“Contro le tante mafie pugliesi servono giudici e più risorse”

Oltre cento perquisizioni, quartieri chiusi a cintura, palazzi blindati da elicotteri in volo: tre arresti e il sequestro di una bomba carta dal peso di tre chili e mezzo. “Grazie alla magistratura di Bari e Foggia e alle centinaia di donne e uomini delle Forze di polizia è stata data una risposta immediata ai recenti episodi delittuosi che hanno colpito quel territorio”, ha dichiarato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese dopo il blitz dell’altra notte in città e provincia. Dall’inizio del 2020 ci sono stati due attentati incendiari compiuti la notte di San Silvestro ai danni di bar e l’esplosione dell’auto, con una bomba, di un testimone. In prima fila contro questa preoccupante escalation di violenza ci sono, in particolare, due uomini: Giuseppe Volpe, procuratore della Dda di Bari e Ludovico Vaccaro, procuratore capo di Foggia. Lavorano insieme, con un obiettivo comune. “È il metodo del noi, non ci sono singoli ma un gruppo che opera d’intesa, un protocollo innovativo fortemente voluto fin dal primo giorno che sono arrivato qua – spiega Volpe – le grosse operazioni ai danni della criminalità organizzata sono il risultato di questo lavoro, i risultati se si lavora insieme arrivano, i diversi attori di polizia giudiziaria sanno che devono informare prontamente entrambi, poi dopo a seconda dell’episodio e della competenza si decide, ma le informazioni vanno condivise”.

In un territorio ampio come questo il punto è essenziale. L’ambito della Procura di Foggia e del circondario limitrofo è di circa 7.200 chilometri quadrati. Per fare un esempio, la regione Liguria è in tutto 5.400 chilometri quadrati e ha quattro procure e quattro squadre mobili. Il Molise, meno della metà come estensione territoriale e abitanti, ha tre procure e altrettanti tribunali. La vastità, e la ricchezza, dell’area spiega anche perché esistano tre diverse organizzazioni criminali, forse anche quattro.

“Rispetto alle mafie storiche come ’ndrangheta e camorra le organizzazioni criminali di Foggia sono diverse, più recenti , non hanno quel substrato storico della mafia napoletana o calabrese. Risalgono alla metà degli Anni 80, ma non per questo la loro violenza va sottovalutata, anzi. – sottolinea Vaccaro – Sono violenti e sanguinari, molto rudimentali e grezzi ma con una forza distruttiva economica devastante. La Società Foggiana è l’unica che abbia un nome, agisce con l’estorsione in città e anche nella zona di San Severo. Almeno fino a poco tempo fa, abbiamo notato una certa autonomia negli ultimi mesi che ci fa pensare che si possa costituire un’altra ‘batteria’ su San Severo. La mafia cerignolana, del Basso tavoliere, si è specializzata in rapine ai danni di furgoni portavalori anche in altre parti d’Italia e di spaccio di cocaina. Infine c’è la garganica che si dedica alla droga leggera che arriva dai paesi dell’Est”.

Per entrambi i magistrati quello che potrebbe fare la differenza è un aumento dei colleghi pm con interventi strutturali. “Oggi la vera necessità è implementare il numero dei magistrati, senza si allungano i tempi di risposta della Giustizia, un danno enorme se un arresto si ritarda di qualche mese” spiega Volpe. In linea con il collega di Foggia Vaccaro: “Mancano pm, giudici e aule, a volte non possiamo fare le udienze per mancanze di personale e sembra che la risposta della Stato tardi ad arrivare o manchi. Non è così ma ci serve più personale, assolutamente”. Soprattutto in un momento come questo in cui i primi cittadini decidono, con coraggio, di denunciare. “Penso che gli episodi di questi ultimi giorni siano il segno di una difficoltà delle organizzazioni criminali dopo i colpi inferti, qualcuno comincia a parlare e non piace alla mafia. Ci sono alcuni commercianti che hanno iniziato a indicarci i nomi di chi li ha ricattati, è il momento del coraggio, Foggia non può essere una saracinesca chiusa per paura o divelta dalle bombe” chiude Vaccaro.

Paragone, un tipico caso di trasformista coerente

Povero nulla. Ci vorrebbe più rispetto per una categoria tanto prestigiosa della filosofia e della fisica. Per entrare e uscire dal nulla come se nulla fosse, e diventare egli stesso il nulla, Gianluigi Paragone ha dovuto sudare sette casacche. Leghista della prima ora, o secessione o morta lì, ha avuto d’emblée la direzione della Padania, per poi diventare un collezionista di vicedirezioni sotto l’impero berlusconiano. Vice di Feltri a Libero, vice-Lerner nel talk Malpensa, Italia (“il Lerner di destra”), vice di Mauro Mazza a Rai1, vice di Massimo Liofredi a Rai2, vice-Jovanotti nel talk L’ultima parola (famosa), dove un po’ presentava e un po’ suonava con la sua band.

