Incubo autostrade. Nord e Sud, viadotti a rischio: “Io segnalo, nessuno fa nulla”

“La legge non dà potere a noi tecnici del ministero di interdire la circolazione quando un viadotto ci sembra pericoloso. Possiamo solo segnalarlo al concessionario. E più di una volta i nostri rilievi non sono stati ritenuti fondati. Allora… ci siamo sentiti in dovere di trasmettere i nostri rilievi alla Procura. Come è successo tra l’altro a Ivrea”. Nel panorama allarmante emerso dalle inchieste sulle autostrade italiane, l’ingegner Placido Migliorino è “l’eroe buono”. Il tecnico del ministero delle Infrastrutture che, pur con le armi spuntate, faceva le pulci alla sicurezza dei viadotti. Lo dimostra l’ormai famosa intercettazione sul viadotto Paolillo (Puglia): “Dobbiamo tenere a bada il mastino”. Ecco, era Migliorino. Nei mesi scorsi, l’ingegnere è stato incaricato dall’allora ministro Danilo Toninelli di compiere verifiche anche sui viadotti di Liguria e Piemonte (già si occupava del centro-sud). Uno dei primi grattacapi, racconta Migliorino, è stato il viadotto Bessolo, alle porte di Ivrea: “Abbiamo chiesto di interdire il traffico perché secondo le nostre verifiche era molto pericoloso. Una carreggiata era ‘crollata’, come si dice in gergo tecnico. Che non significa fosse venuta giù, ma che le travi erano incurvate, non avevano più elasticità. E alla fine abbiamo passato le carte alla Procura”. Chi gestisce quel tratto di A5? “La Ativa (Gavio)”.

Il Bessolo – dove adesso si realizzano interventi importanti con un impatto sul traffico – è uno dei tanti viadotti su cui ‘il mastino’ e la sua squadra hanno puntato il dito. Migliorino, che chiama per nome i viadotti di mezza Italia, aiuta il Fatto a stilare una mappa delle situazioni più problematiche (ne aveva scritto anche Maurizio Caprino sul Sole). Viadotti e tunnel interessati da controlli e limitazioni richieste soprattutto dalle Procure di Genova e Avellino e dal Ministero.

Partiamo dal Piemonte, dove gli interventi non sono stati richiesti dai pm: “Sulla A6, la Torino-Savona controllata dal gruppo Gavio, abbiamo parecchie situazioni delicate. Ci sono viadotti dove ritenevamo necessarie limitazioni del traffico e una distanza minima di cento metri tra mezzi pesanti. Avevamo ipotizzato la chiusura dello svincolo di Altare. Le misure prese dal concessionario a noi inizialmente sono parse insufficienti”. È la stessa autostrada dove a novembre è crollato il viadotto della Madonna del Monte (Savona). È soltanto l’inizio del calvario delle autostrade liguri: “Sulla A10 (Autostrade-Gavio) soprattutto nel tratto tra Genova e Savona i viadotti hanno problemi, ma c’è un discreto margine di sicurezza. Ci sono criticità sull’adeguamento antisismico”. La situazione della A26 (Genova-Gravellona, Autostrade) è nota: la Procura di Genova ha intimato ad Autostrade di chiudere per alcuni giorni la tratta e realizzare immediati controlli. Da mesi è un rosario di cantieri. Non va meglio sulla A7 (Autostrade) dove si sta intervenendo a tamburo battente. Ma il malato più grave, a sentire Migliorino, sarebbe la A12 (Genova-La Spezia, Autostrade e gruppo Gavio): “Qui la situazione è molto delicata. L’autostrada ha carenze di manutenzione e richiede riduzioni del traffico. Diverse strutture presentano degrado avanzato e il margine di sicurezza è minimo”. Come ricorda Migliorino in tante autostrade italiane i problemi strutturali si intrecciano con altri: “C’è la questione delle barriere antirumore (oggetto di un’inchiesta della Procura di Genova, ndr). Ora le barriere sono state smontate”, ricorda l’ingegnere, anche perché “non erano stati fatti i calcoli sull’azione del vento”. Non un dettaglio in una regione come la Liguria con tramontana a cento all’ora.

Spostandosi verso sud ecco il viadotto Montramito sulla bretella dell’A12 per Lucca, gestito da Salt (Gavio, vedi articolo a lato). Ci sono poi i provvedimenti della Procura di Avellino su una trentina di viadotti tra Napoli-Canosa (A16), Adriatica (A14) e Milano-Napoli (A1). Il problema sono le barriere di sicurezza non a norma. La procura di Avellino guidata da Rosario Cantelmo ne ha ottenuto il sequestro – e la chiusura della corsia bordo ponte, con conseguente restringimento della carreggiata – nell’ambito di una ‘costola’ del processo per la strage di Acqualonga (40 morti nel pullman dai freni rotti precipitato dal viadotto irpino). Una perizia, accolta dalla sentenza che ha condannato in primo grado anche i responsabili di tronco di Aspi, ha stabilito che i new jersey avrebbero retto all’impatto, se i sistemi di ancoraggio fossero stati correttamente manutenuti. Invece i tirafondi Liebig risultarono fradici dopo anni di incuria. Dopo l’incidente, Aspi ha sostituito i sistemi di ancoraggio delle barriere in mezza Italia con un metodo censurato dai consulenti dei pm e dai tecnici del ministero. Quei lavori, secondo i pm, avrebbero aggravato i problemi invece di risolverli. Di qui i sequestri contro cui Aspi ha presentato ricorsi. Nelle scorse settimane Aspi si è ‘arresa’ e si è adeguata, dichiarandosi disponibile alla sostituzione delle barriere. È arrivato così il dissequestro temporaneo per dieci viadotti tra la A14 e la A16. Il provvedimento è funzionale alla cantierizzazione dei lavori di sostituzione delle barriere, gestiti da Pavimental. Dunque, i disagi per la viabilità proseguiranno. Inoltre, in uno dei viadotti della A14, il Cerrano (alto quasi 90 metri), a dicembre il Gip aveva ‘rinforzato’ il decreto di sequestro aggiungendo il divieto assoluto di transito per i mezzi oltre i 35 quintali.

