I giudici devono saper comunicare

Nella fase iniziale della mia attività professionale, presso gli uffici giudiziari di Venezia, avevo maturato la convinzione che il magistrato dovesse parlare solo attraverso i propri provvedimenti, perché le indagini e i processi penali vengono svolti per giungere a una sentenza che affermi o escluda la responsabilità in relazione a fatti specifici.

Una volta assunto le funzioni di sostituto presso la Procura di Caltanissetta, mi sono reso conto che il problema della comunicazione avrebbe dovuto essere affrontato anche in maniera diversa per il raggiungimento dei fini istituzionali dell’amministrazione della Giustizia: non poteva essere risolto esclusivamente sulla base dei provvedimenti. In Sicilia – una terra lontana da Firenze, da Roma e da Venezia, minata da una gravissima sfiducia nello Stato e nei suoi organi – diventava fondamentale comunicare quello che noi, rappresentanti di un’istituzione, facevamo e perché lo facevamo, per sottolineare la volontà di non riconoscere spazi di impunità all’agire mafioso in tutte le sue proiezioni, ivi comprese quelle che permeavano la politica e la Pubblica amministrazione. Era un modo, infatti, per sottolineare la presenza dello Stato e, al contempo, per contrastare l’interesse di Cosa Nostra al silenzio attorno al suo operato. Un tale agire implica che la divulgazione delle notizie, da parte del magistrato, venga effettuata una volta venuto meno l’obbligo del segreto. Ho voluto ricordare la mia esperienza personale per spiegare concretamente perché penso che noi magistrati abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di comunicare gli esiti dell’attività di giustizia e di sottoporre il nostro operato al controllo sociale, vale a dire al giudizio dei cittadini. Tale controllo è un indispensabile contrappeso all’indipendenza e all’autonomia della magistratura. In una democrazia i cittadini hanno il diritto di sapere che cosa si stia facendo per scoprire gli autori di un delitto eclatante o i responsabili di una vicenda economico-finanziaria che abbia danneggiato migliaia di persone, o un delitto riconducibile ai sodalizi mafiosi o al terrorismo, perché sia stata tratta in arresto una persona che rivesta una carica pubblica. E ciò vale, in particolare, per gli uffici di Procura.

Il controllo sociale è un aspetto del principio di responsabilità che vale per chiunque eserciti un potere. Ed è evidente che in questo caso si confrontano plurimi interessi di rango costituzionale che devono trovare un punto di equilibrio: il diritto di difesa, il diritto a un giusto processo e la presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva; la libertà di manifestazione del pensiero; il principio che la giustizia è amministrata in nome del popolo in uno alle disposizioni sullo statuto dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero; il diritto alla riservatezza della vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo (indagati, imputati, vittime e persone offese), con il conseguente obbligo di adottare tutte le misure utili a evitare l’ingiustificata diffusione di notizie e immagini potenzialmente lesive della loro dignità.

Le risultanze delle indagini offrono alla pubblica opinione e al dibattito democratico una massa di conoscenze che possono essere utili o addirittura preziose per la crescita sociale e civile del nostro Paese. L’interlocuzione pubblica deve avere quale unico ed esclusivo scopo quello di comunicare la giustizia al cittadino, evitando di inquinare con interessi estranei (del magistrato o di terzi) tale finalità di interesse generale. Non può essere ricercato il consenso popolare e i propositi di creazione di un’immagine mediatica a fini di promozione personale, come del resto la creazione di rapporti privilegiati tra singoli magistrati o uffici e una o più testate giornalistiche. Sotto altro profilo, sarebbe auspicabile che il Paese disponesse di un’informazione autenticamente libera e attenta a evitare improprie influenze sul giudice e sul pubblico ministero. Ritengo che l’obiettivo della comunicazione dovrebbe essere quello di dare dell’attività giudiziaria un’immagine comprensibile, ragionevole, non condizionata dai conflitti della società. E quindi il magistrato deve essere capace di parlare in modo chiaro, ragionevole ed equilibrato, dimostrando, al contempo, di essere a sua volta capace di ascolto, cercando la spersonalizzazione della comunicazione. L’esistenza di un interesse pubblico a comunicare la giustizia e le modalità con le quali debba avvenire sono state riconosciute a livello europeo da numerosi documenti.

Credo che il magistrato debba essere intellettualmente un uomo libero e che come tale possa esprimere, con la dovuta sobrietà derivante dalle funzioni svolte, le proprie convinzioni nel dibattito pubblico, allorché si tratti di questioni concernenti la giustizia e il suo funzionamento, perché ha la possibilità di fornire un contributo sulla base dell’esperienza maturata.

Dai porno alla politica: i video che Fb non vuole

Se sui social network può essere difficile stabilire il confine tra una opinione e una bugia, tra una bufala e una diversa prospettiva sulle cose, sarà ancora più complicato distinguere tra un video reale e un cosiddetto deepfake, pratica che – con la manipolazione delle immagini ad alto livello – spodesterà il buon vecchio “mi hanno hackerato l’account” come scusa per negare una gaffe.

Dopo Twitter, lo ha capito anche Facebook che in vista delle elezioni Usa ha deciso di vietare questi contenuti che manipolano la realtà utilizzando il mezzo di comunicazione più potente: il video.