Giornalismo, tv, opinionismo alla spina, militanza per lui sono ante della stessa porta girevole. Una vita alla Klaus Dibiasi: non importa se c’è da tuffarsi con triplo salto carpiato, anzi, meglio; l’importante è saltare sempre sul carro giusto. Più complessa da capire la logica dei Cinquestelle. La loro ragion d’essere sta nel voltare pagina; basta con la politica fondata sull’opportunismo, sul riciclo, sull’aumma aumma. Non si possono cumulare poltrone, figuriamoci le vicedirezioni. Non si possono oltrepassare i due mandati, però si è potuto accogliere a braccia aperte uno che è all’ennesimo mandato di se stesso, avvicinatosi al Movimento quando aveva il vento in poppa e come è andato in crisi si è riscoperto leghista. Tutto si potrà dire di Paragone, meno che non sia coerente col suo trasformismo.

In Puglia la destra punta su Fitto: un avanzo del frigo

L’avrete saputo anche voi, perché le notizie tristi si fan sempre breccia anche se non dovrebbero: il centrodestra, in Puglia, ha scelto come candidato per la regione Raffaele Fitto. Non c’è ancora l’ufficialità, ma pare che prima o poi tutti convergeranno sull’eurodeputato salentino, co-presidente dei Conservatori e Riformisti a Bruxelles. È la “carta di prima fascia” (sic) su cui punta Giorgia Meloni, cui spetta la scelta della candidatura pugliese. Salvini, Berlusconi e Meloni hanno infatti sottoscritto un patto di spartizione per le Regionali (quattro alla Lega, due a FdI e altrettante a FI). Qualcuno mugugna, ma lo stesso Salvini è convinto di fare ingoiare il nome di Fitto financo ai più riottosi.

Pare che per l’ufficialità si voglia attendere domenica prossima, quando avranno luogo le primarie del centrosinistra. Sia come sia, la sola idea di (ri)pensare a Fitto come governatore destrorso della Puglia ha in sé del lisergico spinto. Sarebbe un po’ come se il Pd schierasse Orfini segretario, per spezzare le reni al sovranismo & populismo. Di Fitto non si ricordava nessuno (probabilmente neanche lui), eppure il centrodestra punta tutto su questo cavallo di ritorno. Se è lui la carta vincente, figuriamoci chi si cela dietro il due di picche. Fitto è nato a Maglie nel 1969. Figlio del leader Dc Salvatore, comincia pure lui nella Democrazia cristiana. Consigliere regionale già a 20 anni. Aderisce al Partito Popolare Italiano di Buttiglione (daje) nel 1994 e l’anno dopo si allea con Forza Italia (daje) sotto le mentite spoglie del leggendario Cdu (Cristiani democratici uniti). Nel 1998, terrorizzato che i centristi si stacchino da Berlusconi, vara i Cristiani democratici per la libertà. Europarlamentare nel 1999, ma dura solo un anno perché nel 2000 è eletto presidente della Regione Puglia. Ha 31 anni ed è il presidente di regione più giovane nella storia d’Italia.

Era 20 anni fa, e nel frattempo Fitto non ha dato granché segno di sé, ma il centrodestra pensa a lui per vincere: già qui c’è tutto il gattopardismo atavico della nostra politica. Sconfitto da Vendola nel 2005 per il bis in Regione, si butta dal 2006 in Parlamento come berlusconiano di ferro. È ministro degli Affari regionali e le autonomie locali nel Berlusconi IV (quello del 2008). Rieletto deputato nel 2013, nel 2014 è già europarlamentare: secondo candidato più votato in assoluto dopo la Bonafè, e anche solo da questo si capisce che anno tremendo sia stato il 2014. Qualche bega legale (La Fiorita, Cedis), da cui esce però assolto. Nel frattempo rompe con Berlusconi, criticando duramente “il patto del Nazareno” con Renzi: è forse l’unica volta in cui Fitto ne indovina una. La rottura col Capo lo porta però a carambolare in gruppuscoli malinconicamente marginali (Direzione italia, Gal, Noi con l’Italia).

Resosi conto che non ne indovina una da anni, bussa alla porta della Meloni. Che gliela apre. Eletto ancora eurodeputato (va detto votatissimo) l’anno scorso, viene ora definitivamente scongelato: son soddisfazioni. Mai però come quelle che il funambolico Fitto ci regalò il 3 maggio 2008. Intervistato da Piero Ricca sulle parole di Berlusconi, che aveva definito il mafioso Mangano “un eroe”, Fitto ebbe così a rispondere: “Sono d’accordo con il presidente Berlusconi come mi sembra la stragrande maggioranza degli italiani, quindi convincetevene e fatevene una ragione”. Mi raccomando, pugliesi: votatelo! È il nuovo che avanza. Nel senso proprio che alla destra era avanzato un Fitto, non sapevano dove metterlo e han pensato bene che doveste riciucciarvelo voi.

