Meno Europa

Ieri alcuni trascinatori di folle, Carlo Calenda di “Azione”, Emma Bonino e Benedetto Della Vedova di “+ Europa” e Stefano Parisi di “+ Parisi” hanno manifestato davanti a Montecitorio per il ritorno della prescrizione con una massa di gente strabordante formata da Calenda, Bonino, Della Vedova e Parisi. I passanti li guardavano incuriositi, poi allungavano il passo per non esser confusi con i nemici della legge più popolare degli ultimi 20 anni dopo il taglio dei parlamentari. Invano la giureconsulta radicale tentava di adescarli con la minaccia incombente del “populismo penalista e manettaro” e del “fine processo mai” che costituirebbe un grave “pericolo per il cittadino”. Purtroppo il cittadino, non essendo né la Bonino, né Calenda né Della Vedova né Parisi, si identifica nelle vittime dei reati più che nei colpevoli: ben lieto per l’eventuale avvento del populismo penalista e manettaro, si preoccupa più dei criminali impuniti che del tempo necessario a condannarli, e l’unica cosa che gli interessa della fine del processo è che chi ha sbagliato, presto o tardi, paghi.

L’aspetto più bizzarro dei Quattro dell’Ave Prescrizione è che tre di essi hanno sempre l’Europa in bocca: Bonino e Della Vedova si fanno chiamare Più Europa, Calenda è europarlamentare e, prima di fondare il partitino Azione, capitanava il movimentino Siamo Europei (plurale maiestatico, come il Papa). Pensando di far cosa gradita, li avvertiamo che il sistema di prescrizione che vorrebbero riesumare, in simbiosi col serial-prescritto B., con Salvini, con Renzi e col Pd, è stato ripetutamente condannato da tutte le istituzioni europee, che hanno sempre caldeggiato la riforma Bonafede. Nel gennaio 2017, sotto il governo Gentiloni, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa “Greco” denunciò per l’ennesima volta “l’allarmante numero dei processi penali prescritti in Italia”; espresse “seria preoccupazione per il problema dei tempi di prescrizione dei reati” e il suo “impatto negativo sui casi di corruzione”; e suggerì di “fermare la prescrizione dopo la condanna di primo grado” (che in Italia – essendo i condannati in primo grado presunti innocenti per Costituzione esattamente come gli assolti – equivale a “sentenza di primo grado”: differenziare il trattamento per condannati e assolti in primo grado è incostituzionale, come stabilì la Consulta nel 2006 bocciando la legge Pecorella che aboliva l’appello del pm). Un mese dopo, febbraio 2017, il rapporto semestrale della Commissione europea sui Paesi dell’Eurozona bocciava la nostra prescrizione come fonte di “squilibri”.

E ricordava che già nel 2016 (governo Renzi) ci aveva raccomandato di “potenziare la lotta contro la corruzione, anche riformando l’istituto della prescrizione”, ma purtroppo “non sono stati compiuti progressi nella riforma dell’istituto della prescrizione”. All’epoca era in discussione la riformicchia Orlando, che sarebbe stata approvata quattro mesi dopo e allungava i termini un po’ qua e un po’ là senza risolvere il problema. Quella era solo “un passo nella giusta direzione”, ma occorreva ben altro. Cioè attuare la raccomandazione del Greco perché l’Italia adottasse il sistema vigente in tutta Europa (Grecia a parte): il blocco della prescrizione dopo il primo grado. Il sistema italiano – spiegava Bruxelles – “ostacola considerevolmente la lotta contro la corruzione, anche perché incentiva tattiche dilatorie da parte degli avvocati”. E sciorinava i dati del nostro ministero della Giustizia: “Il rapporto tra i procedimenti penali prescritti e quelli conclusi indica che le prescrizioni in primo grado sono aumentate dal 2013 al 2015 fino al 9,5%. Nelle Corti d’appello, nel 2006-2015, il rapporto è salito dal 12,3% al 22,6%. I tassi di prescrizione in Cassazione sono più bassi, ma risultano in aumento da qualche anno. Nel complesso, un’alta percentuale di cause cade in prescrizione dopo la condanna di primo grado”. Congelare lì i termini “potrebbe aumentare gli incentivi a ricorrere a procedimenti abbreviati e ridurre gli abusi del processo, contribuendo a rafforzare l’efficacia della giustizia penale”. Conclusione: “Se la questione non sarà affrontata in linea con le migliori pratiche dell’Ue, la fiducia dei cittadini e degli investitori nello Stato di diritto potrebbe diminuire”.

Nel 2015, poi, la Corte di Giustizia Ue di Lussemburgo, con una sentenza poi ridimensionata su input della nostra Consulta, aveva ritenuto i termini di prescrizione italiana per le frodi fiscali sull’Iva troppo brevi per condannare i colpevoli e dunque contrari al Trattato sul funzionamento dell’Ue (Tfue). E suggerito ai giudici italiani di disapplicarli per poter punire i frodatori: “Secondo l’art. 325 del Tfue, gli Stati membri devono lottare, con misure dissuasive ed effettive, contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione e, in particolare, prendere le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro propri interessi finanziari… Il diritto italiano sarebbe contrario all’art. 325 Tfue qualora il giudice italiano dovesse concludere che un numero considerevole di casi di frode grave non può essere punito a causa del fatto che le norme sulla prescrizione generalmente impediscono l’adozione di decisioni giudiziarie definitive. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’art. 325 disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano l’effetto di impedire allo Stato membro di rispettare gli obblighi impostigli dall’art. 325”. Quindi il blocco della prescrizione ce lo chiede l’Europa. I 5Stelle che l’hanno attuato dovrebbero chiamarsi Più Europa o Siamo Europei. E Calenda, Bonino e Della Vedova aderire con Renzi e il Pd al nuovo movimento Meno Europa. Sempreché Salvini&B. li facciano entrare.

