Ieri alcuni trascinatori di folle, Carlo Calenda di “Azione”, Emma Bonino e Benedetto Della Vedova di “+ Europa” e Stefano Parisi di “+ Parisi” hanno manifestato davanti a Montecitorio per il ritorno della prescrizione con una massa di gente strabordante formata da Calenda, Bonino, Della Vedova e Parisi. I passanti li guardavano incuriositi, poi allungavano il passo per non esser confusi con i nemici della legge più popolare degli ultimi 20 anni dopo il taglio dei parlamentari. Invano la giureconsulta radicale tentava di adescarli con la minaccia incombente del “populismo penalista e manettaro” e del “fine processo mai” che costituirebbe un grave “pericolo per il cittadino”. Purtroppo il cittadino, non essendo né la Bonino, né Calenda né Della Vedova né Parisi, si identifica nelle vittime dei reati più che nei colpevoli: ben lieto per l’eventuale avvento del populismo penalista e manettaro, si preoccupa più dei criminali impuniti che del tempo necessario a condannarli, e l’unica cosa che gli interessa della fine del processo è che chi ha sbagliato, presto o tardi, paghi.
L’aspetto più bizzarro dei Quattro dell’Ave Prescrizione è che tre di essi hanno sempre l’Europa in bocca: Bonino e Della Vedova si fanno chiamare Più Europa, Calenda è europarlamentare e, prima di fondare il partitino Azione, capitanava il movimentino Siamo Europei (plurale maiestatico, come il Papa). Pensando di far cosa gradita, li avvertiamo che il sistema di prescrizione che vorrebbero riesumare, in simbiosi col serial-prescritto B., con Salvini, con Renzi e col Pd, è stato ripetutamente condannato da tutte le istituzioni europee, che hanno sempre caldeggiato la riforma Bonafede. Nel gennaio 2017, sotto il governo Gentiloni, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa “Greco” denunciò per l’ennesima volta “l’allarmante numero dei processi penali prescritti in Italia”; espresse “seria preoccupazione per il problema dei tempi di prescrizione dei reati” e il suo “impatto negativo sui casi di corruzione”; e suggerì di “fermare la prescrizione dopo la condanna di primo grado” (che in Italia – essendo i condannati in primo grado presunti innocenti per Costituzione esattamente come gli assolti – equivale a “sentenza di primo grado”: differenziare il trattamento per condannati e assolti in primo grado è incostituzionale, come stabilì la Consulta nel 2006 bocciando la legge Pecorella che aboliva l’appello del pm). Un mese dopo, febbraio 2017, il rapporto semestrale della Commissione europea sui Paesi dell’Eurozona bocciava la nostra prescrizione come fonte di “squilibri”.
E ricordava che già nel 2016 (governo Renzi) ci aveva raccomandato di “potenziare la lotta contro la corruzione, anche riformando l’istituto della prescrizione”, ma purtroppo “non sono stati compiuti progressi nella riforma dell’istituto della prescrizione”. All’epoca era in discussione la riformicchia Orlando, che sarebbe stata approvata quattro mesi dopo e allungava i termini un po’ qua e un po’ là senza risolvere il problema. Quella era solo “un passo nella giusta direzione”, ma occorreva ben altro. Cioè attuare la raccomandazione del Greco perché l’Italia adottasse il sistema vigente in tutta Europa (Grecia a parte): il blocco della prescrizione dopo il primo grado. Il sistema italiano – spiegava Bruxelles – “ostacola considerevolmente la lotta contro la corruzione, anche perché incentiva tattiche dilatorie da parte degli avvocati”. E sciorinava i dati del nostro ministero della Giustizia: “Il rapporto tra i procedimenti penali prescritti e quelli conclusi indica che le prescrizioni in primo grado sono aumentate dal 2013 al 2015 fino al 9,5%. Nelle Corti d’appello, nel 2006-2015, il rapporto è salito dal 12,3% al 22,6%. I tassi di prescrizione in Cassazione sono più bassi, ma risultano in aumento da qualche anno. Nel complesso, un’alta percentuale di cause cade in prescrizione dopo la condanna di primo grado”. Congelare lì i termini “potrebbe aumentare gli incentivi a ricorrere a procedimenti abbreviati e ridurre gli abusi del processo, contribuendo a rafforzare l’efficacia della giustizia penale”. Conclusione: “Se la questione non sarà affrontata in linea con le migliori pratiche dell’Ue, la fiducia dei cittadini e degli investitori nello Stato di diritto potrebbe diminuire”.
Nel 2015, poi, la Corte di Giustizia Ue di Lussemburgo, con una sentenza poi ridimensionata su input della nostra Consulta, aveva ritenuto i termini di prescrizione italiana per le frodi fiscali sull’Iva troppo brevi per condannare i colpevoli e dunque contrari al Trattato sul funzionamento dell’Ue (Tfue). E suggerito ai giudici italiani di disapplicarli per poter punire i frodatori: “Secondo l’art. 325 del Tfue, gli Stati membri devono lottare, con misure dissuasive ed effettive, contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione e, in particolare, prendere le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro propri interessi finanziari… Il diritto italiano sarebbe contrario all’art. 325 Tfue qualora il giudice italiano dovesse concludere che un numero considerevole di casi di frode grave non può essere punito a causa del fatto che le norme sulla prescrizione generalmente impediscono l’adozione di decisioni giudiziarie definitive. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’art. 325 disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano l’effetto di impedire allo Stato membro di rispettare gli obblighi impostigli dall’art. 325”. Quindi il blocco della prescrizione ce lo chiede l’Europa. I 5Stelle che l’hanno attuato dovrebbero chiamarsi Più Europa o Siamo Europei. E Calenda, Bonino e Della Vedova aderire con Renzi e il Pd al nuovo movimento Meno Europa. Sempreché Salvini&B. li facciano entrare.