Guaidó nei guai, tra gaffe e foto coi narcos

Utilizzando il titolo del bel film di Bernardo Bertolucci, quella che sta vivendo Juan Guaidó in Venezuela sembra proprio la tragedia di un uomo ridicolo. L’autoproclamatosi presidente dello Stato bolivariano, osannato da 50 Stati, incensato dai nostri Renzi, Salvini o, si parva licet, Tajani, ha dovuto costruire l’ennesima sceneggiata a uso dei media per cercare di tenere alta l’attenzione su di sé.

La scena dei cancelli scavalcati per poter entrare in un’Assemblea nazionale che, invece di rieleggerlo a furor di popolo, gli ha preferito un altro membro dell’opposizione, Luis Parra, corrisponde a una strategia mediatica che deve servire a surrogare l’assenza di una reale forza popolare. Nonostante diversi video mostrino come al deputato-presidente fosse stato concesso, dai protocolli di entrata previsti per tutti i componenti dell’Assemblea, di fare il suo ingresso, Guaidó si è rifiutato di entrare per poi mettere in scena la scalata dei cancelli. Parra è accusato di essersi fatto corrompere dal governo di Maduro e per questo motivo il suo partito, Primera Justicia, lo ha espulso. Guaidó nella notte si è fatto eleggere presidente dell’Assemblea, ma ha utilizzato i voti per procura di quei deputati che sono fuggiti all’estero e che secondo una decisione del Tribunale supremo non possono votare. Ancora Parra è intervenuto ieri per assicurare che il quorum legale all’interno del Parlamento per la sua elezione fosse assicurato. Circostanza che invece Guaidó nega.

Come si vede, la situazione non è semplice e, pur non potendo fare sconti a Maduro e al governo venezuelano, che deve comunque far i conti con l’esaurimento dell’esperimento chavista, non si può non evidenziare la farsa che va avanti da un anno.

Eppure Guaidó è il recordman delle figuracce. Era andato alla frontiera con la Colombia per accogliere gli aiuti umanitari occidentali come si accolgono i liberatori, ma la Croce Rossa lo bacchettò: “L’aiuto umanitario non può essere utilizzato per rovesciare un governo”. Poi cercò di far passare un incendio di alcuni camion come attacchi della “polizia di Maduro”, ma la balla fu smentita dallo stesso New York Times.

Ad aprile, invece, c’è stata la farsa del “sollevamento militare” quando “l’Operazione Libertà” avrebbe dovuto conquistare la base aerea La Carlota ma attorno a Guaidó si presentarono solo alcune decine di militanti e uno sparuto drappello di militari lasciando esterrefatti anche i dirigenti del suo partito, Voluntad popular.

Nel frattempo sono fioccate le denunce per mancanza di trasparenza degli aiuti umanitari: gran parte del denaro, secondo il segretario dell’Organizzazione degli Stati americani, Luis Almagro, è stato sottratto alle sue destinazioni umanitarie e una deputata, Rossana Barrera, braccio destro di Guaidó, è stata accusata di aver stornato almeno 100 mila euro. Senza poi contare il caso della foto, diffusa però da ambienti governativi venezuelani (ma la foto è vera) in compagnia di due uomini sospettati di far parte del gruppo di paramilitari narcotrafficanti colombiani, Los Rastrojos.

In realtà, l’opposizione venezuelana, come dimostra il caso di due “presidenti” dell’Assemblea nazionale, a cui si aggiunge quello legittimo, è divisa e non sa come scalfire il potere di un governo che conta sull’esercito e che è fiaccato da contraddizioni interne e dalle sanzioni, ma non cede.

Eppure, questa sceneggiata, incendia i cuori di “sinceri democratici” come Antonio Tajani o i vari Paesi che stanno lì a piangere per la democrazia violata, ma mandano giù, in un amen, un omicidio politico come quello avvenuto a Baghdad.

Trump, l’ardua impresa e il congresso usa

Vi ricordate l’impeachment contro Donald Trump per la sua telefonata al presidente ucraino, con la richiesta di favori per sabotare la candidatura del candidato democratico Joe Biden? All’improvviso sembra una vicenda minore, non soltanto perché destinata a finire in nulla, visto che al Senato i Repubblicani hanno la maggioranza. Ma anche perché, tra le tante conseguenze dell’assassinio mirato del generale iraniano Qassem Soleimani, c’è infatti quella di aprire un nuovo scontro istituzionale tra il Congresso a guida democratica e la Casa Bianca.

