“L’Eliseo, fallito e svenduto: il direttore ha violato la Carta”

Per quanto ancora dovremo sopportare le affermazioni gratuite dell’ex direttore dell’ex Teatro Eliseo riportate con dovizia da molti quotidiani senza uno straccio di commento o replica? Per quanto dovremo assistere alla demolizione di un importante teatro italiano sopportando in silenzio questa privazione di cui fanno le spese la collettività, il pubblico e la Cultura? Prima di chiudere i battenti per sempre il Teatro Eliseo è stato portato rapidamente allo sfascio, progressivamente privato degli storici abbonati, di un progetto culturale e di ogni criterio di sana gestione. E a questa incompetente e folle gestione sono stati riconosciuti dallo Stato 8 milioni di euro (con la motivazione ufficiale che l’Eliseo compiva 100 anni; in realtà anni prima Maurizio Giammusso scriveva un bel volume per il centenario dell’Eliseo…) con cui l’ex direttore afferma di “aver ripristinato la facciata storica e gli impianti di climatizzazione”! Ma cos’è l’Eliseo, la Reggia di Caserta? E “i progetti speciali”… ma quali? Dove sono?

Ma veniamo alle note dolenti: per l’ottenimento del finanziamento di 8 milioni, l’ex direttore Barbareschi è stato rinviato a giudizio (dal pm Antonio Clemente) insieme al suocero, l’ex ragioniere dello Stato Monorchio e al “faccendiere” Tivelli che si sarebbe mosso per inserire nella Finanziaria l’illegittimo contributo. I tre sono accusati di “traffico d’influenze illecite”.

E, ancora, esaminiamo alcuni stralci del- l’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale emanata dal Consiglio di Stato il 21.12.20: “La legge in questione (quella degli 8 milioni) potrebbe risultare in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione per violazione del principio di uguaglianza e parità di trattamento… discriminazione delle altre imprese… irragionevole e arbitraria… che costituisce anche la violazione degli articoli 9 e 33 della Costituzione, posti a tutela dello sviluppo della Cultura e della libertà di espressione artistica… nonché violazione dell’articolo 97 e cioè dei principi di buon andamento e imparzialità… È infatti indubbio che – anche alla luce delle norme europee – al pari del teatro beneficiario le società ricorrenti (Quirino, Sistina, Ambra Jovinelli) siano imprese che agiscono sul medesimo mercato, in concorrenza tra loro, fornendo lo stesso tipo di servizio… È una violazione dell’articolo 41 che garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata…”. Così il Consiglio di Stato. E per la prima volta, una fattispecie riguardante lo spettacolo verrà discussa in udienza pubblica presso la Corte costituzionale il 10 maggio.

Comunque, dopo il regalo di quegli 8 milioni (che presto ci auguriamo l’ex direttore dovrà restituire agli italiani) ci si sarebbe aspettato un futuro migliore per il povero Eliseo, non una rapida corsa verso la chiusura. Quei soldi sono serviti probabilmente a comprare le mura. I dipendenti non sono stati pagati, molti sono in causa e tutti e 21 sono stati licenziati: l’Eliseo non ha pagato buona parte delle compagnie ospiti, valanghe di decreti ingiuntivi, imprese che bloccano i finanziamenti ordinari del ministero della Cultura, teatro definitamente chiuso. E ha anche incassato 700.000 euro di ristori causa pandemia! Incredibile. Mentre noi, poveri mortali, con teatri altrettanto se non più gloriosi, percepiamo una media di 50.000 euro all’anno e restiamo aperti nonostante la pandemia… E ora, ciliegina sulla torta, l’ex Teatro Eliseo è in vendita. Per 24 milioni di euro. Ma il valore di mercato dell’immobile, fortunatamente vincolato dallo Stato alla sua funzione di teatro, si aggira tra i 4 e i 5 milioni. Cioè quanto l’ex direttore lo ha pagato. Probabilmente con i soldi dello Stato. Ma non è finita qui, perché in caso di vendita, l’ex direttore è convinto che il compratore gli chiederà di rimanere a gestire il teatro. Chi, mi domando?

Quelli che avete letto sono fatti amministrativi, costituzionali e penali, non solo per noi che restiamo in trincea, ma per la memoria di tanti che di tasca loro hanno pagato e perso i teatri che gestivano, come Paolo Donat Cattin, a cui vennero tolti prima il Giulio Cesare e poi il Nazionale, o come Pietro Garinei col Sistina (ora nelle sapienti mani di Massimo Piparo). Perché la nostra si chiama “Intrapresa privata” e si paga mettendo le mani nelle proprie tasche, non in quelle degli italiani.