Cos’è. Con il termine deepfake (falso profondo) ci si riferisce a video e immagini che sfruttando gli algoritmi di intelligenza artificiale e il cosiddetto machine learning (la capacità delle macchine di imparare dall’esperienza per adattarsi autonomamente alle situazioni) simulano fattezze, movimenti e voce delle persone rendendo difficile distinguere realtà e finzione. Finora la tecnica è stata utilizzata soprattutto nei video porno per fingere ci fossero celebrità. Oggi potrebbe servire per far dire o fare a un candidato qualsiasi cosa.

Il social network di Zuckerberg, che da sempre applica ai contenuti politici una prassi ritenuta troppo morbida dagli esponenti democratici Usa, basata sulla sola riduzione della visibilità dei contenuti quando non violino la policy della piattaforma, stavolta ha deciso di vietare questa tecnologia. Ha assicurato che ci sarà un team di moderatori ed esperti verificatori che valuterà i video manipolati e quelli critici, rintracciati anche attraverso procedimenti automatizzati.

Il rischio, infatti, è che ci sia lo stesso problema con cui Facebook ha avuto a che fare a lungo. Il tentativo di far rispettare la policy contro l’odio, la nudità e il linguaggio d’odio ha spesso generato una vera e propria involontaria censura nei confronti della satira e dell’arte: gli algoritmi rilevavano una parola vietata e non riuscivano a distinguere se fosse nel contesto di una opera letteraria o di una vignetta satirica. E se dovesse accadere lo stesso con video e immagini satiriche? “Questa politica – spiega Monika Bickert, vicepresidente del Global Policy Management – non si applica a contenuti che siano parodia o satira, o a video che siano stati modificati esclusivamente per omettere o cambiare l’ordine delle parole”. Quelli borderline non saranno rimossi, ma il social assicura che ne sarà ridotta significativamente la distribuzione, applicando sul contenuto un avviso che informa gli utenti. “Se rimuovessimo semplicemente i video manipolati contrassegnati dai correttori di fatti come falsi, sarebbero ancora disponibili altrove in Rete o sull’ecosistema dei social media – dice la Bickert –. Lasciandoli ma etichettandoli come falsi forniamo così informazioni importanti”.

I casi. In Italia il caso più famoso di deepfake è il finto dietro le quinte di Matteo Renzi trasmesso da Striscia la Notizia a settembre, nel quale l’ex premier si prendeva gioco di tutti, da Conte a Mattarella. Negli Usa, invece, nelle ultime settimane la polemica aveva investito la speaker del Congresso, Nancy Pelosi: sui social è circolato un video in cui le sue dichiarazioni sono state rallentate per dare l’impressione che fosse ubriaca e quindi le sue parole strascicate. Non un deepfake, ma un’alterazione di cattivo gusto su cui i social dovranno prendere una decisione.

Rosso resta in carcere: “Ricattabile dai clan”

Sarebbe sotto ricatto e avrebbe mentito. Con le sue conoscenze nel mondo della politica e delle istituzioni, poi, potrebbe ancora influenzare le decisioni a favore di quell’organizzazione nei confronti della quale ha un debito. Per queste ragioni la Direzione distrettuale antimafia di Torino si è opposta, ieri mattina, alla scarcerazione dell’ex assessore regionale (e anche ex consigliere comunale) Roberto Rosso, arrestato il 20 dicembre scorso nell’ambito dell’inchiesta “Fenice” per voto di scambio politico-mafioso: avrebbe pagato 7.900 euro a due presunti esponenti della cosca Bonavota della ’ndrangheta di Vibo Valentia insediata nella provincia di Torino, Onofrio Garcea e il suo braccio destro Francesco Viterbo, affinché gli procurassero voti utili alle elezioni regionali del 2019, dove il candidato di Fratelli d’Italia è stato tra i più votati.

Davanti al Tribunale del Riesame di Torino il difensore di Rosso, l’avvocato Giorgio Piazzese, ha chiesto la scarcerazione del suo cliente spiegando che non c’è più l’esigenza dopo le dimissioni da qualsiasi carica pubblica, quella di assessore regionale e quella di consigliere regionale e comunale. La spiegazione non è bastata all’accusa, rappresentata dai sostituti procuratori Monica Abbatecola e Paolo Toso. Secondo loro Rosso ha mentito.

Sabato, interrogato dai pm, l’ex sottosegretario del governo Berlusconi III ha spiegato che quei 7.900 euro erano un contributo per i servizi resi dai due uomini durante la campagna elettorale, come l’allestimento di gazebo, il volantinaggio o l’organizzazione di eventi. Per i magistrati, però, quei soldi non sono stati rendicontati come spese elettorali e sono sospetti.

Rosso ha poi riferito che non conosceva Garcea e Viterbo e ignorava fossero uomini della ’ndrangheta legati alla cosca Bonavota di Vibo Valentia. Eppure c’è una vecchia interrogazione parlamentare firmata anche da Rosso in cui si sollevavano dubbi sui rapporti tra un prefetto e alcuni presunti ’ndranghetisti di Genova: tra questi figurava il nome di Garcea, ritenuto un uomo importante dell’organizzazione.