I tecnici del ministero hanno disposto limitazioni anche sulla A24 (Strada dei Parchi, gruppo Toto): per i mezzi pesanti sono previsti divieto di sorpasso e distanza minima di 50 metri. Non basta: “Si stanno compiendo interventi anche sulla tangenziale di Napoli e sulla A3 (Napoli-Salerno, gestita da Sam controllata da Autostrade)”, conclude Migliorino, “con limitazioni per i mezzi pesanti. Il ministero ha chiesto che fossero utilizzate delle “pese dinamiche”. In pratica delle bilance che in tempo reale calcolano il carico dei camion. Quelli troppo pesanti devono essere subito deviati su altri percorsi”. La sicurezza viene prima del traffico.

Guaidó torna e si riprende l’Assemblea

Ancora una giornata di tregenda in Venezuela dove l’oppositore Juan Guaidó, dopo aver superato i blocchi delle forze di sicurezza, ha inaugurato la sessione dell’Assemblea nazionale, il Parlamento di cui rivendica la presidenza.

Il giorno precedente la carica gli era stata negata da un altro esponente dell’opposizione, Luis Parra, appoggiato dal blocco chavista (e accusato di aver ricevuto 750 mila dollari per questo) che rivendicava la propria elezione a presidente del Parlamento. Ieri il nuovo colpo di scena.

Guaidó ha fronteggiato con i deputati a lui fedeli le forze di polizia a guardia del Parlamento e, senza nemmeno troppo sforzo, è entrato. Poi, l’elezione, il giuramento e la sconfessione del voto a Parra, giudicato illegittimo perché celebrato in assenza di molti deputati dell’opposizione. Parra, dal canto suo, è fuggito via correndo. In serata gli uffici del Parlamento hanno diramato la lista di 100 deputati, su un totale di 167, a favore di Guaidó. Ma i conti fanno fatica a tornare perché Guaidó conteggia tra i propri sostenitori anche i deputati che sono in esilio (27 secondo una ricostruzione fatta dal quotidiano spagnolo El Paìs, che ieri ha denunciato l’aggressione subita dalla polizia del suo corrispondente) e quelli sotto processo. Il Tribunale Supremo di Giustizia ha negato questa eventualità e quindi Guaidó non dovrebbe avere a suo vantaggio più di 73 deputati, sufficienti però a eleggerlo visto che è sufficiente la maggioranza dei presenti e ieri il blocco chavista ha disertato la seduta.

Secondo Parra, invece, al momento della propria elezione in aula erano presenti 150 dei 167 deputati iscritti e a suo favore avrebbero votato anche 31 deputati delle opposizioni. Ma anche questo conteggio appare molto dubbio. Tenendo conto dei 100 deputati a suo favore, Guaidó ha comunque registrato una perdita di voti nell’opposizione che conta 112 rappresentanti.

La partita politica è però più profonda. Guaidó, infatti, sconta una difficoltà crescente a tenere unita l’opposizione che non è convinta della sua strategia mentre il regime di Maduro ha iniziato una offensiva, secondo i giornali di opposizione anche a colpi di denaro e di corruzione, per dividerla. L’iniziativa di ieri dovrebbe rafforzarlo come unico leader anche perché ha sfruttato la scelta del governo di mettere in campo i soldati a presidio del Parlamento: scelta che non si è rivelata efficace. Maduro, inoltre, sconta la perplessità di alcuni alleati regionali, come Argentina e Messico, che non hanno gradito la piega degli eventi. Il numero due del chavismo, Diosdado Cabello, è dovuto intervenire ieri contro i due Paesi che avevano criticato proprio l’utilizzo dei soldati per impedire l’accesso al Parlamento. Una dichiarazione che è spia di una difficoltà.

Sánchez ricomincia da due: la Spagna ha il primo governo di coalizione

Due voti. Per soli due voti, don Pedro Sánchez Pérez-Castejón, già presidente uscente e vincitore di due tornate elettorali – la prima orfana di maggioranza – ha ottenuto ieri la fiducia de las Cortes per formare il nuovo governo. Sì, 167, no, 165, 18 astenuti: una maggioranza semplice che dà il via al primo esecutivo di coalizione della democrazia spagnola. Sotto i peggiori auspici di solidità, ma che depenna la Spagna dall’elenco, sempre più numeroso, dei paesi in cui votare non assicura di avere un governo. Quello spagnolo si è meritato, ancora prima di vedere la luce – Sánchez giura oggi e i ministri si sapranno solo tra qualche giorno – lacrime, applausi e anche qualche rimprovero.