Stormzy, il rapper che veste Banksy

Il nuovo Re inglese dei rapper è appena stato segnalato dal Time quale artista rilevante dell’anno in corso: Michael Ebenazer Kwadjo Omari Owuo Jr., 26 anni, meglio conosciuto come Stormzy: di origini ghanesi, ma nato a Londra, ha appena pubblicato il suo secondo album Heavy In My Head a due anni di distanza dall’esordio Gang Sign & Prayers, arrivato direttamente al numero uno nel Regno Unito.

L’influenza del rapper si misura anche e soprattutto da due significativi episodi: la copertina del suo nuovo disco – fotografata da Mark Mattock – è stata esposta alla National Portrait Gallery di Londra; nella foto Stormzy tiene nelle mani il giubbotto disegnato da Banksy, indossato durante il concerto di Glastonbury (primo rapper inglese a essere headliner). “Quando Banksy mi mise il giubbotto addosso, mi sentivo come se Dio mi stesse mettendo alla prova”. Heavy In My Head segna una svolta verso l’introspezione e la riflessione a discapito dei testi più duri e incazzati del primo album e vede una serie di ospiti tra i quali spicca la stella prezzemolino del pop Ed Sheeran con il duetto – insieme a Burna Boy – Own It, singolo più venduto in Uk questa settimana.

In Italia ha attirato l’attenzione attraverso un feauturing di Ghali per la traccia Vossi Bop (il brano più ascoltato in Uk su Spotify lo scorso anno), nel quale il nostro rapper ha espresso versi taglienti, soprattutto contro Matteo Salvini. Stormzy è portavoce del black empowerment, mecenate con una borsa di studio per giovani studenti e acceso sostenitore delle politiche sociali: i suoi giudizi contro Boris Johnson sono pesantissimi e, ultimamente, ha dichiarato che la Gran Bretagna è un paese altamente razzista.

L’artista ironizza dichiarandosi “il più grande di tutti i tempi” (Wiley Flow) mentre in Pop Boy dice di non essersi venduto al pop e tutto diventa gioco e sberleffo. Una finestra sentimentale è aperta nel brano Lessons, in cui racconta la fine della sua relazione con la ex Maya Jama. Musicalmente c’è una notevole iniezione di r’n’b con influenze trap e ritmi dancehall, seguendo un po’ le mode del momento.

Altro che tenebre: Ozzy Osbourne è più vivo che mai

I bookmaker si sono arresi: non c’è quota per la morte di Ozzy. Nella lista della “prossima-rockstar-defunta” gli eterni candidati sono due: Osbourne e Keith Richards. Invece Belzebù dovrà aspettare ancora.

La bufala si era diffusa nelle prime ore del 2020: secondo alcuni siti Usa l’ex cantante dei Black Sabbath era in fin di vita, dal letto dell’imminente trapasso non riconosceva già più nessuno. Macché: via social, la figlia Kelly raccontava di un allegro Capodanno con papà. Poi ecco su Instagram il faccione beffardo di Ozzy, a farsi beffe dei becchini mediatici: vivo, vegeto e battagliero. Giusto ieri ha lanciato un appello per salvare l’Australia devastata dagli incendi. No, non è tempo per seppellirlo: a novembre è stato lui stesso, del resto, a esorcizzare il passaggio nell’Aldilà con Under the graveyard, il potente singolo con il supporto di Duff McKagan, bassista dei Guns ’N Roses e di Chad Smith, batterista dei Red Hot Chili Peppers. Ozzy canta: “Sotto il cimitero/ siamo tutti ossa marce”.

Nel video, scopertamente autobiografico, l’attore Jack Kilmer (figlio di Val, che aveva incarnato Jim Morrison) si cala nei panni di Ozzy nella fase più critica della vita: gli inferi della droga e dell’alcol alla fine dei Settanta, quando divorziò dai Black Sabbath ma non dalla moglie Sharon, che affrontò con lui momenti terribili (un giorno il marito, imbottito di vodka, tentò di strangolarla) pur di salvarlo. Anche nel 2019 Sharon gli è stata al fianco nella lunga convalescenza – prima una polmonite, poi un incidente domestico con operazione alla clavicola –, che ha costretto il consorte a rimandare il tour solista: ora l’agenda prevede Ozzy sul palco (ospiti i Judas Priest) anche a Bologna, il 19 novembre. Nel frattempo, arriva il nuovo singolo Straight to Hell, con la chitarra incendiaria di Slash, e tra poco sarà pubblicato l’atteso Ordinary man, l’album che segue Scream, datato 2010.

Dal Principe delle Tenebre dell’heavy metal ci si aspetta l’ennesima botta di vita. Che altro chiedergli, dopo un’esistenza così? Era un ragazzino bullizzato nella Birmingham operaia, così balbuziente da non riuscire a pronunciare il suo nome (“Os-os-os” divenne il nomignolo Ozzy); si azzuffava con un odioso compagno di scuola, Tony Iommi, e se lo ritrovò al fianco come chitarrista dei Black Sabbath; pisciò ubriaco contro un muro in Texas e non si accorse che era Fort Alamo. A un pipistrello vivo staccò la testa a morsi durante un concerto a Des Moines, nell’82. Pensava fosse finto, fu costretto a ricorrere a un’antirabbica: mesi fa, per celebrare l’evento, ha messo in commercio un pipistrello-peluche da decapitare. Ha superato le accuse di satanismo e il processo per il suicidio di un fan ispirato da una sua canzone. Gli scienziati sostengono che nel Dna ultraresistente di Ozzy vi siano tracce di discendenza dall’Uomo di Neanderthal. Che era meglio attrezzato per gli eccessi. Un altro neandertaliano? Keith Richards, ovvio.

