e allo stesso film, sono però anche i toni. La trama è ambientata sempre nell’Oregon di metà Ottocento, con Adamo (Baz), il più grande dei sette fratelli Pontipee, che un giorno decide che è arrivata l’ora di sposarsi, scendendo dunque in città per trovare una donna che si occupi della casa e della cucina. Qui incontra Milly (Diana Del Bufalo), e fra i due scoppia il colpo di fulmine. “Ma invece del tipico approccio machista – prosegue Cannito – abbiamo deciso rendere tutto più moderno, ribaltando i luoghi comuni che vedono sempre nell’uomo nei panni del decisore, mettendo la donna al centro della narrazione. E lo abbiamo fatto in una chiave inedita: meno laccata, rispetto alla pellicola originale, e con una certa ruvidezza che rende il musical comico per ogni fascia d’età”. In questa trasposizione teatrale, che vede 22 artisti ad accompagnare sul palco i protagonisti fra canti e balli, saranno inoltre presenti due canzoni inedite per il pubblico italiano. “È un lavoro a cui tengo molto, non solo per gli alti valori produttivi in ballo: al di là del Covid e delle difficoltà economiche, molte persone stanno vivendo gravi difficoltà psicologiche, e il teatro può dare un momento di gioia e spensieratezza” conclude Cannito, facendo riferimento al produttore del musical, Fabrizio Di Fiore. “In un periodo in cui tutti regna la razionalità, è importante che ci sia anche qualcuno che investa nell’arte che è, oggi più che mai, la componente più importante delle nostre vite”.