“Doveva nascere quattro anni fa”, ha accusato l’ex numero due di Podemos, Inigo Errejon, l’ex compagno di partito e ora vicepresidente del governo Pablo Iglesias, al tempo fautore del “no” ai socialisti in quanto “casta corrotta”. Lo stesso Iglesias che asciugandosi gli occhi, ieri teneva con le mani il ritmo al coro dei suoi deputati: “Si se puede”. Insomma, è fatta. La Spagna non solo ha un governo, ma anche il più a sinistra della storia europea recente. Peccato per i cattivi auspici e la debolezza insita che lo rendono in continuo odore di crollo, visti anche i temi difficili e divisivi che si troverà ad affrontare. Primo fra tutti la questione catalana. “Speriamo di essere all’altezza dell’accordo sottoscritto”, si auspicava lo stesso Iglesias nel discorso di investitura. Gli indipendentisti – che avevano legato l’astensione per facilitare l’ok alla fiducia alla coalizione rosso-viola, alla presenza di Unidas Podemos nell’esecutivo e alla riapertura del tavolo negoziale – hanno mantenuto la parola. Il tavolo partirà entro 15 giorni, non si sa però su quali basi. Per non parlare delle altre otto formazioni presenti in Parlamento per convincere le quali a dare loro fiducia, Sánchez e Iglesias hanno stilato 91 pagine di accordi, non tutti chiarissimi. Da non tralasciare le riforme promesse, che pur volendo far passare per leggi semplici hanno bisogno di 176 voti, o il rinnovo degli organi istituzionali, per cui c’è bisogno dei tre quinti de las Cortes, cioè 210 voti. Per ora Sánchez ne ha 167 più 18: che fa 194.

Weinstein, l’attrice italiana è pronta a testimoniare

Due donne, cinque capi d’accusa, un imputato: Harvey Weinstein è alla sbarra a New York. Comunque vada dovrà affrontare un secondo processo a Los Angeles, e a Manhattan non è iniziata bene: un giudice ieri ha minacciato di sbatterlo in prigione, dopo averlo sorpreso a usare due telefoni cellulari malgrado gli avvertimenti a non farlo.

A due anni dalle prime avvisaglie dello scandalo che l’ha travolto, allorché il New York Times e il New Yorker raccolsero gli addebiti a suo carico che avrebbero poi originato il movimento globale #MeToo, il mogul hollywoodiano deve rispondere in aula alle accuse da parte di due donne: l’ex assistente di produzione Mimi Haley, secondo cui Weinstein l’avrebbe costretta a praticargli sesso orale nel suo appartamento nel 2006, e un’altra rimasta anonima che asserisce di essere stata stuprata in un hotel di Manhattan sette anni più tardi.

Solo due delle oltre 80 attrici, tra cui Asia Argento, Angelina Jolie, Uma Thurman e Salma Hayek, assistenti e addette ai lavori che hanno rivelato pubblicamente le molestie e gli abusi subiti dal produttore.

Se sul versante civile l’accordo extragiudiziale raggiunto lo scorso dicembre, secondo il quale Weinstein sarà tenuto a risarcire una trentina di accusatrici con venticinque milioni di dollari resi disponibili dalle società assicurative che rappresentano la sua ex società The Weinstein Company, ha messo la parola fine, il procedimento penale – attualmente si stanno selezionando i membri della giuria – che lo vede protagonista a Manhattan verte su cinque capi di accusa: uno di atti sessuali criminali, due di stupro e due di atti da predatore sessuale, per cui lo Stato di New York prevede quale pena massima l’ergastolo.

A testimoniare non saranno solo le due accusatrici: altre donne, tra cui l’attrice Annabella Sciorra, corroboreranno le imputazioni. Da parte sua, il 67enne produttore ha respinto ogni addebito. Ma quello newyorchese non è più il solo teatro giudiziale che Weinstein, presentatosi in deambulatore e assistito da cinque avvocati, calcherà: in concomitanza con l’apertura del processo a Manhattan, la Procura di Los Angeles l’ha incriminato per lo stupro di altre due donne.

Entrambi i fatti risalirebbero al febbraio del 2013: il 18 avrebbe incontrato un’attrice e modella italiana, all’epoca 34enne e con tre figli, all’ottavo “Los Angeles, Italia Film, Fashion and Art Festival”, l’avrebbe poi raggiunta la sera stessa in un hotel di Beverly Hills e quindi brutalmente violentata; il giorno seguente avrebbe bloccato nel bagno del proprio hotel una seconda donna, afferrandole un seno e masturbandosi contemporaneamente. Le generalità delle due donne non sono state rese ancora note, della prima si sa che comparve sulla cover di Vogue Italia, che aveva precedentemente incrociato Weinstein a Roma e che attualmente vive nella California meridionale: la decisione di rendere note queste accuse nell’ottobre del 2017 si dovrebbe a un confronto con la figlia adolescente.

Il suo avvocato ha confermato al Los Angeles Times che la donna testimonierà in aula, venendo dunque allo scoperto: “Sarà difficile e stressante per lei, ma sa che è necessario per far condannare Weinstein”.