Sanremo n. 70 Sono già tutti stonati per le gaffe di Amadeus

La guerra continua. Alla faccia del Festival celebrativo e “corale” (era la missione originaria della direttrice di Raiuno De Santis), il Sanremo n. 70 sembra più una resistibile ascesa al potere di Amadeus, fieramente contrastato nei suoi propositi dai vertici di Viale Mazzini. La storia del cast è una spy-story di serie B, con tanto di colonna sonora allargata. La tv pubblica premeva per una gara limitata a 20 concorrenti, Ama ne voleva 24, ma ne aveva improvvidamente – anzitempo – annunciati 22: ieri sera, durante la finale della Lotteria Italia, ne ha tirati fuori altri due dal cappello. Tosca con Ho amato tutto e incredibilmente l’inossidabile Rita Pavone con Niente (Resilienza ’74). Al di là dello spessore delle due, se ne sentiva il bisogno? Sì, no, chissà.

C’era la necessità di riequilibrare un elenco sbilanciato sui giovani, mentre il pubblico della Rete ammiraglia resta placidamente over, e ignora chi siano Junior Cally, Riki o Giordana Angi. Ma più che un bonus editoriale, quella di Amadeus è stata una toppa messa sulla voragine aperta nei giorni scorsi dalle anticipazioni di Chi: il settimanale diretto da Alfonso Signorini, con la benedizione del Biscione, li aveva svelati quasi tutti, violando la pax televisiva che vige nel periodo sanremese.

Niente Raiset, quest’anno? Con Amadeus, navigato mediano di spinta del prime time, colto in contropiede come un debuttante? E chi aveva passato la soffiata a Signorini? Qualche discografico vicino al Cav? Un giornalista con la lista in tasca? O addirittura una talpa interna, magari uno spregiudicato autore dello stesso staff del direttore artistico? In ogni caso il danno era fatto. Così “qualcuno” dai piani alti di Viale Mazzini avrebbe sorprendentemente dato l’ok allo sconcertato Amadeus per fargli confermare i nomi dei cantanti (ne restavano solo un paio ancora coperti) in una intervista a Repubblica, giornalone in ottimi rapporti con il suo agente Lucio Presta.

Apriti cielo: perché a quel punto su Sanremo pioveva non solo l’ira funesta del resto della stampa italiana, ma soprattutto della stessa Rai. Ama aveva violato il regolamento del Festival, che imponeva l’annuncio dei 22 ieri sera durante la diretta dei Soliti ignoti: con la disinvolta chiacchierata al quotidiano fondato da Scalfari aveva lanciato un micidiale boomerang sugli ascolti del proprio programma. E per non rischiare sanzioni, ecco il sorpresone. Due ripescati in gara, totale 24, Festival ipertrofico. Per non dire dei super ospiti italiani: Massimo Ranieri (con un inedito di Modugno, pare) e la sempiterna coppia Albano & Romina con Raccogli l’attimo, un reggaeton classic-pop firmato da Malgioglio. Per altri si vedrà strada facendo.

Gli stranieri? Addio Madonna o Lady Gaga, l’unico sicuro è l’emergente Lewis Capaldi. Bravo, ma non un nome da accendere luminarie a Broadway. Quanto alla compagnia di giro, Amadeus potrà contare su vecchi sodali come Fiorello e Nicola Savino, mentre Jovanotti si è inventato una gita in bici in Sudamerica. Non mancheranno gli ex illustri: Conti, Baudo, Bonolis. Le donne? Il conduttore ne vuole dieci: saltata la Ferragni e incassato il no della Carrà, molte sembrano pronte. Clerici, Ventura, Incontrada, le anchorwomen del Tg1 Emma D’Aquino e Laura Chimenti, Diletta Leotta, in vista anche la diva Monica Bellucci.

Nell’agenda restano Mara Venier, Miriam Leone, Serena Rossi, Miss Italia Carolina Stramare. Più Lorella Cuccarini, in quota sovranista (e in cerca di rilancio per il flop de La vita in diretta), il profilo ideale per disinnescare i casini in caso di recupero, nel cda di oggi, di Rula Jebreal, la giornalista palestinese annunciata per la prima serata, poi caldamente invitata a farsi da parte su pressione, pare, dei salviniani.

L’ad Rai Salini sembrerebbe pronto a recapitare un nuovo invito alla Jebreal, intenzionata a sciorinare un monologo sulla questione femminile. Magari convincendo Michelle Obama o Oprah Winfrey a seguirla all’Ariston: ma per portare a Sanremo pezzi da novanta non serve Rula, bensì un cachet da 500 mila. Naturalmente a far da corollario al caos saranno garantite le celesti armonie delle canzoni: quella di Achille Lauro ha un titolo da Ventennio come Me ne frego; il possibile vincitore Anastasio rapperà Rosso di rabbia, il redivivo Gabbani ci confonderà con Viceversa; i Pinguini Tattici Nucleari celebreranno Ringo Starr, la bombastica Elettra Lamborghini squittirà la raffinatezza poetica di Musica (e il resto scompare) mentre Levante sparerà un sorprendente Tiki bom bom. Non ci si capisce più niente. Come sempre, a Sanremo.

“Partiamo già azzoppate da quando ci laureiamo”

Carmina Conte di #InclusioneDonna è una furia: “Si moltiplicano le aggressioni ai diritti delle donne. Bisogna guardare in faccia la realtà”.

Le donne sono riuscite a conquistarsi un ruolo da protagoniste. Eppure voi parlate di segregazione femminile…

Il regresso a cui stiamo assistendo è evidente. E non è un caso che per la prima volta è venuto in mente questa alleanza: un network di 50 associazioni di donne del mondo delle professioni, manager, impiegate o imprenditrici. Ciascuna con la sua storia. Pensi a quella di Maria Concetta Oliveri di Fidapa: nel 79 una donna che voleva fare la chirurga scatenava ostilità di ogni genere. Volevano che al massimo facesse l’anestesista. Alla fine c’è riuscita, ma scontrandosi contro tutto e tutti.

Oggi nessuno si sognerebbe di farlo…

Dice? Chieda con quali difficoltà si misura sua figlia che è libera professionista.