Inoltre Enza Colavito, imprenditrice che ha messo in contatto il politico coi due presunti mafiosi (ragione per cui anche lei è stata arrestata per concorso), ha detto agli inquirenti di aver informato Rosso che Garcea e Viterbo erano “solo” degli spacciatori. La Procura ritiene di aver acquisito prove forti e per questa ragione ieri, a poche settimane dagli arresti eseguiti dal Gico della Guardia di finanza, ha chiuso l’inchiesta. Oltre a Rosso, altre dieci persone hanno ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini, l’atto che dà agli indagati la possibilità di un’ultima difesa per scagionarsi ed evitare la richiesta di rinvio a giudizio. L’obiettivo della Dda è unire questo procedimento a quello da cui trae origine, l’inchiesta “Carminius”, che il 3 febbraio prossimo approderà nell’aula del palazzo di giustizia per la udienza preliminare per 41 persone, soprattutto presunti esponenti della ‘ndrangheta insediata nella città di Carmagnola, e i loro fiancheggiatori.

I giudici di Firenze: “Sui Renzi prove precise e univoche”

Il Tribunale di Firenze non ha creduto minimamente alla versione dei coniugi Tiziano Renzi e Laura Bovoli sulle fatture emesse nel giugno 2015 nei confronti della società Tramor dell’imprenditore Luigi Dagostino, fatture poi pagate da Kering dopo che la Tramor era stata ceduta al gruppo multinazionale, parte offesa nel processo. La difesa di Laura e Tiziano è stata rasa al suolo dal giudice monocratico Fabio Gugliotta nelle motivazioni della sentenza. Tiziano Renzi e Laura Bovoli sono stati condannati a un anno e 9 mesi di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale il 7 ottobre scorso per avere emesso fatture per prestazioni oggettivamente inesistenti. Il processo verteva su due studi relativi allo sviluppo commerciale del grande outlet di Reggello, The Mall, costruito a due passi da Rignano sull’Arno dei Renzi.

I pm Luca Turco e Christine Von Borries sostenevano che gli studi della Party Srl per “collocazione area destinata al food nel vostro nuovo insediamento nei pressi di The Mall a Reggello” e della Eventi 6 Srl “per una struttura ricettiva e food con i relativi incoming asiatici …”) in realtà, “non erano mai stati effettuati”.

Eppure sono stati pagati alle società in cui avevano interessi i due coniugi rispettivamente 20 mila e 140 mila euro più Iva. Ora, grazie alla lettura della motivazione, si comprende perché quei pagamenti non rappresenterebbero il compenso – magari molto alto – di un lavoro reale (come sostenevano gli imputati) ma proprio due fatture per operazioni mai effettuate dalle società dei Renzi e fatte pagare poi al gruppo Kering sostanzialmente raggirato a sua insaputa. Di qui la condanna per truffa del solo Dagostino.

Per il giudice “il compendio probatorio è preciso e univoco”. Inutili le memorie di Laura Bovoli e Tiziano Renzi. Per lei il lavoro della Eventi6 era “un documento articolato, per la cui elaborazione e studio furono necessari alcuni mesi”. Tiziano Renzi aveva tuonato: “Qualcuno afferma che il valore della prestazione sarebbe stato più basso dei 140 mila più Iva pagati. Punti di vista”. Aveva richiamato persino l’articolo 41: “Non capisco come in uno Stato in cui la libertà di iniziativa ed impresa è sacra e tutelata dalla Costituzione, ci sia la possibilità di giudicare il quantum di un lavoro frutto dell’ingegno e di un’esperienza trentennale, senza neppur alcun approfondimento e valutazione tecnica sul punto”.

I magistrati facevano notare che non c’era nemmeno una lettera di incarico? Tiziano replicava: “Nella mia esperienza lavorativa non ho quasi mai ricevuto un formale incarico”.

Il giudice Gugliotta sul “contenuto della relazione” è quasi irridente: “Sarebbe il frutto, per dirla con le parole indignate di Renzi Tiziano, del ‘lavoro di mesi’, una vera e propria opera dell’ingegno; si tratta di uno scritto di due pagine e mezza, contenente affermazioni di principio banali e del tutto generiche, espressioni tautologiche prive di un effettivo valore innovativo e creativo, tali da giustificare la convinzione di un documento predisposto, frettolosamente e in modo maldestro, per dare l’impressione di una effettiva esistenza di uno ‘studio di fattibilità’ in realtà inesistente”.

Il giudice prosegue impietoso “a cui, peraltro, erano allegate delle tavole planimetriche evidentemente copiate da un precedente elaborato predisposto dallo studio ‘P&P’, senza nemmeno l’accortezza di cancellare la stampigliatura attestante la paternità degli elaborati”. E crede più al testimone Ermanno Previdi dello studio P&P che “ha evidenziato, quale elemento di novità, la sola colorazione di alcune parti delle planimetrie, per il resto corrispondenti a quelle da egli predisposte”.