 

50 di questi “Raccolti” Harvest

Si incazzava, Bob Dylan, ascoltando Heart of gold alla radio. “Non è possibile che sia Neil Young”, bofonchiava, “questo sono io!”. E invece era proprio il cantautore canamerican, l’immigrato irregolare da Toronto verso la California, che nel 1972 ridefiniva il country-folk con un album luminoso come Harvest. Mezzo secolo fa, in un anno catartico per il rock (uscirono Ziggy Stardust di Bowie, Thick as a brick dei Jethro Tull, Transformer di Lou Reed, Foxtrot dei Genesis, Caravanserai di Santana, Exile on Main Street dei Rolling Stones, Honky Chateau di Elton John), Young conquistava con Harvest le classifiche, quasi suo malgrado. Non gli interessava vendere, anzi lo disturbava. Uscito dal logorante sodalizio con Crosby Stills e Nash e dall’epopea di Woodstock, Neil intendeva solo setacciare il “filone d’oro” (l’heart of gold) della sua creatività tormentata, che prima di allora, e sino ad oggi, lo avrebbe indotto a esplorare le miniere dell’alternative rock, del punk, del noise, della psichedelia, guadagnandogli pure, negli anni 90, il titolo onorifico di “Padre del grunge”: fino alla citazione disturbante di Hey hey my my nella lettera d’addio di Kurt Cobain. “Meglio bruciare in fretta che svanire lentamente”.

Ma questo sarebbe stato il futuro di Neil Young, la benzina dell’anima che ancora un mese fa, dicembre 2021, lo ha spinto a pubblicare un album potente, Barn. Nel ’72, prima di Harvest, il cantautore sapeva di dover esercitare pazienza, se voleva trovare nuove pepite. L’occasione gliela fornì il Destino, nei panni di un suo roadie, Guillermo Giachetti, appassionato di cinema. L’uomo portò il capo a vedere Diario di una casalinga inquieta, interpretato dalla candidata all’Oscar Carrie Snodgress. Neil se ne innamorò all’istante. Ardere in fretta, sì, ma dalla passione. Incaricò Guillermo di andare da Carrie in un teatro di Los Angeles, e di lasciarle un biglietto con su scritto “Chiamami”. La Snodgress raggiunse il musicista allo Chateau Marmont, l’hotel dei dannati rock. Fumarono Panama Red fino a sballarsi, l’attrice non ritrovò la strada verso casa. Andarono a convivere in un ranch sulle colline, Carrie rinunciò alla carriera, Neil compose le canzoni intimiste e ispirate che il 14 febbraio 1972 divennero Harvest. Un raccolto cui Young si era accinto sfruttando l’inabilità fisica causata da un’operazione alla schiena. Da seduto, gli venivano meglio i brani acustici. Per dare un tocco di colore in più al quadro, convocò Crosby Stills & Nash, più James Taylor e Linda Ronstadt, affidando l’orchestrazione a Jack Nitzsche. I critici bocciarono la svolta country, le femministe insorsero per i versi di A man needs a maid in cui pareva che il Nostro, più che di una compagna, avesse bisogno di una domestica per i pasti e le pulizie. Il Sud insorse di nuovo (era già accaduto con le accuse di razzismo di Young in Southern man e la risposta puntuta dei Lynyrd Skynyrd in Sweet Home Alabama): qui il secondo round era Alabama, ma lo stesso Neil, con gli anni, ne avrebbe preso le distanze. Poi le riflessioni sulla vecchiaia in Old man, e la premonizione della morte (sopraggiunta poco dopo) del suo ex chitarrista eroinomane Danny Whitten in The needle and the damage done. Heart of gold, il pezzo forte che disturbava Dylan, era l’autoanalisi delle fragilità di Young. Un gioiello fatto con pochi elementi, ma di bellezza inestimabile.

“Sprigiona luce ancora, fino a qui”, riflette Alex Britti, dallo studio in cui sta lavorando a un album (finalmente) blues. “Io capisco quando una chitarra, acustica o elettrica, emana una magia segreta, indecifrabile. Neil Young non è un virtuoso assoluto dello strumento, ma il suo tocco, tanto ruvido e provocatorio nel rock, sa tessere con delicata naturalezza il folk e il country, come in Harvest”. Canzoni che Alex non si stancava mai di suonare, da ragazzino. “Con un mio amico, Vincenzo, andavamo con le chitarre sul muretto di Villa Sciarra a Monteverde, il quartiere romano dove sono cresciuto. Sentendoci provare i pezzi solisti di Neil, o quelli con Crosby, Stills & Nash, i vicini sembravano più indulgenti”. L’America, mito di generazioni di adepti del rock. “Per me un sogno irraggiungibile: ho paura di volare, l’ultimo aereo l’ho preso 30 anni fa. Ma forse è meglio così: e illudersi di poter approdare, un giorno, negli Stati Uniti dei 60 o 70, quando un disco poteva cambiare il mondo e i musicisti sentivano la responsabilità di esporsi contro il potere. Young si è sempre schierato per la pace, dal Vietnam in poi, passando per l’opposizione ai Bush e Trump. Oggi nessuno alza la voce per l’Afghanistan lasciato in ostaggio dei talebani”. Neil, per Britti, “è un faro anche quando ignori che è lui a suonare. Vidi al cinema Dead Man di Jim Jarmusch: non sapevo che la colonna sonora fosse di Young, ma quegli strumentali erano la sua firma. Che ho ritrovato in Paradox, il film di tre anni fa girato dalla sua attuale moglie”. Daryl Hannah, un’altra delle attrici che hanno bucato il cuore di Neil Young.