Ecco. Su questo fronte come va?

Gaia Nina Marano di Professional women’s network pone una domanda disarmante: come fa una giovane avvocatessa ad avere la pretesa di diventare madre? In Italia solo un bambino su 5 trova posto in asilo, con prezzi alle stelle. I servizi a supporto della famiglia sono anni luce distanti da quelli che esistono altrove. Secondo lei cosa fa una donna di fronte a questa emergenza? Spende tutto quello che guadagna in asilo nido, o resta a casa?

Ci sarebbero pure i padri, però…

L’80-85% del lavoro di cura dei bambini o di altri familiari che necessitano assistenza è ancora in carico alle donne. Ma, al di là del retaggio culturale, pesano anche considerazioni di semplice bilancio domestico: è fisiologico che di fronte a una scelta tra casa e lavoro a rinunciare alla carriera sia chi guadagna meno. E cioè, nella stragrande maggioranza dei casi, la donna. E questo a parità di capacità intellettuali. Posso dire? Che spreco!

Cosa fare?

Serve innanzitutto un maggior equilibrio nella distribuzione dei carichi familiari. Penso al congedo obbligatorio di paternità e a quello facoltativo: deve essere remunerato adeguatamente, altrimenti nessun padre rinuncerà al suo stipendio pieno.

E del “gender pay gap” che dice?

Innanzitutto partiamo da un dato sconfortante: in Italia lavora una donna su due. E non perché non abbiano voglia di farlo. Degli stipendi non ne parliamo proprio: le donne partono azzoppate già ai nastri di partenza. A tutti i livelli. Parlando con la sottosegretaria Alessandra Todde, una donna con un curriculum eccellente che tanto per dire è stata capace di risollevare le sorti della Olidata, è venuto fuori che lei stessa ha sempre guadagnato un 20% in meno di un suo pari livello maschio. Ma di che parliamo?

Un altro capitolo nero. La rappresentanza…

Dopo 50 anni di lotte al femminile, mi faccia dire una cosa: serve un intervento delle istituzioni. E per questo ci siamo battute per la proroga della legge Mosca-Golfo che ha dato ottimi frutti assicurando una massa critica di presenze femminili nelle società quotate e partecipate. So che vi sono molte resistenze anche tra le donne stesse, che ritengono offensive le quote rosa. Ma faccio presente che una svolta culturale di questa portata va sostenuta. Anzi: chiediamo di estendere la legge anche alle società non quotate e nei livelli top e middle management.

Salari e genere: se è donna, la busta paga pesa la metà

Di questo passo, per azzerare le differenze di reddito tra donne e uomini bisognerà aspettare almeno un altro secolo. E non è detto che basti, dal momento che, ad esempio, per superare ilgender pay gap pare davvero indispensabile una vera e propria rivoluzione culturale, capace di mutare profondamente l’organizzazione della società. “Non è una provocazione dire che alla disparità si impara ad abituarsi fin dal principio, se è vero che tra i 14 e i 17 anni chi percepisce una paghetta è il 42 per cento delle ragazze contro il 53 dei ragazzi”, dice Sandra Mori, data protection officer Europe per Coca Cola e ambassador di #InclusioneDonna, il network di 50 associazioni di manager, libere professioniste, imprenditrici e lavoratrici dipendenti che non si rassegnano alle conseguenze della disparità. Anche per l’economia del Paese che si permette il lusso di avere un tasso di occupazione femminile di appena il 49,5 %, contro una media europea del 63. E di posizionarsi al 126° posto nel mondo per parità di salario tra uomini e donne.

Mentre si registrano passi in avanti sul fronte della rappresentanza (nel 2018 la quota di donne nei consigli di amministrazione sono passate da meno del 6% al 36%, per effetto principalmente della legge Golfo-Mosca, secondo cui gli organi collegiali delle aziende quotate e società controllate debbano essere composti almeno per un terzo dal genere meno rappresentato), in Italia l’emergenza più grande continua a chiamarsi lavoro.

Il lavoro è poco “rosa”

La differenza tra l’occupazione maschile e quella femminile raggiunge quasi il 20%. E la forchetta, secondo Eurostat, si allarga nella fascia di età 20-49 anni, quando c’è di mezzo la gestione dei figli piccoli: i padri occupati sono l’83% contro il 55,5% delle donne, un record (negativo) in Europa. Confermato da un dato assai significativo (a cui Il Fatto ha dedicato tempo fa un’inchiesta): nella sola Lombardia sono state 10mila le donne che nel 2018 hanno gettato la spugna al rientro dal congedo di maternità, o a causa delle pressioni subìte.

Ma l’analisi del mercato del lavoro nel nostro Paese deve confrontarsi anche con la qualità dell’occupazione delle donne. Nella pubblica amministrazione, per esempio, doppiano i loro colleghi uomini nel ricorso al part time e utilizzano con maggiore frequenza permessi motivati da esigenze di cura dei familiari. Al contrario, gli uomini riescono a garantire una maggiore presenza sul luogo di lavoro, offrendo anche un maggior numero annuo di ore di straordinari che influiscono sulle retribuzioni lorde percepite. E persino nelle amministrazioni centrali dello Stato la presenza femminile tende a diminuire procedendo verso le posizioni più elevate in termini di responsabilità ricoperte e di retribuzioni percepite. “Il fatto che pur avendo titoli di studio mediamente più elevati, le dipendenti sono orientate a ricoprire posizioni che richiedono minori qualifiche e responsabilità potrebbe, almeno in parte, dipendere da un difficile raccordo tra i tempi di vita e lavoro” è la chiosa del “Bilancio di genere per il 2018” della Ragioneria generale dello Stato.