Il presidente degli Stati Uniti aveva il potere e il diritto di inviare un drone a uccidere il generale Soleimani in Iraq, responsabile per l’Iran di tutte le operazioni non convenzionali in Medio Oriente? Da giorni i retroscena, diffusi soprattutto dal New York Times, accreditano la versione secondo cui l’attacco del 2 gennaio sarebbe stato frutto quasi di un capriccio del presidente, un gesto a sorpresa, istintivo, per sfruttare una finestra di opportunità prospettata dall’intelligence, senza pensare alle conseguenze. Ma a nessuno sfugge che l’operazione si inserisce anche in una precisa strategia di Trump di alzare la tensione con l’Iran che dura da anni.

Tra i primi effetti, c’è stata la decisione di Teheran di sfilarsi dall’accordo internazionale che doveva frenare la produzione della bomba atomica sciita. Un accordo che era stato il principale successo di politica internazionale della seconda Amministrazione Obama, e che Trump stava cercando di smantellare o almeno rinegoziare da posizioni di forza.

Trump ha scelto di far precipitare il Medio Oriente e forse il mondo in una nuova guerra per oscurare l’impeachment e cercare la rielezione come commander in chief, il presidente di guerra che gli americani non osano mai abbandonare? I Democratici non pongono ancora la questione in questi termini, non sarebbe patriottico, ma sollevano il dubbio. La War Power Resolution prevede che il presidente possa ordinare operazioni militari come l’uccisione di Soleimani, ma deve poi informarne entro 48 ore il Congresso, spiegando le ragioni e le basi legali della sua azione. Il presidente Usa è uno dei capi di governo più autonomi del mondo, ma deve sempre rispondere al Parlamento delle sue decisioni.

La Casa Bianca ha mandato la lettera alla presidente della Camera dei Rappresentanti, la democratica Nancy Pelosi che ha guidato la procedura di impeachment sull’Ucraina. I contenuti sono secretati, ma la Pelosi ha già detto che il documento “solleva domande urgenti sulla tempistica, i modi e le giustificazioni della decisione dell’Amministrazione di intraprendere ostilità contro l’Iran”. Secondo la Pelosi, l’attacco è avvenuto senza l’autorizzazione dall’uso militare della forza da parte del Congresso, quindi è illegittimo.

Dalla Casa Bianca è filtrata la linea del consigliere per la Sicurezza nazionale Robert O’Brien: l’uccisione di Soleimani era legittima e di fatto già autorizzata dal Congresso quando votò l’Autorizzazione all’uso della forza del 2002, quella che ha legittimato i soldati militari a condurre operazioni in Iraq alla vigilia della guerra di George W. Bush.

Gli esperti del sito Just Security, della Columbia University, osservano però che quella risoluzione autorizza il presidente Usa a difendere la sicurezza nazionale “contro la minaccia permanente posta dall’Iraq”. Non dall’Iran.

La tensione crescente potrebbe spingere i Democratici a pretendere da Trump anche una spiegazione pubblica, in aggiunta a quella secretata, da presentare al Congresso per chiarire obiettivi e fondamenti legali dell’operazione Soleimani. Già dopo pochi giorni, giustificare l’assassinio con l’urgenza di proteggere diplomatici e militari americani in Medio Oriente da mai precisate minacce imminenti è difficile da sostenere.

Domenica la maggioranza sciita (quindi filo-iraniana) del Parlamento iracheno ha votato una risoluzione non vincolante che cancella la richiesta di aiuto militare alla coalizione anti-Isis guidata dagli Stati Uniti. Secondo l’Institute for the Study of War, l’unico scopo di questo provvedimento privo di conseguenze pratiche è legittimare gli attacchi – di milizie sciite e dell’Isis – contro i militari americani in Iraq. Il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha già chiamato a raccolta i suoi e annunciato ritorsioni. Ora che i soldati americani sono ufficialmente un obiettivo, la loro libertà di manovra sarà molto ridotta.

Anche senza arrivare a un ritiro, le forze dell’Isis ancora presenti in Iraq potrebbero ricompattarsi. E per Donald Trump spiegare al Congresso, e agli elettori nell’anno elettorale, che ha ucciso il generale Soleimani per proteggere gli americani all’estero e in patria sarà un’impresa ardua.

Mail Box

 

Zalone, più che intellettuale è un “moneymaker”

Si coprono di ridicolo quei critici che vogliono scorgere, propinando le loro opinioni all’ingenuo lettore, nei filmati di tal Checco Zalone una rivoluzione gnostica con profondi significati sociali e acute analisi dell’animo umano. Altro non è che un moneymaker di successo, solo per questo degno d’attenzione.

Giampiero Bonazzi

 

Il confronto impietoso tra l’oggi e il boom economico

È gran moda confrontare l’attuale Repubblica (seconda o terza?) con la precedente, che era in facile ascesa per la ricostruzione. Nonostante la grande tragedia della guerra continuava il clima di rispetto e responsabilità. La ripresa degli impulsi del passato spingeva gli anni 40 e 50. Agivano uomini nati e cresciuti in quel contesto in cui chi sbagliava pagava e c’era chi provvedeva a rimediare. Poi, nell’opulenza a cui non eravamo abituati, la spinta si fermò nella palude che continua ad allignare sempre più vasta e profonda. Scomparsi responsabilità e senso del dovere, la politica non amministra ma sfrutta e i risultati si vedono in ogni settore. Il rimedio sarebbe cambiar sistema, ma questo favorisce i potenti e perciò tutto quanto accade è condanna alla immobilità di questo popolo ignavo.