Economist: brutta pagella all’Italia

Il settimanale inglese The Economist è tornato a occuparsi dell’Italia, poche settimane dopo il trionfale articolo dell’edizione natalizia in cui aveva definito l’Italia “Paese dell’anno 2021”. L’articolo era stato accolto con le fanfare da molti giornali, “L’Economist incorona l’Italia”, i titoli di Corriere della Sera e Repubblica, che avevano messo in risalto come a essere premiato fosse anche il governo di Mario Draghi. Il prestigioso settimanale della City aveva lodato l’Italia per “un governo migliore, il successo nei vaccini, una nuova competenza politica e una forte ripresa economica”.

Stavolta, l’articolo apparso su The Economist nel primo numero del nuovo anno mette a confronto la situazione economica dei 23 Stati più ricchi fra quelli dell’Ocse, l’organizzazione dei 38 Paesi considerati più floridi al mondo. “La velocità del rimbalzo dell’economia dall’enorme recessione del 2020 ha colto di sorpresa molti addetti alle previsioni. La produzione complessiva nei 38 Paesi dell’Ocse probabilmente ha superato il livello pre-pandemia alcuni mesi fa”, ha scritto il settimanale. “Il tasso medio di disoccupazione è al 5,7%, in linea con la media del dopoguerra. E il reddito familiare aggregato, depurato dall’inflazione, è superiore al livello pre-Covid”. Ma dietro quest’immagine positiva, “notevolmente benigna”, benché siano emerse numerose varianti del Coronavirus, si nascondono profonde differenze. L’Economist sottolinea che “la pandemia ha creato vincitori e sconfitti” e che questa differenza “è probabile che duri anche nel 2022”.

Il settimanale ha così stilato una classifica con i dati di cinque indicatori dei 23 Paesi in esame: Pil, reddito delle famiglie, andamento del mercato azionario, investimenti e debito pubblico. Il confronto è tra il terzo trimestre del 2021, o eventuali dati più recenti disponibili, e il quarto trimestre del 2019. Alcuni Paesi rimangono in una condizione di difficoltà, mentre altri se la passano meglio rispetto a prima della pandemia su quasi ogni misura. E come sta l’Italia? Il verdetto dell’Economist è il seguente: “Danimarca, Norvegia e Svezia sono tutte vicino al massimo, e anche l’America è andata ragionevolmente bene. Molti grandi Paesi europei, tuttavia, come Gran Bretagna, Germania e Italia, sono andati peggio. La Spagna ha fatto peggio di tutti”. La Danimarca è prima in classifica, la Svezia è terza, la Norvegia quarta. Gli Stati Uniti decimi, seguiti dal Canada. L’Italia è quindicesima (su 23), ed è inserita dall’Economist tra i “worst performers”, cioè i Paesi “dai risultati peggiori”.

Il primo indicatore è il Prodotto interno lordo. Secondo l’Economist il Pil dell’Italia è inferiore dell’1,3% rispetto a prima della pandemia. A prima vista non sembra un dato disastroso (la Spagna è -6,6%). La Germania è a -1,1%, la Francia -0,1%. Bisogna considerare però che questa è la differenza rispetto al 2019, quando la Germania aveva già un grosso vantaggio rispetto all’Italia. Pertanto il parziale recupero del nostro Paese va confrontato con una situazione di partenza più arretrata. Irraggiungibili gli Stati del Nord Europa: Danimarca e Svezia hanno recuperato oltre il 2% e la Norvegia è a +3,5% del Pil pre-Covid. Una possibile spiegazione di queste forti differenze, secondo il settimanale, è la maggior vulnerabilità di Paesi in cui il turismo è importante, come Italia e Spagna, colpiti dai divieti o restrizioni di viaggiare.

L’Italia è tra i perdenti in un altro indicatore significativo, il reddito reale delle famiglie per persona, al netto dell’inflazione. Nel 2021 è -0,2% rispetto al 2019, significa che la gente ha meno soldi in tasca, in Germania è -0,9%, in Francia +0,7. Sono considerati nel reddito anche i ristori erogati dai governi. Questo spiega il forte incremento negli Stati Uniti (+6,2%) e Canada (+9,4%), in cui i governi hanno erogato aiuti molto elevati (2.000 miliardi di dollari negli Usa nel 2020 e nel 2021 per sussidi di disoccupazione e stimoli). Austria e Spagna non hanno preservato i posti di lavoro né compensato i perdenti: in entrambi i Paesi il reddito familiare è ancora di circa il 6% inferiore al livello pre-pandemia. Il reddito è ovviamente influenzato dalla disoccupazione. Il tasso ufficiale in Italia è il 9,2%, mentre la media di tutti i Paesi Ocse è il 5,7%. Senza considerare che nel recupero di occupati registrato nel 2021, 700mila posti, come ha evidenziato il Corriere della Sera l’11 gennaio, c’è una forte componente di contratti a termine: 448mila, cioè aumenta il lavoro precario.

L’Italia va meglio nell’andamento dei mercati azionari e negli investimenti. L’indice della Borsa di Milano ha guadagnato il 18,5% rispetto al 2019, meglio di Francia (17,4%) e Germania (15,6%). Meglio di noi Stati Uniti (+24,4%) e Canada (+25,9%), mentre hanno volato Danimarca e Svezia, con incrementi superiori al 50%, seguite dalla Svezia con +31,3%. Da notare il -2,2% della Borsa di Londra, “forse un riflesso dell’incertezza indotta dalla Brexit”. Negli investimenti, “una misura dell’ottimismo delle aziende sul futuro”, osserva il settimanale, l’Italia ha un miglioramento del 6,9%, il secondo dopo la Danimarca (+12,1%).