Infine il giudice richiama le intercettazioni delle conversazioni di Luigi Dagostino. Per il Tribunale l’imprenditore “ha riconosciuto che le società dei coimputati non facevano praticamente nulla (…) l’importante ruolo del Renzi e le richieste dallo stesso rivolte, in qualche passo ha anche implicitamente ammesso la falsità dei documenti”. Per il giudice, Dagostino faceva pressioni su Kering per il sollecito pagamento delle fatture ai Renzi per un interesse che sarebbe “non soltanto conseguenza di una ‘sudditanza psicologica’ verso i due ma riflesso di una cointeressenza rispetto alla quale sarebbero possibili ben altri approfondimenti, che esulano, però, dal merito del presente processo”. Federico Bagattini e Lorenzo Pellegrini, difensori di Tiziano e Laura parlano di “evidenti e palesi incongruenze giuridiche e nella ricostruzione dei fatti sulle quali presenteremo appello con molta fiducia”.

Sardine a congresso, ma solo dopo le Regionali

Non chiamatelo congresso, basta con i portavoce, giammai il tesseramento, eppure le Sardine ci provano. Crescono, forse. Dopo le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria annunceranno la data del primo grande simposio ittico, forse già i primi giorni di marzo. Il 15 dicembre scorso, a Roma, nello stabile occupato Spin Time, i referenti regionali si erano incontrati dopo l’imprevisto successo della manifestazione bolognese d’apertura e delle decine successive.

Adesso è arrivato il momento di fare un salto di qualità: “Una dimensione nazionale serve a darsi una struttura e uno stile uniforme ed efficace” spiegano i portavoce. Ad annunciarlo in televisione, ad Agorà, la sardina torinese Francesca Valentina Penotti: “Posso dirvi che ci incontreremo dopo le elezioni regionali, ci sarà un congresso nazionale di noi rappresentanti Sardine, sarà una due giorni”. A distanza di poche ore le altre Sardine precisano: “Non sarà un congresso come lo si intende generalmente, dovremo trovare altre parole per definirci, sarà un weekend insieme per continuare il dialogo iniziato a Roma”.

Centocinquanta i promotori accreditati, “ma le Sardine vogliono essere inclusive, quindi cercheremo di renderla una riunione allargata, tireremo le fila sui risultati in Emilia-Romagna e Calabria, ci confronteremo su come funzionano i gruppi Facebook e sulle istanze dei territori”. Come quelle che porterà Jasmine Cristallo, Sardina calabrese, vittima dell’ennesimo attacco mediatico. Il sindaco di Riace, il leghista Antonio Trifoli dichiarato decaduto a novembre, ha pubblicato sul proprio profilo Facebook uno screenshot con tutti i dati personali della Cristallo. L’email in questione era quella inviata al Comune e alla Questura di Reggio Calabria per informarli del fish mob di lunedì a Riace insieme all’ex sindaco Mimmo Lucano. Cristallo, già presa di mira sui social dal leader leghista Matteo Salvini, denuncerà Trifoli, ma lui si è scusato: “È stata una svista”.

Ad attaccare il movimento delle Sardine anche un vescovo, Giampaolo Crepaldi di Trieste, che nell’omelia dell’Epifania ha affermato: “Questa esemplare professione di fede dei Magi in Gesù è stata oggetto di un attacco senza precedenti che è andato dispiegandosi in varie forme, dalla volgare e blasfema identificazione della sua persona con l’essere gay, pedofilo e Sardina”. Prima del voto regionale, ci sarà la prova del palco: il 19 gennaio a Bologna, in piazza VIII Agosto, le Sardine hanno una “sei ore” (come i punti programmatici) di happening tra musica, poesia, attivismo sociale, arte. Sono stati già raccolti col crowdfunding oltre 65 mila euro, rispetto ai 50 mila necessari.

Zinga: “Sulla prescrizione il M5S ci deve ascoltare”

Clima sempre più teso nella maggioranza in vista del vertice sulla giustizia e sul blocco della prescrizione dopo il primo grado, scattata dal primo gennaio come prevede la riforma Bonafede, summit che andrà in scena domani, dopo essere già slittato una volta. Pd, Italia Viva e Leu chiedono ai 5 Stelle di modificare la norma, ognuno a modo loro. Con Giuseppe Conte costretto come sempre a una difficile mediazione. Il più tranchant è Matteo Renzi che, se nulla cambierà, minaccia di votare il ddl Costa (Forza Italia) che elimina di netto il blocco della prescrizione. Una soluzione che per molti puzza di ribaltone.

Ieri mattina si è tenuta l’iniziativa di + Europa e Radicali vari, che hanno visto unirsi anche Carlo Calenda e Stefano Parisi. Il tutto si è svolto con un presidio mattiniero davanti Montecitorio alla presenza di una cinquantina di persone. I pro-prescrizione, oltre che contro Bonafade e i 5 Stelle, puntano il dito soprattutto contro Renzi e Zingaretti. “Più i pentastellati calano nei sondaggi, più riescono a imporsi sul governo. Se Pd e Italia Viva si oppongono a questa legge solo a parole, sono complici di questa barbarie. Il processo è già una pena e non può durare per sempre”, afferma Calenda. I cronisti presenti notano, con un pizzico di perfidia, che ormai dove c’è lui non c’è Renzi e viceversa. Anche se poi l’elettorato cui puntano è il medesimo.