Gianni Oneto

 

B&b in offerta in aree incendiate: che stupide app

La cronaca ci presenta eventi catastrofici un po’ dappertutto nel mondo. Avevo inizialmente cercato su Google Map i luoghi di detti eventi… e cosa scopro? Scopro che ci sono sempre offerte di soggiorni in quelle località colpite da cataclismi. La cosa più comica (e tragica al contempo) è che appaiono le solite diciture commerciali per istigarvi a decidere rapidamente: “Destinazione molto richiesta. Decidete rapidamente per non perdere l’offerta. Ultime camere disponibili. Posizione favolosa. Circondato da 2,6 ettari del Parco Nazionale del Croajingolong, il Wave Oasis Bed & Breakfast sorge in una posizione ideale…”. Drammatico quest’ultimo, perché si tratta della zona in fiamme, a Mallacoota in Australia, vicino a Sydney, dove stanno evacuando la gente… con le navi! Ma avevo proceduto analogamente con Tuegarao, Filippine, dove è passato un tornado. A Palaos, sperduta isola della Micronesia, dove un terremoto di magnitudo 7,5 nel settembre 2018, aveva fatto ingenti danni. O per restare sul soggetto incendi in California, a Paradise fine 2018, uno tra i più funesti incendi di sempre… Inoltre per confermare la stupidità dell’algoritmo, dopo le ricerche, per settimane hanno continuato a sollecitarmi con proposte per le destinazioni consultate.

Luigi Cavalieri

 

Cinque Stelle, servirebbe un congresso straordinario

Mentre anche Renzi si è convinto di votare sì alla autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, si svolgono i preliminari della verifica tra incontri e vertici degli alleati di governo con la mediazione di Conte. E, così, c’è stato un incontro tra Pd e 5S, trovando un’intesa generalista sulla legge elettorale. Questa volta è stato il leader Speranza di LeU a dire no a una legge con sbarramento per il proporzionale al 5 per cento. Ciò, infatti, rischierebbe di non fare entrare in Parlamento lo stesso LeU. In ogni caso, il problema principale della verifica è costituito dal M5S con un leader come Di Maio, ormai sempre contestato nelle scelte di governo, e con perdite di pezzi dei 5S e consensi nel Paese. È vero che sono stati convocati i gruppi parlamentari dei 5S, ma si dovrebbe programmare, secondo me, un congresso straordinario per evitare il peggio.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Angela: finalmente in Rai un programma di valore

Da cittadino e spettatore televisivo di questo Paese, sono veramente contento del ritorno in Tv da sabato scorso in prima serata su Rai Uno di Alberto Angela, con il suo programma Meraviglie: la penisola dei tesori. Si tratterà di un viaggio per l’Italia alle scoperte delle nostre bellezze artistiche e naturali che rendono la nostra cara nazione una vera e propria miniera d’oro. Bisogna essere orgogliosi.

Massimo Aurioso

 

Sulla prescrizione basterebbe rispettare la Consulta

Sappiamo, da settimane, che oggi sarà il giorno del redde rationem sul tema della prescrizione. Pare che il Guardasigilli debba giustificarsi per una norma di buon senso, presente in quasi tutti gli ordinamenti europei, attesa da decenni e che ha il pregio di tutelare la vittima del reato. Essendo in tema di giustificazioni, lo stesso Guardasigilli potrebbe chiedere agli alleati di governo per quale motivo non abbiano sinora aderito all’invito rivolto, oltre 20 anni fa, dalla Corte costituzionale (Sent. 452/1999) di spostare la decorrenza della prescrizione dal momento della consumazione del reato a quello della sua scoperta. Sarebbe una norma da introdurre immediatamente nella “spazzacorrotti”, atteso che nessuno delle parti che danno vita all’accordo corruttivo ha interesse a rivelarne l’esistenza. Tale novella è prevista anche nella riforma del Codice di procedura penale proposta dal dottor Gratteri, lo stesso Gratteri che Renzi voleva quale ministro della Giustizia nel suo esecutivo.