È nel debito pubblico che l’Italia è il grande perdente. “Non tutti i Paesi hanno accumulato debiti enormi durante la pandemia, anche se Usa, Gran Bretagna e Canada certamente l’hanno fatto”. Il debito pubblico della Svezia è aumentato solo di 6 punti rispetto al Pil. “È la conseguenza, forse, del fatto che il Paese ha evitato rigidi lockdown, che necessitano di un supporto fiscale”. Nel nostro Paese questo indicatore è aumentato dal 134 al 153,5% del Pil. E “a parità di tutti gli altri fattori, un grande aumento nel debito pubblico – fa notare l’Economist – potrebbe indicare potenziali maggiori aumenti di tasse e tagli di spesa in futuro”.

Questa lezioncina ci restituisce l’immagine di un Paese che non è proprio “il migliore”. L’analisi è seria e documentata, ma nessun giornale l’ha riportata. Forse perché i giornali sono ormai attenti soprattutto agli stimoli che arrivano dai trombettieri del Governo dei Migliori. Come nel caso dell’articolo degli “onori trionfali” all’Italia “Paese dell’anno 2021”. L’Economist aveva spiegato come il riconoscimento non andasse al Paese “più grande, più ricco o più felice”, ma a quello che è migliorato di più. L’Italia è stata preferita a Samoa, Moldavia, Zambia e Lituania. In passato tra i vincitori ci sono stati l’Uzbekistan (per aver abolito la schiavitù), la Colombia (per il processo di pace) e la Tunisia (per aver abbracciato la democrazia). Per onore, e dovere, di cronaca.

 

Memoria, comunità ebraica contro Ovadia

Polemica sul Festival delle memorie che si terrà a Ferrara dal 25 al 30 gennaio. La rassegna, organizzata da Moni Ovadia, è dedicata alla memoria della Shoah, ma anche al genocidio degli armeni e dei tutsi in Ruanda, alla questione curda e allo sterminio dei rom e dei sinti. Ma il Museo dell’ebraismo italiano e della Shoah (Meis) di Ferrara si dichiara contrario all’iniziativa esprimendo “netto e profondo dissenso con chi presentando l’iniziativa ha accostato ai genocidi una valutazione insensata e assurda del conflitto mediorientale”. Il riferimento è alle parole di Vittorio Sgarbi che ha parlato dei crimini commessi da Israele nei confronti dei palestinesi. “Banalizzano l’olocausto. C’è una gerarchia degli orrori?”, ha detto Ovadia.

Il Nord Stream 2 e Mosca fanno litigare la coalizione

La ministra degli Esteri Annalena Baerbock è stata in visita a Kiev e a Mosca. Intanto a Berlino il cancelliere Olaf Scholz ha incontrato Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato. La ministra è stata dura con il Cremlino. Durante la conferenza stampa con il suo omologo, il ministro Sergej Lavrov ha detto che trova difficile “non vedere come una minaccia i 100 mila soldati russi al confine con l’Ucraina”. Dall’altro lato il cancelliere ha rassicurato la Russia: la Germania non invierà armi a Kiev. Il bastone e la carota, forse. La gestione dei rapporti con Mosca è ancora molto legata all’era Merkel. L’ex cancelliera ha lasciato una grande opera finita, ma non operativa: Nord Stream 2. Nei frequenti incontri e telefonate tra Merkel e Putin il gasdotto ha sempre rappresentato la sicurezza di un contratto commerciale che va oltre i rapporti diplomatici. Scholz sembra volere seguire i passi di chi l’ha preceduto, ma la coalizione che lo sostiene, in particolare i Verdi, chiedono un nuovo approccio. Robert Habeck, che con Baerbock condivide la guida del partito ecologista, è a capo del super ministero dell’economia e della transizione ecologica. A lui fa rifermento una delle due correnti all’interno dei Verdi: i Realos, realisti. Sono la parte pragmatica del partito, non considerano il gas naturale come una forma di energia verde, ma sono disposti a utilizzarlo per traghettare il Paese verso le fonti rinnovabili.

Alla fine dello scorso anno la Germania ha spento metà delle sue centrali nucleari. Entro quest’anno verranno chiuse le altre ed entro il 2030 le centrali a carbone smetteranno di produrre elettricità. Con esclusivamente solare ed eolico il saldo energetico sarebbe certamente negativo. Ad Habeck spetta il compito più complesso: usare tutti i fondi possibili per produrre energia verde e ridurre la dipendenza dal gas russo. L’altra corrente dei Verdi, chiamata Fundis, è posizionata più a sinistra. La sua esponente di spicco è Steffi Lemke che guida il dicastero dell’Ambiente. La ministra ha già concluso due mandati al Bundestag ed è una delle fondatrici del partito che ha anche guidato per oltre 10 anni. Le sue posizioni sono tra le più intransigenti, ma non per questo meno ascoltate.