Tutti guardano come a un totem all’intervista rilasciata da Giuliano Pisapia a Repubblica lunedì scorso. “È uno scempio. Il Pd fermi la riforma della prescrizione”, le parole dell’ex sindaco di Milano nonché avvocato dalle colonne del quotidiano. “Ha ragione, questo è uno scempio giuridico. Che i 5 Stelle vogliano tutti in galera non è una notizia, la notizia è che tutto ciò avviene con l’assenso di Pd e Italia Viva”, osserva Della Vedova. A illustrare il modus operandi è Riccardo Magi. “Noi di + Europa proporremo un emendamento al Milleproroghe che faccia slittare la riforma. Poi inviteremo i partiti di maggioranza e opposizione a sedersi attorno a un tavolo per trovare un accordo”, spiega il deputato. “Su questo punto assistiamo a trasformismi incrociati: la Lega prima era d’accordo e ora si oppone, il Pd era contrario e ora non sa come dire no a Di Maio…”, aggiunge.

Ma per Emma Bonino la questione è dirimente sul futuro della maggioranza. E tira in ballo un caposaldo della cultura radicale, la lotta per “la giustizia giusta” di pannelliana memoria. “Mi batto per questo da quando ero ragazza, almeno dal caso Tortora del 1983. Per non far cadere il governo non si può accettare tutto, perché poi magari questo esecutivo cadrà lo stesso e per motivi assai meno nobili…”, afferma la senatrice. Tra la piccola folla infreddolita spunta Marco Taradash. E il redivivo Parisi che, col suo Energie per l’Italia, avevamo lasciato a contendere la leadership del centrodestra a Berlusconi, poi evaporato come molti altri.

In serata arriva la nota di Zingaretti. “Noi abbiamo presentato la nostra proposta di legge per garantire una durata ragionevole dei processi. Come noi siamo andati incontro ai 5 Stelle sul taglio dei parlamentari, anche loro devono fare altrettanto sulla prescrizione”, dice il leader Pd. Mentre filtra un possibile compromesso: se dopo la sentenza di primo grado quella di appello non arriverà entro due anni, la prescrizione tornerà a correre. Qualcuno ci lavora, ma per ora è solo un’ipotesi.

Veleni, pm, brogli & C. Le primarie scontate (ma tristi) di Emiliano

“Temo che le primarie siano diventato soltanto fiction”. Nichi Vendola è uomo che conosce la politica e lo spettacolo, fresco com’è dal successo zaloniano di Tolo Tolo, in cui recita una piccola parte. E il suo è forse l’epitaffio più beffardo per ciò che in Puglia deve ancora compiersi, ma in tanti ritengono già sepolto. Già, perché domenica 12 gennaio in Regione si vota per le primarie di centrosinistra, con largo anticipo rispetto alla scadenza elettorale di questa primavera.

A sfidare Raffaele Fitto, che dovrebbe essere il candidato del centrodestra, sarà con ogni probabilità Michele Emiliano, il governatore che dopo due mandati da sindaco di Bari punta a succedere a sé stesso in Regione sbaragliando gli altri tre concorrenti. Quel che però dovrebbe essere un bell’esercizio di democrazia – sia lode alla partecipazione attiva dei cittadini – rischia di essere poco più che una passerella in cui, come in omaggio a un film di Nanni Moretti, gli assenti avranno maggior risalto dei presenti.

Colpa di una infinita serie di polemiche, accuse e colpi bassi che già hanno svilito la competizione. Italia Viva, per esempio, non solo non presenterà candidati, ma ha anche definito le primarie “una farsa” invitando così gli elettori a stare a casa. Così anche l’avvocato Michele Laforgia – fondatore dell’associazione politica “La giusta causa”, che pure invocava le primarie per un nuovo centrosinistra – e un pezzo dello stesso Pd, che ha scaricato il governatore e il voto di domenica. È il caso del salentino Dario Stefano, senatore rimasto nei dem nonostante la vicinanza a Renzi, che qualche giorno fa ha preso le distanze dalla competizione: “I dubbi sulle primarie, più che miei personali, sono di un pezzo importante della società civile del centrosinistra, che non si sente rappresentata dalle consultazioni. La comunità democratica si è sentita spesso insultata quando ha visto il sostegno di Emiliano a esponenti di spicco di CasaPound o della destra e mai a candidati del Pd, o quando ha dovuto ascoltare i tanti comizi elettorali tutti contro il partito”.

Gli attriti, dunque, vengono da lontano. Parte del Pd e Italia Viva ce l’hanno con il governatore per anni di trincea contro la segreteria Renzi e non sopportano un voto che suona plebiscitario. Il tempo per organizzarsi è stato poco e sotto le feste, con elezioni previste in pieno inverno e senza il necessario dibattito: motivi per cui gli antagonisti di Emiliano stanno cercando preventivamente di togliere tutta la legittimazione possibile alla sua vittoria.