“La rivoluzione verde del 2009 è morta, anche i riformisti piangono il generale”

“La ‘rivoluzione verde’ è morta e sepolta. Ne è convinta Farian Sabahi, docente universitaria specializzata in Medio Oriente e autrice di Il bazar e la moschea. “Il movimento di protesta del 2009 era stato soffocato nel sangue e i suoi leader messi agli arresti domiciliari il 14 febbraio 2011, dopodiché non li abbiamo più visti”, spiega. “Quel giorno avevano chiesto le autorizzazioni per manifestare solidarietà per la primavera araba in Bahrein, dove la popolazione è stata vittima di una durissima repressione messa in atto dai sauditi: il governo di Ryad aveva mandato i carri armati a sedare la rivolta in piazza delle Perle”.

Perché non vediamo l’opposizione al regime?

L’assassinio del generale Soleimani ha compattato l’opinione pubblica della Repubblica islamica e, per quanto possa sembrare strano, a piangerne la scomparsa sono anche l’ex presidente riformista Muhammad Khatami e l’ayatollah Saanaei, noti per la loro contrapposizione ai falchi di Teheran.

Soleimani può essere stato tradito dai suoi?

Soleimani era un personaggio scomodo, anche per il presidente Rohani e per il ministro degli Esteri Zarif, ma era più utile da vivo, perché giocava un ruolo importante con i capi di Stato della regione.

È realistico pensare che uccidendolo gli Stati Uniti abbiamo creato un fronte sciita nell’area?

Sì certo, assassinando il capo delle forze speciali dei Pasdaran, insieme al leader degli Hezbollah iracheni al-Muhandis e ad altri vertici delle milizie sciite nella regione, gli Usa hanno rafforzato il fronte iraniano e arabo sotto la bandiera sciita.

Passati questi giorni di lutto, l’Iran torna a essere un Paese in crisi, non solo per i diritti, ma anche economicamente. In che modo pensa che potrà tornare alla normalità il regime?

In Iran non c’è normalità da tempo, nel senso che la popolazione subisce le più dure sanzioni economiche della storia. Nel 2015 le autorità della Repubblica islamica avevano rinunciato alla propria sovranità nucleare in cambio della fine delle sanzioni, ma nemmeno il presidente democratico Barack Obama aveva rispettato i patti: restavano in essere le sanzioni finanziarie ed era quindi molto difficile effettuare i pagamenti da e per l’Iran, anche per le aziende europee che volevano fare business in questo paese ricco di energia e risorse minerarie, con 82 milioni di potenziali consumatori di made in Italy. Con l’arrivo del repubblicano Trump, la situazione è precipitata: nel 2017 gli iraniani sono stati inseriti nel decreto contro i musulmani (anche se non si registrano attentati terroristici sul suolo americano per mano di cittadini iraniani, mentre dal Muslim ban restano esclusi paradossalmente i sauditi), gli Usa si sono ritirati dal Jcpoa (l’accordo nucleare firmato a Vienna il 14 luglio 2015 tra i negoziatori iraniani e i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania) e imposto ulteriori sanzioni.

Crede che vi sarà una risposta militare, o piuttosto Teheran troverà un modo per destabilizzare l’Occidente eliminando la presenza straniera dall’Iraq?

In entrambe i casi non sono mosse nell’interesse della Repubblica islamica, che in questi decenni ha sì cercato di espandere la propria influenza nei Paesi vicini, ma non ha l’abitudine di scatenare guerre né di invadere altri Paesi. Per capire il presente è indispensabile leggere la Storia: l’Iran è da sempre vittima di aggressioni esterne, mai carnefice. In questi ultimi secoli l’Iran ha perso territori, pensiamo al Caucaso meridionale (Georgia, Armenia, Azerbaigian) che un tempo faceva parte dell’Impero persiano e che nel 1828 lo scià dovette cedere allo zar con i trattati di Golestan e Turkmanciai dopo una serie di guerre sanguinose. In tempi più recenti, l’Iran neutrale fu invaso dagli Alleati nel 1941. Nel 1953 il premier Mossadeq fu vittima di un colpo di Stato orchestrato a Londra e messo in atto dalla Cia: non gli perdonavano di aver nazionalizzato il petrolio iraniano. E nel 1980 l’Iran fu invaso dal dittatore iracheno Saddam Hussein.

“Caos che aiuta i terroristi: l’Italia stavolta rischia”

“Il caos in cui versa il Medio Oriente rischia di far esplodere di nuovo la minaccia terroristica. Per gli islamisti sono circostanze ottimali. Nell’est della Siria, i soldati americani sono ormai concentrati su un eventuale attacco dell’Iran e trascurano la lotta contro quel che resta dell’Isis. A ciò si aggiunge l’arrivo in Libia degli ex jihadisti siriani rifugiati in Turchia per combattere al fianco del governo di Tripoli contro il maresciallo Haftar. E la situazione si sta degradando rapidamente. La minaccia maggiore non arriverà dalla Siria dove il jihadismo è ormai privo di risorse. È dalla polveriera libica, dove troppi attori, Turchia, Russia, Arabia Saudita, per non parlare di Francia e Italia, stanno muovendo le loro pedine, che la detonazione sarà più forte”. Così parla Gilles Kepel, politologo autore del recente Uscire dal caos (Raffaello Cortina). Il quadro che dipinge al Fatto è scuro.

Che conseguenze per l’Europa?

Disastrose. Proprio ora servirebbe una politica europea di difesa comune, che non esiste. Nel Mediterraneo sono presenti solo due flotte europee, l’italiana e la francese. Sarebbe importante coordinarle. La Germania non fa gli sforzi militari necessari. Così l’Europa resta impermeabile al terrorismo che sale dal sud del Mediterraneo, e inerte di fronte alle manovre militari russe, turche e americane. E la prima a rischio, data la sua posizione geografica, è l’Italia.