Il “gender pay gap” italiano

Per l’Eurostat, il gender pay gap nel nostro Paese è intorno al 6%. Sono dati però falsati, perché comprendono il settore pubblico dove i salari sono fissi. Se invece guardiamo solo al settore privato, la differenza tra uomini e donne, a parità di ore lavorate, sale al 19,6%. La penalizzazione femminile, del resto, inizia già all’ingresso nel mercato del lavoro. Secondo un rapporto di Almalaurea, a 5 anni dalla laurea non solo le donne trovano lavoro meno degli uomini, ma agli uomini viene offerto più frequentemente un contratto a tempo indeterminato. E il risultato finale della diversità lavorativa e le im-pari opportunità che accompagnano tutto il percorso di carriera presentano brutalmente il conto al momento della pensione: secondo l’Istat, le classi di reddito pensionistico oltre i 1.500 euro mensili sono popolate molto di più da maschi che da femmine.

Libere professioniste: un caso

Ma torniamo alle dichiarazioni dei redditi, perché oltre alla p.a. e ai dipendenti privati, il fenomeno delle disparità di genere va analizzato anche per i liberi professionisti. E la disparità, in questo, diventa estrema. E allora è il caso di fare i conti in tasca ad alcune categorie, come per esempio agli iscritti alla Cassa dei dottori commercialisti (una platea di 46.263 uomini e 22.289 donne): nel 2018, il reddito medio delle commercialiste è stato di circa 40.800 euro contro i 75.700 dei colleghi uomini.

Anche tra le toghe iscritte alla Cassa forense il risultato non cambia. La quota di rappresentanza femminile nella professione forense è fortemente lievitata negli ultimi decenni (dal 21% del 1995 al 48% del 2018). In molte regioni del centro-nord, il numero di donne avvocato ha già superato il numero dei colleghi. Eppure gli avvocati di sesso maschile continuano a realizzare guadagni di gran lunga superiori rispetto alle loro colleghe: rispettivamente, 52.777 euro contro 23.500 (dati 2017).

E che dire di architetti e ingegneri? Anche qui, analizzando i dati della Cassa previdenziale comune ad entrambi gli ordini professionali, le differenze resistono eccome. Nonostante tutto. Perchè anche in quest’ambito è in corso un crescente processo di femminilizzazione: nel 2018 le nuove iscritte a Inarcassa costituivano il 55% tra gli architetti (+11%), e il 35% degli ingegneri (+18%). Ma l’ingresso della componente femminile in questo settore è un fenomeno relativamente recente, se si pensa che le donne architetto con oltre 65 anni risultano solo il 10 per cento del totale. Ancora peggio per le ingegnere: quelle che hanno una lunga carriera alle spalle, ossia che rientrano tra i 9.758 professionisti over 65, sono solo lo 0,5% contro il 99,5%.

Ma non è ovviamente tutto. Perché, anche in queste due professioni, il divario tra i redditi dichiarati dagli uomini e quelli dichiarati dalla donne mostrano un abisso: 22mila euro il reddito per il professionista maschio, 14mila per le architette. Ancora peggio tra gli ingegneri: se un professionista maschio nel 2016 dichiarava circa 33 mila euro, il reddito di una collega donna era di appena 18.313 euro. E la chiamano parità.

“Apple è falsa, a Hollywood direste di sì anche all’Isis”

Otto minuti per mettere in croce Hollywood. Ricky Gervais, il comico inglese che ieri notte ha presentato l’inizio delle cerimonia dei Golden Globe 2020, non ha dato tregua alla platea di Los Angeles e la sua performance è immediatamente diventata protagonista del dibattito sui social. Ecco alcune delle sue battute più velenose.

Sarete felici di sapere che questa è l’ultima volta che presento questi premi, quindi non mi interessa più. Sto scherzando, non mi è mai importato. Questo è chiaro non solo a me, ma anche alla NBC per la quinta volta. Quindi, voglio dire, Kevin Hart (un altro comico, ndr) è stato licenziato dagli Oscar per alcuni tweet offensivi. Per mia fortuna, la Hollywood Foreign Press non parla inglese. Non hanno idea di cosa sia Twitter. (…) Siete tutti bellissimi, tutti in tiro, siete venuti qui in Limousine. Sono venuto qui in Limousine e la targa è stata fatta da Felicity Huffman (l’attrice di Desperate Housewives accusata di aver falsificato la prova d’ammissione al college della figlia, ndr). Ma è sua figlia che mi fa pena. Dev’essere la cosa più imbarazzante che le sia mai capitata. (…) In questa stanza ci sono alcuni dei dirigenti televisivi e cinematografici più importanti al mondo. Tutti hanno una cosa in comune: sono tutti terrorizzati da Ronan Farrow (il figlio di Mia Farrow e Woody Allen dal quale è partita l’inchiesta e il successivo scandalo su Weinstein, ndr). Parlando di tutti voi pervertiti, è stato un grande anno per i film pedofili. Surviving R. Kelly, Leaving Neverland, I due papi…