Carmelo Sant’Angelo

Il manifesto sui nuovi schiavi dell’e-commerce e le sinistre neocapitaliste

La schiavitù è di nuovo legale. È questa la tesi di Sorry, we missed you, l’ultimo film di Ken Loach, che continua a indagare la vita degli ultimi, la classe “poltiglia”, quella schiacciata a norma di legge dal neo-liberismo. Ricky si sbatte per evitare di annegare insieme alla famiglia nella povertà. Lo stipendio della moglie Abby non basta a tirare avanti la famiglia. Ricky decide di lavorare nelle consegne dei pacchi negli acquisti online, non sapendo che s’infilerà in un legame scorsoio che alla fine lo strangolerà di fatica e umiliazioni. Loach squarcia il velo dell’ecommerce e punta l’obiettivo sugli ultimi della filiera, quelli del “lavoro povero” che ti obbliga a pisciare in una bottiglia perché non hai pause ma solo lo stress che poi scarichi in famiglia. Ovvero il lato distruttivo della deregulation, salutata come una svolta modernista dalle “terze vie”, che dalla Gran Bretagna sono arrivate anche da noi, fino ad adottare la tesi dell’abbandono delle tutele come pungolo per l’impegno. Ricky sbatte contro tutti gli scogli nella tempesta dello sfruttamento in cui è immerso. Loach non ci rassicura se la scamperà o meno. Lascia un finale aperto, affinché sia lo spettatore a porsi delle domande sullo sfruttamento con cui conviviamo. Soprattutto una: come possiamo tollerare tutto questo?

Gentile Massimo, cogliendo a pieno il contenuto dirompente e attualissimo di “Sorry We Missed You”, lei evidenzia giustamente una situazione di impasse in cui tutto l’Occidente – e forse non solo quello – si è auto-imprigionato. Di certo questa è la tesi di Ken Loach, da sempre puntuale ad analizzare i sottotesti delle crisi sociali, addirittura prevedendole prima di emergere in superficie. Dalla première mondiale a Cannes fino alle recenti presentazioni italiane di questa sua opera, il cineasta britannico ha sostenuto l’idea che alla base della nuova schiavitù – legalmente autoindotta – vi sia l’atteggiamento ipocrita delle sinistre contemporanee, incapaci di sottrarsi al compromesso con il neo-capitalismo e permettendo così che la dolorosa disoccupazione della not-working class sia mutata in over-working class, in uno stato socio-esistenziale forse ancor più disumanizzato e disumanizzante che in precedenza. Come tollerare tutto questo? Se è vero che Loach continuerà a fare il suo cinema (“finché vivrò non smetterò di lottare”) il suo invito è rivolto ai nuovi (possibili?) volti della sinistra perché riprendano a occuparsi di welfare e ai sindacati affinché tornino a fare ciò per cui sono nati, ovvero salvaguardare i diritti dei lavoratori.

Più tasse ai miliardari del mondo Chi vuole pagare (forse) e chi no

Buon anno da Bill Gates: nei giorni scorsi, il cofondatore dell’azienda tecnologica Microsoft, ovvero la seconda persona più ricca al mondo, ha animato ancora una volta il dibattito statunitense e mondiale sulla ricchezza con una proposta che nell’immaginario comune ha dell’incredibile. Lui e i suoi colleghi miliardari dovrebbero, secondo Gates – che già ha più volte detto che non lascerà tutta la sua fortuna ai figli – pagare tasse più elevate. In un post di fine anno pubblicato sul suo sito personale ha detto di essere favorevole a un sistema fiscale in cui “se hai più soldi, paghi una percentuale più alta di tasse”. E ha aggiunto, includendo anche la moglie: “Penso che i ricchi dovrebbero pagare più di quanto fanno, e questo include Melinda e me”. Entrambi, va detto, già devolvono svariati miliardi in beneficenza e sono tacciati spesso di farlo proprio per pulirsi la coscienza e perché le fondazioni godono di agevolazioni fiscali.

Le dichiarazioni sono in linea con le posizioni dei candidati alla Casa Bianca Elizabeth Warren e Bernie Sanders. Gates ha evidenziato il crescente divario di ricchezza tra i redditi più alti e quelli più bassi negli Usa, ha parlato di un “sistema ingiusto” creato “per favorire la ricchezza rispetto al lavoro”. Così, un’idea potrebbe essere “aumentare le tasse sugli ultra-ricchi” e farlo magari tassando le plusvalenze, ovvero i profitti che arrivano dagli investimenti, anche perché “nessuna delle persone più ricche al mondo ha fatto fortuna soltanto con il proprio stipendio”. In questo modo il carico si sposterebbe maggiormente sui ricchi e toglierebbe un po’ di peso dalle tasse sul lavoro. “Oggi il governo degli Stati Uniti dipende in maniera schiacciante dalla tassazione del lavoro – ha scritto –: circa i tre quarti delle sue entrate provengono da imposte su salari e stipendi”. La maggior parte delle persone ottiene quasi tutto il proprio reddito da stipendi, tassati al massimo al 37% “ma i più ricchi di solito ottengono solo una piccola percentuale delle loro entrate da uno stipendio, mentre la quota maggiore proviene da profitti sugli investimenti, come azioni o immobili, tassati al 20% se sono detenuti per più di un anno”. Un manifesto che ripete spesso: tasse statali e locali più giuste, aumento di quelle immobiliari, fine delle scappatoie da cui “molte persone benestanti traggono vantaggio”. Il suo patrimonio netto è aumentato di oltre 50 miliardi di dollari nell’ultimo decennio, arrivando a 108,5 miliardi dai 53 del 2010 secondo le stime di Forbes grazie anche a politiche fiscali favorevoli e all’impennata dei mercati azionari.