In che modo?

Il jihadismo potrebbe approfittare di una nuova ondata di immigrazione non controllata. Una nuova guerra civile in Libia, con la partecipazione turca, potrebbe rilanciare le partenze in mare. Ciò implicherebbe la creazione eventuale di nuove reti, il passaggio di armi, non si possono escludere attacchi sul suolo italiano. Una cooperazione tra Francia e Italia per la sicurezza marittima sarebbe molto più utile dei battibecchi tra Eni e Total.

Eppure la minaccia terroristica sembrava meno forte in Europa…

Solo perché l’Isis è stato militarmente sconfitto. Nel suo momento di massima estensione occupava un territorio di otto milioni di abitanti. Quasi tutti i jihadisti che erano attivi sono stati “vaporizzati” dai droni, come il generale Soleimani per ordine di Trump. Ora stanno cercando di riorganizzarsi, di costituire nuovi territori, più piccoli, e riadattare il loro discorso per educare una nuova generazione di jihadisti nelle enclavi della Francia e del Belgio.

Cinque anni fa, l’attentato a Charlie Hebdo aveva dato inizio a una terribile spirale in Francia e Europa.

È indubbio che c’è un prima e un dopo Charlie Hebdo. I jihadisti hanno attaccato la libertà d’espressione e delle personalità molto amate. L’impatto è stato fortissimo. Come per il Bataclan, eravamo di fronte a un jihadismo di “terza generazione”, un sistema reticolare di individui coordinati, a partire da Raqqa. Lo stesso che, prima ancora, nel 2012, era stato all’origine degli attacchi di Mohammed Merah contro dei poliziotti e in una scuola ebraica. Ma all’epoca le autorità sbagliando, avevano parlato di “lupo solitario”. Quel jihadismo non esiste più.

Regolarmente però assistiamo ad attacchi di radicalizzati armati di coltelli. Se l’Isis è sconfitto, l’ideologia resta?

La comprensione dell’ideologia che circola sempre negli ambienti salafiti e sui social sarà in effetti determinante per eradicare anche la nuova forma di jihadismo, di “quarta generazione”, che è presente oggi. Si tratta di individui isolati, in rottura con la società, ma formattati intellettualmente da predicatori salafiti, come il killer della prefettura di Parigi. Non sono coordinati dall’esterno, c’è qualcosa che “scatta” dentro di loro. È un terrorismo senza gloria, che entusiasma poco i giovani musulmani, ma che resta molto pericoloso. Per sconfiggerlo non servono a nulla i droni.

L’escalation tra Iran e Stati Uniti getta ancora di più nel caos una situazione che era già delicata. La guerra è inevitabile?

L’assassinio del generale Soleimani rientra in una prospettiva elettorale di Trump, che non vuole perdere la rielezione come capitò a Carter dopo l’attacco all’ambasciata americana di Teheran nel 1979. La questione è: cosa farà Teheran. Gli scenari possibili sono diversi. O l’Iran, già fragile per le sanzioni, soccomberà. O tenterà una risposta che obbligherà Trump a reagire. Si scatenerebbe così una reazione a catena che sarà molto difficile da gestire per il presidente americano e che potrebbe far deragliare il suo progetto elettorale.

Emmanuel Macron aveva tentato di fare da mediatore senza successo. Può ancora sperare di riprendere quel ruolo?

Non penso. Sia perché l’escalation ormai è troppo avanzata, sia perché l’Iran ha in mano due ‘ostaggi’ francesi, due ricercatori di Sciences Po che sono detenuti a Evin. Emmanuel Macron non farà nulla prima della loro liberazione. La sola mediazione possibile è russa. La Russia è la sola a poter negoziare con Iran e Stati Uniti. Rinforzando così la sua presenza nella regione.

La vendetta per Soleimani: l’Iran e il piano “11 febbraio”

L’Egitto la settimana scorsa aveva garantito per lui; Ismail Haniyeh, capo di Hamas, voleva uscire da Gaza, ma non avrebbe combinato guai. Israele aveva risposto: ok, può andare dove vuole, tranne che in Iran. In Iran, a casa del nemico storico, quello che vuole l’atomica per radere al suolo lo Stato ebraico, proprio no. Certo, hanno risposto gli egiziani, state tranquilli. Invece, Haniyeh due giorni fa era a Teheran, a stringere la mano alla guida suprema Khamenei e porgere le condoglianze per la morte del generale Soleimani. Si dirà: un bel gesto. Non la pensa così il Mossad, e quella presenza accanto all’ayatollah in una giornata così particolare preoccupa pure gli americani: perché dopo l’11 settembre, ora si teme l’11 febbraio.

La data rappresenta la ricorrenza della rivoluzione sciita in Iran; l’11 febbraio 1979 – il 22 bahman del calendario iraniano – il rovesciamento del regime dello scià Reza Pahlavi è cosa fatta. Solo dieci giorni erano passati dal ritorno dall’esilio dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica iraniana. Intelligence occidentale e analisti ritengono che l’Iran potrebbe scegliere un periodo simbolico per la sua vendetta nei confronti degli Stati Uniti: celebrare il generale Soleimani nel suo 41° anniversario.