Molte persone di talento di colore sono state snobbate nelle principali categorie. Sfortunatamente, non possiamo farci niente. La stampa estera di Hollywood è tutta molto razzista. E io sono qui a presentare per la quinta volta, fate voi… (…) A nessuno importa più dei film. Nessuno va al cinema, nessuno guarda davvero la tv in Rete. Tutti stanno guardando Netflix. Questo spettacolo dovrebbe essere solo io che esco, dicendo “Ben fatto Netflix. Hai vinto tutto. Buona notte” (profezia sbagliata però, Netflix esce come grande sconfitto dalla notte dei Globe, nessun riconoscimento per The Irishman, ndr) Ma no, dobbiamo trascinarlo fuori per tre ore. Potresti assistere ad abbuffate per l’intera prima stagione di Afterlife invece di guardare questo spettacolo. È uno spettacolo su un uomo che vuole uccidersi perché sua moglie muore di cancro ed è ancora più divertente di così. Attenzione: spoiler, la seconda stagione è in arrivo, quindi alla fine ovviamente non si è ucciso. Proprio come Jeffrey Epstein (l’imprenditore arrestato per abusi sessuali e traffico di minori morto in carcere la scorsa estate, ndr). So che è vostro amico ma non mi interessa. (…) Gli attori dei film hollywoodiani ora partecipano ad avventure fantasy senza senso. Indossano maschere, mantelli e costumi davvero stretti. Il loro lavoro non è più recitare. È andare in palestra due volte al giorno e prendere steroidi. Abbiamo un premio per il ‘Miglior Tossico Palestrato’? Non ha senso, sappiamo chi lo vincerebbe (…) Martin Scorsese ha fatto notizia per i suoi controversi commenti sui film Marvel. Ha detto che non sono un vero cinema e gli ricordano i parchi a tema. Sono d’accordo. Anche se non so cosa stia facendo nei parchi a tema. Non è abbastanza grande per andare in giro. È piccolo (ironizzando sulla statura di Scorsese, ndr). The Irishman è stato fantastico. È stato stupefacente. C’era una volta a Hollywood, lunga quasi tre ore. Leonardo DiCaprio è andato alla premiere del film e alla fine, quando è finita, la sua ragazza era troppo vecchia per lui. Persino il principe Andrea (anche lui coinvolto nello scandalo Epstein, ndr) diceva: “Dai, Leo, amico. Hai quasi 50 anni” (…). Apple è entrata nel mondo televisivo con The Morning Show, una serie drammatica sull’importanza della dignità e sul fare la cosa giusta, realizzato da una società che gestisce sweatshops (termine che indica un luogo di lavoro con condizioni povere e socialmente inaccettabili, ndr) in Cina. Bene, quindi voi (gli attori, ndr) affermate che vi siete “svegliati”, ma le aziende per cui lavorate…? Incredibile. Apple, Amazon, Disney, se anche l’Isis avviasse un servizio di streaming, voi chiamereste il vostro agente, giusto? Quindi se stasera vincerete un premio, non usatelo come piattaforma per fare un discorso politico. Non siete in grado di insegnare al pubblico nulla. Non sapete nulla del mondo reale. La maggior parte di voi ha trascorso meno tempo a scuola di Greta Thunberg. Quindi se vincerete, venite, accettate il vostro piccolo premio, ringraziate il vostro agente e il vostro Dio e andate affanculo, ok?

Sempre più morti sulle strade: emergenza pedoni

Milano cancellata. Ogni anno sulle strade del mondo muoiono 1,3 milioni di persone, quanto gli abitanti del capoluogo lombardo. È la prima causa di morte tra 5 e 29 anni.

Una strage continua di cui ci si ricorda soltanto dopo tragedie come quelle della Valle Aurina (7 ragazzi morti) o di Senigallia dove due donne sono state travolte e uccise. Nel primo semestre 2019 – dati Aci-Istat – in Italia si sono contate 1.505 vittime (+1,3%).

“L’11% degli incidenti è dovuto ad alcol e droghe. Il dramma è il numero di pedoni e ciclisti uccisi che aumenta”, denuncia Angelo Sticchi Damiani, presidente Aci. Nel 2018 i pedoni morti sono stati 612. Uno ogni quattordici ore (+7,4% sul 2016). Il record negativo spetta a Roma (59 pedoni morti nel 2018). “Aumentano – ricorda Sticchi Damiani – anche le vittime tra i ciclisti, gli altri utenti vulnerabili delle strade”, 254 nel 2017 (+10%). Una situazione che si riflette nel tasso di pericolosità per gli utenti delle strade: 3 per i pedoni, 2,18 per i ciclisti, 1,96 per i motociclisti, 0,78 per gli automobilisti, 0,48 per chi viaggia in pullman. Nel 2019 l’aumento più rilevante di vittime si è registrato sulle autostrade (25%). Che fare? “Per i pedoni occorre intervenire soprattutto sulle strade periferiche dove la velocità è maggiore e la visibilità carente. Servono investimenti: penso alla segnaletica orizzontale e agli attraversamenti con indicazioni a led, come nei Paesi del Nord Europa. Non solo: esistono apparecchi che avvisano della presenza di pedoni e ciclisti. Si possono applicare su vetture vecchie, a costi sostenibili”, conclude il presidente Aci.

L’Italia rischia di non centrare l’obiettivo europeo di ridurre del 50% il numero dei morti rispetto al decennio 2001-2010. Non primeggiamo neanche nel rapporto di vittime per milione di abitanti che indica la pericolosità delle strade di una nazione. Una classifica che divide con un confine invisibile l’Europa tra ricchi e poveri. Meno denaro significa meno risorse per la sicurezza, meno controlli e automobili prive di moderne dotazioni di sicurezza: airbag, abs per i freni, esp per il controllo della stabilità, sistemi che avvertono dei colpi di sonno o della presenza di pedoni.

Al primo posto nella classifica delle strade più sicure, secondo i dati Ue, è la Gran Bretagna con 28 vittime per milione di abitanti. Al secondo posto la Danimarca (30), terza l’Irlanda (31). Seguono Olanda (31), Svezia (32), Spagna e Germania con 39. La Francia registra 48 vittime, appena sotto la media Ue (49). L’Italia è tra i Paesi della seconda fascia con 55 vittime. Le strade più pericolose d’Europa sono in Bulgaria (88 morti) e Romania (96). Non siamo messi particolarmente bene anche nella classifica dei Paesi con una maggiore riduzione delle vittime rispetto al 2010: meno 20%. In Italia nel 2017 i più alti tassi di mortalità spettavano a Molise, Emilia Romagna e Toscana.

“Falcone fu costretto a coinvolgermi nel delitto Mattarella”

Valerio Fioravanti, lei per il delitto Piersanti Mattarella è stato processato e assolto.

E ha ricordato che l’allora giudice istruttore Giovanni Falcone le disse di non credere alla sua colpevolezza, ma di aver dovuto procedere ugualmente per via delle pressioni ricevute. Da chi?