Anche chi alle primarie correrà lo ha capito. Fabiano Amati – uno dei tre sfidanti con Elena Gentile e Leo Palmisano – arriva persino a ventilare l’ipotesi di brogli: “Siccome sento echi di mobilitazioni non spontanee condotte dai capibastone locali di Emiliano, avverto che non riconoscerò il risultato dei seggi ove non ci fosse corrispondenza tra i voti espressi e i soldi raccolti”. Sospetti condivisi da Laforgia, che critica alcune nomine di fine anno nelle società di competenza della Regione e cita “l’assurdo ritardo con cui si è arrivati 12 giorni prima delle primarie a stabilizzare personale pubblico”.

Un clima che non piace per niente a Emiliano e che secondo il governatore, come spiegato in una intervista al Corriere del Mezzogiorno, prelude a risvolti pericolosi: “Noto un atteggiamento di attesa, come se qualcuno si aspettasse una disgrazia su di me, di natura fisica o giudiziaria, che mi escluda dal gioco. Mi auguro che nessuno si stia organizzando per farmi del male”. Emiliano è in effetti sotto inchiesta per abuso d’ufficio per una nomina che l’accusa ritiene illegittima, ma i rumors pugliesi indicano il motivo di nervosismo del governatore in altre indagini: una a Foggia che ha portato all’arresto dell’ex deputato Udc Angelo Cera (un’altra nomina, peraltro poi mai avvenuta) e l’ha già visto coinvolto, l’altra a carico del suo capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi, indagato per truffa aggravata e abuso di ufficio riguardo alla gestione di un corso di formazione.

In realtà alle prossime regionali Emiliano correrà da super-favorito. Da anni ha imbarcato alcuni tra i più grossi collettori di voti del centrodestra pugliese: gli esempi più famosi sono Simeone Di Cagno Abbrescia, tra le altre cose ex sindaco di Bari per Forza Italia, nominato presidente dell’Acquedotto pugliese e Massimo Cassano, già berlusconiano, poi renziano, poi ancora berlusconiano e ora Emiliano, per così dire. vista la nomina a capo dell’Agenzia regionale per il lavoro. Ultimo arrivato, e siamo a pochi giorni fa, è l’avvocato Giacomo Olivieri, che aveva lavorato per il centrodestra alle Comunali di Bari del giugno 2019.

Quel che resta delle primarie è insomma la (brutta) sceneggiatura di un film di spionaggio. In primavera la rabbia di Italia Viva potrebbe infatti tradursi in un proprio candidato o comunque in un mancato sostegno al governatore. Scenario che Emiliano dà già per certo, rivendicandolo però come una propria scelta: “Chi non partecipa alle primarie parlerà con noi solo dopo le elezioni, quindi o andrà da solo o si alleerà con Salvini. Renzi sta cercando di farci perdere le elezioni per vendetta”.

Restituzioni, 47 “a processo”. Grillo chiama i dissidenti

I vertici inseguono la tregua, sui soldi e sul resto. Anche con i più ostili tra gli oltre 40 parlamentari ancora non in regola con le restituzioni, e anche con i più agitati dei contiani. Perché ha bisogno di pace e tempo il capo politico dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio, per fare per davvero il ministro degli Esteri e sminare gli Stati generali di marzo. E pace vogliono il Garante e fondatore Beppe Grillo, che sta chiamando a uno a uno i malpancisti, e il premier Giuseppe Conte, che con Grillo si sente di continuo: “Anche per interposta persona” raccontano. A conferma di un asse che può essere il nuovo punto di equilibrio del M5S e del governo che pende spesso da quel lato, quello a 5Stelle.

Come ieri, nel giorno in cui il collegio dei probiviri fa il punto sui procedimenti disciplinari in una riunione a Roma con i capigruppo di Camera e Senato, Davide Crippa e Gianluca Perilli. “L’85 per cento degli eletti è in regola” recita il comunicato finale. Quindi, calcolatrice alla mano, 47 parlamentari non sono a norma. “Ma il numero esatto ancora non c’è, vedremo nelle prossime ore” spiegano. Nell’attesa c’è già chi lo rivendica, come il deputato Nicola Acunzo: “Ho sospeso le restituzioni nel 2019 affinché avvenga un chiarimento sul cambio di modalità dei versamenti”. Ossia non gli sta bene che quei soldi finiscano su un conto di una banca di Milano, intestato a Di Maio e agli ex capigruppo Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva. Così non ha versato nulla l’anno scorso, come altri quattro deputati e almeno due senatori, Alfonso Ciampolillo e Mario Michele Giarrusso. E tutti e sette ora rischiano l’espulsione, perché così hanno stabilito i probiviri: espulsione per chi non paga da un anno e più, sospensioni per chi non versa da alcuni mesi, semplice richiamo per i casi più lievi.

Ma i tre “giudici”, la ministra Fabiana Dadone, il capogruppo in Veneto Jacopo Berti e Raffaella Andreola, consigliera comunale a Villorba (Treviso), vorrebbero limitare al minimo la mannaia, perché così chiede Di Maio. “Molti stanno sanando il pregresso” giurano. Tutti gli eletti sotto procedura avranno dieci giorni per evitare la scure: il lasso di tempo in cui da regolamento possono presentare le controdeduzioni ai probiviri, e in cui versando le rate arretrate potranno salvarsi. “Si cercherà di parlare con tutti e di valutare ogni situazione” spiega il capogruppo in Senato Perilli. Sia lui che Crippa ieri nella lunga riunione (4 ore) alla Camera hanno chiesto di evitare eccessiva severità, perché i gruppi parlamentari sono già abbastanza inquieti. E lo ha ribadito ieri l’uscita del deputato catanese Santi Cappellani, passato al Gruppo misto. Così dai probiviri hanno promesso dialogo, ma senza deroghe particolari. E la sensazione è che in Senato sia con un piede e mezzo fuori Ciampolillo (“non lo vediamo da tempo”) mentre rimane in bilico Giarrusso.