Sangue chiama sangue, hanno detto ufficiali e capi religiosi, ma l’azione, più o meno spregiudicata, per far capire agli “imperialisti” che non si tocca impunemente un capo della Quds Force, potrebbe essere messa a segno da un alleato di Teheran. Secondo il sito di informazione israeliano Debka, il regime può radunare 280.000 uomini in Medio Oriente, compresi 100.000 lungo i confini dello Stato ebraico: Hezbollah ha 65.000 combattenti in Libano, Hamas e Jihad Islamica mantengono 20.000 e 8.000 affiliati nella Striscia di Gaza. Iraq: un colpo alle forze americane sarebbe la forma di celebrazione più appropriata dell’11 febbraio, e il messaggio senza parafrasi: l’Iran considera Baghdad una sua provincia e solo la presenza della Nato ostacola il sogno di una mezzaluna rossa in espansione. Secondo la Cnn, le batterie missilistiche per la difesa aerea in Medio Oriente degli Usa sono in massima allerta temendo attacchi con droni; l’intelligence americana ha osservato negli ultimi giorni movimenti di equipaggiamenti militari in Iran, compresi droni e missili balistici; potrebbe essere un tentativo di metterli al sicuro, così come uno spostamento logistico per utilizzarli. Alla Abc, il ministro degli Esteri Zarif – a cui è stato negato il visto dagli Usa per partecipare domani a New York a una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu – ha detto che c’è stato un “atto di guerra contro l’Iran. Non abbiamo nulla contro il popolo americano – ha ribadito –, ma il loro governo li sta portando verso l’abisso. Trump deve smettere di seguire questa strada, basta dare ascolto a persone arroganti e ignoranti”. E l’accordo sul nucleare? “Può e deve essere salvato”. Ma Zarif è un moderato, mentre la strategia di Teheran è quella di mostrare la rabbia in piazza: così, nonostante vi siano stati 56 morti e 200 feriti nella calca durante la cerimonia funebre per il generale Soleimani, ieri a Kerman, città natale dell’ufficiale, la sepoltura è stata conclusa fra scene di disperazione. Ali Shamkhani, il segretario del Supremo Consiglio di sicurezza nazionale dell’Iran, dice che ci sono 13 opzioni per vendicare Soleimani: “Se le truppe americane non lasciano la nostra regione volontariamente, faremo qualcosa per portare fuori i loro corpi in orizzontale”. Replica il capo del Pentagono Mark Esper: “Noi vogliamo stare in Iraq, siamo preparati al peggio. Soleimani era stato preso in flagrante in un incontro con un leader terrorista” e stava “pianificando attacchi”. Conferma The Donald: “Un ritiro dall’Iraq ora sarebbe la cosa peggiore e lascerebbe all’Iran una influenza molto più grande”.

Dopo Sirte, c’è Misurata. Haftar conta sui traditori

Le forze del Generale Khalifa Haftar hanno passato la loro prima notte a Sirte. E già spuntano le prime bandiere verdi, quelle di memoria gheddafiana e bandite dal 2011 quando i ribelli proprio nella città costiera libica trovarono e uccisero l’ex raìs. Di fatto i gruppi armati dell’uomo forte della Cirenaica autoproclamati Esercito Nazionale Libico sono entrati a Sirte grazie al tradimento della Brigata 604. La Brigata 604, in maggioranza appartenente alla tribù gheddafiana dei Forjan, ha defezionato dalla coalizione che fa capo al Governo di Accordo Nazionale e ha aperto le porte della città di Sirte agli uomini di Haftar.

All’alba di mercoledì, i gruppi armati che fanno capo al primo ministro Serraj riconosciuto dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale, erano schierati sul lato Ovest di Sirte. Centinaia di uomini armati chiamati all’appello sotto l’egida dell’operazione Bunyan Al Marsous, lanciata dal Gna nella Primavera 2016 per dare la spallata finale ai combattenti dello Stato Islamico a Sirte, erano pronti, pare, per un’immediata controffensiva e la riconquista della città che dal 2014 fino a lunedì scorso ha rappresentato la linea del Rubicone tra la Libia dell’Ovest e quella dell’Est. Ma in tarda mattinata è arrivato il contrordine. Troppo pericoloso impegnarsi in un altro fronte come quello di Sirte, mentre anche a Tripoli le forze di Haftar hanno intensificato la loro offensiva tanto da essere giunti quasi in città. Tripoli decide di lasciare Sirte per ora in mano a Haftar, tentando di non cadere nella trappola. Ora il prossimo obiettivo è Misurata, città della costa a cento chilometri da Sirte, e bastione difensivo lungo la strada per Tripoli (e le cui milizie difendono il governo Serraj).

Il vero obiettivo del generale è conquistare la capitale dove ci sono i palazzi governativi e le principali istituzioni nazionali come la Banca Centrale e la National Oil Corporation, cassa centrale dell’industria petrolifera.

Haftar pensava che con la sua offensiva lanciata lo scorso aprile, la capitale sarebbe caduta in poche ore. E invece davanti alla sua offensiva anche le milizia che da anni si fanno la guerra a Tripoli, si sono compattate. Quella che doveva essere una guerra lampo si è trasformata in un conflitto lungo e paludoso. Infatti sul terreno la coalizione di forze del Gna riesce a tenere testa alle forze del generale dell’Est.