Il gas naturale non rientra nei suoi piani per la transizione ecologica dei prossimi anni. Ad Annalena Baerbock spetta convogliare queste due spinte e direzionarle verso la politica estera. I Verdi non sono critici solo con la Russia, ma anche con la Cina. È stata proprio la ministra degli Esteri a volere, e ad annunciare, il boicottaggio diplomatico della Germania alle Olimpiadi Invernali che inizieranno tra due settimane a Pechino. La grande coalizione guidata da Merkel non ha mai dovuto mediare su posizioni così distanti in politica estera. I Verdi sono stati all’opposizione per tutti i 16 anni dei mandati dell’ex cancelliera. Formando la coalizione Semaforo gli ecologisti hanno ceduto su alcuni punti, arrivando a dei compromessi importanti con i socialdemocratici. Ma rimangono differenze che creano frizioni all’interno del governo. Una novità che potrebbe minare la credibilità del governo Scholz sul palcoscenico internazionale. La questione Nord Stream 2 è oggi il principale punto di scontro. È sia una questione geopolitica che di prospettive produttive. Ridurre la quantità di energia disponibile si traduce in un aumento dei prezzi e perdita di competitività del made in Germany. Opzione nemmeno menzionabile per Fdp. Ma il costo del gas continua a salire. Gazprom, la monopolista di Mosca per l’esportazione del gas, è accusata da Bruxelles di manipolare i prezzi. Questo favorisce la diplomazia russa nella gestione della crisi ucraina. L’alto rappresentante degli affari esteri dell’Unione Europea, Josep Borrell, ha ammonito la Russia sul futuro utilizzo di Nord Stream 2 “certamente il funzionamento di questa infrastruttura dipenderà anche dagli sviluppi degli eventi in Ucraina”. Al momento il gasdotto è ancora sotto esame.

La costruzione è stata ultimata, ma sul finire dello scorso anno è stata bloccata la certificazione dagli enti regolatori tedeschi. Anche l’antitrust europea ha aperto due diverse indagini su Gazprom, l’accusa è abuso di posizione dominante. A tentare di raffreddare la situazione si sono i socialdemocratici tedeschi. Christine Lambrech, ministra della Giustizia, in una recente intervista alla televisione Rbb ha dichiarato “non dobbiamo trascinare Nord Stream 2 nel conflitto” ucraino. La stessa linea del ministro degli esteri russo Lavrov che ritiene “contro-produttivi i tentativi di politicizzare il gasdotto. È il più grande progetto economico dell’ultimo decennio, studiato per dare sicurezza energetica alla Germania e a tutta l’Europa”. A Kiev non si parla d’altro. “La prima bomba sarà lanciata contro le condutture del gas” ha detto Yuri Vitrenko, presidente della compagnia di Stato ucraina Naftogaz. La fornitura di gas che oggi collega la Russia con l’Europa occidentale passa dall’Ucraina. Controllare o danneggiare quel gasdotto metterebbe Mosca in una posizione di ulteriore vantaggio. Prezzi alle stelle e necessità immediata di utilizzare Nord Stream 2.

Nell’ultimo anno i rapporti tra Berlino e Mosca si sono deteriorati. Prima il caso dissidente russo Alexej Navalny, curato in Germania e poi imprigionato dal Cremlino. Pochi mesi dopo, le autorità tedesche hanno vietato le trasmissioni dell’emittente Russia Today sul territorio nazionale. Poi lo scorso dicembre la condanna all’ergastolo di una spia russa per un omicidio commesso a Berlino. Finora a garantire il filo diretto con Vladimir Putin c’era Angela Merkel. Si parlavano in russo, non si piacevano, ma si capivano e rispettavano. Adesso tocca a Scholz, un uomo della Germania ovest, per lui la Russia è sempre stata avversaria, una nemica.

La pandemia travolge la scuola, ma il ministro era in vacanza a Ibiza

La vacanza a Ibiza prima del rientro a scuola dalle festività di fine anno non sarà perdonata a Jean-Michel Blanquer: è da lì che il ministro dell’Educazione ha annunciato, in un’intervista rilasciata a Le Parisien sabato 1 gennaio e pubblicata online la sera di domenica 2, a poche ore cioè dalla riapertura delle scuole in Francia, il nuovo contestato protocollo sanitario, che ha fatto scendere in strada gli insegnanti giovedì scorso. Blanquer era già criticato per la caotica gestione della crisi nelle scuole e per aver annunciato le nuove regole anti-Covid alla stampa, invece di comunicarle agli istituti. Presidi e professori si sono ritrovati dunque il 3 mattina a dover adeguarsi al nuovo protocollo senza avere avuto il tempo di prepararsi, nello stress della ripresa delle lezioni e con un’esplosione di contagi tra i giovani a causa della variante Omicron.