Allora Falcone veniva osteggiato da tutti: non era del Pci, non era della Dc, a Palermo non lo volevano promuovere procuratore e il Csm non lo votò. Non credeva al “terzo livello” e questo gli provocò molte critiche. A Samarcanda Michele Santoro ospitò il sindaco Leoluca Orlando che parlò di “cassetti” del Palazzo di Giustizia pieni di elementi per far chiarezza su molti delitti. Alludeva ai cassetti di Falcone.

Ci dice qualcosa di più sulla circostanza in cui Falcone le avrebbe detto di non credere al suo coinvolgimento nel delitto Mattarella?

Venne a Rebibbia, mandò fuori tutti, compresi la scorta e il maresciallo addetto al verbale. Anch’io feci uscire il mio avvocato. Verbalizzò lui stesso, a mano. Non mi contestò fatti specifici, ma mi chiese se avessi qualcosa da dirgli. Il mio contributo – risposi – è dirle che non c’entro nulla: se avessi un mandante da proteggere, confesserei e attribuirei il fatto a un amico morto. Farei felici tutti e otterrei uno sconto di pena. Ma non è così.

Incontrerà il magistrato Roberto Tartaglia, consulente della Commissione antimafia, che l’ha invitata a collaborare?

Ho apprezzato i tonidell’ex pm. Non ho alcun problema a incontrarlo, ma se avessi saputo qualcosa lo avrei detto a Falcone al tempo. Lui mi disse “come magistrato e come siciliano” di non credere alla mia colpevolezza, ma di essere costretto a procedere, altrimenti lo avrebbero fatto passare per un piduista. Ci salutammo, due giorni dopo spiccò il mandato di cattura. L’ipotesi era che fossi l’anello debole tra la mafia e Andreotti. Mi misero in isolamento, in teoria per proteggermi, più probabilmente per farmi pressione. Dopo un po’ un mio amico e coimputato chiese a Falcone il nullaosta per sposarsi. Falcone lo firmò e gli diede un biglietto col suo telefono dicendogli: fammi sapere se i bolognesi (intendendo i magistrati) esagerano con Francesca e Valerio. Lui stesso indagò per calunnia e depistaggio i due pentiti che mi accusavano dell’omicidio di Mattarella: Giuseppe Pellegriti e Angelo Izzo.

Chi è l’amico di cui parla?

Lasciamolo tranquillo, è stato il mio testimone di nozze.

Ad accusarla fu anche suo fratello Cristiano, che tirò dentro pure Carminati (mai entrato nel processo Mattarella), per poi ritrattare.

Cristiano era stato arrestato nell’81, a suo carico c’erano un omicidio commesso da minorenne e due da maggiorenne; Walter Sordi, con otto omicidi, dopo sei mesi era fuori. La ragione era chiara. Dopo otto anni di carcere, Cristiano rese dichiarazioni molto “imbarazzate” e vaghe che alludevano a un mio coinvolgimento. Poi ritirò tutto. L’accusa contro di me era nata nel carcere di Paliano, dove erano riuniti i pentiti: Pellegriti, mio fratello Cristiano, Angelo Izzo e Raffaella Furiozzi.

Eravate così ai ferri corti?

Cristiano mi aveva fatto molto male già tentando di far uccidere Francesca (Mambro, ndr). Aveva dato il suo indirizzo agli agenti della Digos che, in un appostamento al confine tra la Lombardia e la Svizzera, invece della Mambro, si trovarono di fronte Massimo Carminati e gli spararono. Fu lì che perse l’occhio.

Era amico di Carminati?

Siamo stati compagni di classe per un anno in un liceo di Monteverde, era la scuola dei bocciati. Metà asini di destra, metà di sinistra. Massimo non era dei Nar e non è mai stato processato con noi, né io entrai mai in un processo alla Banda della Magliana. Non volevo fare il criminale, ero disposto a violare la legge per alcune cose, non certo per arricchirmi vendendo droga o facendo lo strozzino. Un conto è lo scambio di favori eccellenti con la banda raccontato da una certa letteratura, un altro i piccoli favori che si chiedevano in quegli ambienti.

Quali piccoli favori?

Acquistare documenti falsi, una pistola rubata… Per queste cose si andava in borgata.

La sentenza che condanna lei, Mambro e Luigi Ciavardini per la strage di Bologna è definitiva, anche se molti ne discutono le lacune. Vi siete sempre dichiarati innocenti. Come si è spiegato la condanna per strage?

Da quanto continua a emergere, sembrerebbe che i nostri servizi segreti abbiano creato dal nulla una pista neofascista per tenere riservato un accordo con i terroristi palestinesi, i quali avrebbero provocato – non è chiaro se volontariamente o meno – l’incidente di Bologna. La pista nera metteva d’accordo tutti, sorretta dalla costruzione del mito letterario di un ventenne abilissimo e cattivissimo che non lascia prove. Ma, se la mancanza di prove è un’aggravante, come ti difendi?

La sua era una famiglia borghese, lei aveva conosciuto da piccolo il successo come attore, aveva mille strade da percorrere. Invece a 15 anni ha scelto quella della violenza e della morte. Perché?

Erano anni drammatici e di confusione, stare alla finestra a guardare ci sembrava la scelta più grave, era meglio schierarsi dalla parte sbagliata che non schierarsi affatto.

Diversamente dalle Br, non cercavate la rivoluzione né la presa del potere: per cosa avete ucciso e vi siete fatti uccidere?

Abbiamo difeso il diritto degli sconfitti a esistere.

Ne è valsa la pena?

Mia figlia direbbe di no. I miei amici sono tutti morti, la corrente ci ha trascinato, è andata così, è successo.

Dov’è finita tutta quella ferocia?

È il termine giusto. Mia madre diceva: “Ho due figli, uno è cattivo, Cristiano, l’altro è feroce, Valerio”. La ferocia ha a che fare con l’adolescenza, con l’incapacità di mediare. Non cercavamo la rivincita, ma il diritto a opporci con violenza alla frase “uccidere un fascista non è reato”.