Tuttavia la campagna di bombardamento aerea portata avanti da Haftar grazie alla tecnologia avanzata di Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Francia e Russia, ha messo in serie difficoltà la coalizione di Tripoli. Mentre Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania dal 2015 garantiscono sostegno all’aviazione di Bengasi, la Francia da tre anni si presta per attività di spionaggio pro-Haftar e dall’inizio dell’offensiva su Tripoli anche forze speciali sul terreno.

Invece la Russia da settembre conta sul suolo libico decine di combattenti della società di contractor Wagner, con cui notoriamente Mosca partecipa alle guerre per procura in cui è impegnata nella regione defilandosi però dalle sue responsabilità statuali. Proprio ieri, secondo alcuni report, avrebbe mandato rinforzi facendo atterrare altri uomini a Bengasi.

Non è invece ancora chiaro quali siano i mezzi che la Turchia vorrà mettere a disposizione del suo alleato a Tripoli. In rete sono circolati video con combattenti siriani che Ankara avrebbe mobilitato sul territorio libico, ma si tratterebbe di fanteria e nulla di più.

Il pericolo che Haftar abbia già stretto accordi con alcune milizie fino ad oggi pro-Gna rappresenta l’insidia principale di questa fase del conflitto. Infatti a Tripoli importanti milizie che rappresentano il sigillo di protezione al quartier generale del premier sono della corrente sunnita di matrice saudita madkhali proprio come la Brigata 604 di stanza a Sirte, quella che ha tradito. Se anche le milizie madkhali come le Forze Speciali Rada passano dall’altra parte, Tripoli si trasformerebbe in linea del fronte su cui si combatterebbe la battaglia madre.

Risiko Iraq: i militari italiani non se ne vanno

Una diffusa incertezza mista a timori per la sicurezza tra i governi che hanno missioni in Iraq e un’imprevista battuta di arresto nella lotta all’Isis. Si dispiegano a 4 giorni dal raid condotto via drone contro l’auto di Qassem Soleimani sull’Airport Street di Baghdad le uniche prime vere conseguenze della decisione di Donald Trump di eliminare il capo delle brigate Al Quds.

Il senso di un pomeriggio in cui le cancellerie europee hanno comunicato alla spicciolata spostamenti stile Risiko dei militari impiegati in Iraq nella formazione in chiave anti-Isis delle forze irachene è racchiuso nella richiesta consegnata al capo del Pentagono Mark Esper dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini, che al telefono con il collega ha sottolineato “l’importanza di far fronte in maniera coordinata agli sviluppi futuri”. A sottolineare con il linguaggio della diplomazia che la decisione di eliminare il leader delle unità speciali dei Pasdaran presa la notte del 2 gennaio dal capo della Casa Bianca dal suo resort di Mar-a-lago ha buttato all’aria le coordinate fino a quel momento seguite dai paesi impegnati nello scenario iracheno in operazioni militari in ambito Nato.

Per ragioni di sicurezza, ha spiegato una fonte dell’Alleanza atlantica ribadendo una decisione adottata nei giorni scorsi, “si è deciso di sospendere temporaneamente l’addestramento sul campo. Ciò include il riposizionamento temporaneo di alcuni membri del personale in luoghi diversi sia all’interno che all’esterno dell’Iraq”. Ovvero la logica alla base della scelta di Roma di spostare circa 40 uomini di stanza nel compound americano “Union 3”, a pochi metri dall’ambasciata Usa nel centro di Baghdad, impegnati nella “Nato Mission Iraq”, che fornisce assistenza e formazione alle forze di sicurezza locali dall’ottobre 2018. In prevalenza carabinieri (più alcuni soldati dello staff del comandante del contingente nazionale, generale Paolo Attilio Fortezza), 30 di loro sono stati trasferiti in luoghi più protetti, sempre nella capitale, e dieci sono stati dislocati a Erbil. Un provvedimento che “rientra nei piani di contingenza per la salvaguardia del personale impiegato”, ha fatto sapere lo Stato Maggiore della Difesa confermando la notizia riportata in mattinata dalla Stampa. Le pedine si muovono, ma la sostanza non cambia: “L’Italia conferma il suo impegno al fianco dell’Iraq – ha spiegato la viceministra degli Esteri Marina Sereni – Abbiamo semplicemente spostato un piccolo nucleo di militari che era ospitato in una base non considerata sicura” e lo abbiamo fatto “solo momentaneamente”.

Trump ha premuto il grilletto, Teheran ha giurato vendetta e i Paesi impegnati nell’area sono chiamati ora a garantire la sicurezza dei loro soldati. Non è toccato solo all’Italia, che in Iraq impiega oltre 900 uomini nella missione “Prima Parthica/Inherent Resolve”. I governi si sono mossi alla spicciolata anticipati dalla Germania, che ha annunciato il ridislocamento di 35 dei suoi 130 soldati nel Paese. Il ministro della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer ha spiegato di voler attendere la decisione finale del governo di Baghdad guidato da Adil Abdul-Mahdi, invitato il 5 gennaio dal Parlamento a “far cessare la presenza di qualsiasi truppa straniera sul suolo iracheno”. Così il grosso del contingente resterà nell’area di Erbil e nelle aree del Kurdistan, ma 35 militari saranno redistribuiti tra Giordania e Kuwait, destinazione anche di 14 soldati della Croazia e di alcune delle 500 unità impiegate dal Canada. Londra ha avviato lo spostamento di 50 dei suoi 400 uomini dalla Zona Verde della capitale. Controcorrente Parigi, che impiega nel Paese circa 200 soldati e che ha reso noto di non avere intenzione di ritirarli.