Per i sindacati era stato il segno del “disprezzo” del ministro nei confronti degli insegnanti, in prima linea da due anni, mentre Parigi continua a difendere il suo sacrosanto principio delle scuole aperte a ogni costo. Ma ieri il giornale online Mediapart ha rivelato che il ministro ha rilasciato quell’intervista al telefono dall’isola delle Baleari, dove era ospite di amici in una villa vicino al mare. Neanche il giornalista del Parisien che ha parlato con lui ne era al corrente. Mediapart ha fatto notare anche un altro dettaglio: la foto che corredava l’articolo mostrava Blanquer in giacca e cravatta alla sua scrivania del ministero. Una foto scattata in un’altra occasione, molto lontana dalla realtà. Ora la rabbia dei sindacati esplode. Probabilmente nessuno avrebbe rimproverato nulla a Blanquer se avesse deciso di trascorrere qualche giorno in Bretagna e lavorare da lì. Del resto la domenica sera il ministro era rientrato a Parigi. Simbolicamente, però, Ibiza non è la Bretagna. Domani, su appello dei sindacati, gli insegnanti bloccheranno di nuovo le scuole per protestare contro quello che già viene chiamato il “protocollo Ibiza”. Il sindacato CGT Éducation ha pubblicato su Twitter una foto ritoccata di Blanquer che fa il dj in discoteca. Giovedì scorso lo sciopero era stato seguito dal 75% degli insegnanti. Su molti striscioni si chiedevano le dimissioni di Blanquer. “Il ministro ha affrontato la riapertura delle scuole con leggerezza – ha osservato Sophie Vénétitay, segretaria generale di Snes-Fsu a Bfm Tv –. Chiaro che come tutti ha diritto alle vacanze, ma la questione è un’altra. Lui dice che la sua strategia si adegua alla realtà, ma la sua definizione di realtà non corrisponde alla nostra: mentre lui era lontano migliaia di chilometri, noi insegnanti ci strappavamo i capelli per riaprire le classi”. Dopo lo sciopero, Blanquer aveva riconosciuto di aver “commesso degli errori”. Aveva anche finito col promettere la distribuzione di 5 milioni di ffp2 e l’assunzione di 3.300 professori a contratto per sostituire i docenti malati. Ma gli insegnanti chiedono anche di abbandonare l’ultimo protocollo (il terzo in pochi giorni), per loro difficile e poco sicuro: il governo ha alleggerito le regole della quarantena, obbligando i bambini a fare tamponi a ripetizione, pur di chiudere meno classi possibile.

Eppure il 6 gennaio già 9.202 classi erano in quarantena, il 14 ne erano 14.380. Gli insegnanti vorrebbero tornare al vecchio protocollo che prevede la chiusura della classe al primo tampone positivo. Ieri, in Assemblea, Blanquer ha difeso il suo diritto alle ferie: “Avrei dovuto scegliere un’altra destinazione”. Le opposizioni chiedono le sue dimissioni. “Disprezzo e irresponsabilità inaccettabili”, ha scritto su Twitter l’ecologista Yannick Jadot. “L’indecenza delle vacanze”, ha commentato il Rassemblement National. La France Insoumise ha lanciato l’hashtag #BlanquerDimission. Eric Zemmour ha attaccato invece il presidente: “Il vero responsabile è Macron”. A meno di tre mesi dalle Presidenziali, il caso Ibiza è un disastro per l’Eliseo. Il politologo Philippe Moreau-Chevrolet lo paragona allo scandalo dei party di Boris Johnson in pieno lockdown. Quanto potrà ancora resistere Blanquer? Il governo difende il suo impegno. Anche se a Ibiza, il ministro lavorava da remoto ed era rintracciabile 24 ore su 24, per cui non ha fatto nessun errore. Da indiscrezioni di stampa, il primo ministro Castex sapeva del viaggio e glielo avrebbe sconsigliato. Ma Blanquer, che si sarebbe sposato lo scorso fine settimana, aveva fatto di testa sua. Ieri sera a Tf1 Blanquer parlando del viaggio a Ibiza ha ribadito: “Se potessi scegliere di nuovo, andrei in un altro posto”

Stati Uniti, allarme delle compagnie: il 5G interferisce con i sistemi di volo degli aerei

Avrebbe dovuto essere il giorno della verità per l’aviazione Usa; i due giganti delle tlc At&t e Verizon oggi faranno entrare in funzione il nuovo servizio wireless 5G C-Band. Ma le linee aeree American, Delta, United, Southwest, Ups, Alaska Air, Atlas Air, JetBlue Airways e FedEx Express, tra le principali degli Stati Uniti, lunedì hanno avvertito con una lettera congiunta la Faa, l’ente federale sulla sicurezza aerea, di una possibile crisi “catastrofica” dell’aviazione civile perché il nuovo servizio tlc potrebbe rendere inutilizzabili molti aerei e causare “caos” per i voli. La causa starebbe nella banda C del 5G, che potrebbe interferire con gli altimetri di bordo e ostacolare “in modo significativo” gli atterraggi in condizioni di bassa visibilità. Le compagnie scrivono che “più di 1.100 voli e 100 mila passeggeri al giorno sarebbero soggetti a cancellazioni, deviazioni o ritardi” e stanno valutando se iniziare a cancellare alcuni voli internazionali in arrivo per le “restrizioni proposte in alcuni aeroporti”.