Poi ci sono gli irriducibili della Camera, accomunati dal no ai versamenti sul conto di Milano. Così oltre a Acunzo rischiano la cacciata Flora Frate, Andrea Vallascas e Nadia Aprile, a zero con le restituzioni nel 2019. Come Paolo Romano, che ha posto il tema delle sue spese legali (come Giarrusso). Rischia anche la deputata Dalila Nesci, ferma con i pagamenti a febbraio, che ringhia in un video: “Combatto ogni giorno le mafie, figuriamoci se ho paura dei probiviri: non rendiconterò più per protesta”. Sabato ha effettuato bonifici per delle associazioni. Ma se non cambia idea verrà almeno sospesa. E rischia la stessa sorte Andrea Colletti, fermo anche lui a febbraio, che al Fatto aveva detto: “Deve cambiare il sistema delle restituzioni”. Dietro le quinte, il lavorìo di Grillo. Da giorni il fondatore telefona a dissidenti di vario ordine e grado per rabbonirli. Sta cercando anche i “contiani”, quelli che volevano uscire in Senato per formare un gruppo in suo nome. Ma il pressing di Grillo sta funzionando. Come i moniti del premier, pronto a disconoscerli. Così invece che gruppo i contiani si faranno “componente”, dentro il M5S. E in settimana diffonderanno un loro documento con punti programmatici, da sottoporre a Di Maio. Poi ci sono i 5Stelle tentati dal gruppo che Fioramonti vuole far partire da febbraio alla Camera, Eco. “Non pensino di sedere al tavolo di governo” avvertono dal M5S. Intanto dall’alto piovono telefonate per evitare che il gruppo si riempia di grillini. Stanchi, di restituzioni e di altro.

“Green” Sala inizia il 2020: via il parco, ecco il cemento

Il 2020 a Milano è cominciato con l’abbattimento di un parco. Il primo atto politico di Giuseppe Sala – il sindaco green che si fa i selfie con i ragazzi che seguono Greta – è stato quello di dare il via libera al taglio degli alberi del Campus Bassini, un’area cittadina di 6 mila metri quadrati da sempre verde.

All’alba del 2 gennaio, in una città addormentata e svuotata per il capodanno, è arrivata in via Bassini una squadra di 80 poliziotti in tenuta antisommossa che ha circondato le persone – una trentina di ragazzi del Fridays For Future e di signore del quartiere – che erano corse agli ingressi del parco alle 5 di mattina, allertate dalla chat del Comitato Bassini. “L’area è del Politecnico, che vuole costruirci su il nuovo dipartimento di Chimica, un palazzone di sei piani”, spiega la consigliera comunale Cinquestelle Patrizia Bedori, presente al blitz dell’alba. “Ma è stato il Comune di Milano a dare il via libera, dopo aver promesso una mediazione che non c’è stata”.

La professoressa Arianna Azzellino, docente di Valutazione d’impatto aziendale proprio al Politecnico, ricorda che il rettore Ferruccio Resta “è stato eletto nel 2016 anche per la sua promessa di costruire il nuovo dipartimento di Chimica al posto dell’edificio in cui ancora ci sono l’involucro e le scorie radioattive del vecchio reattore nucleare. Ora ha cambiato idea: lo vuole sull’area del parco, dove ha fatto abbattere, per ora, i primi 35 alberi delle 140 piante totali, con la promessa che, a compensazione, realizzerà un nuovo parco sull’area dove c’è il reattore. Ma questo sarà bonificato chissà quando. Ormai non crediamo più a nulla di quello che ci dice il rettore”.

Giovedì 9 gennaio, protesta dei cittadini: “Un corteo da via Bassini a Palazzo Marino”, annuncia la portavoce dei Verdi a Milano Elena Grandi, “per chiedere che l’area non sia edificata e che il Comune vieti nuove costruzioni in tutte le aree verdi rimaste. Sala si affacci al balcone di Palazzo Marino e chieda scusa: se l’ha fatto un Papa, può farlo anche lui”. Invece delle scuse, Sala è impegnato a costruire la sua immagine verde. Oltre alla partecipazione, il 27 settembre 2019, al grande corteo contro i cambiamenti climatici dei ragazzi del Fridays For Future, il sindaco ha regalato borracce ai ragazzi delle scuole, con grande copertura di stampa e photo opportunity a fianco del cantante Marco Mengoni; ha annunciato l’arrivo dei nuovi bus elettrici; e ha promesso 3 milioni di alberi da piantare a Milano entro il 2030. Fatti i conti, sono 5.769 alberi a settimana. Finora non li abbiamo visti. In compenso abbiamo visto le classifiche che mettono Milano al secondo posto in Italia per inquinamento dell’aria e al primo per consumo di suolo. E abbiamo visto i piccoli e i grandi progetti che cementificano aree verdi. Tra i piccoli, quello di via dei Ciclamini, dove saranno abbattute decine di piante – protesta il comitato locale – “per costruire il complesso residenziale di lusso Corte Verde firmato dall’architetto Stefano Boeri e per allargare le costose residenze per anziani di Villa Biffi”.