Qual è stato il dolore più grande della sua vita?

Temo che non sia ancora arrivato.

Qual è stata la prima volta che ha sparato?

E se le dicessi che dovrei fare mente locale e non ho voglia di farla? Ho sbagliato tante cose nella mia vita e sarebbe troppo facile dire “Mi pento”. Non si può rinnegare la propria storia, gli errori si pagano e basta. È un equilibrio difficile. Non ho chiesto la riabilitazione come altri, perché sarebbe eccessivo. Chi ci odia ha il diritto di odiarci.

La pietà ha mai avuto spazio nei vostri discorsi?

La difficoltà era unire nella stessa persona il giudice e l’esecutore della sentenza. Un terrorista può emettere solo condanne a morte, consapevole che quelle scelte possono essere sbagliate. La convivenza con questo dubbio è la cosa più angosciante.

Qualche morto più degli altri non la fa dormire?

Sì, ma non voglio dirlo. La vicenda che più mi turbò fu scoprire che una delle nostre vittime era più giovane di me.

Lei e la Mambro avete sparato insieme molte volte, vi hanno arrestati e nel 1985 vi siete sposati in carcere e oggi state ancora insieme. Come sopravvive un amore a tutto questo?

Ci siamo amati quando ci sentivamo vincenti, poi è arrivata la sconfitta e abbiamo conosciuto i nostri limiti. Non si può mentire o taroccare la propria biografia con un testimone che sa tutto di te, compresa la sconfitta. Essendo già stati all’inferno, nulla ci spaventa.

Le pesa rievocare le pagine più buie della nostra storia a cui lei è associato? Preferirebbe essere dimenticato?

Ho da anni un secondo mestiere: discolparmi dalle cose che non ho fatto. Mi distoglie dal senso di disagio e di colpa che provo rispetto a ciò che ho fatto davvero, mi risparmia dal doverne parlare, che per me è molto più doloroso.

“Io e altri 837, idonei al concorso e senza lavoro”

Emanuela ha 47 anni e una laurea in Lingue. È sempre stata precaria, un passato da giornalista freelance e un presente da traduttrice a chiamata, con qualche contratto a termine nel mezzo. Nel novembre 2016 stava per trasferirsi all’estero, quando il ministero della Giustizia (vent’anni dopo l’ultima volta) mette a concorso 800 posti da assistente giudiziario, un ruolo impiegatizio nelle cancellerie dei tribunali.

Alle preselezioni si presentano in 79.322, la maggior parte laureati in legge. Molti sono avvocati, in cerca della stabilità che la professione non garantisce più. Per accedere agli scritti servono 50 risposte esatte su 50 alla preselezione. “L’ho presa come l’occasione della vita”, racconta. “Io, che non ho mai studiato diritto, passavo anche 17 ore al giorno immersa nelle procedure e nella legge sull’ordinamento giudiziario. Ho perso 10 chili”. Lo sforzo paga: Emanuela supera preselezioni, scritti e orali, entrando nella graduatoria dei 4.915 vincitori da cui il ministero attingerà per le assunzioni negli anni a venire. Ma adesso, per via di un comma nella legge di Bilancio, per lei e altri 837 “idonei” i sacrifici rischiano di sfumare nel nulla.

Finora la validità delle graduatorie dei concorsi pubblici era di tre anni. Quelle approvate negli scorsi anni, per via del blocco del turnover nelle pubbliche amministrazioni, sono state sempre prorogate. È successo anche in questo caso: la legge di Bilancio 2019 permetteva di assumere gli “idonei” assistenti giudiziari fino al 31 marzo 2021, a fronte di una scadenza naturale prevista a novembre 2020. L’anno dopo, però, un emendamento del M5S (la prima firma è della senatrice Antonella Campagna) fa scadere al 30 settembre 2020 tutte le graduatorie approvate tra il 2012 e il 2017. L’effetto è paradossale: per Emanuela e compagni, la cui graduatoria risale a novembre 2017, la finestra di assunzione diventa addirittura più breve , due anni e 10 mesi al posto di tre. Lo stesso emendamento peraltro prolunga le graduatorie del 2011 fino al 30 marzo 2020 (ben 9 anni dopo il concorso), mentre per quelle del 2018 e del 2019 conferma la validità triennale. In futuro sarà di soli due anni.

Dei 4.915 vincitori, in due anni e mezzo, sono stati assunti in 3.386. Altri 489 entreranno in servizio il prossimo 3 febbraio. Gli uffici giudiziari italiani hanno disperato bisogno di forze fresche: nel 2021, complice quota 100, si prevede che il tasso di scopertura per il profilo di assistente giudiziario sfiorerà il 50 per cento. Ma gli 838 ancora a casa, tra cui Emanuela, ora temono che il tempo sia troppo poco, nonostante quella degli assistenti giudiziari sia attualmente l’unica graduatoria nelle mani del ministro Alfonso Bonafede. Di più: il Piano triennale di fabbisogno del personale, approvato dallo stesso Bonafede il 13 giugno scorso, prevede l’integrale scorrimento della graduatoria, con i fondi già stanziati. E non sono in vista nuovi concorsi. Tuttavia, allo stato attuale, a disposizione ci sono solo pochi mesi. L’ultima speranza degli idonei sta in un emendamento alla legge di conversione del decreto Milleproroghe, presentato da parlamentari di tutte le forze politiche. “Al fine di fronteggiare la grave carenza di personale amministrativo – si legge – il ministero della Giustizia provvede, entro e non oltre 60 giorni dall’entrata in vigore della presente norma, ad effettuare, anche in soprannumero, le assunzioni già autorizzate dal Piano triennale”. “Per questo lavoro ho dato tutto, alla mia età non potrei sperare in nient’altro”, dice Emanuela. “E l’ho guadagnato con sacrifici e sudore. Spero che qualcuno a Roma lo capisca”.