Per ridurre i rischi di interferenze At&t e Verizon, che l’anno scorso hanno vinto quasi tutto lo spettro della banda C del 5G in un’asta da 80 miliardi di dollari, il 3 gennaio avevano concordato di delimitare per sei mesi zone di precauzione intorno a una cinquantina di aeroporti e di ritardare il lancio della nuova rete fino a oggi, dopo un primo rinvio di 30 giorni. Ieri hanno deciso in extremis di rinviare l’accensione delle antenne vicine agli scali aerei, ma i due giganti delle tlc respingono i timori delle linee aeree e spiegano che la banda C 5G è usata senza problemi in una quarantina di Paesi. Le compagnie aeree chiedono “che il 5G non sia usato entro 2 miglia (3,2 chilometri) dalle piste” e avvisano che le restrizioni non si limiteranno ai voli in condizioni meteo avverse: “Molti sistemi di sicurezza sugli aerei saranno inutilizzabili. I produttori di aeroplani ci hanno informato che gran parte della flotta potrebbe dover restare a terra a tempo indeterminato”. United Airlines ha avvertito che il problema potrebbe interessare più di 15 mila dei suoi voli con “restrizioni significative sui Boeing 787, 777, 737”. “Il settore si sta preparando a qualche interruzione. Siamo ottimisti di trovare soluzioni per mitigare gli impatti”, ha detto la Boeing. Domenica la Faa ha autorizzato il 45% circa della flotta Usa ad atterrare a bassa visibilità in aeroporti in cui sarà dispiegata la banda 5G-C.

“Regalo di Stato”: 300 mln in 12 anni per prepensionare 1.200 giornalisti

Per alzare il velo sulla gestione allegra della rottamazione di dirigenti, giornalisti e poligrafici da parte delle aziende editoriali ci voleva lo scandalo dei prepensionamenti “furbetti” del gruppo Gedi (ex L’Espresso), che pubblica Repubblica, che ha visto il sequestro preventivo di oltre 30 milioni dalle casse dell’azienda editoriale da parte della Procura di Roma per una presunta truffa ai danni dell’Inps dal 2011 al 2015. Un modo tra tanti (dalla cassa integrazione ai contratti di solidarietà) per tagliare il costo del lavoro nel decennio della crisi dei giornali. Per ottenere il via libera facile ai pensionamenti anticipati dei giornalisti, al di là di presunte truffe, tutti gli editori nell’ultimo decennio hanno varato stati di crisi uno dietro l’altro.

Con un’appendice non di poco conto. Il costo dell’uscita anticipata dei giornalisti “anziani” è stato in gran parte scaricato sui conti dello Stato. Del resto anche i padroni dei giornali sono usi a privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Un mantra che ha contrassegnato i giornali dall’inizio della grande crisi della carta stampata. Dal 2009 i costi per mandare a casa anzitempo i giornalisti sono per gran parte a carico dei conti pubblici. Da allora lo Stato ha finanziato il 70% dell’onere complessivi dei prepensionamenti, regalando agli editori una comoda via d’uscita per ristrutturare i costi aziendali. Una manna per i manager delle aziende editoriali che hanno approfittato del generoso contributo della mano pubblica.

Dal 2009 a tutto il 2019 sono stati prepensionati oltre 1.100 giornalisti. Lo Stato ogni anno ha contribuito con suoi finanziamenti a rottamare i giornalisti “anziani”. Il costo di ogni pre-pensionamento vale almeno 350mila euro. Fino a tutto il 2019 quindi le fuoriuscite sono pesate per 385 milioni di euro. Il 30% a carico degli editori e il 70% finanziato dallo Stato, con una spesa complessiva di 270 milioni per le finanze pubbliche. Questo fino al 2019. Ora il Governo ha dato via libera a una nuova tornata di prepensionamenti che, secondo le stime, potrebbero riguardare oltre un centinaio di nuove fuoriuscite portando il conto per lo Stato a superare tranquillamente i 300 milioni di euro.

Il gruppo Monrif che con Editrice nazionale pubblica La Nazione, Il Resto del Carlino, Il Giorno, Qn ha già avuto via libera per 37 prepensionamenti. Il referendum di lunedì scorso tra i giornalisti del Sole 24 Ore sull’accordo con l’azienda per il nuovo stato di crisi, che prevede solo al quotidiano 25 pensionamenti e prepensionamenti, ha visto 165 votanti su 193 aventi diritto al voto: l’intesa è stata approvata con 123 voti a favore, 31 contrari e 11 astenuti. In coda ci sono altri gruppi editoriali. Prima della riforma del 2017 i prepensionamenti dei giornalisti si potevano ottenere con requisiti molto bassi (58 anni di età e almeno 18 anni di contributi. Ora i requisiti così blandi sono stati alzati a 62 anni di età e 25 di contributi, rendendo meno onerosi i prepensionamenti. Ma è poca cosa, dato che lo scandalo vero è aver permesso con il decreto del 2009 a firma di Maurizio Sacconi, allora ministro del Lavoro, di poter ottenere stati di crisi cui legare i prepensionamenti anche con i conti non “in rosso”. Bastava segnalare possibili crisi prospettiche e indicatori economico-finanziari futuri in declino per ottenere il via libera. Una sorta di liberi tutti a favore degli editori che non sono certo stati a guardare e hanno colto la palla al balzo. Primo tra tutti il gruppo L’Espresso (allora della famiglia De Benedetti) che ha avuto accesso agli stati di crisi pur con i bilanci in utile almeno fino a tutto il 2016. Ma massicci prepensionamenti li hanno fatti un po’ tutti. Da Caltagirone per i suoi giornali, Il Messaggero, Il Mattino e Il Gazzettino a Riffeser, oggi presidente Fieg, a Il Sole 24 Ore in perdita da almeno un decennio. Certo, la crisi di vendita dei giornali è indubitabile, con il crollo medio dei ricavi nel settore di oltre il 40% nel decennio. Ma l’aiuto pubblico c’è stato eccome, a contribuire a liberarsi solo negli ultimi 5 anni di oltre 3mila giornalisti dipendenti, il 20% del totale. La mattanza delle fuoriuscite anticipate non è certo finita, con lo Stato che ci metterà come al solito una pezza o, meglio, sonori denari.