Eppure non è il primo ad aver chiesto di pagare di più. Sono stati almeno 17 i miliardari che hanno firmato con lui una lettera aperta ai candidati alle elezioni nei mesi scorsi. Tra questi, Mark Cuban (4,1 miliardi di dollari grazie ai suoi affari), il proprietario della squadra della Nba Dallas Mavericks che aveva già proposto l’introduzione di una tassa per i ricchi con un tweet nel 2017; poi Warren Edward Buffett, il quarto uomo più ricco al mondo con un patrimonio netto di almeno 82 miliardi. E Howard Schultz, ex Ceo della catena di negozi di caffè Starbucks, con un patrimonio netto di 3,8 miliardi di dollari e 37,7 milioni di azioni (circa il 3%) di Starbucks. Abigail Disney, nipote del co-fondatore della Walt Disney Company Roy Disney, aveva addirittura criticato la sua azienda per gli stipendi sproporzionati che elargisce ai ceo. Il suo patrimonio oggi è pari a 120 milioni di dollari. E ancora, Chris Hughes, cofondatore di Facebook; il miliardario George Soros con suo figlio, Alexander, e Nick Hanauer, uno dei primi investitori di Amazon. Mai nessuna dichiarazione è invece arrivata dagli altri ricchi del digitale come Bezos (Amazon) o Zuckerberg (Facebook) o Page (Google).

La polemica è ciclica. A guidarla, nelle ultime settimane, è stata l’analisi degli economisti di Berkeley, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, il loro ultimo libro Il trionfo dell’ingiustizia. I miliardari, secondo le loro stime, nel 2018 hanno destinato a tasse federali, statali e locali il 23 per cento delle loro entrate. L’americano medio, nel frattempo, ha pagato il 28 per cento. “Il sistema fiscale degli Stati Uniti è una gigantesca imposta flat, tranne nella parte superiore, dove è regressiva – hanno scritto Saez e Zucman -. Come gruppo, e sebbene le loro situazioni individuali non siano tutte uguali, i Trump, gli Zuckerberg e i Buffett di questo mondo pagano tasse più basse rispetto agli insegnanti e alle segretarie”.

Chiaramente sono i dati degli economisti che più di tutti, insieme a Piketty, si sono dedicati a questo tipo di studi e parallelamente ce ne sono altri che provano a ridurre il fenomeno della disuguaglianza mettendo in dubbio le stime su cui si basano i dati degli altri. Gli esiti, però, seppur differenti non stravolgono le proporzioni e se poi sono gli stessi miliardari ad ammetterlo, diventa difficile credere che l’estrema disuguaglianza non sia una realtà. “Alcune persone finiscono per fare grandi affari – ha detto Gates –. Io, per esempio, sono stato ricompensato per il lavoro che ho fatto in modo sproporzionato, mentre ci sono tanti che lavorano duramente allo stesso modo e che fanno fatica ad andare avanti”.

Dirigenti Pa, salta l’obbligo dei redditi online

La privacy prevale sulla trasparenza, soprattutto quando si tratta dell’obbligo per 140 mila dirigenti della pubblica amministrazione di pubblicare online i propri redditi e patrimoni. Lo ha sancito a febbraio la Corte costituzionale decidendo di sacrificare sull’altare del diritto alla riservatezza l’idea della pubblica amministrazione come casa di vetro. E, ora, a eliminare de facto l’imposizione introdotta dalla riforma Madia è il Milleproroghe.

Con una norma governativa inserita nel decreto legge, è stata sospesa fino al 31 dicembre 2020 l’applicazione delle sanzioni da 500 a 10 mila euro per chi non si mette in regola con la comunicazione sul web dei dati patrimoniali e reddituali. È stato, infatti, previsto che “nelle more dell’adozione dei provvedimenti di adeguamento alla sentenza della Corte costituzionale” ai titolari di amministrazione, di direzione e dirigenziali non si applichino le sanzioni previste per chi non rispetta l’obbligo di pubblicare curriculum vitae, compensi, importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici e dichiarazioni patrimoniali, come riporta Italia Oggi.