Anche il parco chiesto dai cittadini (con 1.400 firme) sull’area di piazza Baiamonti sarà azzerato per far posto alla terza “piramide” (simmetrica a quelle della Microsoft e della Fondazione Feltrinelli) disegnata dalle archistar Herzog e De Meuron: per indorare la pillola e bloccare ogni dissenso, Sala ha promesso che nella nuova “piramide” ci infilerà anche il Museo della Resistenza. Fine delle opposizioni.

Più lunghi e complessi i grandi progetti su cui Sala si è impegnato nei mesi scorsi. Sulle aree degli scali ferroviari – 1,25 milioni di metri quadrati dismessi dalle Ferrovie dello Stato – avverrà la più grande riconversione urbana d’Europa: realizzata dalle Fs e da Manfredi Catella, che cementificheranno lo scalo Farini con indici di edificazione doppi rispetto a quelli concessi dall’appena approvato Piano di governo del territorio (Pgt). Raddoppio del cemento anche sull’area (pubblica) di San Siro: Sala ha concesso a Milan e Inter la dichiarazione di “pubblico interesse” per il loro progetto di edificare, con la scusa del nuovo impianto e grazie alla “legge sugli stadi”, quasi 300 mila metri quadrati di spazi commerciali, torri e grattacieli. Nuovo cemento anche nell’immensa area della Piazza d’armi. Ma Sala è green.

Bretella Gavio, a Lucca crollano pezzi del ponte

Chi vive da tempo sotto quel viadotto, il “Montramito”, sulla bretella dell’A11 che raggiunge la A12 passando da Lucca e Viareggio, ricorda di calcinacci e pietre che si staccavano dai piloni cadendo vicino alle case e sulla strada sottostante. Così, dopo la tragedia del ponte Morandi che provocò 43 vittime nell’agosto 2018, gli abitanti della zona e l’allora sindaco di Massarosa (Lucca) Franco Mungai avevano deciso di denunciare lo stato di deterioramento del viadotto che ormai andava avanti da anni. Almeno due esposti sono arrivati alla Procura di Lucca e l’inchiesta si avvicina alla conclusione, ponendo nuove ombre sulla manutenzione da parte del concessionario.

Gli indagati dalla Procura di Lucca, come ha rivelato ieri il quotidiano La Nazione, sono in tutto quattro, tra cui anche i vertici di Salt (Società autostradale ligure-toscana), controllata al 95% dalla finanziaria Argo della famiglia Gavio che ha la concessione su buona parte delle autostrade liguri e del Nord Italia: il presidente del consiglio di amministrazione di Salt e storico sindaco di Massarosa dal 1999 al 2009 Fabrizio Larini, l’ad della società Claudio Vezzosi, Alberto Binasco che dal 2015 era delegato per Salt alla sicurezza stradale e Daniele Buselli, incaricato dal marzo 2015 degli interventi tecnici di manutenzione dell’autostrada.

Salt controlla i tratti Livorno-Sestri Levante della A12, Fornola-La Spezia della A15 e appunto la bretella tra Lucca e Viareggio (A11). L’accusa nei confronti dei quattro è di “omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciavano rovina” (articolo 677 del codice penale): secondo i pm di Lucca che hanno fatto svolgere i rilievi a un proprio consulente, i vertici di Salt, dal 2013 in poi, non avrebbero completato i lavori di manutenzione su piloni e fondamenta del ponte che avrebbe portato alla caduta frequente di massi e calcinacci. Questo nonostante due norme, una del 2003 e l’altra del 2008, imponessero alla concessionaria di verificare e manutenere il tratto stradale anche alla luce delle leggi sull’adeguamento antisismico.

Dalle indagini si apprende che in pericolo non sarebbe il viadotto “Montramito” quanto le strade e le abitazioni circostanti della frazione di Bozzano dove sarebbero caduti diversi detriti: la Procura di Lucca aveva già chiesto all’ex sindaco Mungai se volesse limitare l’accesso al viadotto ma dopo diverse riunioni in prefettura si è sempre deciso di lasciare libero il transito. Da diversi mesi Salt ha prima presentato un piano di manutenzione tutt’ora in corso nella parte nord del ponte. “Sicuramente la paura del ponte Morandi ha fatto la sua parte – dice al Fatto Quotidiano l’attuale sindaco Alberto Coluccini – ma allo stesso tempo è chiaro che i piloni in cemento armato del viadotto si stavano deteriorando da tempo. Adesso, con i lavori di manutenzione, la situazione migliorerà”.

Gli esposti degli abitanti erano partiti nel 2018 anche dopo alcuni sopralluoghi del senatore viareggino del M5S, Gianluca Ferrara con il geologo Giampietro Petrucci, secondo il viadotto era in “stato avanzato di rovina”.