Parte l’operazione “rete unica” per salvare Tim (e Open Fiber)

Quindici anni dopo il famoso “Piano Rovati”, scartato dalla Tim a gestione Pirelli (che gridò all’esproprio), l’operazione “rete unica” si è messa in moto. Tre motivi spingono in questa direzione, in questo ordine di priorità: c’è da salvare l’ex monopolista, avvitatosi in una crisi inarrestabile e soccorrere il suo concorrente nella posa dei cavi, la Open Fiber oggi controllata dalla pubblica Cassa depositi e prestiti; a valle di questo forse serve anche al Paese, che non può permettersi una concorrenza suicida sulla rete, un monopolio naturale.

È con queste premesse che il tutto si è messo in moto. Ieri il nuovo dg di Tim, Pietro Labriola, ha illustrato le linee guida del nuovo piano industriale a un cda informale, che dovrà poi approvarlo il 2 marzo dopo averlo nominato amministratore delegato venerdì prossimo.

Il piano – che ha l’ok del primo azionista di Tim, la francese Vivendi (23,7% del capitale) e del secondo, la stessa Cdp (9,8%) – prevede di scindere in due la società, separando la rete (NetCo) dai servizi commerciali (ServiceCo). Nascerebbero due aziende con lo stesso azionariato. Netco verrebbe poi “offerta” a Cassa depositi e prestiti che, conferendo Open Fiber, diverrebbe azionista di controllo della società che affitterebbe la rete ai player del mercato con tariffe regolate sul modello di Terna (rete elettrica) e Snam (gas).

Il nodo da sciogliere resta sempre lo stesso. Tim ha un debito monstre di 18 miliardi netti, garantiti dalla rete, senza la quale imploderebbe, per cui la società della rete dovrà caricarsi di debiti e dipendenti (42mila nel gruppo, 36mila in Italia). Le cifre che circolano danno l’idea. Netco potrebbe prendersi circa metà dei debiti netti e 30mila addetti (oggi la rete ne impiega 20mila). Numeri precisi non esistono anche perché saranno oggetto di negoziati col governo e la Cdp, ma la direzione è quella. Altrimenti Tim Servizi non starà in piedi e anche così il suo futuro è un rebus.

L’obiettivo è far partire l’iter entro metà anno, quando verranno assegnate le gare da 3,7 miliardi previste dal Pnrr per cablare in fibra 7 milioni di abitazioni nelle “aree grigie” a parziale fallimento di mercato. Creare due reti, una di Tim e una di Open Fiber, è un suicidio.

Insomma, non si può che procedere verso la rete unica, anche perché chi deve realizzarla non se la passa bene. Negli ultimi 5 anni Tim ha perso oltre il 3% dei ricavi ogni anno e il maxi debito impedisce di ridurre i costi. Open Fiber, nata dall’idea suicida di Matteo Renzi di sfidare Tim sulla rete (con i soldi di Enel e della solita Cdp) non sta meglio: ha vinto tutte le gare per cablare le aree a fallimento di mercato ma è in super ritardo; entro fine anno – stima la società di consulenza Redburn – potrebbe avere 5 miliardi di debiti e utili lordi per soli 350 milioni.

L’ultimo ostacolo è rappresentato dalla possibile offerta aggressiva del fondo Usa Kkr (già azionista della rete secondaria dell’ex monopolista) per prendersi Tim e procedere lei allo spezzatino del colosso. Sullo sfondo restano gli utenti italiani, gli unici mai menzionati in questa partita industriale.

 

Bollette, verso rinvio decreto su extra-ricavi

Le risorse possibili per mitigare il caro bollette ci sarebbero, ma il decre-to con le misure non do-vrebbe essere pronto per il Cdm di domani. È sulla tassazione degli extra-profitti delle aziende che si sta consumando l’im-passe che rallenta il dl. Secondo il ministro Cingo-lani si possono reperire 8/10 miliardi tra cartola-rizzazione degli oneri
di sistema, aste Ets e riduzione degli incentivi

Embraco, fine della Cig e nessun piano di reindustrializzazione

“È stata messa la parola fine alla vertenza della ex Embraco, con la conferma del ministero dello Sviluppo economico che non è mai esistito un piano B che potesse garantire un progetto di reindustrializzazione, non sono previsti altri ammortizzatori sociali o interventi economici mirati a una ricollocazione dei lavoratori”. Così la Regione Piemonte, al termine del tavolo di crisi sulla vertenza. Ora ai 337 lavoratori dal 22 gennaio, giorno in cui termina la Cig, non resta che la Naspi anche se i sindacati chiedono di prevedere un piano straordinario di ricollocazione.