In attesa dell’adozione di un nuovo regolamento interministeriale (Giustizia, Interno, Economia, Esteri, Difesa e Pubblica amministrazione) che dovrà riscrivere le norme, i dirigenti pubblici dovranno comunicare i dati patrimoniali e la dichiarazione dei redditi “esclusivamente all’amministrazione di appartenenza”. Il regolamento dovrà, poi, specificare quali dati le pubbliche amministrazioni dovranno pubblicare “con riferimento ai titolari amministrativi di vertice e di incarichi dirigenziali”. I criteri da rispettare saranno “graduazione in relazione al rilievo esterno dell’incarico svolto” e al “livello di potere gestionale e decisionale”. Si dovranno, inoltre, individuare dirigenti del Viminale, della Farnesina, delle forze di polizia, delle forze armate e dell’amministrazione penitenziaria che per legge non saranno interessati dall’obbligo di trasparenza “in ragione del pregiudizio alla sicurezza nazionale interna ed esterna e all’ordine e alla sicurezza pubblica”.

La decisione sui nuovi obblighi di trasparenza arriva da lontano: dal ricorso al Tar Lazio presentato nel 2017 dal sindacato nazionale dei dirigenti dello Stato. “Perché bisogna indicare la casa in cui viviamo, le nostre proprietà, l’automobile e ogni altro avere se non ricopriamo incarichi politici? Non vogliamo essere il capro espiatorio della politica e degli amministratori pubblici”, spiegava all’epoca Barbara Casagrande, segretario generale di Unadis. Poi nel febbraio 2019 è arrivata la sentenza della Consulta che ha dichiarato illegittima la disposizione che per la prima volta estendeva a tutti i dirigenti pubblici gli stessi obblighi di pubblicazione previsti per i titolari di incarichi politici. Anche se gli stipendi dei dirigenti della Pubblica amministrazione sono pubblici per natura e tali dovrebbero rimanere tali anche nella pratica.

La busta paga si fa più pesante. Si allarga il bonus da 80 euro

Partirà da luglio e sarà erogato intanto per un semestre il nuovo taglio del cuneo fiscale, vale a dire la somma delle imposte (dirette, indirette, contributi previdenziali) che pesano sul costo del lavoro. In altre parole, la differenza tra il costo sostenuto da un’azienda per un dipendente e l’importo netto che quest’ultimo percepisce in busta paga dovrebbe diminuire per effetto dei 3 miliardi (diventeranno 5 a partire dal 2021) che il governo ha messo sul piatto della manovra 2020. Così, dopo il bonus Renzi erogato a 8 milioni di lavoratori con redditi fino a 26.600 euro, arrivano nuovi sgravi fiscali direttamente nella busta paga di chi guadagna fino a 35 mila euro, inglobando altri 4,5 milioni di lavoratori esclusi dagli 80 euro.

Il meccanismo per il riconoscimento del nuovo bonus dovrà essere definito con un decreto attuativo del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri che stabilirà la platea e gli effetti della misura dopo aver ricevuto le stime ufficiali da parte degli esperti della Ragioneria dello Stato, non senza il confronto con i sindacati già messo in programma per metà mese. Secondo le anticipazioni diffuse in questi giorni, lo schema di intervento, nelle sue linee generali, è già stato messo a punto. La riduzione del cuneo dovrebbe portare nelle tasche dei lavoratori dai 40 euro agli 80 euro, che equivalgono a un massimo di circa 500 euro nel secondo semestre dell’anno, per arrivare – poi a regime nel 2021 – a un massimo di mille euro in più all’anno. L’ipotesi prevalente è che questi soldi vengano corrisposti mese per mese.

In particolare, per i circa 9,4 milioni di lavoratori, con redditi compresi tra gli 8.200 euro e i 26.600 euro, che attualmente prendono gli 80 euro, il decreto dovrebbe prevedere la trasformazione del bonus in detrazione fiscale. Per chi percepisce un reddito tra i 15.000 e i 26.600 euro, gli 80 euro diventano detrazione fiscale. Ma se non dovesse andare bene, gli 80 euro rimarrebbero sotto forma di bonus.

Per la fascia di reddito tra i 26.600 euro e i 35 mila euro verranno estesi, totalmente o parzialmente, gli 80 euro, sempre sotto forma di detrazione: si tratta di una novità, dato che oggi non li percepiscono. Esclusi dal taglio del cuneo fiscale gli incapienti, cioè gli oltre 4 milioni di lavoratori che hanno un reddito sotto gli 8 mila euro annui, per i quali sono previste una serie di agevolazioni, compreso il reddito di cittadinanza.

La riedizione mignon degli 80 euro dovrebbe riuscire anche a incidere sulla differenza del cuneo fiscale italiano col resto degli altri Paesi europei e del mondo. Come dimostrano, infatti, i recenti dati pubblicati nel rapporto Ocse Taxing wages, un lavoratore italiano standard single e senza figli a carico è sottoposto a un cuneo fiscale del 47,9%. La percentuale è composta per il 16,7% di imposte personali sul reddito e per 31,2% di contributi previdenziali che ricadono in parte sul lavoratore (7,2%) e in parte sul datore di lavoro (24,0%). Mentre nella media dei 36 Paesi Ocse, l’incidenza di oneri e tasse a carico di imprese e lavoratori si colloca al 36,1%.