La cartina al tornasole delle difficoltà generate dall’uccisione di Soleimani arriva dagli stessi vertici delle forze armate Usa. Ieri Esper è tornato a smentire la lettera con cui William H. Seely, capo delle operazioni in Iraq, aveva comunicato a Baghdad l’obiettivo di “ritirarsi in modo sicuro ed efficace”. “Non c’è nessuna decisione”, ha ribadito il capo del Pentagono. Una versione contraddetta da Baghdad: il premier Adel Abdul Mahdi ha confermato al Consiglio dei ministri di aver ricevuto una lettera “firmata” e “chiara” . “Adesso dicono che era una bozza – ha argomentato il premier – ma avrebbero potuto inviare un’altra lettera di chiarimento”.

Pompieri nel deserto: l’Europa cerca la pace, la Libia non la ascolta

“La Libia rimane una priorità per l’Ue”, scrive su Twitter l’Alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera e di Sicurezza Josep Borrell, dopo un incontro a Bruxelles coi ministri degli Esteri di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia. Luigi Di Maio, Jean Yves Le Drian, Heiko Maas e Dominic Raab dovevano essere ieri a Tripoli con Borrell e, invece, si sono ritrovati a Bruxelles a discutere “come l’Ue possa ulteriormente contribuire alla mediazione Onu e a un rapido ritorno a negoziati politici”.

Mentre il generale Haftar prende Sirte e la Turchia invia truppe e mercenari a sostenere Sarraj, gli europei chiedono che “tutti rispettino l’embargo dell’Onu” e dicono no “ad azioni unilaterali”. “Vogliamo che cessino le interferenze esterne e l’escalation”, dice Di Maio: “L’Ue sia protagonista, da domani ci sia un cambio di passo”. Da Bruxelles, Di Maio va ad Ankara per incontrare il turco Mevlut Cavusoglu: sbarca quasi contemporaneamente al presidente russo Vladimir Putin, che arriva da Damasco (visita a sorpresa all’amico Assad) e che oggi vedrà il presidente turco Racep Tayyip Erdogan.

La musica del quintetto europeo suona sincopata rispetto alla drammaticità degli eventi in Libia e ai pericoli, che il precipitare della situazione e l’intervento della Turchia comportano per la stabilità del Mediterraneo. “Oggi dovevo essere sotto il sole libico, anziché sotto il cielo grigio di Bruxelles, ma non siamo partiti a causa della situazione della sicurezza – spiega Borrell – ci hanno vivamente consigliato di non fare quel viaggio”.

A Bruxelles, Di Maio e Borrell arrivano insieme da Roma dove lunedì sera hanno avuto una cena di lavoro. Nel menu, ovviamente, la Libia. L’incontro del quintetto è stato preceduto da una riunione degli ambasciatori del Comitato politico e di sicurezza dell’Ue, sempre sulla situazione in Libia.

Il consulto dura poche ore. Tutti i ministri saranno di ritorno a Bruxelles venerdì, quando ci sarà pure il Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, per discutere con gli europei su come domare l’incendio aizzato tra Iraq e Iran dall’uccisione, a opera degli Usa, del generale iraniano Soleimani. Secondo fonti britanniche, già ieri, dopo la discussione sulla Libia, i ministri di Francia, Germania e Regno Unito (il cosiddetto E-3) hanno parlato delle tensioni tra Usa e Iran: vogliono spingere per una de-escalation, invitare Teheran a non disimpegnarsi dall’accordo sul nucleare (di cui i tre Paesi sono firmatari).

Fra i ministri del quintetto, tutti coinvolti nel processo di Berlino per la normalizzazione della Libia, c’è stata una discussione approfondita “perché vediamo un’escalation davvero pericolosa”, fa sapere il portavoce del servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano. “Nel Paese la situazione è molto seria e c’è un’escalation. Rafforziamo l’appello per porre fine alla violenza e vogliamo dimostrare che siamo capaci di trovare una soluzione politica”. Quale sia non è chiaro.

Per Borrell, “in Libia dobbiamo parlare con tutti gli attori rilevanti, con Sarraj e Haftar. Speriamo di stabilire nei prossimi giorni i contatti che finora non siamo riusciti ad avere. Continueremo a provare a restare in contatto con gli attori libici per esprimere loro questi punti rilevanti che abbiamo espresso oggi con i colleghi europei. l’Europa non usa la forza, ma attività diplomatiche”. Una dichiarazione d’impotenza da parte di Borrell; o di irrilevanza, perché l’Alto rappresentante ammette che gli interlocutori libici non gli hanno finora badato. Il tedesco Maas prova a mettere tutto nella prospettiva dell’incontro di Berlino: I colloqui per una tregua in Libia proseguono, dice Maas, con “l’obiettivo di arrivare a una decisione a Berlino” e di “creare le condizioni per una soluzione politica”. Ma non appare, a ora, l’intenzione o almeno la priorità di Haftar e di Sarraj.

Se, come dice Borrell, la Libia resta una priorità dell’Ue, l’Ue non appare più – ammesso lo sia mai stata – una priorità per i leader libici, che si son trovati amici e alleati che parlano magari di meno, ma fanno di più.